#Giuseppe Corvaglia
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Elisabetta Canalis e Maddalena Corvaglia non si parlano più: svelato il motivo del litigio. L’amicizia tra Elisabetta Canalis e Maddalena Corvaglia pare sia naufragata. L’ex velina mora durante un’intervista rilasciata a 'Chi' ha preferito non parlare di questa rottura umana e professionale: “Immaginavo che me l’avrebbe chiesto, ma è un argomento molto delicato. Onestamente di questa cosa preferirei non parlare, se non le dispiace…” Oggi però Giuseppe Candela su Dagospia ha svelato il presunto motivo di questo addio. Maddalena Corvaglia dopo il divorzio da Stef Burns, ha lasciato la California ed è tornata a vivere in Italia. Questo avrebbe causato dei problemi economici ad Elisabetta Canalis con cui la Corvaglia aveva aperto una palestra a Los Angeles. “Come mai Elisabetta Canalis e Maddalena Corvaglia hanno litigato? La rottura tra le due ex veline non è mai stata confermata, non sono più apparse sui social insieme ed Ely si è lasciata andare a frasi sibilline. In realtà l’amicizia tra la mora e la bionda sarebbe entrata in crisi con il rientro in Italia di Maddy, come la chiamano in molti, che avrebbe creato qualche problema economico e di gestione all’ex amica con cui aveva aperto insieme una palestra a Los Angeles. Le due non si parlano più, riusciranno a far pace?” Fonte: Dagospia, bitchyf E VOI COSA NE PENSATE? #elisabettacanalis #maddalenacorvaglia #lite #discussione #trash #trashnews #scontro #vigofficial #vig https://www.instagram.com/p/B3NL-G-oOaG/?igshid=14gm4w0o2i7nk
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“A Franco sarebbe piaciuto” – Letture d’estate, è il titolo della rassegna dedicata al giornalista Franco De Pace, scomparso nel 1998, organizzata dalla libreria “I Volatori”, con il coordinamento di Loredana Giliberto, in collaborazione con il B&B “Antica Dimora”, il bar Caffè Teatro “Il Melograno”, Musicaos Editore.
Un’estate di letture e incontri con gli autori, a Nardò, dal 14 luglio al 18 agosto 2017. “A Franco sarebbe piaciuto” (edizione 2017), è la rassegna dedicata agli autori e ai lettori. Sei incontri, sei scrittori che presenteranno i loro romanzi, tra esordi e conferme d’autore: Antonio Rocco Corvaglia, Antonella Caputo, Luigi Pisanelli, Omar Di Monopoli, Alessandro Bozzi, Livio Romano.
Gli appuntamenti, tutti con orario di inizio alle ore 21.00, si terranno a luglio presso il B&B “Antica Dimora”, e, nel mese di agosto, presso il bar “Il Melograno” – Caffè Teatro.
Primo appuntamento venerdì 14 Luglio 2017, alle ore 21.00, presso il B&B “Antica Dimora” (Nardò, Via Pellettieri 10), Loredana Giliberto dialogherà con Antonio Rocco Corvaglia, autore de “L’amore è un’altra cosa”. A seguire tutti gli altri appuntamenti, previsti fino al 18 agosto 2017. Venerdì 21 luglio alle 21.00, sarà la volta di Antonella Caputo, che con Loredana Giliberto presenterà il suo romanzo d’esordio “Senza biglietto di ritorno” (Italic Pequod). Venerdì 28 Luglio (ore 21.00), Luigi Pisanelli presenterà, con l’editore Luciano Pagano, “Tornerà la lepre a Buna”. Gli appuntamenti proseguono, in agosto, presso il bar “Il Melograno – Caffè Teatro”.
Sabato 5 Agosto 2017, alle ore 21.00, Omar Di Monopoli, autore del romanzo “Nella perfida terra di Dio” (Adelphi), dialogherà con lo scrittore Livio Romano. L’11 agosto 2017, alle ore 21.00, Alessandro Bozzi presenterà il suo romanzo giallo “La libertà danza tra gli ulivi”, dialogando con Luciano Pagano. La rassegna si concluderà venerdì 18 agosto, alle ore 21.00, con il romanzo “Per troppa luce”, di Livio Romano, edito di recente da edizioni Fernandel, l’autore ne parlerà assieme allo scrittore Giuseppe Alemanno.
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Il programma completo:
Venerdì 14 Luglio 2017 – Ore 21.00
“L’amore è un’altra cosa” (Musicaos Editore) di Antonio Rocco Corvaglia
dialoga con l’autore: Loredana Giliberto
presso B&B “Antica Dimora” (via Pellettieri 10 – Nardò)
Venerdì 21 Luglio 2017 – Ore 21.00
“Senza biglietto di ritorno” (Italic Pequod) di Antonella Caputo
dialoga con l’autrice: Loredana Giliberto presso B&B “Antica Dimora” (via Pellettieri 10 – Nardò)
Venerdì 28 Luglio 2017 – Ore 21.00
“Tornerà la lepre a Buna” (Musicaos Editore) di Luigi Pisanelli
dialoga con l’autore: Luciano Pagano presso B&B “Antica Dimora” (via Pellettieri 10 – Nardò)
Sabato 5 Agosto 2017 – Ore 21.00
“Nella perfida terra di Dio” (Adelphi) Omar Di Monopoli
dialoga con l’autore: Livio Romano
presso “Il Melograno” – Caffè Teatro (via Pellettieri 22 – Nardò)
Venerdì 11 Agosto 2017 – Ore 21.00
“La libertà danza tra gli ulivi” (Musicaos Editore) di Alessandro Bozzi
dialoga con l’autore: Luciano Pagano
presso “Il Melograno” – Caffè Teatro (via Pellettieri 22 – Nardò)
Venerdì 18 Agosto 2017 – Ore 21.00
“Per troppa luce” (Fernandel) di Livio Romano
dialoga con l’autore: Giuseppe Alemanno
presso “Il Melograno” – Caffè Teatro (via Pellettieri 22 – Nardò)
La rassegna dedicata a Franco De Pace, “A Franco sarebbe piaciuto” – Letture d’estate, a Nardò
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Un sogno...di Galà Festeggiando Giuseppe Luigi Iannetti Non si è mai visto nulla di così strabiliante, come il Gran Galà che si terrà a San Giovanni Rotondo per festeggiare uno showman eccezionale: Giuseppe Luigi Iannetti. L'evento sarà presentato dalla bella Nadia Piserchia. A festeggiare i 10 anni di carriera del grande Iannetti ci saranno ospiti famosi e prestigiosi. Ci saranno gli indimenticabili Erminia Kobau, Giuseppe Soave, Gianluca Pannullo, Gino Sannicandro, da Uomini donne; Angelo Cogliati di Zelig off. Ci sarà Elena Martemianova da Sanremo 2017 eccelsa cantante; Carmen di Cristo meravigliosa ballerina dell'Accademia di ballo Toneca dance; la regina di Novara Kristal D'Urso Miss Trans 2015; Mister Baby D'Italia Antonio Bellucci. Troveremo il grande Gianni Vinciguerra, che ha collaborato come coreografo con grandi marchi, come Renato Balestra, Alviero Martini, Carlo Pignatelli, Amelia Casablanca; di concorsi nazionali come " Un volto per fotomodella","Miss e Mister Belli d'Italia","Top star Tv Moda",Patron del concorso Nazionale Miss, Mister e Baby Belebung Italia. Rivedremo con piacere un tronista di Uomini e donne 2001/2002: Emilio Savastano, ormai attore affermato. Nel 2003 protagonista nel film" The second comming" prodotto da Anubi_De Laurentis. Showman e presentatore di molti programmi su Sky. Max Bellocchio lo ha voluto come attore protagonista nel suo film nel ruolo di un Boss camorrista soprannominato "O torinese". Ci sarà pure il grande Giuseppe Grande, ideatore e direttore artistico di Sanremosol; Michele Prioletti, sublime ballerino; Giorgio Corvaglia, uno stilista leccese grandioso, direttamente da Pitti Uomo -Firenze. Incontreremo pure Immacolata Antonacci, modella e attrice; Marianna Pignatelli di Moda e Spettacolo e ORA. Daranno un tocco di grazia, eleganza e freschezza le BLACK and WHITE, le ormai famose Francoise Preira e Grazia Pignatelli, modelle, fotomodelle, ballerine, attrici e non solo... Insomma ci sono tutti gli ingredienti per una serata col botto. Davvero grandioso!
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Un sogno...di Galà Festeggiando Giuseppe Luigi Iannetti Non si è mai visto nulla di così strabiliante, come il Gran Galà che si terrà a San Giovanni Rotondo per festeggiare uno showman eccezionale: Giuseppe Luigi Iannetti. L'evento sarà presentato dalla bella Nadia Piserchia. A festeggiare i 10 anni di carriera del grande Iannetti ci saranno ospiti famosi e prestigiosi. Ci saranno gli indimenticabili Erminia Kobau, Giuseppe Soave, Gianluca Pannullo, Gino Sannicandro, da Uomini donne; Angelo Cogliati di Zelig off. Ci sarà Elena Martemianova da Sanremo 2017 eccelsa cantante; Carmen di Cristo meravigliosa ballerina dell'Accademia di ballo Toneca dance; la regina di Novara Kristal D'Urso Miss Trans 2015; Mister Baby D'Italia Antonio Bellucci. Troveremo il grande Gianni Vinciguerra, che ha collaborato come coreografo con grandi marchi, come Renato Balestra, Alviero Martini, Carlo Pignatelli, Amelia Casablanca; di concorsi nazionali come " Un volto per fotomodella","Miss e Mister Belli d'Italia","Top star Tv Moda",Patron del concorso Nazionale Miss, Mister e Baby Belebung Italia. Rivedremo con piacere un tronista di Uomini e donne 2001/2002: Emilio Savastano, ormai attore affermato. Nel 2003 protagonista nel film" The second comming" prodotto da Anubi_De Laurentis. Showman e presentatore di molti programmi su Sky. Max Bellocchio lo ha voluto come attore protagonista nel suo film nel ruolo di un Boss camorrista soprannominato "O torinese". Ci sarà pure il grande Giuseppe Grande, ideatore e direttore artistico di Sanremosol; Michele Prioletti, sublime ballerino; Giorgio Corvaglia, uno stilista leccese grandioso, direttamente da Pitti Uomo -Firenze. Incontreremo pure Immacolata Antonacci, modella e attrice; Marianna Pignatelli di Moda e Spettacolo e ORA. Daranno un tocco di grazia, eleganza e freschezza le BLACK and WHITE, le ormai famose Francoise Preira e Grazia Pignatelli, modelle, fotomodelle, ballerine, attrici e non solo... Insomma ci sono tutti gli ingredienti per una serata col botto. Davvero grandioso!
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/02/18/lassociazionismo-giovanile-negli-anni-70-a-spongano/
L’associazionismo giovanile negli anni 70 a Spongano
di Giuseppe Corvaglia
Negli anni ’70 i giovani a Spongano, sperimentarono una modalità di aggregazione ancora nuova che, con nome anglofilo, chiamarono Club. All’epoca, sembrava non facessero più presa né le esperienze associazionistiche tradizionali come l’Azione Cattolica, i partiti politici, le Confraternite, né quelle più moderne, figlie del ’68, come il Circolo Studentesco Ricreativo.
L’esigenza dei giovani era quella di avere un posto, diverso dal bar o dalla piazza, dove stare insieme a chiacchierare su quanto succedeva nel paese o su quello che capitava a scuola oppure ancora un luogo dove scambiarsi opinioni, confrontarsi e divertirsi in vari modi con poco. Una sorta di “nido” che li facesse sentire a proprio agio, a “casa propria”, senza gli occhi degli adulti addosso che dicessero cosa fare o cosa non fare.
I giovani si associarono per classi d’età o per interessi comuni: fra questi non era trascurabile quello di incontrarsi con le ragazze per conoscersi meglio, senza fomentare chiacchiere.
Allo scopo recuperarono vecchie case non più abitate, talvolta con pavimenti sconnessi o pareti scrostate, e ne fecero accoglienti luoghi di ritrovo e aggregazione.
Club Universal 1977
Queste associazioni prosperarono a Spongano mantenendo una sana laicità sia nei riguardi della Chiesa, sia nei riguardi delle Istituzioni e dei Partiti, che non significava rifiuto o rivolta nei loro confronti, ma solo sana voglia di sentirsi liberi e indipendenti. In ogni club c’erano militanti di destra, di centro e di sinistra, anche agguerriti, e ragazzi che della politica non si interessavano affatto, ma tutti convivevano senza problemi di sorta.
Il Club era un posto riservato, ma sapeva accogliere e questo lo si vedeva nella frequentazione di amici dei soci oppure, in estate, quando arrivavano dei ragazzi forestieri che trovavano nei club un punto di riferimento per incontrare amici nel breve periodo delle vacanze sponganesi: era così che nascevano amicizie care e solide.
In queste associazioni, i giovani, spesso minorenni, riuscivano con i propri risparmi a pagare l’affitto, a comprare uno stereo, i dischi, gli addobbi e le prime luci psichedeliche, aggiustate alla bell’e meglio dal componente del club più esperto o dall’amico che si interessava di elettronica.
Nei Club ci si autogestiva, si cresceva, si cercava una propria emancipazione per liberarsi dalla angusta realtà di un paesino, facendo insieme esperienze importanti. Si ascoltava soprattutto musica che spesso esprimeva emozioni e sensazioni meglio di tanti discorsi.
Anche l’approccio con l’altro sesso era facilitato (senza che venissero meno un essenziale rispetto e un sufficiente pudore), ma trovavano posto pure la discussione e il confronto fra pari, la responsabilità di tener fede agli impegni presi e di portare a termine un lavoro, nonché la possibilità di creare cose nuove spesso proposte alla comunità, vivacizzandone la vita routinaria.
In questo modo scaturirono momenti che portarono queste piccole comunità a uscire dalla monotonia di tutti i giorni e a esporsi al pubblico con attività come il teatro della Nuova Compagnia del Teatro Popolare o gli Scuola-quiz del Club Jolly o i Piccolo Festival del Club Royal o, ancora, la Corrida del Club Universal.
Ogni club cercava di organizzare eventi, spettacoli, iniziative, per esprimersi al meglio e per caratterizzarsi rispetto agli altri gruppi, ma anche per rimpinguare le casse del club stesso e trovare le risorse per i propri progetti (per quanto ci si inventasse anche alternative come per esempio una stagione di coltivazione di tabacco posta in atto dal club Jolly). Il fulcro di questi spettacoli era la Sala Parrocchiale, ma talvolta gli eventi erano accolti anche nel Cinema Italia di via Ariosto.
La spinta a realizzare questi eventi era sì un’esigenza economica, ma anche l’intenzione di trovare una propria peculiarità, cercando, magari, un approccio culturale che non fosse solo di semplice intrattenimento.
La Nuova Compagnia del Teatro Popolare, che aveva sede in una casa di via Chiesa, quasi all’angolo con la farmacia, scelse il teatro. Inizialmente propose una commedia, inventata dagli stessi componenti: U Furese, firmata da Claudio Casarano e Italo Stefanelli, ma realizzata con il contributo di tutti i componenti. Successivamente misero in scena altre rappresentazioni teatrali leggere, come U Requenzinu ‘nnamuratu, o drammatiche, come Una madre d’Italia e la Passione di Gesù.
La NCTP in una rappresentazione de U Furese con Claudio Casarano protagonista
Il Club Jolly, ubicato in via San Leonardo, si inventò gli “Scuola-quiz”, ispirandosi al famoso “Chissà chi lo sa” di Febo Conti. I ragazzi del club selezionarono delegazioni di classi della Scuola media per sottoporle a domande di cultura generale e scolastica, sfruttando anche la grande simpatia che il pubblico aveva per i quiz e la inevitabile competizione che si veniva a creare fra i concorrenti, solleticando pure la vanità dei genitori che accorrevano a fare il tifo per i loro piccoli campioni.
Il Club Royal, situato in via Giovanni XXIII, toccò lo stesso tasto, ammiccando alla sensibilità dei genitori, facendo gareggiare con canzoni dello zecchino d’oro, e non solo, piccoli cantanti in erba in eventi chiamati “Piccolo festival”.
Nessuno dei componenti del club allora suonava, ma si ingegnarono e coinvolsero Uccio Zippo con la sua chitarra (chi potrà dimenticare la mitica Apache!) e quella che allora si chiamava Musical Band, realizzando spettacoli sicuramente gradevoli e partecipati.
Le edizioni del “Piccolo Festival” potevano sembrare una cosa semplice da fare, ma richiedevano un’organizzazione non indifferente: occorreva reclutare i “mini cantanti”, vincendo la resistenza dei genitori, andare a prenderli per le prove e riportarli a casa, essendo essi piccoli, e tutto questo significava mostrare impegno e un adeguato senso di responsabilità.
