#Giovanni Dalle Molle
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Dramma e salvezza: a San Giacomo Apostolo l’arte del gesuita Anselmo Perri
“Nzermu. Accesa è la notte. Una biografia per immagini” è il progetto (mostra e documentario) che inaugura il 30 settembre all’Arginone. Ecco chi era l’artista-religioso di Andrea Musacci Un piccolo crotonese, un operaio del Sud più povero che cerca fortuna nelle fabbriche del Nord e vi trova, invece, Cristo. Fra le nebbie delle nostre terre e i fumi delle industrie chimiche, Anselmo “Nzermu”…
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#Anselmo Nzermu Perri#Arcidiocesi Ferrara#Arte#Bologna#Chiesa Cattolica#Chiesa San Giacomo#Don Massimo Manservigi#Ferrara#Gesuiti#Giovanni Dalle Molle#Pittura
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Ode di Giovanni Annunzio laz «pineta».
Il poema è ambientato in una pineta nella quale passeggiano un personaggio maschile ed uno femminile. Alla fine dell’ode comprendiamo come i due umani che si stavano riposando nella pineta iniziano a diventare parte della foresta.
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitío che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sìche par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
con come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.
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"La potenza del Destino: il sacrificio, la purificazione, la rinascita"
Lapo Lani legge e commenta I Promessi Sposi: Capitoli I, VIII, XIX, XXIII, XXXIV
Museo Casa Rurale di Carcente
Comune di San Siro (CO)
Sabato 28 agosto, ore 17:00
• https://m.facebook.com/carcentecasamuseo
(In caso di maltempo, la lettura verrà rinviata a sabato 4 settembre, ore 17:00.)
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«Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città [Milano], a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti». (I Promessi Sposi, Capitolo XXXI.)
Tra il 1629 e il 1633, la peste si diffuse in varie parti del nord Italia, colpendo più gravemente i territori del Ducato di Milano e la sua capitale. Dopo l'epidemia di peste bubbonica, la vicenda personale di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, i protagonisti del romanzo, cambia direzione, conducendoli al desiderato sposalizio. La misteriosa forza che produce il cambio di scena porta il nome di Destino [1], quella potenza estranea alla dimensione umana che indica, nella cultura dell'Occidente, l’esito conclusivo di una vicenda che “sta”, che “si trova” sin dall'inizio prestabilita, prefissata, necessariamente determinata secondo una successione temporale di eventi intermedi. All’origine del pensiero filosofico occidentale, sia il mondo degli dèi sia quello degli uomini dovevano sottomettersi alle leggi del Destino. Il divenire delle cose era regolato dalla “Necessità” [2], l'imperscrutabile forza che creava e imponeva il susseguirsi degli eventi secondo un ordine immodificabile, la forza da cui dipendeva il fluire della vita. Il Destino era la manifestazione, l’apparire della Necessità. La Divina Provvidenza, o semplicemente Provvidenza [3], è una forma particolare di Destino: è la determinazione da parte degli dèi, e successivamente di Dio, del susseguirsi di eventi che costituiscono il mondo delle cose, il cui fine non ha alcuna relazione con il bene dell'uomo. Il Destino e la Provvidenza sono potenze impenetrabili e indecifrabili, inaccessibili allo sguardo dei mortali.
Il concetto di Provvidenza risale alla dottrina dello stoicismo [4], secondo la quale esiste un ordine divino che governa il mondo attraverso un inesauribile andamento ciclico di distruzione e creazione, morte e nascita. Le quattro culture che hanno fondato la civiltà dell'Occidente - la cultura giudaica, cristiana, greca e latina - fin dall'origine avevano pensato che ogni nuovo ciclo di creazione, avviato per volere del Destino o della Provvidenza, potesse avvenire solo dopo il completamento del ciclo di distruzione, e che questo dovesse essere necessariamente costituito da due processi: sacrificio e purificazione.
La rinascita raccontata dall'Odissea e dall'Eneide passa attraverso i funesti e disperati viaggi che Odisseo (Ulisse) ed Enea sono costretti ad affrontare nel mar Mediterraneo, e le furenti e sanguinose guerre che i due eroi sono portati a combattere. Solo attraversando tanto caos e tanta distruzione il ciclo potrà ripartire sotto il segno della creazione e della rinascita. Il viaggio funesto, la guerra annientatrice, il caos, non sono né buoni né cattivi, sono necessari affinché il ciclo rigeneri, si riavvii.
I Promessi Sposi raccontano un particolare tipo di sacrificio: la peste, l'epidemia, la malattia funesta, quel «passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato». (I Promessi Sposi, Capitolo XXXIV.) Dopodiché il processo di purificazione trova la propria conclusione nella pioggia, il battesimo che annuncia una vita nuova: «principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che, battendo e risaltando sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; in un momento, diventaron fitti; e prima che arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie». (I Promessi Sposi, Capitolo XXXVII.) L’acqua è l’elemento di cui è imbevuto tutto il romanzo: l’acqua del lago di Como, l'acqua del fiume Adda, l'acqua dei torrenti che scendono giù dai monti e segnano il paesaggio lariano, l'acqua dei canali e dei Navigli in Milano, l'acqua che cade dal cielo lavando la peste. Nella briosa prosa di Alessandro Manzoni, la pioggia definisce un particolare tipo di materia e di sonorità, sia quando scende, sia quando battezza la terra: il ritmo forsennato dell'acquazzone che lava, l'aria guazzosa, la terra inzuppata, fangosa, infangata, molle, la meletta e la mota, la terra tutta zacchere e schizzi, tutto un fradiciume, l'acqua che sciacqua e libera definitivamente dalla peste e benedice. Odisseo (Ulisse) e Enea si purificano attraversando il mar Mediterraneo; il popolo ebraico si purifica passando il fiume Giordano prima di entrare nella Terra Promessa; Gesù si purifica nelle acque del Giordano per mano di Giovanni il Battista.
La peste e la pioggia, sacrificio e purificazione, si abbattono ugualmente sul giusto e sull’ingiusto, sul debole e sul potente, sull'indigente e sul possidente, portando a termine la misteriosa azione della Provvidenza, la quale segna il futuro e la speranza dei due protagonisti, Renzo e Lucia, personaggi anonimi e analfabeti, «gente meccaniche, e di picciol affare» [5], esclusi dalle palme e dagli allori della storia, e dalla gloria e dai premi della guerra. «Non era mai spiovuto; ma, a un certo tempo, da diluvio era diventata pioggia, e poi un’acquerugiola fine fine, cheta cheta, ugual uguale: i nuvoli alti e radi stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d’intorno». (I Promessi Sposi, Capitolo XXXVII.) Fu così che si rese necessario il promesso sposalizio, e i due novelli sposi poterono iniziare una vita nuova.
Lapo Lani Agosto 2021
Note:
[1] La parola "Destino" ha origine dalla radice indoeuropea “sta-“, da cui deriva il greco ἵστημι ("istemi"), “io sto”; e il latino “de-stinare”, forma estesa di stare.
[2] Nella religione greca antica, "Necessità" - in greco antico Ἀνάγκη, Anánkē - era la dèa che personificava il destino e lo faceva apparire, ossia l'ineluttabilità inalterabile.
[3] Provvidenza, in greco antico πρόνοια, concetto più recente rispetto ad Ananke e al Destino.
[4] Lo stoicismo è una dottrina e una scuola filosofica fondata ad Atene nel III sec. a.C. da Zenone di Cizio.
[5] Descrizione riportata nell'Introduzione de I Promessi Sposi, scritta da Alessandro Manzoni, che può essere così tradotta: «operai, e dal piccolo reddito».
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Copertina: "I Promessi Sposi. Paesaggio del lago di Como", disegno di Lapo Lani. Inchiostro nero giapponese su carta bianca. Dimensioni: cm 30x21. Anno: luglio 2021. Collezione privata.
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Caro alle Muse: Luigi Marti da Ruffano a Pallanza
di Paolo Vincenti
Il poeta salentino Luigi Marti nasce nel 1855 a Ruffano da Pietro ed Elena Manno. La sua era una famiglia della media borghesia delle professioni ma tuttavia indigente a causa dell’alto numero dei suoi componenti. Dovevano infatti pesare non poco sul magro bilancio famigliare quindici figli, come apprendiamo da alcune memorie inedite di Pietro Marti(1863-1933)[1], l’ultimo e il più noto dei suoi fratelli. Pietro infatti fu storico e giornalista, fondò e diresse molte riviste letterarie, ad alcune delle quali collaborò lo stesso Luigi. Esperto di arte e di archeologia, fu Direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini”di Lecce e nonno del famoso poeta Vittorio Bodini[2].
Altri fratelli furono: Donato, il primogenito, Giuseppe, Francesco Antonio, nato nel 1856, Maria Domenica Addolorata, nel 1858, Caterina, Raffaele, nato nel 1859, Pietro Efrem (che morì dopo 3 mesi) nel 1861. La loro fu una famiglia di letterati, a partire da Giuseppe, per il quale Pietro Marti, nelle sue memorie, ha parole di grande lusinga ed ammirazione, sebbene le condizioni di estrema povertà impedirono anche a lui di spiccare il volo verso la gloria artistica. Alfredo Calabrese, Le memorie di Pietro Marti cit., p.33.
Luigi trascorre gli anni della fanciullezza a Ruffano proprio sotto la guida del fratello maggiore Giuseppe, che però scompare prematuramente. A lui il poeta era molto legato, tanto da dedicargli la sua opera Un eco dal Villaggio. Dopo lo smembramento della famiglia (Pietro e Raffaele, per esempio, vennero condotti a Lecce in un orfanotrofio), Luigi, insieme ad Antonio e altri fratelli, si trasferisce a Maglie per gli studi ginnasiali presso il Liceo Capece e poi a Lecce presso il Liceo Palmieri, nel cui Convitto entra con la qualifica di “Prefetto di Camerata”[3], dove consegue il titolo di Dottore in Lettere. Oltre all’amore per la storia e lo scavo erudito, ha una notevole inclinazione per le arti visive, in particolare per il disegno, che però non estrinseca se non in bozzetti che restano manoscritti e nelle illustrazioni di alcune sue opere, arabescate da ornati e volute e piccoli quadrettini. L’amore per il disegno però si riflette nelle sue composizioni poetiche e nei romanzi, in cui si avverte una potenza espressiva che ha la stessa forza del colore sulle tavole pittoriche, specie nelle descrizioni paesaggistiche e degli spettacoli della natura, come dalla critica del tempo gli viene unanimemente riconosciuto. I suoi principali referenti letterari sono il Foscolo e il Carducci.
Maestro elementare a Lecce, con i fratelli Pietro e Raffaele fonda nel capoluogo nel 1884 una scuola privata, che era uno dei due ginnasi privati leccesi insieme a quello del Collegio Argento[4].
Nel 1880 pubblica una delle sue opere più apprezzate e conosciute: Un eco dal villaggio[5]. Quest’opera viene positivamente recensita dallo Stampacchia, da Nicola Bortone, ecc. “In quei versi freme l’animo e l’ingegno di un giovane, che sente profondamente gli affanni del proletariato, e li rende in una forma, alcune volte, rude, ma sempre efficace e solenne”, scrive La Direzione (probabilmente il fratello Pietro Marti) nelle note biografiche del libro Il Salento[6]. L’opera è dedicata “alla memoria di mio fratello Giuseppe morto giovanissimo vissuto a bastanza per conoscere e patire”. Raccoglie poesie di alto impegno civile, in cui l’autore affronta temi come le raccomandazioni, i debiti contratti con gli usurai (“L’obligazione”), la prostituzione minorile, le sperequazioni della giustizia che si dimostra debole con i forti e forte con i deboli (“Ladro di campagna”), il riposo del contadino (“Il villano”). Nell’Introduzione, “A chi legge”, scritta dallo stesso autore, Marti fornisce dei cenni esegetici della propria poesia, alla quale è dedicata la liminare lirica della raccolta (“Alla Poesia”).
Egli è anche un apprezzato giornalista ed assidua è la sua collaborazione ai giornali diretti dal fratello Pietro Marti; in particolare la sua firma compare spesso su “La Voce del Salento”, insieme a quella dell’altro fratello, Raffaele, storico e scienziato, col quale condivide gli interessi eruditi[7]. La musa della poesia invece lo accomuna al fratello Antonio, autore di pregevoli opere liriche[8]. Nel1889, pubblica La Verde Apulia[9]. Nella raccolta, che si compagina di dodici sonetti, insieme ai versi, sono presenti molte note archeologiche, geografiche e storiche, sui luoghi che via via i componimenti toccano, e inoltre disegni illustrativi di mano dello stesso autore, sicché questo libro può essere considerato una summa del talento e delle conoscenze del Nostro. Canta di Leuca e del suo Faro, di Otranto, “Niobe delle città marittime”, di Maglie, dove erano sepolti un fratello ed il padre, di Lecce, “l’Atene delle Puglie”, di Brindisi, con le sue vestigia romane e il suo porto a testa di cervo, di Taranto, di Gallipoli, “molle Sirena’ del mar Jonio”, dei grandi personaggi che hanno illustrato il Salento, come il Galateo, Liborio Romano, Giuseppe Pisanelli. Sono versi che dai critici vengono accostati al Byron e al Foscolo per la loro vigoria ed icasticità.
Nel 1889 pubblica un’altra raccolta poetica, intitolata Liriche[10]. Nella prima pagina è riportato il titolo della Prima sezione, ovvero Odi (Strofe libere), con alcuni versi in epigrafe tratti dalle “Egloghe”(IV) di Virgilio: paulo maiora canamus. Si tratta di componimenti di carattere civile, dall’intonazione sostenuta, che si rivolgono ai principali protagonisti della scena pubblica italiana dell’epoca, a cominciare da Umberto I di Savoia, cui è dedicata l’esordiale lirica, occasionata dall’epidemia di colera che si verificò nel 1884, passando per Victor Hugò (“Nel giorno della sua morte”), Garibaldi (in “Monumento a Caprera. Visione”), e Giosuè Carducci, cui è dedicata “Per i caduti in Africa”. Seguono liriche di argomento salentino, dedicate a Castro, ai Martiri di Otranto, et alia. Si apre poi la seconda sezione, Sonetti, fra i cui versi compaiono ancora personaggi di spicco dell’Italia postrisorgimentale, Garibaldi, Giuseppe Libertini, Giovanni Prati, ma anche personaggi ai quali l’autore si sente evidentemente consentaneo, come Giulio Cesare Vanini, che omaggia con due poesie, Antonio De Ferrariis Galateo, Liborio Romano e Giuseppe Pisanelli.
Accanto alle opere poetiche, produce opere di erudizione varia e disparati argomenti, come Ricordi delle conferenze del R. Provveditore agli Studi Francesco Bruni sulla Ginnastica Educativa, stampata a Lanciano, presso Rocco Carraba, nel 1881, in cui riprende le conferenze tenute dal Provveditore agli Studi della Provincia di Lecce Bruni, che in apertura di libro gli scrive una lettera gratulatoria. Fra le altre opere: Umberto I di Savoia, che è una lunga lirica al Sovrano (nella copia conservata presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, sulla prima pagina è scritta una dedica, di mano dell’autore: “Al chiarissimo Dottore Gaetano Tanzarella per stima ed affetto”)[11]; e poi ancora A Vittor Hugò[12], L’Africa a Giosuè Carducci[13], Manfredi nella Storia e nella Commedia dell’Alighieri,[14]Umberto I e la Verde Apulia[15], Manfredi nella Divina Commedia: Conferenza[16], Bonaparte e la Francia: nella mente e nelle opere di Ugo Foscolo[17]. Per motivi di insegnamento da Lecce si trasferisce a Pallanza, in provincia di Novara, dove si sposa e comunque non interrompe la sua attività letteraria.
Nel 1891 esce Un secolo di patriottismo[18]. Nel 1896 è la volta di Il Salento. Poemetto lirico[19]. Questa sua fatica letteraria è pubblicata nella collana “Il Salotto Biblioteca tascabile”, edita da Salvatore Mazzolino e diretta da Pietro Marti, il quale in Appendice scrive delle Annotazioni in cui commenta i vari sonetti con approfondimenti storici e cenni di critica letteraria. Si tratta di un excursus storico sull’antico Salento, scritto in versi: l’autore tocca le città di Lecce, Brindisi, Taranto, Otranto, evocando le antiche vestigia e la gloriosa storia di queste città, e non mancano riferimenti a personaggi illustri del passato quali Vanini, Liborio Romano e Galateo.
Nel 1902 pubblica il poema Dalle valli alle vette Cantiche[20]. La copia conservata presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, reca sull’antiporta una dedica autografa dell’autore a Cosimo De Giorgi, mentre la dedica a stampa recita: “A te che mi aleggi d’ intorno”. In epigrafe, subito dopo la dedica, è scritto: “Ho cercato alla profonda quiete delle valli, alla pura sublimità de le vette, il vigore necessario a spogliarmi delle vecchie consuetudini ed aprir l’anima a la nuova fede. Nelle Cantiche che pubblico, si riflette, con le impressioni della natura e della vita, il divenire della mia coscienza”. E la raccolta infatti si apre con “La mia arte”, quasi manifesto programmatico della poetica dell’autore. Il poema è diviso in sezioni: Valle Ossola, Valle Anzasca, Pestarena, Macugnaga, Ascensione, Tra i ghiacci, Valle del Mastellone, Riti e costumi, Valle Canobina, Emigrazioni, Valle Diveria, Ancora in alto, Inno alla natura, per un totale di 68 liriche.
Altre opere creative sono: Conflitto d’anime (Romanzo) e Verso Roma (Nuove cantiche), sulle quali non abbiamo ottenuto ancora riscontri. Inoltre scrive Orazioni, Discorsi, articoli, pubblicati in riviste e volumi miscellanei.
Da Pallanza, per motivi di lavoro, si trasferisce a Salerno, dove muore prematuramente all’età di 56 anni[21]. Questo, appena tracciato, è solo un primo parziale profilo bio-bibliografico del poeta di origine ruffanese, in attesa di ulteriori doverosi approfondimenti.
Note
[1] Alfredo Calabrese, Le memorie di Pietro Marti, in “Lu lampiune” n.1 Lecce, Grifo, 1992, pp.27-34.
[2] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933) esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri: Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138); Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188; Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64; Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico, Galatina, Congedo, 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti, in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15; Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234;Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7;Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante, pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185; Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia 35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.
[3] Aldo de Bernart, Il Salento nella poesia di Luigi Marti, in “Nuovi Orientamenti”, Gallipoli, marzo-aprile 1984, n.85, p.25.
[4]Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.34.
[5] Luigi Marti, Un eco dal villaggio, Lecce, Tip. Scipione Ammirato, 1880.
[6] Luigi Marti, Il Salento. Poemetto lirico, Taranto, Mazzolino, 1896, p. 4.
[7] Raffaele Marti (1859-1945) fu autore di moltissime opere, quali: Foglie sparse, Taranto, Tip. Spagnolo, 1907; Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri, Lecce, Tip. Conte, 1913; Le coste del Salento Viaggio illustrativo, Lecce, Tip. Vincenzo Conte, 1924; Lecce e suoi dintorni. Borgo Piave, S. Cataldo, Acaia, Merine, S. Donato, S. Cesario ecc., Lecce Tip. Gius. Guido, 1925. L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931. Su Raffaele si rinvia a Paolo Vincenti, Un letterato salentino da riscoprire: Raffaele Marti in “Il Nostro Giornale”, Supersano, giugno 2019, pp.41-43.
[8] Fra le opere di Antonio Marti (1856-1935): Povere foglie, Lecce Tip. Editrice Sociale- Carlino, Marti e Cibaria, 1891, e Scritti vari –Novelle e Viaggi, Intra,Tipografia Bertolotti Paolo e Francesco,1893.
[9] Luigi Marti, La Verde Apulia Lecce, Stab. Scipione Ammirato, 1885.
[10] Idem, Liriche, Lecce Tip. Garibaldi, 1889.
[11] Idem, Umberto I di Savoia, Lecce, Editrice Salentina, 1884.
[12] Idem, A Vittor Hugò, Lecce, Editrice Salentina, 1885.
[13]Idem, L’Africa a Giosuè Carducci Lecce, Stab Tipografico Italiano, 1887.
[14] Idem, Manfredi nella Storia e nella Commedia dell’Alighieri Lecce, Tipografia Salentina, 1887.
[15] Idem, Umberto I e la Verde Apulia, Lecce, Editrice Salentina, 1889.
[16] Idem, Manfredi nella Divina Commedia: Conferenza, Lazzaretti, 1889.
[17] Idem, Bonaparte e la Francia: nella mente e nelle opere di Ugo Foscolo, Pallanza, Tipografia Verzellini,1892
[18] Idem, Un secolo di patriottismo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891.
[19] Idem, Il Salento. Poemetto lirico, Taranto, Mazzolino, 1896.
[20] Idem, Dalle valli alle vette Cantiche, Milano, La Poligrafica, 1902.
[21] Aldo de Bernart, op.cit.,p. 26.
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MALVA SYLVESTRIS
Storia, miti e leggende
Il nome della malva che anticamente era anche chiamata "Omnimorbia" (cura per tutti i mali) viene fatto derivare dal latino mollire - ammorbidire - e testimonierebbe di come, fin dall'antichità, se ne conoscesse ed apprezzasse la spiccata virtù emolliente.
Essa si usa sia internamente che esternamente, in tutti i casi di irritazione ed infiammazione: le foglie e i fiori sono ricchi di mucillagini ed agiscono, infatti, da lenitivi e calmanti.
I filosofi della scuola pitagorica la ritenevano una pianta sacra, tipicamente solare,
emblema di saggezza e punto d'incontro tra il mondo celeste e quello terreno.
Per queste ragioni, si astenevano dal consumarla come verdura, convinti che questa scelta avrebbe potuto agevolare il loro processo di liberazione dal ciclo delle rinascite (credevano alla teoria della reincarnazione).
Era abitudine sotterrare rami di malva in prossimità delle stalle, con l'intento di proteggere il bestiame da incantesimi e malefici.
Un potente talismano da tenere a contatto del corpo era costituito da un pezzo di radice essiccata, avvolta in un panno di colore scuro.
Nel Medioevo un test molto in auge per verificare la fertilità femminile consisteva nell'innaffiare una pianta di malva con l'urina di una donna. Se dopo tre giorni la pianta appariva piena di vitalità, il responso era favorevole, al contrario, l'appassimento decretava la sterilità della donna.
Nel linguaggio dei fiori, la malva simboleggia l'amore materno e la mansuetudine.
Sin dall’ antichità la malva era conosciuta per le sue molteplici qualità:
i Greci la chiamavano “Malachè”, parola associata a “molle”, riferita alle qualità emollienti della pianta.
Furono gli antichi Romani a chiamarla Malva, con riferimento al verbo mollire, sempre per le qualità emollienti e calmanti proprie della pianta.