La Corrida Sponganese
Il Club Universal, che aveva sede in un vicoletto di Via Chiesa, riunì per la maggior parte musicisti in erba che già si erano aggregati a formare la Musical Band e poi la Mini Orchestry per cui impostarono i loro eventi sulla musica.
Lo spettacolo più riuscito, che poi diventò una tradizione, fu la “Corrida Sponganese”, che riscosse grande successo e portò alla ribalta personaggi di cui, all’epoca, i più ignoravano le qualità artistiche.
I concorrenti cantavano, suonavano, sfoggiavano una discreta, quando non ottima, abilità, ma talvolta alcuni competitori, se pure mostravano scarse doti tecniche o artistiche, ispiravano una simpatia e una verve comica ineguagliabili, suscitando curiosità e raccogliendo il plauso del pubblico.
Talvolta il concorrente riusciva ad aggregare una claque che travalicava gli angusti confini della famiglia. Ricordo ancora oggi lo straordinario numero di tifosi che accorse ad applaudire Vittorio Papa: familiari, colleghi di lavoro, simpatizzanti, portandolo, con il loro sostegno appassionato, alla vittoria finale.
Spesso questo tifo “popolare” poteva anche penalizzare chi era più bravo tecnicamente, ma non riusciva a captare la benevolenza del pubblico, come capita, ancora oggi, di vedere alla Corrida televisiva dove è il pubblico a decidere le sorti della gara.
Mini Orchestry a un Carnevalissimo
I componenti del club Universal che suonavano erano Nicola Paoli clarinettista e poi batterista, Raffaele Rizzello clarinettista e sassofonista, Giuseppe Guida Trombone, concertatore e curatore delle parti, Raffaele Corvaglia che suonava il flicorno soprano, Franco Marti che suonava la tromba e il sassofono soprano, e il sottoscritto, Giuseppe Corvaglia, che suonava il flauto traverso e il sassofono, per una breve stagione.
A questi si aggiungevano Carmelo Paiano e Vittorio Donadeo, più di una volta presentatori degli spettacoli proposti, Giacomino Picci e Luigino Rizzo, spesso protagonisti di esilaranti scketch, Walter Erriquez, risorsa per la soluzione di problemi tecnici ed elettrici, Pino Ragusa, esperto, per quella cerchia, di musica rock e assiduo lettore di “Ciao 2001”, Nino Giannuzzo, Vito Lazzari, Alfredo Rizzello, Giorgio Buffo, Salvatore Gambino, Giovanni Marti. Ognuno trovava il modo di essere utile, anche perché l’organizzazione di questi eventi non era solo quello che si vedeva sul palco, ma anche: predisporre le prove, cercare gli sponsor, provvedere alla stampa dei manifesti, trovare l’amplificazione, magari senza pagarla, spostare gli strumenti, interloquire con la SIAE, contrattare la gestione del teatro… la buona riuscita dell’evento era il risultato del gioco di tutta la squadra e questo valeva per tutti i Club e per tutti gli eventi.
Oltre alle varie Corride, il Club organizzò anche serate di intrattenimento in occasione del Carnevale (Carnevalissimo) sulla scia di uno spettacolo organizzato inizialmente dal Club Royal con il medesimo obiettivo: guadagnare creativamente soldini per il club.
Negli ultimi tempi, il complesso nostrano venne integrato da elementi esterni e poi subentrarono gli S.R.C. (Società Riunita in Concerto), un gruppo pop-rock di Marittima che ha curato le musiche delle ultime edizioni della Corrida sponganese.
Un’altra cosa che il Club Universal organizzò fu un torneo di Calcio (ripetuto per 3 o 4 anni) che però non riuscì a vincere mai, nonostante giocassero fra le sue fila giocatori di buona caratura, per la bravura di una squadra chiamata Imperador (praticamente un club senza sede), ma anche per le puntuali autoreti di un socio, che puntualmente infilzava il proprio portiere, ma poi si faceva perdonare con le splendide prestazioni da libero.
Un anno fu pure ingaggiato come “commissario tecnico” Salvatore Corvaglia, gloria del calcio locale, ma non ci fu niente da fare: l’Imperador, che ha rifornito di calciatori le squadre locali, era più forte, calcisticamente, si intende.
Ai Club citati è giusto aggiungere anche il Club Genesis sito in via Congregazione, che non si espresse con particolari eventi pubblici come gli altri club, ma mostrò una maggior apertura nella cerchia dei soci ivi comprese le ragazze che negli altri club erano di casa come frequentatrici, ma non come socie.
Ognuna di queste associazioni ha accolto tanti piccoli uomini vogliosi di crescere, di trovarsi, di sentirsi grandi, mostrando fantasia e creatività, capacità e operosità, impegno e senso di responsabilità, qualità che poi nella vita servono sempre.
Bei ricordi di una specie di Happy Days casareccia senza Fonzie.
Foto da raccolte di Raffaele Corvaglia, Felice Rizzello, Raffaele Rizzello
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Tradizioni ed edilizia funerarie a Spongano
di Giuseppe Corvaglia
Nel 1600, come in tutti i paesi di Terra d’Otranto, a Spongano non c’erano cimiteri e i defunti venivano seppelliti nelle chiese. La Chiesa Madre aveva le tombe della comunità che, successivamente, saranno differenziate in: quelle per i sacerdoti, poste vicino all’altare maggiore, quelle per i nobili (sepulchra nobilium) anch’esse poste in prossimità dell’altare o vicino agli altari della famiglia, quelle delle vergini (tumbae virginum), quelle dei bambini (parvulorum sepulchrum) e quelle degli altri abitanti. La prima a essere sepolta in Chiesa Madre, nel 1604, fu una certa Domenica Gallona.
Ancora oggi si può osservare il pavimento della sacrestia, in parte ristrutturato, ma in parte ancora irregolare, deformato dalla pressione dei gas, formati dai processi di decomposizione dei corpi.
I nobili, come detto, avevano urne vicino agli altari, di cui avevano jus patronato, o una tomba vicino all’altare maggiore, ma alcuni di essi potevano essere sepolti nelle cappelle patrizie di proprietà.
Accadeva per gli Scarciglia e i Riccio, ad essi imparentati, che tumulavano i propri defunti nella Cappella di San Teodoro, fatta erigere da Don Pomponio Scarciglia, e per i Bacile che costruirono la propria cappella, prospiciente il Palazzo e dedicata alla Madonna dei sette dolori, grazie all’opera di Don Giuseppe Bacile, Arcidiacono della Cattedrale di Castro. In essa il primo ad esservi tumulato fu Giovanni Antonio, fratello del prelato.
Ricordiamo pure che nella piccola comunità era attiva una Confraternita della Buona morte che garantiva un funerale ai poveri che non potevano permetterselo e pregava in suffragio delle anime, avendo patronato su un altare della chiesa che, in seguito, verrà dedicato a Santa Vittoria.
Quando le fosse della chiesa si riempivano e quando la chiesa fu chiusa, per i lavori di restauro nel XVIII secolo, i defunti furono tumulati nella Chiesa della Madonna delle Grazie che oggi conosciamo come Congrega.
Se il numero dei morti diventava elevato, come accadeva in occasione di epidemie, quali: il colera nel 1836, il vaiolo nel 1880, la difterite nel 1886, la scarlattina, il morbillo nel 1888… si ricorreva al cimitero epidemico (Agro Sancto Epidemico) che si trovava sulla via per Surano, in Contrada Taranzano. La rivoluzione francese aveva affrontato il problema delle sepoltura con l’uso delle tombe comuni poste a distanza dai centri abitati.
A Spongano, come in tutto il Regno delle Due Sicilie, si comincia a parlare di Cimitero solo nel 1817, quando una legge, “per garantire la salute pubblica, ispirare il rispetto dei morti, e conservare la memoria degli uomini illustri”, dispose che i defunti venissero inumati o tumulati in luoghi appositi, chiusi da mura e da un cancello, distanti almeno un quarto di miglio dal centro abitato. A Spongano e nei comuni associati, Surano e Ortelle, si cercarono i siti per la costruzione del cimitero locale. Per Spongano si individuò un luogo detto “Vignamorello”, posto fra l’attuale piazza Diaz e la ferrovia, dove c’era una grotta, usata come neviera in disuso, che avrebbe consentito di inumare le salme più agevolmente.
L’iter fu travagliato e furono proposti, negli anni, altri luoghi, ma senza mai decidersi a realizzarlo, nonostante un altro dispositivo, il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840, reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840.
A questo contribuì l’opposizione, più o meno palese, del Clero, che traeva benefici economici dal tumulare i morti nelle chiese, la credenza dei fedeli che la tumulazione in Chiesa, vicino alle reliquie dei santi e luogo di preghiera, fosse migliore e, soprattutto, la necessità delle varie amministrazioni di stornare i fondi destinati ai cimiteri per spese più necessarie e urgenti, differendo la soluzione del problema.
Nel 1880 la Regia Amministrazione Sabauda ritorna alla carica con leggi apposite e stimola decisamente i Comuni a dotarsi di un Cimitero. In questa temperie, i Decurioni, nel 1883, decidono di costruire il nuovo cimitero acquistando all’uopo un fondo denominato “Campo San Vito” sulla via per Ortelle. Il progetto fu fatto dall’Ingegner Pasanisi e fu approvato dal Genio Civile nel 1885.
Il Camposanto fu inaugurato l’11 maggio 1885 e già il giorno dopo vi fu sepolto il primo sponganese, Ruggero Alamanno. Da allora non furono più seppelliti morti in chiesa (l’ultima salma fu tumulata in Chiesa il 1° maggio 1885).
Ingresso del cimitero di Spongano
Architettonicamente possiamo dire che, nel complesso, la parte più antica risente di quel gusto architettonico, molto in voga nell‘800 fino agli inizi del ‘900, chiamato Eclettismo, qui particolarmente evidente, che utilizza in libertà tutti gli stilemi architettonici del passato, come modelli di riferimento, per progettare edifici esteticamente belli che colpiscono il gusto del fruitore ancora oggi.
La facciata, austera, si ispira a un’architettura classicheggiante; in alto al centro è scolpito il chrismon con ai lati l’alfa e l’omega, all’apice una croce (caduta e non più ripristinata) con due fregi ai lati.
Statua di Cristo risorto di A. Marrocco
Sempre all’ingresso sono situate due epigrafi in latino che ammoniscono gli umani.
Una riporta “La mia carne riposa nella speranza” (CARO MEA REQUIESCET IN SPE) e l’altra dice “Il corpo corruttibile e mortale dell’uomo conduce all’immortalità” (MORTALE INDUET IMMORTALITATEM).
Alcuni anni fa è stata posta, nel piazzale antistante, una bella statua bronzea dell’artista contemporaneo Armando Marrocco che rappresenta Gesù risorto.
Anche la tomba comune, dove trovavano sepoltura tutti i cittadini che non avessero una tomba propria, si ispirava a un sobrio classicismo. L’ingresso, sormontato da un timpano con un bordo modanato in pietra leccese, aveva due nicchie laterali e una porta centrale che conduceva a un semi-ipogeo, che ricordava le catacombe, dove vi erano i loculi che accoglievano le salme e una fossa comune (a carnara). In fondo, al centro, vi era un altare dedicato alla Madonna del Carmine, oggi restaurato. Negli scorsi anni è stata restaurata la tomba comune ricavando al piano terreno dei colombari nuovi e un ampio ambiente coperto; la nuova facciata riecheggia la forma della vecchia struttura.
Più o meno coeve sono diverse cappelle gentilizie, costruite con stili diversi, anch’essi liberamente ispirati all’Eclettismo.
Anche a Spongano, come in quasi tutti i comuni del Salento, le famiglie nobili, borghesi o benestanti, sentivano la necessità di costruire la propria cappella funeraria per custodire le spoglie dei propri cari, ricordarne la memoria, ma anche per ostentare il proprio stato.
La materia usata, prevalentemente, è la pietra leccese che, come dice Gabriella Buffo nel suo articolo su Fondazione di Terra d’Otranto, “Edilizia funeraria a Nardò e nel Salento”, “diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte”.
Entrando si può ammirare, sulla sinistra, la tomba della famiglia Rizzelli che sfoggia uno stile classico arricchito, da ghirlande di fiori, scolpite nella pietra leccese. La facciata è abbellita da due colonne sovrastate da un timpano semicircolare che si ripete sui quattro lati. Lo stesso stile classico si può osservare nella più discreta tomba dei Rini.
Cappella della famiglia Rizzelli
Particolare della cappella Rizzelli (lato nord)
Di fronte vi è la cappella della famiglia Coluccia che richiama uno stile neoromanico, come la cappella della famiglia Scarciglia che si trova più avanti. In quest’ultima, oltre al raffinato portale, che richiama le decorazioni di Santa Caterina in Galatina e di San Nicolò e Cataldo a Lecce, si nota un bel rosone con al centro una testa di leone.
Cappella Scarciglia
particolare con il rosone della cappella Scarciglia
Di stile neorinascimentale è la cappella dei Bacile, progettata da Filippo Bacile, architetto e umanista pregevole, sempre seguendo il gusto dell’eclettismo in voga. Il portale è protetto da un elegante loggiato, sormontato da una sorta di baldacchino, con un timpano, sorretto da due colonne, adorne di capitelli corinzi, che reca lo stemma di famiglia e un bordo con gli spioventi decorati a scacchiera, dove si alternano cubetti cavi a cubetti pieni. L’interno della cappella è semplice e le sepolture sono allocante in una parte semi-ipogea.
Cappella della famiglia Bacile
Cappella funeraria della famiglia Rini
Cappella funeraria della famiglia Coluccia
Nel corso degli anni il cimitero è stato ampliato e oggi si possono vedere tombe più moderne, alcune dallo stile essenziale, altre di pregevole fattura come quella che accoglie il Caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya durante una missione di pace. La cappella, progettata dall’architetto Virgilio Galati, presenta sulla facciata uno squarcio che rompe due strati: quello del corpo (pietra leccese) e quello dell’anima (cemento). Un altro squarcio spacca la parete posteriore che, con la sua struttura a lamelle sovrapposte, sembra la corazza di un guerriero e quello squarcio diventa un finestrone irregolare che, orientato a est, accoglie la luce del sole che nasce. All’interno, sulla tomba del giovane milite, si ergono due possenti, ma al tempo stesso elegantissime, ali di angelo in marmo greco. La pavimentazione e la volta riproducono cerchi come pianeti di una costellazione. Il tutto esprime la tensione a volare in cielo, ma, allo stesso tempo, la crudele e dirompente realtà della fine di una giovane vita.
Cappella del caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya
particolare della cappella funeraria Tarantino
Interessante la cappella di un altro soldato, morto tragicamente mentre era in servizio, Claudio Casarano, figura eclettica di artista prestato all’esercito; in essa è possibile ammirare la riproduzione in marmo di Carrara di una sua scultura in legno d’ulivo, molto suggestiva che esprime il rinchiudersi in se stessi per non vedere la crudeltà del mondo. Interessante anche sulla facciata un sofferente crocifisso in ferro battuto, fatto dal milite nella sua attività artistica.
Particolare della cappella Casarano
Pure di interesse è la tomba Polimeno per gli infissi in ferro battuto di Simone Fersino, che si rifanno al mosaico di Pantaleone della Cattedrale di Otranto (l’albero della vita che poggia su due elefanti e Alessandro Magno sui grifoni), e un bellissimo angelo sull’altare, affrescato da Roberta Mismetti in foggia bizantina.
Altra tomba particolare è la tomba Corvaglia, progettata dall’Architetto Sigfrido Lanzilao, posta dietro la tomba Rini. Segno caratteristico è un piccolo arco a tutto sesto che richiama l’arco romano e poggia su due colonne a sezione quadrangolare (o a pilastro) e che, con armonia ed eleganza, sovrasta le tombe e accoglie un crocifisso in legno, ottenuto da un artista ligure con rami rimaneggiati dal mare. Le tombe ai lati sembrano due ali disposte come un abbraccio che accoglie; all’interno ci sono due fioriere una a forma di ciotola votiva e una che richiama un antico mortaio con i simboli della forza e del coraggio (zampa di leone), dell’estro e dell’allegria (uva), del genio e della tecnica (squadra) e della vita ottenuta dalla morte (spiga di grano) opera, come l’arco, di Bruno Polito.
Fino a qualche anno fa c’era un piccolo cenotafio, un vaso commemorativo, in pietra leccese, scolpito e decorato da un genitore affettuoso e valente artigiano, Oronzo Rizzello, per la piccola figlia Graziella, portata via da una malattia e sepolta in una tomba comune. Il vaso (su cui era scritto A GRAZIA RIZZELLO I GENITORI e poco sotto a soli tre anni ti perdemmo, chi ne consolerà) è stato rubato da mani sacrileghe, durante dei lavori di riposizionamento.