La malva si trovava spesso seminata accanto ai sepolcri, per donare pace e serenità ai defunti.
I poeti latini ne decantavano la dolcezza dell’aspetto, ma il succo della malva Marziale lo usava anche dopo una serata di orge e libagioni.
La pianta intera era considerata sacra e cara agli dei e serviva come efficace rimedio generico per le umane passioni legate alle svariate forme del vizio.
Plinio raccomandava gargarismi con latte di capra bollito assieme a delle foglie di malva, per la cura del mal di gola. Cicerone era ghiotto dei suoi germogli…
Anche Carlo Magno la fece coltivare, usando la pianta completa (radici, fiori e foglie) per molteplici e salutari preparazioni oltre all’ abbellimento delle aiuole.
Anticamente si usava anche per la cura del mal di stomaco dei cavalli ed era considerata pianta magica perché “omnimorbia” che significa curatrice di tutti i mali.
La “Tisana dei 4 fiori” composta da malva, farfara, rosolaccio, piede di gatto, verbasco, altea e viola mammola è famosa per le qualità calmanti ed antinfiammatorie, potenziate dalla sinergia delle altre piante componenti la miscela.
Curiosità
Si dice che San Biagio vescovo a Sebaste, in Armenia, venne imprigionato, e durante la sua prigionia si narra che egli avrebbe prodigiosamente liberato un bambino da una spina o lisca conficcata in gola, usando un preparato a base di olio d’oliva contenente malva ed altre piante. Venerato tanto in Oriente che in Occidente, il 3 febbraio, giorno della sua festa è diffuso il rito della “benedizione della gola”, fatta poggiando sulla gola stessa, fino a toccarla, due candele incrociate benedette il giorno prima (Candelora) ed anche con l’unzione mediante olio d’oliva benedetto, sempre invocando la sua intercessione.
L'acqua profumata di san Giovanni Battista
Ginestre, papaveri, fiordalisi, petali di rose canine e di rose coltivate, caprifogli, foglie profumatissime dell'erba di santa Maria, menta, iperico (chiamato anche erba di san Giovanni che ha proprietà paragonabili ad alcuni psicofarmaci), mazzi di sambuco, garofanetti, trifoglio, ranuncoli, lavanda, camomilla matricaria, timo, mentuccia, malva e foglie di noce.
La sera della vigilia della nascita di san Giovanni Battista, festeggiato il 24 giugno, nelle campagne umbre è ancora viva la tradizione di preparare un'acqua profumata con le corolle dei fiori, un'acqua a cui si riconosce il potere di preservare dalle malattie. L'acqua viene usata la mattina del ventiquattro per lavare il viso, le braccia o tutto il corpo.
Un rito misterioso, sacro, che viene tramandato di generazione in generazione come usanza familiare e a volte collettiva.
Anche i bambini vengono immersi nel bagno profumato che ha trattenuto i principi attivi delle piante lasciate a macerare, compiaciuti di riportare sulla pelle un delicato profumo e di aver partecipato all'inconsueto rituale.
Le straordinarie proprietà salutari sono attribuite dalla tradizione agli influssi benefici che l'acqua, arricchita dai petali di decine di fiori esposti all'aperto (alla serena), riceverebbe durante la notte sacra di San Giovanni Battista attraverso la rugiada (o guazza) caduta dal cielo. La notte in cui, secondo gli antichi, si celebravano le nozze tra il sole e la luna.
Malva nella tradizione celtica
Un mazzo di malva era raccolto dai Celti la vigilia di San Giovanni. Con questo mazzo poi toccavano i parenti, gli amici, le persone a loro care per trasferire su di loro l’essenza protettiva della pianta che poi veniva bruciata in un falò per aumentarne la potenza.
«Ora, prima che il sole si avanzi, col suo occhio fiammeggiante a rallegrare il giorno e ad asciugare l’umida rugiada della notte, questo paniere di vimini deve esser pieno di erbe velenose e di fiori dal succo prezioso.» (Frate Lorenzo in Romeo e Giulietta–W. Shakespeare) e anche in questo passo si parla della notte antecedente al giorno di San Giovanni…
Con la malva si preparava altresì un efficace unguento protettivo che si pensava allontanasse il demonio (da notare anche in questo caso, il potere dato alla malva come repellente di un altro modo di presentarsi del “male”…) : immergere foglie e boccioli di malva in un grasso vegetale (olio) e quindi filtrare. Strofinato sulla pelle questo unguento allontana il diavolo e protegge contro la magia nera.
Con tre parti di malva e quattro parti di burro, si preparava un efficace unguento antirughe chiamato “unguento della foglia santa”. Si faceva bollire la malva assieme al burro fino all’assorbimento di tutto il liquido. Questo unguento si spalmava alla sera, prima di dormire, sulla pelle pulita e si dice avesse un effetto molto efficace per distendere le rughe ed ammorbidire la pelle secca.
La malva anticamente era usata anche per sapere se le fanciulle erano vergini o meno: alla fanciulla veniva richiesta una minzione sulla pianta, se la pianta seccava la fanciulla non era più vergine.
#accademiale5sinergie
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Pizzo Redorta
L’ascesa dal Canale Tua
Il Pizzo Redorta (3038 mt) è uno dei tre tremila della Alpi Orobie. La sua parete est si eleva sul lago di Coca e insieme al Pizzo Coca ( 3050 mt) e la Punta di Scais (3038 mt) forma un vero e proprio anfiteatro di vette noto come la “Conca dei Giganti”.
Il canale Tua, celebre per la sua caratteristica forma a S e la sua strozzatura, è forse l’itinerario più ripetuto per salire al Pizzo Redorta, con la discesa verso il rifugio Brunone e poi, nella valle di Fiumenero, la bellissima ma faticosa traversata in ambiente totalmente suggestivo; il canale racchiude davvero una stupenda salita che con i suoi salti tecnici ghiacciati regala degli scorci unici sul Pizzo Coca, la cui cima viene incorniciata dalle pareti del canale.
Saliamo al bivacco invernale del Rifugio Coca sabato 8 Dicembre lungo il ripido sentiero che si inerpica sopra il paese di Valbondione. Lasciamo gli zaini al rifugio e procediamo veloci e leggeri per una rapida ricognizione al lago di Coca per verificare le condizioni del canale: lungo la via incontriamo un alpinista solitario che ci rivela che la neve molle non gli ha permesso di salire sulla Ovest del Pizzo Coca. Ci salutiamo e, dubbiosi, continuiamo a camminare, ma, in effetti , dopo il lago cominciamo ad arrancare e a sprofondare nella neve fino alle ginocchia. All’attacco del canale non sembrano essere presenti degli accumuli di scariche e decidiamo che il giorno seguente avremmo provato a salire almeno fino al primo salto: da questo punto avremmo potuto tornare sempre indietro. Ci rimettiamo sulle nostre tracce, scavando bene nella neve per facilitare la salita della mattina successiva. Intanto tramonta il sole e la magia scende intorno a noi, mai abbiamo visto un cielo dalle stelle tanto luminose .
Al rifugio incontriamo l’alpinista di prima, così ci presentiamo. Paolo sfoggia un curioso fornelletto fai-da-te, costituito da due lattine riciclate e che brucia alcol: semplice, leggero ed economico. Noi per risparmiare peso abbiamo solo cibo freddo, così il nostro nuovo amico ci prepara un ben più appagante pasto caldo. È bello parlare con lui: ci racconta delle sue avventure in montagna e ci svela qualche trucchetto per la salita di domani. Ben presto, però, è ora di provare a dormire.
La sveglia suona e ci costringe a metterci in cammino. Anche Paolo parte con noi: proverà a salire il canale centrale della Fetta di Polenta, altra cima dal nome bizzarro vicino al Pizzo Redorta
Arriviamo all’attacco del canale che è ancora buio. Dopo un primo largo pendio il canale si stringe, incassandosi nelle pareti incrostate di neve. Poco dopo ci imbattiamo nel primo salto che ci si presenta ben ghiacciato, così decidiamo di continuare. Giovanni sgattaiola fulmineo e io lo seguo: dall’alto cominciano a cadere delle piccole slavine di spindrift.
Il secondo salto si presenta come una modesta parete ghiacciata e preferiamo legarci. Comincio a salire e piazzo due sicure viti da ghiaccio in cui rinvio la corda; senza volere, però, non noto la sosta con cordino sulla parete di destra, come poi mi riferirà Gio, e finisco per salire anche il terzo risalto, al di sopra del quale dovrei trovare una sosta con cordino. La parete però è incrostata di ghiaccio, ma una bella colata di ghiaccio mi permette di piazzare altre due viti da ghiaccio con cui fare sosta e recuperare il mio socio. Saliamo, poi, l’ultima parte del canale verso la Bocchetta di Scais, dove le pendenze si fanno più accentuate e la neve molle ci fa sprofondare ad ogni passo. Faticosamente raggiungiamo l’uscita del canale, dove un vento impetuoso ci costringe a decidere di scendere subito in direzione del rifugio Brunone per la via normale, senza percorrere l’esposta cresta che conduce in vetta al Redorta.
In più, da quel punto in poi ci aspettano “solo” cinque ore di discesa verso Fiumenero. Dal rifugio Brunone la vista è davvero spettacolare e riposiamo per poco tempo le gambe stanche. Ora seguiamo un sentiero che per ripidi tornanti raggiunge la valle di Fiumenero: questo piccolo paese è distante cinque chilometri da Valbondione, dove abbiamo lasciato la macchina. Dopo diversi tentativi di autostop cominciamo davvero a credere che ci toccherà camminare anche questa distanza, ma ecco che si ferma una vecchia Fiat Punto: Arturo, un simpatico vecchietto di Valbondione, ci accoglie. Ci racconta che, pur essendo nato in montagna, non ha potuto mai frequentarla perché ha dovuto da sempre lavorare per cantieri in giro per l’Italia. Così, quando gli diciamo di provenire da Modena, gli si accende dentro un piacevole fiume di ricordi che ci accompagna fino alla macchina. Che weekend!
Luca Franchella
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
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Dentro l’arte di Enrico Piras, l’incisore mitologico. Come Giovanni Pascoli, Mario Luzi, Paolo Volponi
Ci sono delle patrie poetiche che attengono al mondo dell’incisione, la quale ha una stretta correlazione con la scrittura in versi. Ci riferiamo a quella tecnica in cavo nella matrice di metallo che può essere incisa direttamente (bulino o puntasecca), oppure mediante acidi (acquaforte, acquatinta, cera molle). L’inchiostro penetra nei solchi creando un distintivo, un marchio d’arte. Un incisore e pittore di livello, Enrico Piras (nato a Sassari nel 1931, dopo la laurea in Lettere fu a contatto con illustri personalità tra cui Joyce ed Emilio Lussu), ha fatto di Olzai, un paese sardo in provincia di Nuoro, il suo universo granitico nel piccolo anfiteatro a ridosso della montagna, una specie di villaggio perso in una rifrazione come tante altre nella relazione profonda alla radice del sentire (senso e sentimento del luogo). Le sue incisioni sono architetture naturali tra posti impervi in pietra, case, scalette, campane, vegetazione, alberi, cespi, inquadrature viste dalla finestra delle abitazioni dei contadini. Come ha scritto Manlio Brigaglia, Enrico Piras ha avuto il “dono dai suoi dei”: non solo portare appresso il suo borgo (nel rione Drovennoro), ma continuare ad abitarlo dall’infanzia e dalla giovinezza, dando dunque una figurazione alle cose inalterate nel tempo e nello spazio. Di queste incisioni colpiscono le stradine periferiche che potrebbero delineare il riquadro di qualunque secolo, un passaggio stretto verso il bosco millenario, i viottoli medievali, scorci poveri e per lo più di esterni (raramente di interni domestici). La vernice molle e l’acquatinta ricreano le nevicate d’epoca in un orizzonte storico e geografico di questo microcosmo isolano: una vera e propria terra elettiva.