Ma il Cimitero non è solo l’insieme di note storiche, stilemi architettonici, lapidi e sculture: il Cimitero è, soprattutto, un crogiuolo di ricordi, talvolta intimi, evocati dai foto-ritratti o dagli epitaffi e di storie, talvolta, solo immaginate.
Tipico esempio di questa evocazione è il giro che si fa il giorno dei morti, quando si vaga senza uno scopo preciso, oltre le solite visite, per cercare un parente più lontano che ci ha lasciato o un amico che non c’è più e, talvolta, ci si perde a immaginare la vita della persona raffigurata in un ritratto antico.
Di quei giorni e di tante domeniche mi vengono in mente le discese veloci dalla copertura della scala della tomba comune, un piano inclinato, pavimentato di chianche, su cui ci si arrampicava e si scendeva d’un fiato. Il pensiero oggi mi fa rabbrividire per il rischio che correvamo, ma all’epoca chi ci pensava?
Anche un luogo così mesto poteva diventare divertente, come le coccole dei cipressi che diventavano biglie … o pallottole.
Io, poi, ogni volta che varco il portale dell’ingresso e vedo la porta sulla sinistra, non posso fare a meno di ricordare il mio bisnonno, Donato, che, come capomastro, partecipò alla costruzione di quel camposanto e, una volta ultimati i lavori, ebbe anche l’incarico di custode notturno che svolgevano a turno i figli i quali, per farlo, dormivano in una cameretta al primo piano sopra la camera mortuaria a cui si accedeva, appunto, da quella porticina.
Quando c’era un morto, gli si legava alle mani una cordicella che saliva fin nella cameretta e si collegava a una campanella che avrebbe suonato in caso di risveglio del trapassato, come accade nei casi di morte apparente (nell’architrave dell’ufficio del custode che una volta era camera mortuaria, è possibile vedere ancora la carrucola e il foro che portava alla cameretta del custode).
Donato Corvaglia capomastro muratore
Mi ricordo pure di un altro Donato Corvaglia, un caro amico. Era una persona speciale che, come impiegato comunale, svolse diversi ruoli: netturbino, archivista, messo comunale e alla fine custode del cimitero e “precamorti”. Di lui ricordo la bontà e la bonomia, la cura nell’insegnarci il catechismo, la semplicità e la sensibilità delle sue poesie che amava comporre in quella pace, ma anche la delicatezza e la discrezione nei momenti della sepoltura, quando il distacco fra il defunto e i familiari diventava lacerante. Lui mostrava sempre umana pietà, sensibilità, solidarietà e la giusta fermezza, tutte viatico per l’addio. Ha lasciato in eredità ai suoi colleghi un attrezzo da lui inventato che loro chiamano, affettuosamente, Mangone (era il soprannome patronimico) che serve a scardinare la lastra di pietra murata nelle dissepolture.
E poi, ai più attempati verrà in mente un altro Precamorti mitico: u Paulu.
“Paulu” viveva, praticamente, nel cimitero anche se aveva una sua casa in paese. Vestiva abiti dimessi, era solo e, spesso, accettava la carità di un pasto, offerto per “l’anima dei morti”, o anche solo un bicchiere di vino, due, tre….*
Lui accettava volentieri, ma veniva considerato uno sventurato e, spesso, i ragazzi lo prendevano in giro. Allora lui, quando si arrabbiava, urlava minaccioso: « A cquai ve spettu tutti!!!» ( Vi aspetto tutti qui!!! intendendo al Camposanto).
Aveva preso parte in una sacra rappresentazione della Passione di Cristo, rimasta memorabile, (quella, per intenderci, in cui Mesciu Carmelu Carluccio, cantore, era Gesù) interpretando un efficace e credibilissimo Cireneo che, su quelle spalle malferme, sbilenche, si caricava il segno della redenzione del mondo senza essere il Messia.
Altri aneddoti si raccontano su di lui. In particolare si racconta di una giovane vedova, innamoratissima del marito, morto prematuramente, la quale, ogni giorno, portava sulla sua tomba delle pietanze, come se fosse vivo. Paolo se le mangiava e lei ogni giorno non mancava di rinnovare il suo gesto affettuoso nei riguardi del marito. Un giorno di estate, nel caldo della canicola, era scesa nel colombario sotterraneo e non poteva immaginare che Paolo precamorti si fosse infilato in un loculo per sfuggire alla morsa di quel caldo soffocante. Quando lo vide uscire, per poco non rimase stecchita. Era una donna forte, molto cara, che non morì per lo spavento, ma concluse la sua vita in tarda età con la compagnia di due cani affettuosi per poi ricongiungersi al suo amato Salvatore.
*Piccola nota di costume.
Nel Salento si usa offrire delle cose da mangiare, specie a chi è più sfortunato, per ottenere delle preghiere in suffragio delle anime defunte. È quasi come offrirle al caro che non c’è più e, spesso, il cibo o il frutto offerto è quel cibo o quel frutto che piaceva particolarmente al caro estinto.
Talvolta si sogna un caro che manifesta il desiderio di un cibo e si cerca di soddisfarlo, dando quel cibo a qualcun altro che quel cibo può mangiarlo fisicamente. C’è chi racconta di aver regalato dei cibi a qualcuno e che il caro estinto sia andato poi in sogno, esprimendo soddisfazione per quel pasto.
In particolare una conoscente, riferiva di aver preparato e donato delle sagne col sugo da portare a una famiglia benestante che, però, non apprezzava particolarmente quel dono. La domestica, incaricata del servizio, un giorno aveva fame, si sedette e se le mangiò. Dopo aver mangiato si sentì ristorata e soddisfatta e, come si usava, pregò il riposo eterno ai defunti della donatrice. Nei giorni successivi, chi aveva donato il cibo sognò il defunto che mangiava le sagne, seduto su alcuni gradini. Quando la donna rivide la domestica, per ripetere il dono, le chiese se le sagne erano arrivate a destinazione. Di fronte alle domande insistenti, la donna raccontò la verità e il posto dove le aveva mangiate era lo stesso dove, nel sogno, il caro defunto si era seduto a mangiare. Da allora le sagne, quando preparate, furono destinate alla domestica.
Un’altra volta, un’altra massaia aveva mandato del pesce fritto da portare in dono e chi lo portava, inciampando, ne fece cadere, accidentalmente, alcuni. Non poteva rimetterli nel piatto, ma non voleva buttare quel ben di Dio. Così li pulì dalla polvere e se li mangiò con gusto pregando un Recumaterna alli morti sentito.
Giorni dopo la massaia sognò il defunto che raccoglieva del pesce da terra e se lo mangiava. Indagò e scoprì l’accaduto.
Come diceva il Commedantore del Don Giovanni Mozartiano: “Non si pasce di cibo terreno chi si pasce di cibo celeste…” e per noi uomini moderni è difficile credere che ci possano essere dei legami reali e sostanziali diversi da quella che può essere solo una suggestione.
Anche una richiesta, oggi domandata per favore, un tempo veniva perorata chiedendola “per l’anima de li morti toi”. Magari, se la richiesta era particolarmente importante, per meglio ottenerla, si chiedeva il favore per l’anima di un defunto particolarmente caro (Pe l’anima de lu Tata tou, o pe l’anima de la Mamma tua).
Inoltre ogni volta che si voleva ringraziare qualcuno si usava dire “Recumaterna alli morti toi” (in segno di ringraziamento, prego il riposo eterno per i tuoi cari defunti) o anche Ddhrifriscu de i morti, che vuol dire la stessa cosa oppure Ddhrifriscu de Diu che voleva dire che il Signore Iddio misericordioso conceda il riposo eterno ai tuoi defunti. Anche questo andava a consolare le anime che, secondo gli insegnamenti cristiani, potevano stare in Purgatorio in attesa della beatitudine.
Per contro, se si voleva offendere qualcuno in modo estremo, ci si rivolgeva a lui imprecando contro i suoi defunti.
Si ringraziano per le foto Mirella Corvaglia e Antonio Corvaglia
#edilizia funeraria#Giuseppe Corvaglia#Spongano#Paesi di Terra d’Otranto#Spigolature Salentine#Tradizioni Popolari di Terra d’Otranto
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Spigolature sulla chiesa Madre di Spongano
di Giuseppe Corvaglia
La chiesa Madre di Spongano è dedicata a San Giorgio Martire. In origine era costituita da un’unica navata; così fu riedificata nella seconda metà del ‘700, mentre le due navate laterali furono edificate soltanto verso la metà del 1800; l’abside è posta a oriente e la chiesa è orientata sull’asse est-ovest.
Alla fine del ‘700 l’altare maggiore era dedicato all’Immacolata Concezione; venne poi rifatto nella forma attuale e dedicato a San Giorgio nel 1830. Di pregio sono gli stucchi dorati modellati da Vito Tedesco da Monopoli.
Sul lato destro della chiesa antica, a navata unica, c’erano tre altari: il primo, all’ingresso, eretto nel 1684, era dedicato a Santa Teresa ed era di patronato della famiglia Scarciglia; il secondo era dedicato a Sant’Antonio, di patronato della famiglia Bacile, ed era adorno di un quadro che raffigurava il Santo con il Bambino Gesù e una statua di pietra che ora è posta di fianco alla porta di ingresso laterale destra; il terzo altare era dedicato alla Madonna del Rosario ed era di patronato della famiglia Morelli.
La navata sinistra fu edificata successivamente, verso la metà del 1800, a spese della famiglia Bacile fino alle volte e fu completata, con le volte e gli altari, con il contributo della popolazione e il fattivo interessamento dell’Arciprete don Pietro Scarciglia.
Gli altari, in origine, erano tre: il primo altare, oggi sostituito dal Battistero, era dedicato alla Madonna Assunta con un quadro che può essere osservato sopra il Battistero stesso e raffigura, ai piedi della Vergine, San Giorgio che sottomette il drago e San Luigi Gonzaga; il secondo altare è dedicato a Santa Vittoria e il suo patronato apparteneva alla Confraternita della Buona Morte; il terzo è l’altare dedicato a San Giuseppe.
Proprio di quest’altare vi voglio parlare. È l’altare della navata più prossimo all’altare maggiore ed è dedicato, come detto, a San Giuseppe o alla Sacra Famiglia.
Fu costruito nel 1843, con il medesimo stile di quello dedicato a Santa Vittoria che è coevo.
Altare di San Giuseppe
Altare di San Giuseppe, dipinto della Narività
Il dipinto centrale è posto in mezzo a due colonne con capitelli corinzi, come in un proscenio di teatro, abbellito da elementi floreali e ghirlande, e rappresenta la Natività con l’adorazione dei pastori.
San Giuseppe, quasi defilato rispetto al centro del dipinto, mostra, con candido e genuino stupore, ai pastori e al popolo dei fedeli, il piccolo Gesù, vero centro dell’attenzione, su cui convergono gli sguardi di tutti gli astanti.
Ai lati vi sono due statue in pietra leccese, raffiguranti Sant’Anna e Santa Lucia, di recente fattura. L’ovale sulla mensa raffigura San Lazzaro, in abiti vescovili, ruolo che, dopo la morte di Gesù, può aver ricoperto.
Intorno all’effigie si legge l’epigrafe “LAZARUS FUERAT MORTUUS QUEM SUSCITAVIT JESUS” ([Sono] Lazzaro colui che era morto e fu resuscitato da Gesù Cristo).
Altare di San Giuseppe, San Lazzaro
Lecce, statua di San Lazzaro
Il Santo era venerato nel Salento. Qui, durante il periodo che precedeva la Pasqua, piccole compagnie improvvisate di musici e cantanti usavano proporre, in giro per le masserie, in una specie di questua di prodotti della terra, un canto chiamato “Santu Lazzaru” che, partendo dalla resurrezione dell’amico di Gesù, narrava la sua Passione e la sua Resurrezione.
Lazzaro morì giovane e fu resuscitato da Gesù, poi assistette alla sua dolorosa passione e dopo l’Ascensione del Signore, quando i discepoli si dispersero, con le sorelle Marta e Maria, secondo la Legenda aurea di Iacopo da Varagine, approdò a Marsiglia, dove si conservano ancora le sue reliquie. Qui Lazzaro convertì e battezzò molti pagani e resse, quale vescovo, la chiesa di quella città. Morì in età molto avanzata, ricco di meriti e di virtù. Un’altra fonte lo colloca a Cipro, a Cizio (oggi Larnaca), sempre come vescovo. Secondo questa versione le sue reliquie sarebbero state ritrovate a Cipro e portate in Francia dai Crociati.
In alto, nell’altro ovale, collocato sulla sommità dell’altare, è raffigurata la Sacra Famiglia.
Negli ultimi anni, proprio su questo altare, aveva trovato posto una pregevole statua in cartapesta della Sacra Famiglia fatta dall’artista salentino Antonio Papa e fortemente voluta e donata da Don Vittorio Corvaglia.
Sommità dell’altare di San Giuseppe
Chiesa del Carmelo a Loano: ai lati S. Teresa e S. Giovanni della Croce
Sempre sulla sommità dell’altare ci sono altre due statue che non hanno indicazioni.
Le statue sono rappresentate con abiti talari e un rosario in vita. Quella alla destra dell’osservatore rappresenta una religiosa con un angelo che la ispira, evidenza che si tratta di una donna Dottore della Chiesa, mentre quella alla sinistra rappresenta un religioso con una croce in metallo davanti.
Si può ipotizzare che siano raffigurati San Domenico e Santa Caterina da Siena: il primo, raffigurato con una croce nell’atto di predicare, e la seconda ispirata da un angelo.
Consideriamo però che la Santa senese è già effigiata da una delle statue in pietra, poste ai lati dell’altare di Sant’Antonio, e San Domenico viene in genere rappresentato con un giglio, una fiaccola o un cane.
In realtà sembra più plausibile identificarli con due mistici della famiglia carmelitana: San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila che riformarono l’ordine del Carmelo e che spesso si trovano raffigurati insieme, anche a Spongano, nella cappella del Carmine, di patronato della famiglia Ruggeri e ora di proprietà della famiglia Rini.
La devozione verso la Vergine del Carmelo a Spongano era molto sentita. Lo testimoniano la presenza di quadri, una statua processionale fatta modellare da Urbano Corvaglia e poi fatta restaurare negli anni ’50 da Emanuela Falco, edicole votive e altre espressioni della devozione popolare.
statua processionale della Madonna del Carmine
A Lei si rivolgevano preghiere e suffragi per la salvezza delle anime del purgatorio e Lei si invocava per non morire nel peccato in caso di morte improvvisa.
Un’espressione della devozione popolare era una giaculatoria rivolta a Lei per chi era in punto di morte o anche per sé stessi, pensando a quel momento di trapasso.
La Giaculatoria diceva:
“Madonna del Carmine,
mia bella Signora,
assistetemi Voi
nell’ultima mia ora .”
oppure “assistete – e qui si citava il nome dell’agonizzante – nell’ultima sua ora”.
Particolarmente devote alla Vergine del Carmine erano due famiglie patrizie di Spongano: i Ruggeri e gli Scarciglia che hanno annoverato fra i loro congiunti diversi parroci.(1)
Gli Scarciglia avevano patronato sul primo altare della parete di destra, nell’antica chiesa a navata unica, dedicato a Santa Teresa d’Avila e ornato da un quadro, oggi collocato nel cappellone con l’altare del Santissimo Sacramento che fu costruito dall’arciprete Pietro Scarciglia (2), figlio di Gerolamo, con il contributo della madre e del fratello, dottor Fisico Giuseppe, proprio per trasporre il patronato dell’altare di Santa Teresa.
Nel quadro la Santa in estasi viene raffigurata nell’atto di ricevere il velo monastico da San Giuseppe e dalla Madonna.
Santa Teresa riceve il velo dalla Madonna e da San Giuseppe
Ritratto di Don Pietro Scarciglia
Un altro quadro della stessa famiglia si può ammirare in sacrestia e raffigura la Madonna del Carmine con le anime purganti fra San Giovanni Battista e S. Oronzo.
I Ruggeri dedicarono alla Madonna del Carmine la propria cappella gentilizia che si trova in via Carmine, di fronte al loro palazzo, Ruggeri ora Rini.
particolare di Palazzo Ruggeri
Il tempio fu costruito da Francesco Antonio Ruggeri, padre di Giovanni Tommaso che fu Arciprete di Spongano dal 1714 al 1751, e la consacrò nel 1690. Per costruirla, Francesco Antonio aveva comprato, nel 1687, due fondi e la dotò pure di due vigneti e tre orte di vigna, oltre ad altri fondi, che costituivano un legato per 52 messe delle quali una parte doveva essere celebrata con canti, primi e secondi vespri, nei giorni in cui si festeggiava la Madonna.Nelle visite pastorali viene sempre lodata per arredi e paramenti; ancora oggi, dopo i restauri voluti dal Dottor Gaetano Rini e dalla moglie Anna Rizzelli, mostra nella sua bellezza quello stile barocco con cui era stata concepita.