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Un lavoro di Enrico Piras, “Scala di granito” (acquaforte, 2005)
Enrico Piras, allievo di Carmelo Floris e Staney Dessy, è certamente ispirato da quelle stesse intenzioni con cui Vittorio Sereni, scrivendo ad Attilio Bertolucci, affermava che avere una patria poetica significa essere sovrano, sentenziando così il massimo risultato. La stessa cosa diceva Franco Scataglini, il dialettale di Ancona, ormai un classico del Novecento: “È dove vivi ogni giorno e ciò di cui vivi che costituisce con il tuo corpo la tua identità profonda”. Elisabetta Pigliapoco nel suo libro Patrie poetiche (peQuod 2010) ha attraversato i luoghi della poesia contemporanea coadiuvata dalle relazioni critiche di Alberto Casadei, Roberto Galaverni e Gualtiero De Santi (tra gli altri). Tornando ad Enrico Piras, si intuisce facilmente che esiste una poesia di gesti e una poesia di immagini, che il linguaggio della parola non è il solo con cui determinare una ricerca storica, la dolcezza di una realtà paesaggistica, così come lo stato d’animo che rappresenti e interpreti il proprio mondo, o meglio la coniugazione io-mondo. Piras è mitologico come Giovanni Pascoli, Mario Luzi, Paolo Volponi. L’esperienza dell’incisore non vuole dare rilievo ad un particolarismo riduttivo, ma essere fonte di un’idea che tutto ciò che sfugge alla connotazione determinata dal luogo conosciuto è anch’esso una misura assoluta nel mistero dell’esistere materiale e culturale, antropologico: un vissuto che gravità appunto in un’identità come fosse possesso, prodigio da ammirare nella grande memoria dell’Italia, lontana però da questioni di carattere sociale e politico, da un’ideologia allusiva, da un conflitto regionalistico. Le incisioni di Enrico Piras sono una produzione virgiliana, sovrastorica e dunque fuori dalla cronaca di oggi, immerse fatalmente in un territorio romantico.
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L’incisore, seguendo una sua toponomastica, non si chiude nel borgo, ma apre una via simbolica con le coordinate prive di misure o confini, quasi che la geografia specifica racchiuda anche una bussola per orientarsi in un anfratto iniziatico trasformato in canto, in godimento per la terra madre, in una verità fatta di illuminazioni, di abitudini umane nei casolari e dietro ai cancelli di quelle casupole dai tetti bassi o in quegli stabili innalzati verso il cielo, con i soffitti altissimi. Siamo ad Olzai, ma potremmo essere ovunque a raccontare un paese poetico: nella Langa di Cesare Pavese come nella Maremma di Mario Luzi, perché ogni escursione assomiglia ad un’altra, come ogni fusione tra natura e luogo urbano, nell’unicum della sacrale contrada affacciata dietro un cipresso o una quercia. La peculiarità espressiva è pertanto una partitura fitta di segni che fluiscono, nel vaso comunicante tra incisione e poesia, in un’area solo all’apparenza ristretta. Involontariamente Piras ci romanda allo stesso Gabriele D’Annunzio “passeggiatore” nel suo Abruzzo aspro e roccioso che assomiglia molto, in quel santuario d’amore en plein air, al territorio sardo nei dintorni di Olzai. Tecnicamente, l’opera è ben descritta da Nicola Micieli che parla di “gusto per la composizione a larga stesura cromatica”, nonché del senso della dispiegata luminosità nella materia pittorica, “che trova argine e salda disciplina nel disegno che definisce l’impianto visivo”.
Alessandro Moscè
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from pangea.news http://bit.ly/2HvXDSo
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IL CENSIMENTO DEI ROM E’ UN ATTO RAZZISTA? A SINISTRA SI INDIGNANO MA A SCHEDARE I ROM HA INIZIATO LA REGIONE EMILIA ROMAGNA E IL COMUNE DI MILANO BY PISAPIA INTENDEVA CENSIRE LE POPOLAZIONI ROM - DA ANNI LA CROCE ROSSA E ALTRE ONLUS INSISTONO SULLA NECESSITA’ DI AVERE DATI CHIARI SULLE COMUNITA’ NOMADI PER CONTRASTARE IRREGOLARITÀ E ILLEGALITÀ
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Francesco Borgonovo per “la Verità”
Com'era prevedibile, tutti sono partiti in quarta. C'è chi ha gridato al razzismo, chi ha tirato in ballo le «leggi speciali», chi ha ricordato l'Olocausto e chi si è trincerato dietro una cortina di sdegno. Il commissario europeo Pierre Moscovici ha definito «scioccanti» e «raggelanti» le parole di Matteo Salvini a proposito dei rom.
Due giorni fa, durante un intervento a Telelombardia, Salvini ha dichiarato: «Al ministero mi sto facendo preparare un dossier sulla questione rom in Italia, perché dopo Maroni non si è fatto più nulla, ed è il caos». Poi ha aggiunto: «Vedremo di capire come si può intervenire facendo quello che all' epoca fu chiamato "censimento" e apriti cielo Chiamiamola anagrafe, chiamiamola una situazione, una fotografia per capire di che cosa stiamo parlando». Che cosa c' è di scandaloso? Forse l' utilizzo del termine «censimento», che pure Salvini ha preso con le molle?
Secondo qualcuno, censire la popolazione su base etnica sarebbe incostituzionale. Molti hanno fatto riferimento a ciò che avvenne nel 2008, quando l' allora ministro Roberto Maroni decise di procedere a una «schedatura» dei nomadi. Vero, l' Unione europea intervenne per tramite del commissario alla giustizia, Jacques Barrot, e si lamentò della violazione dei diritti umani. Ma l' argomento del contendere, in quel caso, erano le impronte digitali, cosa a cui Salvini nemmeno ha accennato.
Semplicemente, il nuovo inquilino del Viminale ha espresso l'intenzione di raccogliere informazioni dettagliate sulla popolazione nomade presente nel nostro Paese. Pensate che sia una cosa inutile, una trovata propagandistica? Beh, allora dovreste sfogliare il rapporto intitolato Gli insediamenti rom, sinti e camminanti in Italia, scaricabile dal sito dell' Istat e realizzato da Anci (l'associazione dei Comuni italiani) e Unar (l'ente contro il razzismo).
Nella prima pagina si legge: «Uno dei principali problemi con cui ci si scontra nell' affrontare le questioni che riguardano le popolazioni rom è quello dell'assenza di dati certi e questo "vuoto" informativo risulta una difficoltà comune a gran parte dei Paesi europei». Quindi sì, forse c'è bisogno di avere dati chiari su i rom e gli altri gitani presenti nel nostro Paese. Anche perché molti di loro vivono in condizioni allucinanti, completamente al di fuori della legalità e della decenza.
Del resto, a «schedare» i rom, nel corso degli anni, hanno provveduto un bel po' di associazioni di provata fede progressista. Per esempio l' Associazione 21 luglio, che si occupa di difendere i diritti dei gitani e ogni anno realizza un dettagliato rapporto sui «nomadi» presenti nella Penisola.
Perché se la radiografia la fa una Onlus o una cooperativa va bene e se la fa il Viminale no? Magari si risparmiano pure dei soldi Di vero e proprio «censimento» parlò anche la Croce rossa italiana nel 2008, all' epoca di Maroni. Poco prima, nel dicembre 2007, la Fondazione Giovanni Michelucci Onlus realizzò un'iniziativa analoga in Toscana, producendo lo studio intitolato Rom e sinti in Toscana: le presenze, gli insediamenti, le politiche, in cui si spiegava che «chiudere i campi è possibile, e vantaggioso». Un lavoro simile lo ha svolto anche la Caritas ambrosiana, che nel marzo di quest' anno ha pubblicato la ricerca In-visibili. La presenza rom e gli insediamenti spontanei, relativa alla situazione di Milano.
Nel 2015, fu Il Sole 24 Ore a tentare di disegnare una mappa. Sul sito del giornale si trova facilmente l' inchiesta, che contiene alcune interessanti dichiarazioni attribuite a Marcello Zuinisi, «rappresentante legale di Nazione rom, associazione nazionale che si occupa di promuovere l'integrazione e l' inclusione di rom, sinti e camminanti». Diceva Zuinisi: «Lo Stato italiano, l' attuale governo in modo marcato, non si impegna affinché ci sia chiarezza sui rom».
Insomma, era lo stesso rappresentante dei rom a chiedere più dati e dettagli. Proprio l'associazione Nazione rom ha dichiarato nei giorni scorsi che esiste un dossier, «elaborato dall' Istat nel 2017», il cui scopo è proprio quello di catalogare i nomadi italiani. Delle due l' una: o si attacca Salvini perché è un razzista che vuole fare una cosa inaudita, oppure lo si critica perché è poco informato e vuole rifare una cosa già fatta da altri.
L'atteggiamento più ipocrita, tuttavia, è quello esibito dal Partito democratico. Gli esponenti dem fanno a gara a chi la spara più grossa contro Salvini. Forse non sanno che in Emilia Romagna, regione che la sinistra governa da quando esiste, il censimento dei rom si è fatto eccome. Nel rapporto, realizzato nel 2014 con dati relativi al 2012, compare una slogan curioso: «Far rispettare le regole rispettando le diverse culture».
Sul sito della Regione (all'epoca governata da Vasco Errani) è rintracciabile il comunicato che annunciava il suddetto studio: «Sono 2.745 le persone che vivono sul territorio, in 129 campi e aree», si legge nel testo. Nessuno, però, ha mai parlato di razzismo. Nessuno scandalo nemmeno quando a censire i rom fu il Comune di Milano. Era il 2012, sindaco Giuliano Pisapia.
Pierfrancesco Majorino (assessore oggi come allora) e il collega Marco Granelli realizzarono una nota intitolata «Sinti, rom e camminanti. Un progetto per includere le famiglie e i bambini e contrastare irregolarità e illegalità». Tra le loro proposte c'era il «censimento dei nuclei familiari delle popolazioni rom, sinti e camminanti presenti a Milano».
Salvini ha notato l'incongruenza e ha commentato: «Se lo faccio io è razzista, se lo propone la sinistra va bene». L' assessore Majorino si è molto risentito: «Il censimento della popolazione rom a Milano proposto da me e dall' assessore Granelli nel 2012 non c'entra niente con quello proposto dal ministro dell' Interno», ha detto ieri. «Noi abbiamo stilato un elenco delle persone presenti nei cosiddetti campi rom, qua siamo, invece, di fronte ad un censimento su base etnica». Già: loro censivano i campi rom, ma se si imbattevano in un rom era solo per caso, mica per razzismo...