Della Dedicazione alla Madonna del Carmelo è attestazione l’epigrafe posta sulla porta di ingresso (D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO)/ DIVAE MARIAE A CARMELO/ D(OMINUS) IO(ANN)ES THOMAS ROGGERIUS DICAVIT/A(NNO). D(OMINI). MDCXC – Traduzione: A Dio Ottimo Massimo/ E alla Madonna del Carmelo/ Don Giovanni Tommaso Ruggeri dedicò (questo tempio) / Nell’Anno del Signore 1690).
Don Bernardo Ruggero
Don Scipione Ruggero
All’interno si nota la volta a botte in pietra viva e un altare barocco, sfarzoso per stucchi e colori, che accoglie un quadro che raffigura la Madonna con il bambino mentre porge lo scapolare a due santi in ginocchio: San Giovanni della Croce, con una Croce adagiata presso le sue ginocchia, e Santa Teresa d’Avila che reca i simboli della passione di Cristo, fra cui la canna con alla sommità una spugna, infilzata per dissetare il Redentore sulla Croce, e la lancia con cui i romani ne trafissero il costato.
Note
(1) Nella famiglia Ruggeri, oltre a Giantommaso, parroco dal 1714 al 1751, ricoprirono il ruolo di Parroco a Spongano anche Scipione e Bernardo (1771-1779), mentre nella famiglia Scarciglia, oltre a Pietro, fu parroco anche Girolamo dal 1679 al 1684.
(2) Il quadro raffigura Don Pietro Scarciglia, parroco di Spongano dal 1826 al 1836. L’epigrafe recita: D(ON) PETRUS SCARCIGLIA ARCHIPRESBYTER SPONGANI, PIETATIS AC RELIGIONIS LAUDE MAXIME ENITENS, OMNIBUS DESIDERATISSIMUS. OBIIT DIE 18 NOVEMBRIS 1836 AETATI- che vuol dire “Don Pietro Scarciglia, arciprete di Spongano che merita la lode più grande per pietà e religione, ricercatissimo da tutti. Morì il 18 novembre 1836 all’età di …” (Il libro aperto cita la lettera di San Paolo agli Ebrei). Don Pietro Scarciglia fu Arciprete per quasi tre decenni, in due periodi, dal 1808 al 1825, quando decise di dimettersi dalla carica per poi riaccettarla nel 1826 fino al 1836, anno della sua morte. Questi furono anni intensi per la progettazione e la costruzione della navata sinistra con gli altari citati. La Famiglia Scarciglia, originaria di Minervino, si stabilì a Spongano nel ‘600 con Pompomio Scarciglia, che fece costruire la cappella di San Teodoro. Il palazzo principale della famiglia è quello che si trova di rimpetto alla chiesa e fu costruito nel 1620 ma anche gli altri palazzi a sinistra sullo stesso lato di via chiesa, sono della famiglia Scarciglia. Su questo palazzo è posta una epigrafe che recita Hic sunt patera frondes.
Si ringraziano Antonio Corvaglia e Mirella Corvaglia per le foto che mi hanno fornito e si ringrazia l’Ufficio diocesano per l’arte Sacra e i Beni Culturali per le autorizzazioni alla pubblicazione delle immagini
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Due libri sulle bande musicali e della loro storia sociale di un fenomeno sociale
di Giuseppe Corvaglia
Il 2018 ha visto l’uscita di due libri sulla banda davvero interessanti, uno di Emanuele Raganato (Le Bande Musicali – Storia sociale di un fenomeno globale – Edizioni Streetlib write) musicista, musicologo, didatta, esperto di sociologia, ed un altro di G.M. Paone e D. M. Andriulli (La banda come strumento formativo, educativo e sociale – Edizioni Efesto 2018), entrambe acquistabili su web.
Raganato parte tracciando, in maniera gradevole e completa, la storia della Banda, partendo dall’origine del nome, fino a tracciare una storia delle bande dagli albori delle civiltà in Italia e nel mondo.
Inizia con le ipotesi sul nome, che potrebbe risalire al termine gotico bandwa, che indicava un gruppo di suonatori eterogeneo che animava la vita delle cittadine e accompagnava i banditori, o a quei gruppi musicali militari che suonavano e accompagnavano i vessilli che distinguevano gli eserciti (bandiere, bande) o ancora alla fascia (banda) che indossavano i trombettieri che annunciavano il corteo regale (pensate ancora oggi alle processioni che con le bande annunciano l’arrivo del simulacro dei santi o alle parate o alle manifestazioni civili…).
Segue una classificazione, che si giova di proposte come la distinzione di Fulvio Creux, che le distingue in Bande amatoriali, più diffuse al centro nord, Bande ministeriali o bande militari ispirate alla struttura proposta da Vessella, e Bande da giro, tipiche del sud Italia, o come pure la distinzione delle bande pugliesi di Bianca Tragni, che le suddivide in bassa banda, o bassa musica, banda a servizio interno, simile alle bande amatoriali che limita la sua attività a livello locale, e banda da giro, fenomeno a parte perché erano e sono vere e proprie imprese che da maggio a ottobre suonavano per più di cento giornate e diventavano reddito per molti lavoratori della musica.
Interessante anche il riferimento al termine Concerto, molto usato per le Bande, che deriva dal latino “consertus”, letteralmente “legato insieme”, come lo sono gli strumenti di una formazione, e ad altri termini come Fanfara, formazione fatta di ottoni e percussioni di origine ottomana, e la distinzione in ambito anglosassone fra Brass-band inglesi, composte, come le fanfare, da ottoni e percussioni, e le Wind-band che avevano anche strumenti ad ancia, oltre ad altre interessanti notizie.
Raganato poi fa una analisi storica del fenomeno che parte dall’Egitto dei faraoni e nell’antica Grecia, dove l’uso primitivo di strumenti a fiato e di percussioni era legato principalmente a due ambiti. Quello militare e quello rituale–funebre, specie per i morti in battaglia, aspetti presenti in tutto il mondo antico fino all’Impero romano e che per certi aspetti ancora resistono.
Nel prosieguo del racconto riporta l’opinione di Vessella sulle bande musicali dei popoli barbari, essenzialmente formate da strumenti atti a creare un fragore assordante che incitasse i propri soldati e incutesse paura agli avversari.
Poi passa al Medioevo, dove gruppi musicali scandivano le diverse fasi dei tornei, ma accompagnavano pure i cortei regali, e delinea brevemente una figura importante per la musica popolare, quella del Menestrello (Minstrel), musicista, cantastorie, girovago, spesso autodidatta e senza formazione specifica a livello musicale, figura caratteristica di musica e cultura popolare che, come la banda, portava musica e poesia al popolo, ed era diversa da quella del Trovatore che era più colto, conosceva la letteratura e le tecniche di scrittura ed era bene inserito nelle corti dei nobili. La carrellata sul Medioevo si chiude citando pure le fanfar delle truppe turche.
Dopo questa disamina passa ad analizzare il percorso delle bande popolari in Italia, che prendono forma come tali nel XIX secolo, partendo dalle Bande militari, le più importanti, fino alle bande locali, piccole realtà, ma non meno significative. Artefici di queste bande locali erano sodalizi come le Società di Mutuo Soccorso, le Società Operaie, gli Oratori, specie quelli dei Salesiani, che erano luoghi di incontro, cultura e istruzione quando lo Stato non riusciva a garantire questo. Queste associazioni iniziarono a occuparsi, fra l’altro, della formazione musicale di bambini e degli adolescenti delle classi popolari.
La presenza delle bande era molto diffusa e determinante fu il ruolo educativo, fortemente moralizzante, della didattica musicale che interessò tutti i ceti sociali influenzandone pure i reciproci rapporti, un po’ come le associazioni di soccorso e volontariato che pure comprendevano diverse classi sociali che, nelle operazioni di soccorso, stavano fianco a fianco.
Il ritrovarsi per le prove portava a creare rapporti umani solidi e inaspettati per le differenze sociali, ma anche a ricercare esperienze musicali nuove. Proprio questa voglia di novità portò le bande a rinnovare il repertorio, per cui si passò dal repertorio di marce militari e ballabili a un repertorio più colto, ma sempre popolare, come la musica lirica.
Nel Regno delle Due Sicilie le bande popolari erano caratterizzate da una base popolare imponente costituita da artigiani, bottegai, contadini, operai guidati da Capi-musica, provenienti dai ranghi più bassi dei corpi militari e da maestri formatisi negli ambienti religiosi o nei Conservatori napoletani.
Il sospetto che queste bande potessero essere conniventi con associazioni segrete eversive, specie dopo i moti del 1848, portò i Borboni a controllarle e a regolamentarle, cercando di inglobarle nella Pubblica Amministrazione.
Banda del Regno delle Due Sicilie
Per questo un Decreto Regio stabiliva che tutte le bande dovevano essere censite, che non dovevano indossare uniformi di tipo militare o non autorizzate, che i musicisti dovevano essere inquadrati nel corpo della guardia urbana del proprio municipio e che il Capobanda doveva avere una patente di riconoscimento con l’elenco dettagliato di tutti i musicanti della sua formazione. Per usare una divisa la banda doveva presentare un figurino della stessa, che doveva essere approvato dall’autorità, e doveva disporre di un abito nero per le ritualità funebri, di una divisa di ordinanza e di una divisa da parata.
Con l’Unità d’Italia le bande militari furono unificate e molte Amministrazioni locali cercarono di dotarsi di una banda civica da gestire con le proprie risorse. I Sindaci, oltre a promuovere le bande, dovevano controllare la moralità dei musicanti.
Secondo il Ministero della Pubblica Istruzione nel 1872 in Italia erano attive 1927 formazioni, di cui nel Meridione 429 bande e 46 fanfare per un numero complessivo di 12.532 suonatori. In questo novero non c’erano le bande non istituzionalizzate.
Figurino per una banda municipale a Spongano di fine ‘800.
Queste bande si esibivano nelle piazze e nelle ville comunali, spesso su strutture dette “Cassarmoniche”, che erano strutture in ferro o muratura a forma di padiglione o di pagoda che hanno dato origine alle attuali strutture mobili in legno che si montano in occasione delle feste patronali, strutture adorne di lampadine, ma spesso decorate con ritratti delle muse o dei musicisti come un teatro mobile.
Cassarmoniche a Trani nella villa comunale e ad Acquaviva delle Fonti
Non manca in entrambe i libri il riferimento agli orfanotrofi, che si chiamavano Conservatori, che istruivano gli orfani alla musica e poi li indirizzavano ad arruolarsi nelle fanfare e nelle bande militari. Particolare a Lecce fu l’esperienza degli Spizziotti dell’Ospizio Garibaldi che formarono una banda benvoluta e apprezzata come i loro colleghi Martinitt a Milano.
La banda dei Martinitt – Museo dei Martinitt Milano
Nel ventennio il fascismo cercò di accentrare e controllare tutto e le bande vennero inglobate nella Opera Nazionale del Dopolavoro (OND, 1925). Le bande che non si iscrivevano alla OND e i musicanti che non si tesseravano al Partito Fascista, non potevano suonare e al regime, che usava abbondantemente la propaganda; le bande servivano in molte occasioni (feste, adunate, manifestazioni…).
Con l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla poi si avviò per i più giovani un programma di inquadramento musicale da affiancare all’attività sportiva e tanti ragazzi appresero i rudimenti della musica.
Nel dopoguerra si cercò di ricostruire l’Italia e riprese stimolo anche la ricostituzione delle bande. Si crearono nuovi complessi che richiamavano le jazz band, ma anche le bande tradizionali ripresero a suonare. Importante in questo periodo fu la fondazione dell’ ANBIMA (Associazione Nazionale Bande Italiane Musicali Autonome), animata da Lorenzo Semeraro, e il ricostituirsi di Associazioni culturali, chiuse dal Regime o inglobate nel Dopolavoro, che promossero l’istruzione musicale e la formazione di bande. Negli anni ’50 e ’60 le Amministrazioni locali cercarono di rilanciare il fenomeno inteso come momento di formazione culturale, istituendo corsi musicali popolari e vennero in questo supportate da ANBIMA che propose musicanti esperti, anche se non diplomati al Conservatorio, a cui venne riconosciuto un titolo dal Ministero della Pubblica Istruzione utilizzabile per insegnare in questi corsi ad orientamento bandistico che fornivano i mezzi per conoscere la musica e per farla concretamente. Così molti giovani tornarono ad essere istruiti alla pratica musicale e a sperimentare concretamente la musica suonando nelle bande (N.d’A. A Spongano in seguito a questi corsi furono in molti ad essere avviati alla musica e 10-15 ragazzi fecero l’esperienza della banda a giornata.)
Raganato ricorda come le bande riprendono il loro ruolo con successo grazie anche a valenti direttori dal gusto e dalla cultura musicale raffinata come Ligonzo, Lufrano, Centofanti e tanti altri.
Negli anni ’70 molti musicanti studiano al Conservatorio e possono ambire a qualcosa di più, per cui si indirizzano o verso le bande militari o verso l’insegnamento nella scuola. Resistono le Bande da Giro, che impegnano i lavoratori per 100 giorni all’anno, ma si cominciano a formare Bande a giornata che si spostano lo stesso per tutto il Meridione, ma fanno una stagione meno impegnativa, intorno alle 50 giornate all’anno, mantenendo una struttura che si ispira a quella delle bande da Giro, con un organico più contenuto, ma un repertorio classico di marce e fantasie d’opera con un occhio anche alla musica moderna (Canzonieri vari).
L’altro libro, di Gregorio M. Paone e Donato M. Andriulli (La banda come strumento formativo, educativo e sociale Edizioni Efesto 2018), è meno analitico sull’excursus storico, ma pone di più l’accento sulla funzione sociale e pedagogica della banda.
Per sottolineare quanto le bande siano state importanti per fare musica, per farla conoscere e farla apprezzare, cita il metodo Orff nel quale il bambino impara la musica creandola assieme agli altri, prima con piccoli e semplici strumenti a percussione e poi approcciandosi a uno strumento vero e proprio, che può suonare in gruppo, misurandosi in una esperienza formidabile. Questo metodo didattico considera la pratica di uno strumento essenziale per l’apprendimento e ci introduce a quella che oggi, sempre più spesso, è la pratica nelle Scuole secondarie di primo grado dove, alla normale educazione musicale, si associa l’esperienza pratica supplementare con uno strumento. Viene, però, posto pure l’accento sulla banda come esperienza di vita, spendibile in tutti i campi della vita stessa, e sulla necessità di educare all’ascolto, perché solo ascoltando si può raggiungere una consapevolezza che porta a migliorare l’esecuzione. L’ascolto degli altri consente poi ad ognuno di collocarsi nella giusta dimensione ed essere parte di una esecuzione perfetta.
Nella musica d’insieme, che sia l’orchestra, una fanfara, un quartetto d’archi, un gruppo rock o la banda, ascoltarsi è essenziale. Chi suona deve saper ascoltare la propria voce e la voce degli altri, ma l’ascolto globale e analitico serve anche ad ognuno di apprezzare un brano che è sempre il contributo di più voci.
Per gli autori l’essere parte di una banda è una esperienza di vita che ti porta, già in giovane età, a maturare, a mettere in pratica la teoria, ad adattarti al rispetto delle regole e a misurarti con le difficoltà vere, al fianco di persone più esperte che ti possono guidare.
Una parte del libro è dedicata al Maestro Direttore che, specie nelle piccole realtà, era una specie di Capobanda con competenza per scrivere le parti e indirizzare i bandisti, ma con il tempo, evolvendosi la tecnica degli strumenti, la competenza dei singoli musicisti, la loro scolarizzazione e i gusti del pubblico, il suo ruolo è cambiato e ha dovuto avvicinarsi sempre più alla figura del Direttore d’orchestra.
In effetti, il Maestro, che è anche concertatore della banda, non deve tenere solo il tempo dei pezzi suonati, ma deve comunicare emozioni, interpretare la pagina stampata, ispirare i musicisti e il pubblico.
Questo hanno saputo fare i grandi Maestri del passato (Piantoni, Ernesto e Gennaro Abbate, Falcicchio…) e del passato recente (Ligonzo, Lufrano, Centofanti…), ma anche del presente (Samale, Schirinzi, Pescetti, Guerrieri, Donateo…) e non a caso molti dei nomi citati sono stati anche Direttori d’orchestra.
Quando il Maestro tocca le corde giuste, dirigendo i musicisti, nessuno resiste e si crea una sintonia che ammalia il cuore di chi ascolta e di chi suona e lo cattura per dargli balsamo di piacere.
Questa maestria i musicisti, allievi e non, la apprezzano e sarà una lezione che li guiderà nella vita.
La seconda parte del libro declina in pratica quanto descritto, cioè come la banda sia uno strumento formativo, educativo, e sociale riportando l’esperienza dell’Orchestra giovanile “P. Ragone” di Laureana di Borrello e il lavoro del Maestro Managò che, in una realtà sociale divisa dalle faide, trova nella musica un momento edificante che unisce tutti i giovani a dispetto delle inimicizie e del clima ostile. Questo sforzo sarà ripagato non solo per il risultato artistico, che porterà il giovane Concerto in tutta Italia, ma anche per i riconoscimenti ottenuti. Primo fra tutti l’interessamento di Riccardo Muti che riconosce nel lavoro del Maestro Managò, di tutti gli altri maestri di trincea e dei giovani musicisti l’impegno a costruire cultura, pace, godimento, umanità nel quotidiano e nel concreto, invitando una di queste bande, la giovane banda di Delianuova , ad aprire il Ravenna Festival nel 2006 dirigendola lui stesso.
La banda di Delianuova col Maestro Muti al Ravennafestival
Banda P.Ragone di Laureana di Borrello
Libri di nicchia forse, ma sicuramente letture interessanti e facilmente reperibili nei siti del web.
Siti da consultare sull’argomento
http://www.collezionespada.it/greci1.htm
http://www.salentoinlinea.it/index.php?option=com_content&view=article&id=3649:la-banda-qernesto-e-gennaro-abbateq-citta-di-squinzano-una-tradizione-lunga-135-anni&catid=77&Itemid=689
https://www.youtube.com/watch?v=ranv_CdQZL4
#banda di Spongano#bande musicali#Donato M. Andriulli#Emanuele Raganato#Giuseppe Corvaglia#Gregorio M. Paone#storia della banda#Libri Di Puglia#Spigolature Salentine
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Fiabe della Terra d’Otranto
Una raccolta di fiabe della Terra d’Otranto curata da Eugenio Imbriani ci arriva dal passato come uno scrigno di preziosi
di Giuseppe Corvaglia
Un libro per curiosi, vecchi e giovani, è arrivato in edicola con Quotidiano di Lecce, ma si può acquistare anche sullo store dell’editore Del Grifo. Si tratta di Fiabe e Canti dell’antica Terra d’Otranto, 8,00 euro, pp 221.
L’edizione è stata curata da Eugenio Imbriani, che ci ha abituati alle “chicche” sempre molto interessanti e ora ci regala questa raccolta, accompagnandola con un bel testo introduttivo che ci conduce nel mondo fantastico evocato da questo libro.
Il libro propone alcuni libretti di fine ‘800 e di inizi ‘900 scritti da Pietro Pellizzari e Giuseppe Gigli che raccolgono fiabe, canti e indovinelli.
Imbriani, nella sua introduzione, ci dice che i materiali sono distribuiti in maniera piuttosto disordinata, ma proprio questo rende la pubblicazione particolare e appassionante, perché la si può leggere nell’ordine dato e si può piluccare, cogliendo di fiore in fiore, senza perderne il senso e la gradevolezza. È come uno scrigno che contiene gioie preziose e la lettura è come un’avida ricerca che quei tesori ci fa scoprire, godere e ammirare.
Il primo gioiello sono fiabe per lo più note ai Salentini, perché alcune di queste fanno parte di rinomate antologie, da Calvino a De Donno a Bronzini, ma soprattutto perché molti le ricordano, in tutto o in parte, dai racconti dei loro maggiori.
Talune, infatti, emergono dalla memoria, altre si ricordano in parte, come è stato per me per quella del Ciucciu cacazzacchini; altre si incontrano per la prima volta, come per me la fiaba de lu Purgineddhru o quella dei Musceddhri, o ancora quella dei Persi, una banda di scapestrati che conquisterà il tesoro di un Regno con l’arguzia e le qualità di ognuno (uno per tutti e tutti per uno e dire che il capo era considerato un buono a nulla).
Talvolta queste storie sembrano dimenticate e talvolta sembrano nuove, ma sempre sono avvincenti ed edificanti con le loro morali, come si addice alle favole.
Una in particolare mi ha attirato, non solo per ragioni campanilistiche, poiché è ambientata nel mio paese, Spongano, e riferita all’autore da Paolo Emilio Stasi, ma perché descrive la storia di molti meridionali (e non solo), a disagio nella loro terra, avara di risorse, che porta i genitori a privarsi del necessario per mandarli lontano a farsi una posizione o a formarsi per affrontare la vita: la Scola de la Salamanca. (Mi preme chiarire che la fiera o paniri, che la fiaba attribuisce a Spongano, è la Fera de Santu Vitu di Ortelle, ma non è un errore, è che a quei tempi Ortelle e Spongano facevano parte dello stesso Comune).
Tutte le fiabe proposte sono godibili e interessanti; quelle di Pellizzari sono particolarmente preziose perché scritte in un dialetto antico, ma fluido, magico, evocativo e sono corredate anche da una felice traduzione e da note anch’esse puntuali ed efficaci. Sono note che non consentono solo di comprendere il testo, ma spiegano, agli appassionati estimatori del dialetto, l’etimo di molti vocaboli e modi di dire, parti integranti del nostro lessico. Anche le favole di Giusti sono gradevoli e pregevoli, ma sono scritte “solo” in lingua italiana.
Altro dono prezioso sono i canti che raccontano storie d’amore puro, d’amore corrisposto e d’amore contrastato, di devozione e di sdegno d’amante.
Molti di questi sono davvero delicati e struggenti, sono pregni di immagini poetiche elevate, da antologia (Conca cilestra d’oru, unica spera/ quannu te nfacci lu sule se scura/ si fatta comu fiuru a primavera,/ sì fatta cu cumpassi e cu misura./ Ca quannu fice tie, bellezza altera,/l’urtimu sforzu fice la Natura), (Ulia cu aggiu l’arte de Virgilio:/ nnanzi le porte toi nnucìa lu mare/ e de li pesci me facìa pupiddhru, /mmenzu lle reti toi vinìa ncappare;/ e de l’aceddhri me facìa cardillu,/Mmenzu lu piettu tou lu nidu a fare/ e sutta l’umbra de lu tou capiddhru / vinìa lu menzugiornu a riposare.) (Porti li musi russi comu cirasa,/ lu culure ci porti è de na rosa;/ quannu camini tie trema la casa/ Pouru amante tou, comu riposa?/ Se pe sorta iddhru vene a casa / vene cu viscia tie, pumu de rosa/ e se pe sorta se chiga e te vasa,/ dapu vasata, te pija pe sposa).
Dalla raccolta di G. Palumbo, tratta dal libro, Coloni imbacuccati in segno di lutto
Molto interessanti sono anche altri canti di argomento religioso o narrativo (Na donna me prumise le quattr’ore./ Ieu lu meschinu, me pusi a durmire./ quannu me risbigliai fora nov’ore/pensa se persi tempu allu vestire!/ Nnanti alle porte fui de lu miu amore:/ eccume, beddhra mia, famme trasisire./ Iddhra me disse: va cchianta cicore/ cinc’ama donne no pensa a durmire.) (L’amore m’à rennuttu a malatia;/ m’à rennuttu mme pigliu l’ogliu santu;/m’à rennuttu nnu ramu de paccia,/ quattru medici stane a la miu ccantu./ E lu maggiore medicu dicìa:/ figliu, ci campi, non amare tantu./ e ieu, dintru de mie, rispunnia:/ ieu vogliu amare, e poi o moru o campu ).
In “Uh ci si beddhra”, uno stornello a rime identiche, viene raccontata la storia di due innamorati che cercano un pretesto per vedersi. L’innamorato suggerisce di andare da lui per prendere del fuoco, perché lui ha pietra focaia e acciarino e se la madre dice che la ragazza ha tardato dirà che c’è voluto più tempo per accendere e se si vedono i segni dell’amoreggiare sulle labbra potrà sempre dire che è stata una scintilla. (Uh ci si beddhra! Quantu ulìa tte vasu!/ Pijate na paletta e troa lu focu:/viti ca troi a mie mpuntunatu;/ portu scarda, focile e scettu focu./ Ci mammata te dice ca hai tardatu/ dine ca nu bastai a truare focu./ Se poi te vide lu musu sugatu, / dine ca foe fusciddhra de lu focu.)
Qui il Giusti si “riscatta” e ci propone canti pregevoli in dialetto, come quelli del Pellizzari, e indica pure le diverse aree di provenienza, che vanno da Leuca alla Valle d’Idria. Sono composizioni che talvolta sono arrivate a noi come canti, (Cu l’acqua ci te llavi la matina, Oddiu quantu su erti sti pariti, Sia Beneditu ci fice lu munnu…) o come parti di canti noti (…ci era pintore ieu te dipingeria/ nu litrattu de tie me nn’ìa de fare oppure …lu latte ca te dese la toa mamma/lu teni a mmucca e no lu sputi mai…) che ritroviamo nel repertorio di canti proposti dai tanti gruppi di musica popolare, ma nella maggior parte ci restano come versi, non per questo sono meno musicali e pregevoli.
Proprio il Giusti, che aveva pubblicato le fiabe in italiano per renderle fruibili anche ai non Salentini, ci fa un dono raro, inserendo nel suo libretto una dotta disquisizione del Maggiulli sui dialetti della Terra d’Otranto.
Dalla raccolta di G. Palumbo, tratta dal libro: vecchia di Martano (1907)
Ci sono poi degli indovinelli intriganti e un’antologia di fotografie di Giuseppe Palumbo, il “fotografo in bicicletta”, che ci mostra, con dovizia di particolari, il mondo salentino dei primi anni del secolo scorso, le persone, i mestieri, i luoghi: la vita.
Popolane che attendono il passaggio del corteo nuziale (1907), sempre dall’archivio di G. Palumbo e tratta dal libro
Potete così comprendere perché ho paragonato questo libro a uno scrigno che contiene gioielli mirabili e la sua lettura al frugarci dentro per trovare le gioie più belle e rare da conservare nel cuore.
L’addobbo di una via a teorie di archi variopinti (1918-1919), dalla medesima raccolta
Qualcuno potrà obiettare che alcune di queste fiabe o di questi indovinelli o di questi canti sono già comparsi in altre raccolte, ma ritrovarli in questa pregevole edizione, è una gradevole occasione per custodirle e per soddisfare la voglia di meraviglia, le tante curiosità che abbiamo, ma anche per rievocare ricordi sopiti dell’infanzia e per meravigliare quel bimbo che, dentro di noi, non si perde, anche quando diventiamo poveri uomini che si credono celebrità e “…san leggere di greco e di latino e scrivon, scrivon e han molte altre virtù…” che non riescono a fermarsi e ad abbandonare “i rei fantasmi” e invece dovrebbero fare un bagno vivificante in questo mondo favoloso.
La mungitura all’ovile (1909), dalla raccolta di G. Palumbo
#Corvaglia Giuseppe#Eugenio Imbriani#favole salentine#fiabe#Fiabe e Canti dell’antica Terra d’Otranto#Giuseppe Gigli#ietro Pellizzari#Libri Di Puglia#Racconti di Terra d'Otranto#Spigolature Salentine
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Spongano. Un presepe di anime e terre
Presepe di anime e terre. Un presepe vivo e attuale che parla, in silenzio, di anime all’anima
di Giuseppe Corvaglia
Il Presepe di Anime e Terre, inaugurato giovedì 20 dicembre e che potrà essere visitato fino al 13 gennaio 2019, è una mostra del fotografo Francesco Congedo, ospitata nella meravigliosa cornice dell’Ipogeo Bacile che mostra sempre più la sua duttilità e la sua capacità di accogliere arte in tutte le sue forme.
Le foto di Congedo ci mostrano un mondo di anime raccolte in questa cavità che, come grembo della madre terra, le accoglie come vita.
L’evento si giova delle atmosfere sonore di Giovanni Corvaglia, musicista elettronico, curatore pure dell’allestimento e della direzione artistica, che ci accompagnano come una sorta di tappeto volante, di cuscinetto che ci sospende in un mondo nuovo, sconosciuto, eppure assolutamente familiare, noto.
Il risultato è un presepe ideale che parla dello stupore che genera una nascita, che è vita, e di un mondo che è vita esso stesso. E la vita genera sempre stupore.
Il Presepe, che nasce come rievocazione della Natività e della Maternità, ci mostra un neonato e la sua Mamma, ma ci mostra anche tanti sprazzi di vita che comprendono attività quotidiane, emozioni significanti, rapporti e dinamiche sottese.
Nella Bethlem del Presepe si incontrano le figure più disparate, dagli abitanti ai mercanti e poi ancora pastori, Ebrei che arrivano per essere censiti, curiosi che vogliono vedere il Salvatore del mondo, come i Magi. E le foto di Congedo ci restituiscono con pregevole semplicità le più variegate ed eterogenee realtà del mondo di allora riunite attorno a quella stalla che ospita il neonato Redentore, con immagini di uomini e donne contemporanei a noi.
L’artista ci mostra una umanità con molteplici interpreti, diversi per etnia, classe sociale, costumi, pure bisognosa di salvezza, che non vuole dire ricchezza o consumismo, ma la ricchezza che serve davvero anche a noi: la pace, quella pace in terra agli uomini di buona volontà annunciata dall’angelo ai pastori.
Il centro della mostra ci presenta una madre bambina con il suo piccolo e due angeli, proprio come ce la descrive il Vangelo apocrifo quando arrivano i Re Magi a Bethlem. («… Nel vedere la stella, i magi si rallegrarono di grande gioia , ed entrati nella casa trovarono il bambino che sedeva in grembo alla madre… – Vangelo dello pseudo Matteo , Cap XVI, par. 1 e 2, “I vangeli apocrifi”, a cura di M.Craveri, Einaudi 1969).
Il presepe del mondo di Congedo è fatto di commercianti che propongono la loro mercanzia con un gesto o uno sguardo, da pastori seduti in cerchio attorno al fuoco, da comari affaccendate nelle loro incombenze quotidiane o colte in un attimo di sano ozio, da piccoli che resistono nel tipico stupore dei bambini pur avendo conosciuto anche i lati più truci e oscuri della vita.
Le immagini ci invitano ad un viaggio ideale tra l’Africa e l’Asia, ma al tempo stesso ci fanno scoprire un viaggio reale, quasi palpabile, che ci mostra una umanità vera e varia che può arricchirci se la sappiamo accogliere guardandola negli occhi e riconoscendo in quegli occhi l’anima, quella scintilla di divino che ci accomuna tutti. Farci prendere dalla paura dell’altro e chiuderci all’accoglienza, ci priva di quella ricchezza.
Il viaggio evocato dalle immagini ci arricchisce e ogni personaggio incontrato diventa parte di un mondo e cattura lo spettatore che, entrato quasi in comunione empatica col soggetto raffigurato, trova difficile staccarsi da quegli sguardi, da quei gesti, da quelle pose.
Queste fotografie, davvero evocative, sono un suggestivo presepe delle anime che, con le pregevoli musiche e l’ambiente che le accoglie, ci porta a meditare sul mistero della vita.
Di questi volti impressionano gli sguardi che il reporter ha saputo cogliere nella loro essenza, capaci di coinvolgerci, accusarci, accoglierci, respingerci, rapirci … Il percorso della mostra così delineato diventa un momento di conoscenza del mondo e dell’uomo, ma diventa anche un’ occasione per conoscere sé stessi.
Particolarmente interessanti sono le sculture luminose di Gabriele Pici che, con le loro forme ispirate alla natura e le loro lucine tremolanti, ci trasportano nella placida atmosfera tipica della notte di Natale e del presepe.
Una esperienza da gustare, da assaporare in ogni sua immagine visitandola, magari, anche più volte.
#Francesco Congedo#Giuseppe Corvaglia#Spongano#Arte e Artisti di Terra d'Otranto#Spigolature Salentine
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I frantoi e i luoghi dell’olio a Spongano
Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna
trappitu ipogeo “maniju”, Spongano, via S. Leonardo
G. Corvaglia, B. Pedone, R.C. Rizzo, G. Tarantino, I frantoi e i luoghi dell’olio a Spongano
in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 369-377
ITALIANO
Questo studio, frutto di un’approfondita ricerca su fonti scritte e testimonianze orali, analizza la centralità dell’olio e dei suoi derivati nella storia di una piccola comunità del basso Salento, quella di Spongano. Partendo dalle prime testimonianze cinquecentesche, passando attraverso i catasti di fine Seicento e del Settecento e approdando infine al Novecento con le memorie degli ultimi frantoiani ancora in vita, gli autori esaminano le influenze, non solo economiche, ma anche culturali e sociali, avute sulla comunità sponganese dai frantoi e più in generale dalle molteplici attività legate all’olio e agli altri prodotti della molitura.