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Torna da me
Aveva sognato ogni giorno di rivederlo, ma non avrebbe mai pensato sarebbe potuto accadere in questo modo. Il suo fratellino se ne era andato ormai da due anni, un anno, sette mesi e ventidue giorni. E tre ore per l’esattezza, o almeno così avevano detto quelli della polizia. I minuti non era dato saperlo perché il corpo era stato trovato troppe ore dopo e la precisione di queste cose diminuisce nel tempo. Lo avevano trovato in un prato, stringeva forte il suo Batman, l’eroe che avrebbe voluto essere ma che quella volta non era riuscito a salvarlo. Non aveva piovuto, era un giorno di un tardo settembre e il bel tempo aveva contribuito a mantenere le tracce pulite e a non adulterare il piccolo corpicino in anticipo. L’avevano trovato sdraiato a faccia in giù nella terra senza nessun segno di violenza ma troppo lontano da casa per poter esserci arrivato da solo. Solo ad un esame più approfondito trovarono nel sangue Arsenico e nello stomaco una discreta dose di Coca-Cola. Probabilmente una forma moderna dell’acqua Tofana offerta da chissà chi. Il corpo era poi stato pulito in ogni suo punto, rivestito e lasciato in quel punto senza lasciare traccia alcuna. Neppure nelle celle telefoniche, neppure orme nel prato. Non vi erano tracce di violenza, non vi erano tracce e basta. Arsenico a parte. Quello era stato lasciato come a indicare volutamente la causa della morte. Una domanda rimasta inespressa era stata quella di perché occuparsi di far sparire ogni traccia ma non usare un metodo meno palese dell’arsenico. I colpevoli non furono mai trovati.
Aveva sognato ogni giorno di rivederlo, ma non avrebbe mai pensato sarebbe potuto accadere in questo modo. Era un mattino di un anno, sette mesi e ventidue giorni e tre ore dopo del momento, che le avrebbe cambiato per sempre la vita e suo fratello, congelato nei sei anni che aveva quando aveva lasciato questo mondo era lì di fronte a lei immobile dall’altra parte della stanza. Poteva essere solo un’ombra, un’allucinazione, una delle tante volte che lo aveva immaginato fino quasi a vederlo, poteva essere una di quelle immagini che vedi di sfuggita con la coda dell’occhio e poi se ne vanno quando le focalizzi ma era lì. Era ancora lì nonostante gli si stesse avvicinando. Il volto era più magro di come lo ricordasse, come se la pelle faticasse a rimanere su e tendesse a cadere come nel volto di un vecchio, sembrava quasi trasparente e fragile come carta velina, chiara e incartapecorita. Eppure sembrava così lui, così vivo, così rosa al contempo. La osservava silenziosamente con quel suo sguardo che ti trapassa, non sbatteva mai le palpebre. Non lo noti mai che una persona le sbatta, ma fu il contrasto forte di non vederlo accadere che le gelò il sangue e la fece fermare. “Andrea. Sei tu?” disse. “Anna, sei tu?” rispose lui. Lacrime calde e copiose sgorgarono come una cascata improvvisa dagli occhi della ragazza. Le sue preghiere erano state esaudite? Il bambino alzò le braccia allungando le mani verso lei, il palmo di una mano aveva qualcosa di strano, che tolse d’improvviso l’entusiasmo alla ragazza. Il bambino iniziò ad avanzare lentamente con movimenti innaturali come se le ginocchia riuscissero a muoversi solamente di pochi centimetri, come se le caviglie non fossero in grado di flettere. Il palmo della mano avvicinandosi mostrò che cosa lo rendeva strano, la pelle era aperta e attraverso si vedeva un osso. “Andrea… sei tu?” “Agggnna, ffei gù?” rispose lui. Prima, quando lo aveva sentito parlare aveva sentito parlare aveva questa stessa pronuncia strascicata e marcia o le era sembrato normale? Non ne era più sicura. Non era più sicura di nulla se non del gelo che sentiva partire dal petto verso il collo. Solo una volta ricordava di essere rimasta così bloccata dal terrore. Era piccola e doveva lanciarsi da quello scivolo altissimo al parco acquatico, era stata poi spinta da un bambino ed era caduta nello scivolo, presa dal panico aveva rischiato di affogare una volta arrivata alla piscina e il bagnino l’aveva salvata, ora provava quel terrore ma anche il soffocare di dentro all’acqua e non sarebbe arrivato nessun bagnino. Sentì la pelle di suo fratello toccare l’avambraccio, una pelle molle come frutta andata a male e ruvida come cartapecora. La parte molle doveva essere quella più vicina all’osso. Una pelle fredda come non aveva mai sentito nulla. Le provocò un brivido che la scosse abbastanza da strappare via il proprio braccio dalle grinfie di quella cosa. “Gnaggna noo puuura” disse quella cosa ma era già alle spalle mentre la ragazza prendeva lo slancio per correre.
Era accaduto solo poche ore prima, o almeno quella era l’impressione. Aveva lasciato casa di Giovanni giusto dall’altra parte della via e stava andando a casa. La mamma di Giovanni aveva appena chiamato mamma per avvisarla, c’era freddino ma Andrea pregustava già il caldino che avrebbe trovato in casa e le braccia amorose che lo avrebbero accolto, aveva una bella famiglia lui, non come quella di Giovanni che aveva il papà che lavorava sempre via. Fu mentre era immerso in questi pensieri che vide arrivare un’auto veloce, gli frenò accanto. Per un momento aveva pensato che sarebbe stato investito ed invece no, non accadde. La mamma si sarebbe arrabbiata tantissimo se fosse stato investito. Fece per girare attorno alla macchina ma un uomo scese e lo guardò fisso. “Ciao bambino, che ne dici, lo vuoi un dolcetto?” Andrea rimase un paio di istanti a penarci. Troppi. Mezzora dopo era in un posto che non conosceva. Aveva dormito durante il viaggio. Doveva essere sotto terra, o forse erano solo le finestre chiuse ma era buio. Vide accendersi delle candele attorno. Era sdraiato su di una pietra fredda, sembrava il piano della cucina di mamma ma molto più grande, e non bianco. Non riusciva a vedere molto perché non riusciva a muovere la testa se non di poco, sentiva le braccia e le gambe bloccate ma era stanco, troppo stanco per cercare di spingere di più. “Tranquillo piccolo, non muoverti, sono la dottoressa” disse una voce accanto a lui. Non era una voce familiare ma non ricordava la voce della dottoressa. Anzi era quasi sicuro di aver avuto un dottore. “Se non ti muovi non ti farà male” continuò la voce. Il dottore glie lo diceva sempre prima di fagli le punture. Ed era vero. Una volta aveva provato a muoversi e si era staccato l’ago e gli aveva fatto tantissimo male, e mamma si era agitata e anche il dottore e poi aveva pianto e alla fine la puntura glie l’avevano fatta di nuovo da un altra parte quindi probabilmente era davvero meglio stare fermo. Le candele si erano accese una ad una attorno a lui, erano a cerchio. Non aveva mai visto una medicina così, e a dire il vero non gli sembrava di essere ammalato. “Dov’è mamma?” disse. “Tranquillo, è qui. Dall’altra parte della porta, ti senti stanco vero?” “Sì” “Sei stato poco bene. Mamma ti ha portato qui, e ora ti dobbiamo curare, ma tu stai fermo e tranquillo vedrai che tra poco starai bene” Vedeva attorno delle ombre muoversi ma non capiva la direzione da cui arrivava la voce, era come se molte voci sotto questa sussurrassero, gli ricordava un po’ il rosario, o le litanie in chiesa. Lo facevano sentire tranquillo perché don Mario è un’uomo buono e anche se si annoiava tanto a sentirlo sapeva che gli faceva bene anche se non aveva mai visto il dottore con don Mario nella chiesa. Aveva l’impressione di poter girare la testa e riusciva a muovere le braccia. Fu una sorpresa riuscire a girarsi del tutto e trovarsi a faccia a faccia con un bambino identico a sé. Stava volando a faccia in giù su un bambino identico a sé. Salì più in alto osservando la dottoressa e gli infermieri muoversi nel buio. Indossavano strani vestiti come quello di mago Merlino ma neri. Poi tutto scomparve all’improvviso. Era in salotto. Era in salotto immobile in piedi e Anna stava entrando dalla porta. Sembrava strana, come fosse diventata più alta. I capelli erano diversi, con delle strisce più chiare, e il viso era un po’ più allungato, era strana. “Andrea. Sei tu?” le sentì dire, era come se la voce venisse da lontano, come essere dentro a una scatola e sentire il suono provenire dall’esterno. “Anna, sei tu?” non gli venne niente altro di più intelligente da dire ma anche il suono della propria voce sembrava distorto e lontano, aveva avuto l’impressione che muovere le labbra e la lingua fosse terribilmente difficile, ma questo non aveva a che fare con il fatto che il suono era come non provenisse da dentro di se ma da fuori da una scatola. La lingua, la bocca, le gambe, le braccia, tutto sembravano come quando capita di sedersi troppo a lungo sulla gamba e questa perde sensibilità. Era così l’intero corpo. Anna sembrava strana, quasi allarmata, forse doveva solo andare da lei e abbracciarla. Probabilmente e un abbraccio forte avrebbe fatto bene ad entrambi. Le braccia sembravano così pesanti alzandole. “Andrea… sei tu?” sentì dire come se la voce provenisse da ogni direzione. Qualcosa non andava. C’era qualcosa di strano e forse quella non era sua sorella. Perché sembrava così cresciuta? “Anna, sei tu?” disse. La ragazza, sua sorella, sembrava bianca e spaventata, era rimasta immobile con la bocca aperta. Andrea decise di avvicinarsi a lei e toccarle il braccio. Avrebbe sempre potuto scegliere se scappare o abbracciarla. “Anna, ho paura” disse. Lei strattonò via il braccio e cominciò a correre. “No Anna, aspetta” disse provando a seguirla. Lei era sempre stata più veloce ma questa volta raggiungerla sembrava ancora più difficile del solito. Era come se le gambe rispondessero in ritardo e il sentirle intorpidite non aiutava. Ad ogni passo sembrava cedessero anche se non sentiva il consueto formicolio.
“Gno Gnnana aappaasaaa” quell’essere continuava a urlare alle sue spalle, non aveva il coraggio di voltarsi. Entrò in camera e sbatté la porta. La chiuse a chiave e si infilò sotto la scrivania. Cosa sta accadendo? Rimase in attesa con la testa tra le mani e le lacrime che piovevano come una fontana. In casa non c’era nessuno che avrebbe potuto aiutarla e salvarla. Salvarla da cosa poi? Cos’era quella cosa? Forse se l’era solo immaginata. In fondo non c’era più alcun rumore da un po’. Forse avrebbe dovuto uscire da quella stupida scrivania e tornare fuori dalla stanz TUMP, TUMMP. TUMP. La cosa batteva alla porta e faceva i suoi versi, era ancora lì.
Ci aveva messo più del previsto a raggiungere la porta, Anna si era chiusa dentro a chiave. “Cosa succede Anna? Perché sei scappata? Ho paura!” disse mentre batteva sulla porta con i palmi delle mani. Avrebbe voluto piangere ma non sgorgavano lacrime. Batté più forte ma dopo alcuni tentativi accadde qualcosa che non credeva possibile. Tre dita della mano si ruppero senza dolore. Erano piegate verso il centro della mano. Si fermò a guardarle e si sedette a terra. “Ti aspetto qui”, disse “quando stai bene.”
La cosa fuori dalla porta smise di battere. Passarono alcuni minuti e di nuovo le parve che la realtà si aggiustasse, è strano come siano veloci ad attenuarsi nella le situazioni assurde. O che riteniamo assurde. Passarono solo alcuni minuti prima che ricominciasse a pensare che doveva essere stato tutto un sogno. Non c’era niente fuori di quella porta al di fuori dell’immaginazione, niente di cui aver paura. Presto sarebbero arrivati mamma e papà e avrebbero sorriso di tutto questo quando glie lo avrebbero raccontato. Non c’era nulla da temere. Si alzò e avvicinandosi lentamente alla porta ascoltò con attenzione i suoni. Nessun rumore.
Anna finalmente aprì la porta, sembrava ancora un po’ spaventata ma molto meno di prima, era il momento di abbracciarla, sarebbe stata di sicuro subito meglio, e sarebbe stato meglio anche lui. Era il momento giusto.
Quella cosa era ancora lì, non fece in tempo ad evitarla. Le braccia molli e secche al contempo avevano una forza spaventosa mentre bloccavano il collo della ragazza. Provò a dimenarsi ma non riusciva a colpire quello che sembrava così tanto il suo fratellino, non riusciva ad opporsi rischiando di farne violenza. Si mise a piangere mentre faticava sempre più a respirare. Pianse. Non le era rimasto altro. Pianse mentre osservava, da fuori, il proprio corpo a terra. Andrea, bello come era stato due anni fa, le porgeva la mano ed assieme si allontanarono da quello che ormai era un guscio di carne morta.
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Ducati 175 Sport
La distribuzione a coppie coniche applicata alla produzione di serie: questo il “merito” del modello che proiettò la Casa bolognese nel suo futuro. Raggiungeva i 130 orari, percorreva 30 km con un litro, e fece il giro del mondo. E nella sua storia si incrociano nomi come Taglioni e Tartarini C’era una volta il monocilindrico monoalbero a coppie coniche della Ducati. Nato per equipaggiare la Gran Sport 100, meglio nota come Marianna, divenne un simbolo: creatività e tecnica abbinate a potenza e originalità, dapprima a supporto delle competizioni e successivamente della produzione di serie. Deus ex machina dell’intero percorso, il suo progettista, l’ingegnere romagnolo Fabio Taglioni. Le 175 Sport e Turismo furono le prime Ducati di serie munite di propulsore monoalbero a quattro tempi dalla distribuzione con albero a coppie coniche. Moto, in particolare la Sport di cui parliamo su queste pagine, in grado di elargire raffinatezze dall’eco travolgente da assurgere nell’immaginario collettivo ad oggetto del desiderio. Moto che, davanti alla platea degli appassionati non hanno mai patito cali d’interesse. Siamo nel 1954 e l’allora direttore generale della Ducati, Giuseppe Montano, convinto assertore di un efficace marketing legato ai successi nelle gare, trovò gli argomenti giusti per portare dalla Mondial a Borgo Panigale il trentaduenne Fabio Taglioni; assunto con contratto annuale, vi rimase per quaranta anni! Mai scelta si rivelò così opportuna per le sorti di un’azienda che, ancora oggi e grazie al suo genio, è punto di riferimento nel panorama motociclistico mondiale. Libero di esprimersi, l’ingegnere elaborò una moto da corsa, la Marianna appunto, tanto valida da traghettare il marchio Ducati oltre le nebbie della crisi. Principale responsabile, un’offerta ormai obsoleta, che affondava le radici nel monocilindrico quattro tempi di 65 cm³ ad aste e bilancieri disegnato da Giovanni Florio nel 1950 per equipaggiare la 60 Sport, prima motocicletta Ducati, e che accresciuto nella cubatura originò modelli dal cuore ad un solo cilindro. Al diminuire del fascino esercitato sull’utenza dalle motoleggere 65 (1950-55) e 98 nelle versioni Turismo e Sport (1952-57) e dallo scooter Cruiser (1952-54), corrispondeva l’inasprirsi della concorrenza soprattutto di Moto Guzzi, Moto Morini e Motom. Il trend s’invertì dopo le affermazioni al Motogiro d’Italia e alla Milano-Taranto del 1955 e ’56 della Marianna, inizialmente dal propulsore di 98 cm³ poi salito a 125 e 175, che diventò la pietra miliare della gamma dei mono Ducati protrattasi fino al 1974. Nel delinearsi di tale contesto, la dirigenza Ducati decise di proporre una moto di serie dal motore di 175 cm³, cilindrata già gradita in Italia, capace nel breve periodo, di non confondersi con le 98 e 125 dal propulsore ad aste e bilancieri ancora ferme nei magazzini bolognesi in attesa di acquirenti. Il monocilindrico di 175 cm³, inoltre, venne costruito considerando la possibilità di essere portato fino a 250 cm³ per tentare la scalata ai mercati stranieri guardati dalla Ducati con benevolenza. La nuova realizzazione debuttò al Salone di Milano nel dicembre del 1956, negli allestimenti Sport e Turismo, differenti per la cavalleria erogata dai monocilindrici, rispettivamente 14 CV a 8.000 giri e 11 CV a 7.500 giri. Commercializzata dai primi del 1957 fino al ’61 subì degli aggiornamenti ristretti a poche componenti. Nei primi due anni, la Sport registrò minore successo della Turismo, per poi superarla nelle vendite e mantenersi stabilmente al vertice fino all’uscita dal listino. Tra loro, si pose la TS, Turismo Speciale. Poco nota in Italia, montava lo stesso motore della Turismo, ma rispetto ad essa aveva la livrea metallizzata, finiture accurate ed un prezzo maggiore. Le stime parlano di 11.000-12.000 esemplari di 175 usciti ogni anno dagli impianti Ducati, opportunamente rinnovati per ottimizzare la fabbricazione dei propulsori e così alleggerire il prezzo. Quello della 175 Sport era di 256.000 lire che diventavano 246.000 per la TS e 230.000 per la Turismo. Indicativo che la Moto Morini Tresette Sprint costasse 279.000 lire e la Lodola Sport della Moto Guzzi 259.000. 13049tuy La moto di Borgo Panigale, valutata quindi un vantaggioso investimento, si tramutò nella più venduta della sua categoria in Italia e anche in Spagna dove la Moto-Trans ottenne la licenza per produrla. In Inghilterra la Sport assunse la denominazione di Silverstone e, dal 1959 con l’arrivo del kit di potenziamento, Silverstone Super. Negli USA, la 175 si diffuse in due versioni. L’America dalla colorazione tipica, grandi e avvolgenti parafanghi, sella a due piani, manubrio a corna di bue, motore della Turismo e doppio silenziatore allo scarico, mentre la Cross si distingueva per lo scarico e i parafanghi alti, manubrio rialzato e pneumatici tassellati. Omologata anche per l’impiego stradale, era fornita di un monocilindrico dotato di 17 CV a 8.000 giri. Sempre in USA in seguito approdarono la Monza 250 e la Sebring 350, dirette discendenti della 175 che durante il 1960 nell’allestimento Sport adottò dalla 200 Elite, moto che di lì a poco l’avrebbe soppiantata, alcune parti come il carburatore e il singolo silenziatore della Silentium. Per le gare di derivate dalla serie, con notevole successo venne proposta la 175 F3 o Formula 3, dal brillante propulsore che erogava 19 CV a 9.700 giri/min. Artefice di una lusinghiera serie di successi, in Italia e fuori dai confini nazionali dal 1958 al 1968, costituì la base di partenza per due ruote con motorizzazioni di 250, 350 e 450 cm³. La 175 Sport del servizio risale al 1958, appartenente alla seconda serie. Il mirabile restauro porta la firma di Enea Entati di Bondanello di Moia, in provincia di Mantova, tra i massimi esperti italiani di monocilindrici Ducati. Un esemplare con i documenti in regola e perfettamente restaurato raggiunge una quotazione compresa tra i 9.000 e i 9.500 euro. Per un buon conservato, sempre completo di carte, si va dai 3.000 ai 4.000 euro. Il design della 175 Sport ha la sua preponderante peculiarità nel serbatoio capiente 17 litri e dalla verniciatura parzialmente metallizzata. La consulenza nel corso della progettazione del pilota-collaudatore Bruno Spaggiari, facilitò il rafforzamento del legame uomo-moto. Di forma allungata con cavità anatomiche per accogliere le ginocchia e persino avambracci e gomiti, permette di guidare in posizione abbassata mantenendo un ampio angolo di visuale. Sportività e grinta vengono esaltate dal manubrio basso e in due pezzi, opzionalmente offerto rialzato. Altra tipicità della Sport: il bellissimo impianto di scarico a doppio silenziatore sovrapposto, sebbene penalizzante per costi e peso, impreziosisce il retrotreno. Una scelta introdotta nella produzione Ducati e di altre aziende del tempo, dopo che la Moto Morini lo aveva presentato in anteprima. Il monocilindrico monoalbero raffreddato ad aria dalla cubatura di 174,50 cm³ è in alluminio, con la testa monopezzo e il carter ottenuto da pressofusione. Il cilindro in lega leggera inclinato di 10° ha la camicia riportata in ghisa mentre il pistone a cupola, anch’esso in lega leggera, evidenzia due segmenti di tenuta e altrettanti raschiaolio. La camera di scoppio si mostra emisferica e le sedi delle due valvole in testa, inclinate tra loro di 80°, sono riportate in acciaio. Si guadagnò qualche critica per la necessità di fruire di assistenza professionale e di apposita attrezzatura prevista dalla Casa, indispensabile per la messa a punto della distribuzione. Le coppie coniche che la comandano hanno la dentatura elicoidale per ridurre la rumorosità meccanica, ma questo a discapito di un maggior assorbimento della potenza. Sul motore della Marianna invece la dentatura era rettilinea, oltre ad avere le molle delle valvole scoperte per facilitare gli interventi di sostituzione. Il passaggio al prodotto di serie determinò l’uso di coperchi per una migliore pulizia e lubrificazione. Inizialmente lo alimentava un carburatore Dell’Orto MB 22,5 B, nel 1958 sostituito da un UB 22,5 BS2 con presa d’aria a cornetto. Dal 1959, nel kit di potenziamento predisposto dalla Ducati comparve un Dell’Orto SSI 25 A. Il cambio è in blocco a quattro rapporti con ingranaggi sempre in presa, il comando a bilanciere nel 1958 fu rivisto, rimase sulla destra, ma portato verso l’alto. In bagno d’olio la frizione multidisco in acciaio mentre la trasmissione primaria ha ingranaggi elicoidali. Alla lubrificazione sovrintende una pompa ad ingranaggi mossa dall’albero motore, la coppa del carter contiene 2,4 litri. In linea con l’essere Sport, il monocilindrico mostra un’indole aggressiva confermata dalla coppia massima di 1,75 kgm a 5.500 giri. La velocità di punta intorno ai 130 km/h rappresenta di sicuro un limite ragguardevole se paragonato alle condizioni delle strade di allora. Buono il rendimento termodinamico, circa 30 km con un litro, al contrario poco tollerati gli svarioni dell’impianto elettrico, marcato Ducati Elettrotecnica, dalla tensione di funzionamento di 6 V. Principalmente derivano dal volano alternatore inadeguato, a volte, a ricaricare la batteria. Ineccepibile la robustezza e l’affidabilità del motore dalla distribuzione a coppie coniche di 175 cm³, a testimonianza delle quali concorse un’impresa rimasta negli annali del motociclismo: il “giro del mondo” compiuto da Leopoldo Tartarini (all’epoca pilota ma che poi fondò e condusse la dinamicissima Italjet) e Giorgio Monetti. Partiti il 30 settembre 1957 da Bologna in sella a due Turismo, vi fecero rientro il 5 settembre ’58 dopo avere percorso 60.000 km e attraversato tra l’altro, Grecia, India, Australia, Brasile, Senegal e Marocco. Un viaggio anche promozionale, poiché toccò importanti concessionarie Ducati, e dai risvolti avventurosi che, al pari delle vittorie in gara, accrebbe l’appeal della Casa bolognese. Il telaio monoculla aperta in tubi d’acciaio con il motore che funge da elemento stressato della ciclistica, riprende quello montato sulla Marianna. A coadiuvarlo, all’anteriore, la forcella teleidraulica della Marzocchi spesso alternata, come conferma lo stesso Enea Entati, da altre realizzazioni marcate Ducati e Gualandi. Il forcellone oscillante è supportato da due ammortizzatori Marzocchi regolabili su tre posizioni. I cerchi in acciaio cromato di 18” sono stati introdotti dal 1958, in precedenza, erano impiegati quelli di 17”. L’impianto frenante offre una risposta ineccepibile, all’anteriore e al posteriore operano dei tamburi centrali, il primo munito di presa d’aria, di 180 e 160 mm Ø con fascia d’attrito di 35 mm. La moto è stabile ed agile su qualunque tracciato, ben sostenuta dal soddisfacente equilibrio tra telaio e comparto delle sospensioni. Inesistenti i rumori meccanici e i trafilaggi. La 175 Sport rimane la degna erede della Marianna, che non temeva l’impalpabile polvere capace di soffocare e i sassi capaci di danneggiare. La sua vocazione è centrare l’obiettivo. Fosse anche solo l’appagamento del motociclista.