ENGLISH
This study, fruit of a close examination on written sources and oral testimonies, analyses the centrality of the olive oil and its by-products in the history of Spongano, a small community in the south of Salento. Beginning from the first sixteenth-century testimonies going through the end of the seventeenth century and the eighteenth century and coming finally to thetwentieth century with the last living oil pressers’ memories, the authors examine not only the economic, but also the cultural and social influences made on the Spongano community by the oil-presses and by the numerous activities connected with the oil and the other oil-press’s products.
Keyword
Giuseppe Corvaglia, Bruno Pedone, Rocco C. Rizzo, Giorgio Tarantino, Spongano, frantoi, olio
#Bruno Pedone#frantoi ipogei#Giorgio Tarantino#Giuseppe Corvaglia#Il delfino e la mezzaluna#Rocco C. Rizzo#Spongano#Paesi di Terra d’Otranto#Spigolature Salentine
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Le Panare di Spongano
ph Giuseppe Corvaglia
Le Panare di Spongano 2017: il tempo passa e la festa cambia pelle
di Giuseppe Corvaglia
Le Panare sono una festa dei frantoi di Spongano che, come festa dei frantoi, ha rischiato di scomparire ma che, diventando festa di tutta la comunità, è rifiorita da circa mezzo secolo e oggi è un evento.
Le panare sono ceste di canne tagliate a listarelle e intrecciate a una struttura di polloni di ulivo che servivano a trasportare tante cose, ma che, per l’occasione, i frantoiani riempivano di sansa con una modalità particolare tale da consentire di porre al centro della panara il fuoco.
La festa è stata sempre una gioia della comunità, anche se in origine gli unici che facevano le Panare erano i frantoi: tanti frantoi tante Panare.
E a Spongano di frantoi ce n’erano tanti, come si evince da una ricerca di prossima pubblicazione sul Delfino e la Mezzaluna, ma anche quando le panare le facevano solo i frantoiani era sempre una festa della comunità, sia perché molte famiglie del paese avevano frantoiani che in quel giorno uscivano dalla “nave”, che era il frantoio, e potevano godere della loro presenza, sia perché la maggior parte della popolazione era parte del processo di produzione dell’olio, dalle olive al frantoio.
I frantoi erano tanti e chi non lavorava nei frantoi lavorava negli uliveti per la raccolta dei frutti. Poi c’erano i “ccatta e binni”, mediatori che compravano e vendevano olive per consentire a chi non ne avesse abbastanza per una molitura di realizzare in soldi il raccolto o di completare la quantità di frutti per fare una “vascata” (4 tomoli o 160 Kg di ulive). C’era chi raccoglieva la morchia, residuo dell’olio, per rivenderla ai saponai; c’era chi nelle Saponiere ci lavorava e c’erano le famiglie che vivevano dei proventi di tutti questi lavori.
ph Giuseppe Chiarello (2006)
La festa poi consentiva per quel giorno di ascoltare musica, ballare, cantare, stare in compagnia e in allegria, sfidando il freddo e il buio dell’inverno.
Nei tempi andati oltre alle fiammelle delle Panare si allestiva anche un falò che scaldava la piazza e consentiva ai paesani di portare a casa, in recipienti di metallo o terracotta, della brace, partecipando a quel fuoco comune che rinsaldava i legami comunitari.
Intanto, tra le note dei musicanti e i balli dei giovani, le Panare si consumavano lentamente, sotto la sorveglianza dei frantoiani che “governavano” il fuoco facendolo durare anche fino al giorno dopo.
ph Adriano Rizzello (1983)
Circa quarant’anni fa ci fu la prima vera rivoluzione: un gruppo di amici realizzarono la prima Panara che non partiva da un frantoio. Era gente che nei frantoi aveva lavorato e sapeva cosa erano e come si realizzassero le Panare, le quali, con l’avvento di nuove tecnologie, diventarono più rare, come accadeva per i frantoi.
Da quel momento la panara fatta al di fuori dei frantoi fu sdoganata e paesani, gruppi di amici, famiglie, associazioni, si sono cimentate a creare la lpropria Panara, ognuno mantenendo la struttura tradizionale e addobbandola come meglio sapeva e poteva. La tradizione vuole che gli ornamenti siano combustibili, perché la panara deve consumarsi lentamente, ma deve anche bruciare completamente.
L’aumentato numero delle Panare è una bella cosa, ma porta, talvolta, a qualche inconveniente specie quando la gestione della fiamma non è adeguata: infatti se si alza troppo deve essere domata con pezzuole bagnate di acqua e se tende ad affievolirsi con pezzuole bagnate di un combustibile lento, come olio o nafta. La benzina potrebbe avvampare tutto e l’acqua sulla sansa che arde provoca un fumo denso e fastidioso. Oggi non è che l’esperienza dei conduttori delle panare sia aumentata, ma ognuno si attrezza perché nel centro della panara, al posto dello spurtiddhru, con il fuoco vivo ci siano i più sicuri lumini o lanterne che mostrano la fiamma, certamente meno rischiosi.
Dalle poche Panare di un tempo oggi se ne contano fino a 40 o 50, e qualche anno di più, disposte in uno scenografico serpentone colorato e vivace che si forma a partire dalla Casa Cranne, il Palazzo Bacile, da dove è sempre partito il corteo.
ph Giuseppe Chiarello
Nel primo pomeriggio la banda parte dalla piazza e va al citato Palazzo, dove prende la prima delle Panare e da lì andrà a prendere tutte le altre, secondo un percorso stabilito dal Comitato dei festeggiamenti e dalla Polizia Municipale.
In passato la banda raccoglieva tutte le Panare e i frantoiani pretendevano che ognuna di esse fosse accolta nel corteo con una marcetta e tutti gli onori. La bandicella che le aveva accompagnate si rifocillava alla fine del percorso nel Palazzo baronale con stuzzichini e l’ottimo vino di casa Bacile; oggi imprenditori o privati cittadini generosi apprestano dei piccoli rinfreschi in itinere.
ph Giuseppe Corvaglia (2003)
Se quarant’anni fa la gestione dell’evento era possibile con due membri del comitato e un vigile urbano, oggi necessita di una vera e propria macchina organizzativa che studia il percorso, i punti di raccolta, la gestione del traffico, col coinvolgimento anche della Protezione Civile per domare eventuali incendi.
Anche la Panara delle Scuole è una iniziativa lodevole e ormai consolidata, con il coinvolgimento delle diverse classi cittadine.
1991. Prima Panara della scuola: la acconciano Pippi “Scorcia” Rizzello e Luigi Stefano Rizzello (ph Giorgio Tarantino)
Un altro piccolo, ma significativo, cambiamento avvenne trent’anni fa quando un gruppo di amici decise di riproporre la Panara come si faceva una volta, prima dell’avvento di carri motorizzati.
Gli amici, da sempre attenti alla cultura e alle tradizioni popolari, decisero di proporre la panara ponendola su un carretto rigorosamente trainato a mano. Un altro elemento della festa sono, infatti, i mortaretti e qualsiasi bestia al loro scoppio potrebbe imbizzarrirsi con effetti imprevedibili.
La Panara partì da via Torquato Tasso, proprio da quello che era stato negli anni ’50 un frantoio della famiglia Casarano, e l’impresa riuscì grazie alla collaborazione di Arcangelo Corvaglia che allestì la struttura della Panara e di Salvatore Bramato che ci prese per mano e avviò un percorso che sembrava estemporaneo e dura ancora.
All’epoca la festa si concludeva con la deposizione delle Panare nel punto di raccolta . La banda, dopo essersi rifocillata, andava nella piazza principale e suonava ancora qualche marcetta e poi una coda fatta di ballabili con i pochi musicanti che si fermavano, ma poi la festa finiva.
Oggi la serata fredda è riscaldata dal fuoco, ma anche dal buon vino e da buona musica con un palcoscenico che, negli ultimi anni, ha visto gruppi di rango della musica salentina, ben diversa da quel rimorchio di trattore e da quei musici pieni di buona volontà, e la festa diventa una buona occasione per stare insieme all’aperto anche in una serata invernale.
Anche il piccolo rinfresco offerto dai Comitati fatto di taralli e lupini per “appoggiare” un buon bicchiere di vino nel tempo si è evoluto con aggiunta di pittule prima impastate e fritte dalle donne della Fratres, poi con la Confraternita dell’Immacolata, che alle pittule ha associato vin brulè, poi il brudinu di pipirussi e cucuzze siccate e dopo i pezzetti di cavallo…
La festa, insomma, si è evoluta, come è giusto che sia, mantenendo il connotato di festa comunitaria e diventando un evento che accoglie un discreto pubblico che di anno in anno va aumentando.
ph Giuseppe Corvaglia (2009)
Anche l’atteggiamento della Chiesa è cambiato. In passato non riconosceva questa festa, tant’è che la messa di Santa Vittoria con il bacio della reliquia era contemporanea al corteo e anche il titolo di Panare de Santa Vittoria era sbagliato, attribuito solo perché il Comitato della festa della Santa organizzava anche le Panare, oltre al fatto che parte delle Panare fra gli addobbi avesse anche una immaginetta della santa. Oggi c’è un’attenzione diversa e il parroco partecipa alla festa con una benedizione delle Panare e del fuoco.
Quest’anno il programma sarà davvero ghiotto e stimolante.
Ad accompagnare gioiosamente con la musica le Panare sarà la banda Città di Racale che alle 15,30 partirà dalla piazza per raccogliere le Panare, prima fra tutte quella di Palazzo Bacile.
Sarà presente fra le tante associazioni, istituzioni e gruppi di privati cittadini, anche l’Associazione Panara Antica con la tradizionale Panara trainata a mano e il variegato gruppo che ormai da trent’anni non manca mai all’appuntamento, così come non mancheranno partecipanti di vecchia data e giovani che per la prima volta si misurano con questa esperienza.
Il corteo si prevede partecipato e allegro con le Panare adornate al meglio con addobbi che bruceranno con esse, ma che le rendono belle come altri ornamenti e che ravvivano il carro che le trasporta.
A fine corteo, mentre le Panare si consumano riscaldando l’ambiente col fuoco, Spongano festeggerà e accoglierà gli Ospiti.
Il Comitato offrirà , come da tradizione, lupini, magari sponzati e salati nell’acqua di mare, mentre la Confraternita dell’Immacolata proporrà pittule e vin brulè, il Comitato dei Rioni proporrà patatine fritte normali e a spirale e sarà presente uno stand di carne arrostita, ma non mancherà vino buono e buona birra artigianale.
La musica che farà pulsare il cuore della festa quest’anno sarà quella degli Aprés la Classe già noti al pubblico sponganese per uno strepitoso concerto di una notte bianca rimasta nei ricordi di molti, ma prima del concerto alcuni amici e compagni di cantate renderanno omaggio a Pippina Guida con quei canti che l’hanno vista gioiosa protagonista che sarà pure un momento per ricordare quei Cantori che con lei hanno saputo restituirci un patrimonio di suoni, voci, ricordi, cuore e memoria.
La Pro loco, sempre attenta e partecipe, organizzerà un mercatino dei prodotti artigianali e locali che si prevede interessante e stimolante specie in un periodo che fa pensare ai doni.
Altra attrattiva della serata sarà una percorso multimediale curato da Ada Manfreda che valorizza foto e video provenienti da archivi o da collezioni private, che darà un’idea della festa in tutti i suoi aspetti.
Una ideale prosecuzione delle Panare sarà Il viaggio del Nachiro il 23 e il 24 dicembre, evento teatrale itinerante che ha fatto il giro del Salento e si conclude proprio nel frantoio ipogeo di Palazzo Bacile con Fabio Bacile di Castiglione, medico e scrittore, nachiru d’eccezione, che parlerà dei segreti del frantoio.
E quei giovanotti, ora un po’ attempati, che da trent’anni tirano una panara sul carretto come “somarelli”, pensando che l’esperienza sia faticosa, che possa finire a ogni anno che arriva, alla fine si ritroveranno circondati da altri formidabili giovanotti che sentono come propria l’esperienza, che la rendono viva , godendo del vino buono che sul carretto non manca, gustando le pittule e il brudino, mozzicando alli panini, assaggiando le purpette e vivendo un’esperienza autentica.
Finche dura l’avventura … ce piacere ci nci sta.
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Arriva un bastimento carico di moda, bellezza, voglia di festeggiare l’inizio dell’estate, e non solo. È la navicella glamour di Lecce Fashion Weekend, rassegna organizzata da Elisabetta Bedori e dall’agenzia “Alta Voce” che con questa edizione diventa maggiorenne.
E che per festeggiare la ricorrenza si fa in quattro, suddividendo il suo ricco programma in tre giornate e quattro eventi, presentati dalla giornalista di moda dell’emittente LA7 Cinzia Malvini, durante i quali saranno appunto moda e bellezza le protagoniste indiscusse, non solo pugliesi.
Questa edizione della sfilata vedrà infatti la presenza straordinaria in passerella della Maison Gattinoni, e nel parterre degli ospiti, oltre a molti giornalisti e blogger, anche il presidente della casa di moda romana, Stefano Dominella. “Una presenza che ci onora e che ci incoraggia a fare sempre meglio per aiutare i nostri stilisti a fare il salto di qualità”, commenta Elisabetta Bedori. “E dobbiamo riconoscere che i risultati di tutto questo grande lavoro sono ormai sempre più tangibili”.
Appuntamento venerdì 9 e sabato 10 giugno alle 21 a Campi salentina, in Piazza della Libertà, con le due sfilate che costituiscono come di consueto il cuore dell’iniziativa; domenica 11 giugno, invece, spazio a un affollatissimo Hair Event, con bagno incluso, presso il Samsara Beach di Gallipoli (inizio ore 16.30). Per chiudere in bellezza i tre giorni di festa, infine, party di chiusura presso il RioBo, sempre a Gallipoli, a partire dalle 22.
Tra gli ospiti della rassegna – che si avvale del coordinamento tecnico-logistico di Vincenzo Longo, delle coreografie e della regia di Rossano Giuppa, del coordinamento backstage di Mimmo Cionfoli e del supporto tecnico di Fabrizio Vetrugno – anche Franco Fatone, Tg2 Costume e Società; Bruna Rossi, fashion director del magazine Io Donna (Corriere della Sera); Gustavo Marco Pio Cipolla, fashion editor del Il Messaggero, Michela Zio, giornalista MFashion e talent scout per la fiera “White” di Milano; Edoardo De Giorgio, capo ufficio stampa della Maison Gattinoni.