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Gli Arcadi di Terra d’Otranto (3/x) : Tommaso Niccolò d'Aquino di Taranto (1665-1721)
di Armando Polito
Ebalio Siruntino il suo pseudonimo1. Ebalio è dal latino Oebalius=relativo ad Ebalo, spartano, a sua volta da Oebalus=Ebalo, re di Sparta.2 Chiaro il riferimento alle origini spartane di Taranto. Ma si sente anche l’eco dell’episodio del vecchio di Corico celebrato da Virgilio nel quarto libro delle Georgiche (vv. 125-145):
Namque sub Oebaliae memini me turribus arcis,
qua niger umectat flaventia culta Galaesus,
Corycium vidisse senem, cui pauca relicti
iugera ruris erant, nec fertilis illa iuvencis
nec pecori opportuna seges nec commoda Baccho.
Hic rarum tamen in dumis holus albaque circum
lilia verbenasque premens vescumquepapaver
regum equabat opes animis seaque revertens
nocte domum dapibus mensas onerabat inemptis.
Primus vcererosamatque autumno carpere poma
et, cum tristis hiemps etiamnum frigore saxa
rumperet et glaciecusus frenaret aquarum,
ille comam mollis iam tondebat hyacinthi
aestatem increpitans seram Zephyrosque morantis.
Ergo apibus fetisidem atque examine multo
primus abundare et spumantia cogere pressis
mella favis; illi tiliae atque uberrima pinus,
quotque in flore novo pomis se fertilis arbos
induerat, totidem autumno matura tenebat.
Ille etiam seras in versum distulit ulmos
eduramque pirum et spinos iam pruna ferentis
iamque ministrantem platanum potantibus umbras.
Verum haec ipse equidem spatiis exclusus iniquis
praetereo atque aliis post me memoranda relinquo.
Infatti ricordo sotto le torri della rocca ebalia,
per dove il bruno Galeso bagna bionde coltivazioni,
di aver veduto un vecchio di Corico, che possedeva
pochi iugeri di terra abbandonata, infeconda ai giovenchi,
inadatta alla pastura di armenti, inopportuna a Bacco.
Questi tuttavia, piantando radi erbaggi fra gli sterpi,
e intorno bianchi gigli e verbene e il fragile papavero,
uguagliava nell’animo le ricchezze dei re, e tornando a casa
tornando a casa colmava la mensa di cibi non comprati.
Primo a cogliere la rosa in primavera e in autunno a cogliere i frutti,
quando ancora il triste inverno spaccava i sassi
con il freddo e arrestava con il ghiaccio il corso delle acque,
egli già tosava la chioma del molle giacinto
rimproverando l’estate che tardava e gli Zefiri indugianti.
Dunque era anche il primo ad avere copiosa prole
di api e uno sciame numeroso, e a raccogliere miele
schiumante dai favi premuti; aveva tigli e rigogliosi pini,
e di quanti frutti, al nuovo fiorire, il fertile albero
si fosse rivestito altrettanti in autunno portava maturi.
Egli ancora trapiantò olmi tardivi in filari,
e duri peri e prugni che ormai producevano susine,
e il platano che già spandeva ombra sui bevitori.
Ma impedito a ciò dall’avaro spazio, tralascio, e affido
questi argomenti ad altri che li celebrino dopo di me.
La seconda parte dello pseudonimo (Siruntino) mi pone un problema di non poco conto. Premetto che Il numero degli Arcadi col tempo aumentava e i nomi dei luoghi da scegliere o attribuire diventavano sempre meno; così il nostro Ebalio rimase senza campagna fino al 1711, quando Vincenzo Leonio da Spoleto (pseudonimo arcade Uranio Tegeo), incaricato di ridistribuire i nuovi “lotti” all’Arcadia, aggiornò il catalogo così scrivendo: Ebalio Siruntino, dalle campagne presso la terra di Sirunte in Acaia: d. Tommaso d’Aquino Tarentino. Fino ad ora non son riuscito a reperire in alcuna fonte antica il ricordo di questa fantomatica Sirunte, tanto meno in alcuno scritto posteriore al Leonio. So che la storia si fa con le fonti, ma anche, sia pure provvisoriamente, con le ipotesi di lavoro, che per definizione inizialmente potrebbero avere poca o nulla scientificità, proprio come quella che sto per formulare, non casualmente sotto forma di domanda: con la Sirunte d’Acaia del Leonio potrebbe avere qualcosa in comune la masseria Sirunte in località Battifarano, nel comune di Chiaromonte, in provincia di Potenza, in Basilicata?
Tommaso in vita3 non pubblicò nulla e potrebbe non estraneo alla sua scelta anche il fatto che non son riuscito a reperire di lui nulla in raccolte di altri autori, come spesso succedeva per gli Arcadi. Il suo Deliciae Tarentinae, il cui autografo risulta disperso, fu pubblicato per i tipi della Stamperia Raimondiana a Napoli nel 1771 da Cataldantonio Artenisio Carducci (nell’immagine che segue tratta da Domenico Martuscelli, Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, tomo IX, Gervasi, Napoli, 1822), che lo corredò di traduzione e commento.
Nel 1964 il tarantino Carlo D’Alessio rinveniva a Roma tra alcuni manoscritti arcadici Galesus piscator Benacus pastor, ecloga del D’Aquino che venne pubblicata a cura di Ettore Paratore per i tipi di Laicata a Manduria nel 1969.
A riprova che l’omonimia è sempre in agguato, tanto più pericolosa quando ha la cronologia come complice, chiudo dicendo che il nostro non è da confondere con il contemporaneo e quasi omonimo Tommaso D’Aquino di Napoli, principe di Feruleto, poi di Castiglione e grande di SpagnA, pure lui socio dell’Arcadia con lo pseudonimo di Melinto Leuttronio.
__________
1 Assente nel catalogo del 1696 ed in quello in calce a Rime di Alfesibeo Cario, Molo, Roma, 1695, compare per la prima volta, ma privo del secondo componente, in Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p. 367.
2 Sulle fonti relative a questo nome vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/08/taranto-piazza-ebalia-le-origini-di-un-toponimo/.
3 Per la biografia vedi Francesco Sferra, Compendio della storia di Taranto, Latronico e figlio, Taranto, 1873, pp. 96-98.
(CONTINUA)
Per la prima parte (premessa): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/
Per la seconda parte (Francesco Maria Dell’Antoglietta di Taranto): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/
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“Non è stata una passeggiata, Bacon non lascia scampo”: dialogo con Fabrizio Coscia, quasi un pittore di icone
La devozione dice che basta inserire sotto la lingua il frammento di una icona per ottenere la salvezza. O essere deliziati dalla delirante visione di Dio. Proprio così. Icona come ostia. Il pittore di icone come devoto esecutore della Parola. Se il pittore perpetua la Parola, lo scrittore – che sul volto di quella Parola incastra altre parole – la smonta, la devia. Il pittore è fedele alla verità, lo scrittore propaga eresie. Rewind. Non conosco il pedigree di Fabrizio Coscia, non mi interessa. So che quando ho letto La bellezza che resta (2017), che è un grande libro sul mistero della sofferenza, ho pensato. Un grande scrittore. L’ho pensato pure per un dettaglio. La bellezza che resta è anche una delle più profonde – e inquiete – esegesi di Lev Tostoj mai tentate. E io mi dico. La grandezza di uno scrittore è sapere introdursi nell’opera di un altro, disintegrando l’ego. Gesto difficilissimo – perché di solito lo scrittore suppone di sapere tutto. Così. Coscia mi pare come il pittore di icone. Nel libro, Dipingere l’invisibile. Sulle tracce di Francis Bacon (Sillabe 2018, pp.76, euro 10,00), impone sul palato, con liturgica attenzione, pezzi di Francis Bacon. Con umiltà molteplice, non scrive l’ennesimo testo dello scrittore che pontifica se stesso sul cranio del sommo defunto. Dà voce a Bacon. Ritagliando – che memorabile devozione – alcune frasi decisive di Bacon, ad esempio. A me piace questa: “In fin dei conti ho avuto una vita molto sfortunata: tutte le persone cui ho voluto bene sono morte. E non si smette di pensare a loro; il tempo non guarisce”. Dalle inferriate dell’opera di Bacon – presentata per scelte sistematiche – Coscia tesse una scenografia narrativa, pone degli interrogativi, lavora – come gli è solito, da quello che ho capito – negli ‘indicibili’, nelle fratture, in ciò che non torna, nei dintorni inferi. Le riflessioni sulla parola, in questo, sono molto interessanti. Chi è che tradisce la verità e chi la trascina? Il pittore o lo scrittore? “Se la parola ci separa sempre da ciò che vogliamo, cosa resta alla scrittura se non una continua messinscena, una debole allusione a qualcosa che resterà sempre inattingibile? Forse, fra tutti, Joyce è lo scrittore che ha osato spingersi più di tutti in questa direzione, superando ogni confine in quello strepitoso fallimento, spesso incomprensibile, a tratti di una struggente bellezza, che fu il suo Finnegans Wake. Ma dopo di lui che cosa rimane da dire per avvicinarsi quanto più possibile a ciò che Bacon chiamava «qualcosa di simile all’essenza delle cose», ovvero alla loro verità?”, scrive Coscia. La lotta per rivelare la realtà, la resistenza alla corruzione, l’impensabile della morte, l’argonautica foia e fobia del vivere. “Se l’obiettivo della pittura deve essere «rendere visibile» ciò che non lo è, ecco dunque che l’esito naturale e finale non può che essere questo: andare oltre l’uomo, o meglio, cogliere ciò che rimane dell’uomo dopo che la morte ha compiuto il suo lavoro. È questo che muove tutta l’arte di Bacon: rappresentare l’uomo nella sua disfatta finale, nella sua uscita di scena; rendere visibile ciò che lascia il suo passaggio, il suo fugace transito sulla terra”. Se l’icona mostra l’invincibile del Figlio, Bacon illustra come marciscono i figli.
Ti dico cosa mi è venuto in mente leggendo il tuo corpo a corpo con Bacon. Testori che scrive di Grünewald nei “Classici dell’arte” Rizzoli. Comunque, uno scontro reciproco con una ‘macelleria’ artistica. Come è nata la catabasi in Bacon? Che fonti hai valicato?