Gli stilisti di venerdì 9 giugno per Lecce Fashion Weekend
Antonio Tarantino (Lecce)
Giorgio Corvaglia (Poggiardo-LE)
Tomeve’s (Francavilla Fontana-BR)
Michele Gaudiomonte (Castellaneta-TA)
Laura Durante (Leverano-LE)
Accademia Rosanna Calcagnile (Lecce)
L’Io Atelier (Aradeo-LE)
Gattinoni (Roma)
Premio LFW 18 a Federico Primiceri (Lecce)
Gli stilisti di sabato 10 giugno per Lecce Fashion Weekend
Antonio Franco con “Atika” (Lecce)
Maria Ancona (Locorotondo- BA)
Ivana Pantaleo con Nanaeel By Nanaaleo (Bari)
Natascha Wanvestraut (Napoli)
Antonio Martino Couture (Roma)
Emylia (Roma)
Istituto Antonietta De Pace (Lecce)
Gattinoni (Roma)
Antonio Tarantino (Lecce)
Federico Primiceri, Premio LFW18 (Lecce)
Gli hairstylist di domenica 11 giugno al Samsara Beach di Gallipoli (start 16.30)
Carlo Mascia, “I parrucchieri” (Francavilla Fontana, BR)
“Vito Lupo Parrucchieri” (Francavilla Fontana, BR)
Vincenzo Di Summa, “Il tuo parrucchiere” (Francavilla Fontana,BR)
“Marilù acconciature” (Gallipoli, LE)
Francesca Castrignanò, “Evoluzione Donna” (Copertino, LE)
“Emanuela Caputo hairstylist” (Melissano, LE)
“Amelia Veri hairstylist” (Castrì, LE)
Cristina Vozza, “Cristyle parrucchieri” (Brindisi)
Simona Valente (Ostuni, BR)
Isabella Luperto, “Isa parrucchieri” (Lequile, LE)
Gina de Pascalis, “Immagina consulenti d’immagine” (Martano, Le)
Direzione artistica di Antonio Tarantino, “AT Concept”, Lecce
Cosimo Gioia – “Gioia man care” (Francavilla Fontana, BR)
Creative make-up a cura di Giuseppe Leanza per l’ “Italian Look Maker Academy” (Maglie, LE)
Ingresso alle due sfilate gratuito, ma con invito
Ingresso al Samsara Beach libero
Ingresso al Rio Bo gratuito, ma con invito
Lecce Fashion Weekend, diciottesima edizione al via a Campi Salentina
#campi salentina eventi#eventi salento estate 2017#Hair Event#Lecce Fashion Weekend#Samsara Beach di Gallipoli
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Un sogno...di Galà Festeggiando Giuseppe Luigi Iannetti Non si è mai visto nulla di così strabiliante, come il Gran Galà che si terrà a San Giovanni Rotondo per festeggiare uno showman eccezionale: Giuseppe Luigi Iannetti. L'evento sarà presentato dalla bella Nadia Piserchia. A festeggiare i 10 anni di carriera del grande Iannetti ci saranno ospiti famosi e prestigiosi. Ci saranno gli indimenticabili Erminia Kobau, Giuseppe Soave, Gianluca Pannullo, Gino Sannicandro, da Uomini donne; Angelo Cogliati di Zelig off. Ci sarà Elena Martemianova da Sanremo 2017 eccelsa cantante; Carmen di Cristo meravigliosa ballerina dell'Accademia di ballo Toneca dance; la regina di Novara Kristal D'Urso Miss Trans 2015; Mister Baby D'Italia Antonio Bellucci. Troveremo il grande Gianni Vinciguerra, che ha collaborato come coreografo con grandi marchi, come Renato Balestra, Alviero Martini, Carlo Pignatelli, Amelia Casablanca; di concorsi nazionali come " Un volto per fotomodella","Miss e Mister Belli d'Italia","Top star Tv Moda",Patron del concorso Nazionale Miss, Mister e Baby Belebung Italia. Rivedremo con piacere un tronista di Uomini e donne 2001/2002: Emilio Savastano, ormai attore affermato. Nel 2003 protagonista nel film" The second comming" prodotto da Anubi_De Laurentis. Showman e presentatore di molti programmi su Sky. Max Bellocchio lo ha voluto come attore protagonista nel suo film nel ruolo di un Boss camorrista soprannominato "O torinese". Ci sarà pure il grande Giuseppe Grande, ideatore e direttore artistico di Sanremosol; Michele Prioletti, sublime ballerino; Giorgio Corvaglia, uno stilista leccese grandioso, direttamente da Pitti Uomo -Firenze. Incontreremo pure Immacolata Antonacci, modella e attrice; Marianna Pignatelli di Moda e Spettacolo e Collaboratrice della rivista nazionale "ORA " Daranno un tocco di grazia, eleganza e freschezza le BLACK and WHITE, le ormai famose Francoise Preira e Grazia Pignatelli, modelle, fotomodelle, ballerine, attrici e non solo... Insomma ci sono tutti gli ingredienti per una serata col botto. Davvero grandioso!
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Il tabacco raccontato con garbo in un libro di Salvatore Colazzo
Spongano (ph Giuseppe Corvaglia)
di Giuseppe Corvaglia
Per uomini e donne della mia età l’infanzia e l’adolescenza, in estate, si riempivano di frutti della terra succulenti e saporiti: fichi, meloni, uva, angurie, cucummarazzi, pomodori, persichi , albicocche… c’era però un frutto che frutto non era, anche se ugualmente una risorsa importante per le non brillanti economie salentine: il tabacco.
Il tabacco nel nostro vissuto era amico, o almeno conoscente, tiranno, ma anche speranza (quanti motorini per gli adolescenti dipendevano dalla stagione), levatacce alle quattro di mattina e mani sporche di unto amarognolo che si puliva a fatica dalle pieghe della pelle. D’estate diventava cornice alla vita del paese. In ogni angolo c’erano talaretti con le file di tabacco infilato.
Per raccoglierlo al mattino bisognava alzarsi prestissimo e quando il sole saliva nel cielo, ci si sedeva per terra all’ombra delle limese e si trafiggevano le larghe foglie con le acuceddhre per fare le file da stendere al sole. Era davvero una compagnia discreta, uno di famiglia ormai, piacesse o no, da gestire, ma anche da coccolare, da proteggere da quattru nziddhri di pioggia fugace come dalla muntura della notte.
Contadine mettono a dimora le piantine di tabacco (ph Oronzo “Oro” Rizzello)
All’epoca non avremmo pensato che sarebbe scomparso dal Salento. Molte famiglie lo producevano e molte si spostavano nel Tavoliere delle Puglie o nel Metapontino per coltivarlo.
A quei tempi la sigaretta era un piacere, un sollievo facile da ottenere per gli adulti, e un modo per sentirsi grandi, una sottile ribellione per i ragazzi.
Anche gli attori fumavano nei film, come nei caroselli pubblicitari, i vecchi e il sigaro sembravano una cosa sola e inscindibile e le bionde sigarette erano anch’esse irrinunciabili.
Gli emigrati al ritorno per le feste portavano cioccolate per i piccoli e sigarette per i grandi. Dalla Francia le sigarette erano le famose Gauloise e dalla Svizzera le Marlboro e le Muratti della Philips Morris molto diffuse anche con il contrabbando.
A raccontarlo oggi non sembra neanche vero, direbbe Francesco De Gregori, invece oggi le sigarette non sono più uno status symbol, un segno distintivo di prestigio, di sicurezza, di classe, sono viste con sospetto: sono indice di vizio, provocano ictus, malformazioni neonatali, infarti, forse anche la “guerra atomica”. In realtà è ben noto come il tabacco crei dipendenza ed è ben noto come il fumo nuoccia alla salute specie quando finisce di essere piacere occasionale e diventa ossessione, vizio, perché, come dicevano gli antichi, “Bacco, Tabacco e Venere / riducon l’uomo in cenere”.
Oggi non si fuma più nei locali pubblici, non si fuma nemmeno nei parchi, ma nemmeno in casa o in macchina. Per fumare si esce sul balcone, ci si ferma alla piazzola di sosta… l’unico posto rimasto tradizionalmente “affumicato” è il bagno delle scuole. Anche l’ONU ha istituito la Giornata senza tabacco che si celebra il 31 maggio
Da alcuni anni Tabacco nel Salento non se ne coltiva più. Non perché lo vieti il monopolio, ma perché non ne vale più la pena.
Ogni tanto qualcuno ne parla con nostalgia dimenticando cosa significava lavorarlo, quali fatiche, quali impegni comportasse, ma a me è rimasta sempre la curiosità di saperne di più, di andare oltre le cose che avevo visto con i miei occhi di ragazzo. (sappiamo che curiosità deriva dal latino “cur”, perchè)
Molti di questi perché ce li spiega un libro davvero molto interessante “I tabacchi orientali del Salento- Quattro storie e loro dintorni.” (Giorgiani Editori – Novembre 2017- 157 pag. 10 €) di Salvatore Colazzo, un agronomo di Collepasso, che con passione racconta la storia del Tabacco, dalla sua scoperta nelle Americhe al Novecent,o con l’interessante ed efficace presentazione di Mario Toma, che inquadra il fenomeno del tabacco dal punto di vista sociologico.
Il libro non è il solito libro che parla degli aspetti della coltivazione, della vita che menavano i contadini, della fatica, dei disagi e delle oppressioni, ben noti ormai, ma ci apre un mondo e ci fa conoscere il tabacco come storia, come pianta, come fenomeno di costume ed evento economico delle nostre terre e del mercato mondiale, come oggetto di desiderio e bene voluttuario.
Colazzo ce ne parla come se raccontasse la storia di un vecchio amico e nel raccontarla ci svela tanti particolari, non solo della pianta in sé, o delle fasi di lavorazione, ma anche di come si sia diffusa dal sedicesimo secolo nel mondo, del perché sia stata apprezzata e si sia diffusa in tutte le classi sociali, di come sia stata una risorsa capace di affossare o rialzare l’economia e di come la stessa pianta sia stata adattata dalla botanica e dalla genetica ai gusti delle persone.
Ci racconta storie di politica incapace che cede le armi a imprenditori avidi vampiri e storie di imprenditori coraggiosi capaci di fare scelte ardite, sicuramente utili alle proprie sostanze, ma pure capaci, con produzioni innovative, di dare pane e guadagno anche alle classi contadine.
La prima storia che ci racconta è quella di questa pianta che arriva in Europa e inizialmente viene utilizzata solo a scopi medicinali da frati erboristi per poi diventare genere voluttuario o ridotto in polvere e fiutato, o avvolto in sigari e fumato o anche appositamente acconciato e masticato.
Del tabacco si apprezza il rude sapore, ma anche il tono che dà (la nicotina è un alcaloide stimolante il sistema nervoso centrale già noto per queste virtù agli indigeni americani che lo usavano per raggiungere una condizione di trance).
Poi ci parla del tabacco salentino e si scopre che non era quel tabacco dai nomi esotici che conosciamo, ma un tabacco che si chiamava Cattaro riccio o Brasile salentino che nemmeno si fumava, ma era buono per ottenere delle ottime e pregiate polveri da fiuto, prodotto che, passando di moda il gusto per le tabacchiere, con la diffusione delle sigarette, manderà in crisi tutta la tabacchicoltura salentina.
Colazzo è molto bravo a raccontare della diffusione sempre maggiore del tabacco in tutto il mondo, dell’evoluzione dei gusti con il sopravanzare della preferenza per il fumo all’uso di tabacchi dal gusto meno forte e più gradevoli . Quindi ci racconta della grande produzione degli Stati Uniti, ma anche del progressivo affermarsi dei tabacchi prodotti nell’area dei Balcani, chiamati turchi o orientali, tali da surclassare il tabacco americano che pure aveva creato il mercato del fumo, così da essere richiesti per migliorare le miscele degli stessi prodotti americani (il primo a miscelarli fu proprio l’americano Philip Morris).
Racconta anche di come lo Stato Italiano fece propria questa produzione avocando a sé la gestione, la produzione e la vendita, creando la Privativa di Stato per il Monopolio di Sali e Tabacchi.
Ci racconta pure, però , di come col tempo lo Stato mostrò di non saper gestire bene la cosa e di come scelse di affidare a una società di imprenditori privati, chiamata Regia Cointeressata (1869), la produzione del tabacco mantenendo il monopolio della distribuzione e della vendita.
I privati cercarono di rendere efficiente la produzione combattendo il contrabbando, che per gli agricoltori era un mezzo per arrotondare i miseri guadagni, ma, essendo loro a stabilire il prezzo e la qualità del raccolto, lucrarono sul prodotto pagando il tabacco ai contadini come di seconda classe per poi usarlo nelle miscele dei sigari come di prima classe.
Questo portò un guadagno effimero perché, in realtà, fece distogliere i contadini dal produrlo e ben presto quegli stessi mezzi che dovevano portare a una maggior efficienza e guadagno diventarono la ragione di perdite per gli imprenditori stessi della Regia Cointeressata e per lo Stato, che aveva il monopolio e doveva produrre il tabacco per fare i sigari. Non disponendo della materia prima, dovette importare il prodotto dall’estero a discapito della bilancia commerciale. Come dire che a voler solo guadagnare speculando si va a perdere tutto: insomma chi troppo vuole nulla stringe.
A questo punto il Colazzo ci racconta due cose anch’esse molto didascaliche: una racconta come lo Stato riprese in mano anche la produzione rilevandola dai privati allo scadere della concessione, e di come, questa volta, investì nella scienza e nella sperimentazione affidandosi ad esperti come Orazio Comes e Angeloni, esperti e botanici di rango, che cercarono di trovare qualità più adatte alla produzione nazionale e al gusto del mercato compatibili con il nostro clima e la nostra terra.
La seconda storia parla di un pioniere deciso e lungimirante il Principe Gallone.
Con la crisi della tabacchicoltura si cercò di trovare delle nuove strade per uscirne. La Camera di Commercio di Lecce fu autorizzata a sperimentare sulla produzione di tabacco, ma si fissò sulle vecchie specie locali, finché un imprenditore illuminato, il Principe di Tricase Giuseppe Gallone, Senatore del Regno, ottenne il permesso di sperimentare nella tabacchicoltura e, collaborando con imprenditori di Salonicco, importò e produsse alcune varietà di tabacchi levantini che nel nostro Salento attecchivano bene, tanto poi da diventare colture pregiate e consentire al Monopolio di non importare più del dovuto tabacchi pregiati dall’estero e rilanciare la produzione del tabacco nel Salento. All’epoca Salonicco era un porto da dove passava quasi tutta la produzione dei tabacchi pregiati orientali perché vicino alla Erzegovina alle città come Xanti e Saluk e lì si poteva imparare la coltivazione di quelle piante e procurarsi le sementi di quelle varietà.
Sen. Giuseppe Gallone Principe di Tricase e Moliterno
L’esperimento riuscì e varietà come Erzegovina, Xanti Yaca, Perustitza e Sallucco, diventarono di casa.
Nel libro si parla ancora di altri pionieri che per migliorare la produzione ibridarono specie americane, come il Kentucky con le specie salentine contro le opinioni comuni, qualche volta irridenti, poi smentite dai risultati.
La storia si ferma alla fine dell’800. Continuare avrebbe richiesto un altro libro e questo probabilmente accadrà in un’altra pubblicazione che Colazzo saprà regalarci.
http://www.salogentis.it/2013/06/17/tabacco-e-tabacchine/
http://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/01/la-coltivazione-del-tabacco-da-fiuto-sun-di-spagna-nel-salento/
https://issuu.com/salvy/docs/i_suoni_del_tabacco/10
https://www.youtube.com/watch?v=7KV0Lir4gMI min.1-min 7
https://carmiano.wordpress.com/2017/05/30/il-tabacco-attivita-produttiva-del-secolo-scorso-a-carmiano/
#coltivazione del tabacco#Erzegovina#Giuseppe Corvaglia#Kentucky#lavorazione del tabacco#perustitza#Sallucco#Salvatore Colazzo#tabacco Brasile salentino#tabacco Cattaro riccio#Xanti Yaca#Erbario di Terra d’Otranto#Libri Di Puglia#Spigolature Salentine
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Il Canzoniere Grecanico Salentino
Tutto arriva per chi sa aspettare. Il Canzoniere Grecanico Salentino a Loano al Festival Nazionale della Musica Tradizionale Italiana delle Rigenerazioni
di Giuseppe Corvaglia
Tutto arriva per chi sa aspettare, anche il Canzoniere Grecanico Salentino.
Da anni seguo il Festival Nazionale della musica tradizionale italiana e da anni mi aspettavo venisse a questa manifestazione un gruppo di rango della musica popolare salentina.
Quest’anno, il 26 luglio, nel festival dedicato alle RIGENERAZIONI, diretto da Jacopo Tomatis che, dopo 17 anni, riceve il testimone da John Vignola, ecco che partecipa il CGS che è proprio esempio di un gruppo “rigenerato” dalle nuove generazioni: Mauro, figlio di Daniele Durante, ed Emanuele, figlio di Roberto Licci, che hanno rinnovato il gruppo non solo anagraficamente, ma anche musicalmente.
A rendere questo evento particolarmente prezioso e unico è stata la presenza di Roberto Licci (Daniele Durante era assente perché impegnato a Melpignano come Direttore artistico della Notte della Taranta) non come reliquia, ma come parte del gruppo e in quel gruppo scatenato ed entusiasta il vecchio leone si è integrato a meraviglia.
Il pezzo forte era il concerto serale che, opportunamente, è stato spostato in Piazza Italia dal Giardino del Principe, dove tanti spettatori possono stare comodamente seduti, ma non è propriamente adatto per un concerto di musica popolare salentina dove una buona parte di canti, che sono Pizziche, ti induce naturalmente alla danza, nel Salento direbbero ”te scazzica”, ed è una esperienza che se non la danzi, godi solo a metà.
Tuttavia, per gli estimatori, un momento particolarmente interessante è stato l’incontro delle 18,30 sotto le palme dei Giardini Nassiriya dove il giornalista Ciro De Rosa ha condotto protagonisti vecchi e nuovi nel racconto di una vicenda artistica e umana complessa che dura dal 1975, ma è davvero degna di essere conosciuta.
Ciro De Rosa,Roberto Licci, Mauro Durante ed Emanuele Licci ai Giardini Nassiriya
Con Roberto Licci si sono ripercorsi gli inizi quando il Nuovo Canzoniere del Salento sente di aver esaurito la propria spinta propulsiva e con Luigi Chiriatti invita alcuni giovani di Calimera, fra cui lo stesso Licci, e nasce il Canzoniere Grecanico Salentino sotto la guida ed anima vera del gruppo: Rina Durante.