È esistita una tradizione letteraria italiana di reportage o di incursioni nell’arte che si è andata un po’ perdendo negli anni. Hai citato Testori, ma penso anche a Giovanni Comisso che scrive di De Pisis o agli scritti d’arte di Moravia. Il merito di questa collana diretta da Antonio Celano, ‘Le Parole dell’Arte’, della casa editrice Sillabe, è proprio il tentativo di far rivivere questa tradizione di reportage critico che mette insieme scrittura e arte. Per quanto mi riguarda, era già da qualche anno che inseguivo Bacon, ma lui non si lasciava afferrare. Ho provato a inserire qualcosa su di lui e sulla sua arte nei miei due libri precedenti, Soli eravamo e La bellezza che resta, ma alla fine in entrambi i casi ho rinunciato, sentivo che a quei miei tentativi mancava qualcosa, un approfondimento più coraggioso, uno spazio maggiore da dedicargli. Sentivo, in altre parole, che Bacon mi attirava e mi respingeva, e intuivo che la sua arte aveva a che fare con qualcosa di molto intimo, qualcosa di mio, di personale, che andava indagato senza “distrazioni”. Così quando l’amico Andrea Caterini mi ha proposto di inaugurare la collana di Sillabe con una breve monografia critica su un artista del Novecento ho subito pensato che potesse essere una buona occasione per affrontare finalmente Bacon come dovevo. Mi sono immerso allora nel ricordo dei suoi quadri (quelli che ho visto in giro per l’Europa e nelle mostre) e non a caso il tema della memoria (quella volontaria e quella involontaria, direi tanto per scomodare Proust) è stato il punto di partenza del libro e quello finale. Ho frequentato per giorni e giorni le riproduzioni dei suoi quadri, mettendomeli a studiare. Mi sono confrontato anche con le parole di Bacon: le parole raccolte nelle sue interviste (straordinarie quelle rilasciate a David Sylvester), sempre animate da un’intelligenza affilatissima e brillante, mai offuscate da una singola frase banale, ma sempre da interpretare, da prendere con le molle, per così dire. E naturalmente ho tenuto presente vari studi critici, ma soprattutto l’imprescindibile saggio di Gilles Deleuze, Logica della sensazione. Dopodiché ho iniziato il mio corpo a corpo con Bacon. Non è stata una passeggiata. Bacon non lascia scampo.
Mi colpisce la reiterata insistenza sulla morte, sul dolore. “istintivamente nell’artista un desiderio inconscio di infliggere un danno”, dice Bacon. E più chiaramente: “ho avuto una vita molto sfortunata: tutte le persone cui ho voluto bene sono morte. E non si smette di pensare a loro; il tempo non guarisce”. Artista e morte, artista e soffrire: è un rapporto inscindibile?
La morte è il tema che ho indagato anche in La bellezza che resta. Bacon mi ha dato la possibilità di approfondirlo, di scoprire soprattutto la dimensione filosofica di questo essere-per-la-morte. Ma Bacon ci mostra anche il legame inscindibile della morte con l’Eros, la risoluzione dell’uno nell’altra. In effetti sì, credo che le più grandi opere d’arte siano sempre, in fondo, una rappresentazione, una riflessione più o meno esplicita, più o meno radicale attorno al nostro essere «tutti delle potenziali carcasse», come dice Bacon, con una frase terribile ma estremamente veritiera. L’arte che non si interroga su questa nostra condizione di esseri fragili e condannati a uscire di scena è arte decorativa, è intrattenimento.
Fabrizio Coscia ha scritto, tra l’altro, “La bellezza che resta” (2017)
Del libro, per ovvie ragioni, mi affascina quando cerchi di capire perché un quadro di Bacon arrivi meglio alla ‘verità’ delle cose rispetto alla scrittura. Ti cito: “Le parabole di Kafka, la grande cattedrale di Proust, le sperimentazioni linguistiche di Joyce, il romanzo-saggio di Mann, sono forse ciò che più di ogni altra opera letteraria del secolo scorso si è allontanata dall’illustrativo, dalle trappole del racconto. Ma fino a dove può spingersi la scrittura oltre se stessa? Forse dovrebbe semplicemente rinunciare ai generi, farsi solo confessione, diario intimo, flusso di coscienza? Ma anche in questo caso, anche se volesse rifiutare il filtro della finzione, quella verità, nel momento in cui sarà espressa a parole, non dovrà per forza mascherarsi da racconto e dunque allontanarsi ancora una volta dal suo nucleo più vero e profondo, in quanto impronunciabile?”. Dunque: scrivere è una sconfitta. Forse. Dicci.
Io credo che lo scrittore viva da sempre un complesso d’inferiorità rispetto ai pittori, se non una vera e propria invidia. Da qui la pratica dell’ecfrasi, quel genere di scrittura che consiste nella descrizione a parole di quadri o sculture. La più celebre della storia della letteratura è quella di Omero nel diciottesimo canto dell’Iliade, quando viene descritto lo scudo di Achille. Lo scrittore è costretto a ricorrere alle parole, alle metafore, a qualcosa che significa qualcos’altro, mentre il pittore lavora con l’immagine, e dunque evoca direttamente l’immaginario. Per quanto mi riguarda, ciò che di Bacon mi attirava era soprattutto la sua capacità di rappresentare la verità rifiutando la narrazione. Ecco, questo è qualcosa che mi affascina moltissimo e che io, come scrittore, vorrei imparare a fare. Sono stanco delle storie, credo che ne siamo tutti saturi. La politica non fa che parlare di “narrazioni”, il cinema, le serie tv, la pubblicità, tutti ci propinano storie. Di “storie” si parla anche su Facebook, che chiede a ogni utente di “aggiungere una storia”. È un’ubriacatura di storie, che hanno perso naturalmente tutto il loro potere mitopoietico, riducendosi a chiacchiera, a gioco superfluo. Quello che mi interessa invece è smontare le storie, disgregarle, destrutturarle, proprio come Bacon smontava i corpi, i volti, spaccandoli, deformandoli, aprendoli, per mostrarne le verità nascoste. Esiste un modo per rappresentare la verità senza storytelling, senza racconto, senza storie? Secondo me a questa domanda lo scrittore oggi dovrebbe rispondere, nel tentativo di cercare altre strade, altre modalità di scrittura. Certo, il rischio del fallimento è dietro l’angolo: forse il “romanzo” è condannato a essere narrativo o a non essere. Ma credo che oggi valga la pena tentare comunque di spingersi oltre, perché il rischio, in alternativa, è far girare a vuoto una macchina narrativa che ormai non produce più alcun senso profondo.
Legato alla morte, il dio Cronos, il tempo. “L’angoscia, l’orrore del tempo che ci precipita nella morte: non è questo che tortura e mette in croce? È, allora, il tempo il vero protagonista dell’arte di Bacon: tutto ciò che, invisibile, lascia una traccia visibile”. Se è per questo, la scrittura testimonia sempre altro da ciò che afferma, edifica un glaciale “altro tempo”, segna le rughe, per un attimo, sul viso del tempo. Cosa può l’arte contro la forza dissipatrice del tempo?
Forse, più che un “altro tempo”, la scrittura è assenza di tempo, o meglio un tempo senza presente, senza inizio, senza svolgimento e senza conclusione. Ma che cosa è questa assenza di tempo se non proprio la morte da cui trae origine il linguaggio? Lo scrittore, ci ha spiegato Blanchot, per realizzare la sua opera deve annullarsi, annientarsi, e lasciar parlare la scrittura al suo posto: tutto nello spazio letterario è condannato a ricominciare all’infinito, a non concludersi mai. L’arte, dunque, non si oppone alla forza dissipatrice del tempo, credo, ma piuttosto si conserva in essa, ricreandosi instancabilmente. Ecco perché scrivere, ai livelli più alti, è sempre scrivere della morte e dalla morte.
Cosa dobbiamo vedere assolutamente di Bacon, perché? Dopo Bacon, di quale artista vorresti scrivere?
Potrei citare naturalmente i suoi quadri più famosi: la serie dei papi urlanti, le Crocifissioni, i ritratti di George Dyer o gli autoritratti. Ma ci sono due quadri che io amo particolarmente: Study from the Human Body, del 1949, dove una possente figura maschile nuda, vista da dietro, scosta un sipario di colore grigio, per entrare in uno spazio nero, ed è colta nell’attimo esatto in cui sta uscendo letteralmente di scena. È un quadro commovente: è commovente questo nudo michelangiolesco, che espone la sua voluttuosa potenza, la sua bellezza stranamente non deformata, ma allo stesso tempo anche la sua estrema vulnerabilità, la sua debolezza. Che cosa voleva rappresentare Bacon con questo quadro? L’uscita di scena dell’umano, credo. La traccia visibile che lascia nel momento in cui non è più visibile. Questo è un concetto cruciale in Bacon: l’umano, per quanto annichilito, per quanto bandito dal quadro, non è mai assente nella sua arte. Come nell’altro meraviglioso quadro che amo particolarmente: Landscape near Malabata, Tangier 1963, che ritrae il posto in cui fu sepolto Peter Lacy, il pilota da caccia violento e alcolizzato che fu il grande e tempestoso amore di Bacon negli anni Cinquanta. Il paesaggio è rappresentato con dense e confuse pennellate, come se fosse investito da una bufera di sabbia e vento, con un cielo nero, quello stesso nero che al centro del dipinto diventa un vortice da cui il nostro sguardo è come risucchiato. Proprio là, nel punto esatto della sepoltura, agisce questa forza distruttiva, che è anche un’energia capace di sommuovere il terreno di erba e sabbia, come se, pure dopo la morte, dopo la scomparsa di ogni traccia umana, continuasse ad agire quell’impeto, quella «forza operosa», che tutto avvolge. Dopo Bacon mi piacerebbe scrivere di due artisti lontanissimi da lui, ma che amo molto: Pierre Bonnard, prima di tutto. La sua arcadia nasconde abissi insondabili, il suo rifiuto dell’avanguardia cela in verità una tensione sperimentale audacissima. È stato un genio senza maestri e senza eredi. “Per dipingere – ha scritto – bisogna sempre essere un po’ innamorati. Bisogna che tutto ciò che la natura, i fiori, le donne, l’acqua e il cielo pensano e sussurrano passi attraverso il cuore prima di prendere posto nella tela”. Questo passaggio dal ‘cuore’ alla tela, per Bonnard, è anche un passaggio di tempo. Spesso, infatti, il pittore dipingeva non dal vivo, ma sulla memoria di ciò che aveva visto (e provato). Così è anche per la scrittura (almeno così è per me). Per scrivere occorre sempre essere un po’ innamorati: di un luogo, di una persona, di un’opera. E occorre coltivare la memoria di quel sentimento. Senza tali mouvements du coeur non si dà vita a nulla. Eros, si legge nel Simposio, è desiderio di generare nella bellezza. E poi George Seurat: i suoi quadri rappresentano per me ancora oggi un mistero, per la capacità di coniugare poesia e metodo scientifico. Quando penso che realizzò i suoi due capolavori – Une baignade à Asnières e Un dimanche après-midi à l’Île de la Grande-Jatte – tra i 24 e i 26 anni, e che dopo gliene restavano da vivere appena altri sei; quando penso alla giovane vita di questo artista totalmente dedito allo studio, al lavoro, all’imitazione dei grandi, all’approfondimento teorico, alla sperimentazione dei colori, e considero i risultati sorprendenti cui giunse in così poco tempo (il dominio assoluto dei mezzi, l’armonia suprema della composizione, la capacità tecnica, la cura artigianale del dettaglio, la visione del mondo improntata a una serenità imperturbabile, e una visione dell’arte, di contro, concepita come etica dell’impegno), non posso fare a meno di pensare che senza questa dedizione ossessiva, questa vocazione al sacrificio, questa attitudine morale non può darsi opera d’arte.
L'articolo “Non è stata una passeggiata, Bacon non lascia scampo”: dialogo con Fabrizio Coscia, quasi un pittore di icone proviene da Pangea.
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