Rina Durante
È il 1975 tutto quello che accade nella società è permeato di politica. C’è un’attenzione diversa alla cultura ed in particolare alla cultura popolare. Alcune avanguardie culturali riscoprono e recuperano la cultura e le tradizioni popolari e questo recupero passa attraverso una consapevolezza politica tesa a dare dignità ad una cultura considerata fino a quel momento subalterna rispetto alla cultura ufficiale.
Negli anni 50 e 60 un antropologo di rango come Ernesto De Martino, lavorando in equipe con una squadra di esperti, aveva esplorato il fenomeno del tarantismo per affermare che la ragione del disagio e della sofferenza non stava nel morso di un ragnetto o di uno scorpione, quanto nel disagio sociale delle tarantate che in quella esibizione trovavano sollievo e liberazione, seppure temporanea.
Rina Durante, intellettuale a tutto tondo e una delle avanguardie citate, capisce che la musica e i canti popolari sono stati e possono essere un veicolo formidabile per la diffusione di una cultura popolare, di una letteratura e di una poesia, di una arte e di una filosofia, di una saggezza e di un modo di raccontare la storia del popolo che fino a quel momento erano considerate subalterne ma che subalterne non lo erano affatto perché avevano una loro dignità.
Questo ha voluto dire Roberto Licci quando nell’intervista con De Rosa, ha parlato di connotazione politica dei concerti del CGS e il concetto lo si ritrova espresso con chiarezza proprio da Rina Durante in una intervista del 1979, quando dice che il recupero della tradizione e della cultura popolare in quegli anni passava attraverso una presa di coscienza politica.
(https://www.youtube.com/watch?v=SYq8aVceT3Y Canzoniere Grecanico Salentino dal minuto 22; dal minuto 29 intervista a Rina durante; dal minuto 31 una parte di Quannnu Diu fice lu munnu[1] interessante esempio di autoironia dei contadini).
Il CGS in Quannu Diu fice lu munnu Da un documentario RAI
Sono gli anni del boom economico, dell’alfabetizzazione di massa. La gente che aveva migliorato le sue condizioni spesso cercava di nascondere le proprie origini, radicate nella cultura contadina, quelle origini che ricordavano povertà, stenti e soprusi; voleva sposare il modello del benessere, del progresso, della cultura ufficiale, quello che noi oggi sappiamo essere il consumismo.
Questa realtà la scopriva bene chi si cimentava nella ricerca popolare, che spesso trovava la gente restia a parlare dei tempi andati, ma poteva pure accadere, come riporta efficacemente Roberto Licci, che il pubblico nei concerti prendesse a nocciole e mandorle i cantanti perché non cantavano Yuppi duh, canzone in voga all’epoca, e cantavano “Damme nu ricciu de li toi capelli”.
Pur tuttavia una buona parte della gente voleva riscoprire la cultura delle origini, fatta di canti e componimenti ironici ed autoironici, che strizzavano l’occhio al doppio senso, pieni di una semplice, ma gustosa allegria. Spesso questi canti erano resi più gradevoli con rifacimenti molto simili al liscio e ai ballabili. Non che il risultato fosse disprezzabile, ma se l’intento era quello di prendere coscienza della propria condizione non ci si poteva fermare all’intrattenimento.
Prendiamo per esempio, un canto popolare, riproposto sia da un noto cantante folk come Luigi Paoli (Catarineddhra ncatinata [2]), sia dal CGS (la Ceserina [3]) sono lo stesso canto in origine che parla di due innamorati in catene, ma per il Paoli le catene portata in petto da Caterina e ai polsi dall’innamorato sono catene d’amore; nella Ceserina del CGS la catena sul petto di Ceserina è d’amore, ma le catene dell’innamorato legano i suoi polsi perché lui va in prigione, lontano dalla sua bella e dalla sua vita, tradito da una infame carogna. Il canto è lo stesso, ma mentre Paoli lo edulcora in un canto d’amore il CGS lo ripropone nella sua crudezza che parla di lotte contadine, di repressione, di infamie e di prigione. Particolarmente toccante è il voto che fa il malcapitato: se il governo cambierà girerò tutto il mondo a piedi. (https://www.youtube.com/watch?v=NZ5oLsjzscA Roberto Licci con i Ghetonia)
Licci nel sottolineare la valenza politica e non solo musicale del CGS riporta a un concetto espresso bene da Rina Durante nell’intervista già citata, dove viene spiegato come il gruppo, oltre a riproporre canti popolari nei suoi spettacoli, stimolava in diversi paesi la ricerca della cultura popolare da parte di giovani.
Occorre dire che se il Canzoniere nasce dall’intuizione di Rina Durante, deve però la sua fama a un impianto vocale bellissimo dato dalle voci di Bucci Caldarulo, di Roberto Licci e di Luigi Chiriatti e Rossella Pinto, e deve pure molto al genio musicale di Daniele Durante.
Il CGS negli anni 70: da sinistra B. Caldarulo, R. Licci, D. Durante, R. Pinto, L. Chiriatti (Foto dal web www.stornellisalentini.com)
Con lui anche le canzoni popolari, spesso raccolte come prodotti essenziali, acquisiscono una gradevole eleganza. Licci ricorda come qualche purista criticasse l’impianto musicale di Daniele perché a loro dire, usava la chitarra come un clavicembalo. Non credo che questo potesse essere un male, invece a volte la riproposta filologica può anche non essere un bene, specie se interpretata con rigidità.
Oggi il Canzoniere Grecanico Salentino è davvero rigenerato, lo spirito si è adeguato ai tempi, i suoi componenti sono capaci di padroneggiare il nuovo, le opportunità che la tecnologia, il progresso e il mondo offrono; è apprezzato sui palchi dei principali festival di tutto il mondo, dal WOMAD allo Sziget al SXSW Music Festival in Texas, ma sembra ancora attento ai principi che hanno ispirato il gruppo delle origini.
Una cosa straordinaria è che l’artefice di questa rigenerazione, Mauro Durante, che nel 2007 ha ereditato dal padre la conduzione del gruppo, ha saputo coinvolgere l’altro erede, Emanuele Licci e altri valenti musicisti creando un gruppo coeso, sinergico, capace di trasmettere entusiasmo con una musica gradevole, stimolante e coinvolgente.
L’impianto vocale, che era il punto di forza del primo CGS, è ancora il pilastro del gruppo attuale che sull’amalgama delle voci, crea la sua sonorità impreziosendola con strumenti vari che rendono i canti più musicali. Anche le contaminazioni si sposano con la musica tradizionale senza snaturarla anzi arricchendola gradevolmente.
Il Canzoniere Grecanico Salentino da sinistra Emanuele Licci, Alessia Tondo, M. Morabito, G. Paglialunga, Mauro Durante, G. Bianco, Silvia Perrone
Così se la magica mistura vocale, adorna della musica degli strumenti, si associa a una energia potente, nessuno riesce a rimanere indifferente e anche chi non si lancia nel vortice delle danze, non può fare a meno di scandire il ritmo con il piede o con il battito delle mani.
I canti non sono più quelli del passato CGS e questa “rigenerazione” si dichiara già con la copertina del CD in una bottiglia di Coca cola usata per conservare la salsa di pomodoro dove la salsa è il segno di un sapere antico, comune a tutte le famiglie, e la Coca cola è il segno della globalizzazione, e questo rinnovamento lo si trova nella produzione del gruppo degli ultimi anni. La musica del nuovo CGS contiene i germi della musica popolare tradizionale, ma si apre a nuove contaminazioni e a nuovi esperimenti, come nel caso di “Taranta” scritta con Ludovico Einaudi (https://www.youtube.com/watch?v=4cG6pbwx_dw ) o di altri brani che nascono dalla collaborazione con musicisti di tutto il mondo.
Il messaggio è inequivocabile e non parla di omologazione, ma dice che si può andare nel mondo con le proprie gambe e le proprie proposte musicali mantenendo le proprie radici che sono parte integrante della propria identità.
Copertina del CD Canzoniere
Un’altra nota di attualità nella tradizione ce l’ha spiegata Mauro Durante con un interessante paragone sulla terapeuticità della pizzica. Nei tempi andati, infatti la terapia si basava su diversi elementi: la musica, i colori, l’acqua (ricordiamo per chi non lo sappia che uno dei passaggi fondamentali della terapia era la visita alla chiesa sconsacrata di San Paolo a Galatina dove i tarantati bevevano un’acqua da un pozzo che era solfurea e li faceva vomitare liberandoli e guarendoli, secondo la credenza, per l’intervento del Santo), ma il percorso terapeutico, guidato dai musici che stimolavano la danza liberatrice, era osservato e sostenuto da tutta la comunità che, discretamente, partecipava emotivamente a quella sofferenza interiore che si manifestava con l’abbandono e l’apatia e per guarire diventava sforzo fisico spossante, obbligato, estenuante e anche umiliante.
Oggi le sofferenze della psiche non mancano, si esprimono diversamente, e la musica coinvolgente, come la pizzica, unisce e può essere una sorta di terapia di gruppo dinamica che con la danza unisce e può curare tante umanità diverse.
Roberto Licci e Mauro Durante ai Giardini Nassiriya (foto G. Corvaglia)
Così se il pomeriggio ha offerto un racconto di un quarantennale percorso articolato, fatto di successi, di fatica, di addii e di ritrovamenti, ma soprattutto di musica e di sapienza antica, non è mancata la musica con alcuni brani del repertorio classico, grico con “Aremu rindineddhra”[4] , canto struggente dove un uomo lontano chiede alla rondine che viaggia per il mondo di raccontargli qualcosa della sua terra, che sicuramente avrà visitato, dei suoi genitori, dei suoi amici, e “Damme nu ricciu”, in dialetto salentino, cantato nonostante i tempi stringenti per fare il check dello spettacolo. Dono migliore non ci poteva essere, per chi era andato ai Giardini Nassiriya, di questa canzone d’amore dove l’innamorato chiede alla donna un riccio dei suoi capelli che lo fanno innamorare e che quando si muovono baluginano come il riflesso dell’ oro e poi le chiede la mano sotto una pianta di vite per restare uniti fino alla morte come due uccelli. (qui nella versione dei Ghetonia https://www.youtube.com/watch?v=W-xdpFGS1Mg o nella versione di Antonio Amato https://www.youtube.com/watch?v=0unR40RLjEs )
Si è parlato poi di Grecìa Salentina, isola linguistica, dove il griko va scomparendo perdendosene la pratica linguistica sia perché le nuove generazioni non lo parlano, sia perché il continuo rapporto con persone di comunità vicine obbliga all’uso dell’Italiano o del dialetto salentino.
Emanuele Licci ha raccontato di come gli unici posti dove si possa ancora sentire il griko siano le sale d’attesa degli ambulatori medici, frequentati da anziani che ancora parlano il griko quando si relazionano fra di loro.
La sera in piazza Italia c’ era attesa e, invero, non è stata delusa.
Le voci di Mauro Durante, di Alessia Tondo ed Emanuele Licci, i preziosi inserti musicali di Giulio Bianco, zampogna, armonica, basso, flauti e fiati popolari, e di Massimiliano Morabito all’organetto diatonico , le movenze eleganti di Silvia Perrone e la coinvolgente energia di Giancarlo Paglialunga con la sua voce e il suo “tamburieddhu”, hanno subito scaldato la piazza e anche l’evento particolare di questa serata, la partecipazione di Roberto Licci, è stata una bellissima e preziosa parte del concerto.
In questo gruppo, insolitamente rinnovato con l’antico, non si percepiva differenza generazionale e i brani non erano solo gradevoli e coinvolgenti, ma sembravano dire noi siamo questa storia che ora state ascoltando.
Molto significativa la riproposta della “Quistione meridionale”, canto memorabile scritto da Rina Durante con la musica di Daniele Durante, che con molta ironia racconta di come il dibattito sulla questione meridionale non abbia mai portato niente di buono alla gente, ma ha portato sicuramente benefici a chi ci ha speculato e ci specula sopra. (https://www.youtube.com/watch?v=eUNlnFe-rxA )
È una canzone bella ed evocativa per i termini che usa e le immagini che sceglie. Per esempio parlando delle lotte contadine non parla della violenza fisica sui corpi dei contadini, pure molto sentita, ma di una violenza ancora più feroce, come distruggere le biciclette dei braccianti, che non è solo un danno economico, ma un umiliazione perché distrugge un bene che aveva portato benessere e aveva fatto progredire. Un po’ come dire: «Straccione, torna a camminare a piedi», come quando i padroni per punizione sequestravano ai contadini la cintura: non era solo un castigo, un danno, ma una umiliazione.
Insomma una bella serata e un concerto da ricordare che ha saputo coinvolgere il pubblico toccandolo nelle corde dell’intimo, portando gioia per una musica che, uscita dai confini del Salento, diventa sempre più apprezzata grazie anche al lavoro di questo Canzoniere Grecanico Salentino.
Nota dell’autore
Per chi vuole inquadrare meglio la storia del Canzoniere Grecanico Salentino consiglio la lettura:
– dell’articolo di Luigi Chiriatti su Blogfolk Le Ricerche Sulla Musica Tradizionale In Salento – Dalla ricerca come memoria alla ricerca come affermazione del sé http://www.blogfoolk.com/2013/05/le-ricerche-sulla-musica-tradizionale.html
dell’articolo di Francesco Aprile su Folk bullettinSalento, anni 70: momenti socio-politici nelle linee di riproposta popolare http://www.folkbulletin.com/salento-anni-70-momenti-socio-politici-nelle-linee-di-riproposta-popolare/
http://www.pizzicaedintorni.it/drupal/?q=node/22
Note al testo
[1] Quannu Diu fice lu munnu è una gustosa rielaborazione di una canzone popolare sceneggiata dal CGS che racconta la creazione immaginaria dove Dio chiama le sue creature per elargire un dono. I preti si prendono mangiare e cantare. I monaci dicono pazienza e il Creatore darà loro pazienza. Gli imbroglioni non potendo avere Mangiare e Cantare né pazienza chiedono almeno le trappole per gli stupidi, gli imbrogli e Dio glieli concede, ma quando arrivano i contadini non resta niente e uno di loro sfugge la frase quasi sempre detta dai nostri padri, il “fazza Diu” che esprime rassegnazione verso le disgrazie e le avversità. Iddio li accontenta e letteralmente fa lui mandandoli a zappare.
[2] Catarineddhra ncatinata di Luigi Paoli
O Caterina mia Caterina Cara/ mmienzu allu piettu tou nc’è na catina./
Se tie la porti an piettu, ieu la portu a manu/ e tutti doi ncatenati stamu.
Amore amore crida mò la nuceddhra/ se nu la cazzi nu se pote manciare./
Ieu la cazzai e truvai na carusa beddhra/ de nome se chiamava Catarineddhra.
[3] La Ceserina versione del Canzoniere Grecanico Salentino riproposta da Ghetonia
Scinnu de le muntagne caddhripuline/ no sacciu se la trou la Ceserina./
Oh Ceserina mia Ceserina Cara/ mmienzu allu pettu tou nc’è na catena/
Se tie la porti am piettu ieu la portu a manu/ e tutti ddoi ncatinati stamu./
O giudice ci puerti la pinna a manu/ no me la fare longa la mia cundanna/
Ca no aggiu ccisu e mancu aggiu rrubbatu/ pe na nfame carogna stau carciratu/
Ca ci ole Diu cu cancia stu cuvernu/ la terra la caminu parmu parmu
O Ceserina mia, Ceserina cara / le carceri de Lecce no le sapia
Le carceri de Lecce no le sapia/ me l’aje fatte mparare Cesarina mia
Le carceri de Lecce su cruci cruci/ de lu luntanu passane l’amici.
[4] Aremu Rindineddha Traduzione in Italiano
Chissà mia rondinella/ da dove stai arrivando/quale mare hai attraversato/con questo bel tempo.
Bianco hai il petto/ nere hai le ali/ il dorso color del mare/e la coda in due hai divisa.
Seduto vicino al mare/ io ti guardo/ un po’ ti levi, un po’ ti abbassi/ un po’ sfiori l’acqua.
Chissà quali paesi/ quali luoghi hai attraversato/ dove hai costruito/ il nido tuo.
Se avessi saputo che passavi/ vicino alla mia terra / quante cose / ti chiederei di dirmi.
Ma tu nulla mi dici /per quanto io ti domandi/ un poco ti levi, un po’ ti cali/ un po’ sfiori l’acqua.
Ti domanderei di mia madre/ che è tanto amata/ che è da tanto che mi aspetta/che io giunga per vedermi.
Ti domanderei di mio padre/ di tutto il vicinato,/ e, avessi la parola,/ quante cose avresti da dirmi.
Ma tu niente mi dici/ per quanto io ti domandi,/ un po’ ti levi, un po’ ti cali/ un po’ sfiori l’acqua.
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