#Giometti e Antonello
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giometti & antonello, l'incipit
In un’epoca in cui la produzione e il consumo di testi conosce un ampliamento senza precedenti, ma al contempo l’autorevolezza di autori e opere vacilla in modo quasi irreversibile e la critica tradizionale e le accademie hanno totalmente smarrito la loro funzione di filtro e di indirizzo, il ruolo dell’editore diviene quanto mai centrale. Per questo motivo azzardiamo la creazione di un nuovo…
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Gottfried Keller "Specchio il gattino", presentazione
Giometti & Antonello, Editore Solo e abbandonato alla morte della sua vecchia padrona, Specchio, il cui nome riflette lo splendore del suo pelo, accetta il patto di Pineiss, il mastro stregone della città di Seldwyla: sarà rifocillato quotidianamente e quando sarà sufficientemente pingue potrà fornirgli il grasso che è uno degli ingredienti per le sue porzioni magiche. Un patto quindi che deve…
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I PRINCIPI DELLA GUERRA (articolo per “Sparagmós. Cronache in corpore vili”
Al culmine della virtualizzazione teorica della guerra c’è Guy Debord con il suo Il Gioco della guerra [Alice Becker-Ho, Guy Debord, Il Gioco della Guerra, Giometti & Antonello, 2019]. Un vero e proprio gioco da tavolo. Una confutazione del Risiko, semplice simulazione. Un suo principio, non so dire quanto klausewitziano, è che l’azione difensiva è un punto di forza tattico-strategico, ma solo l’offensiva può sperare di ottenere successo. Il gioco di Debord non è solo una simulazione ma è una messa in scena di principio della guerra. Moderna o no. Poco importa. Chi l’avrebbe mai detto, il teorico della società dello spettacolo, alle prese con il simulacro bellico!
Ci serve affrontare il tema in un momento, non sarà l’ultimo, nel quale il campo del conflitto è chiaramente attraversato da necessità contraddittorie. Potremmo fare il punto della situazione, come dicono di fare, ma non è vero, i commentatori, ogni giorno ogni ora ogni minuto, ma ci sfuggirà sempre quel qualcosa di insufficiente che permea lo spazio e il tempo della guerra.
Vogliamo dare un nome a questa insufficienza radicale? Molto semplice: è la guerra totale, di sterminio.
Quella che stiamo vivendo è questo. Inutile girarci intorno. Ci sono segni chiari in tal senso. I divieti di partecipazione ai tornei degli atleti russi che non si esprimono contro il loro governo; la cancel culture applicata ai capolavori russi; il bando a tutti coloro che tengono fermo un punto di vista il più possibile equanime nel confronto; la necessità di schierarsi costi quel che che costi, anche il buon senso, per una parte coinvolta nel conflitto. Ma soprattutto il fatto che si stia minando alle radici la possibilità del successo nelle trattative tra Russia e Ucraina. Sono segni non di una pressione, quella ipocrita moral suasion sulle labbra degli istruiti, ma di una vera guerra. Sono la vera guerra della società dello spettacolo, cancellazione dei tratti accettabili del nemico, di ogni suo tratto umanizzante, anche nel cuore del suo stesso errore. Dopo anni di sottili distinguo sulla politica come arte del possibile, tutto viene cancellato e torna, se mai ci avesse abbandonato, un’antropologia della guerra elementare e preistorica.
La ragione di questo degrado è semplice: il complesso culturale-economico occidentale non solo non può essere il giudice del mondo – fosse solo questo: emettere giudizi, ma vuole anche eseguire la sentenza! Il fatto è che non ha alcun motivo, se non quello “razzista” di sentirsi superiore a tutto il resto del mondo, per imporre il proprio strumento di controllo che è e rimane, ma non si sa per quanto, l’ancoraggio al dollaro. Per questo si rischia l’estinzione. È bene saperlo.
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Deleuze e alcuni inediti recenti
Deleuze e alcuni inediti recenti
Sul quotidiano “Avvenire” del 3 settembre 2021 la mia recensione di inediti, lettere e testi giovanili apparsi per i tipi di Giometti & Antonello di Macerata (Lettere e altri testi, a cura di David Lapoujade, traduzione di Andrea Franzoni). Qui il pdf dell’articolo: Avvenire, 3 settembre 2021Download E a proposito di inediti, accosterei, a completamento o meglio a precisazione della…
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Stefano Tommasi
Giorni (project)
Eredità tardiva,
spettro, suono vuoto,
fallace calco dell'infanzia,
povera città mia.
M'è grave sulle spalle
il peso di tutti questi anni.
Senso di questo incontro
in pratica non v'è.
Qui v'è ora un altro
cielo alla finestra:
azzurro-fumoso
con la candida colomba.
In modo reciso, troppo reciso,
di lungi si vede
rosseggiare la tendina
nella fessura della finestra.
E senza riconoscermi
mi segue con lo sguardo
la maschera di cera
degli anni remoti.
(Arseni Tarkovskij)
Da: Stelle tardive, Giometti & Antonello editore.
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MACERATA – Ratatà festival di illustrazione, fumetto, editoria indipendente atto secondo. Fino a domani, domenica 8 settembre, infatti, dopo la prima parte del festival che si è svolta ad aprile scorso con esposizioni, concerti e laboratori, si potrà visitare HABITAT, una mostra di poster diffusa nel centro storico di Macerata, a cura del collettivo Le Vanvere.
Oltre 60 gli autori provenienti da tutta Europa coinvolti nell’esposizione di “Ratatà Muta 2019”, un’iniziativa a cura di Ratatà in collaborazione con l’assessorato alla Cultura del Comune di Macerata, Le Vanvere e per l’occasione con il festival Artemigrante.
Le mostre a tema sono HABITAT • contest con 30 illustratori selezionati su concorso da Le Vanvere e altrettanti poster esposti all’interno di locali e negozi del centro storico di Macerata; HABITAT • micromega con 25 disegnatori professionisti che illustrano venticinque habitat, dal più piccolo (micro) al più grande (mega) esposti sotto le logge di corso della Repubblica; HABITAT • in town con 28 fioriere illustrate dal collettivo Le Vanvere, HABITAT • Terra chiama Vanvere un viaggio intergalattico tra habitat spaziali, pianeti e pianeti nani, illustrato dal collettivo Le Vanvere.
Il progetto coinvolge oltre 14 commercianti del Centro Storico in un clima collaborativo in cui le vetrine diventano spazi espositivi e spazi d’arte. La collaborazione tra il Festival Ratata e i commercianti del centro storico è diventata negli anni una forma per coniugare l’arte contemporanea dell’illustrazione e il sostegno all’animazione culturale del centro della città per accogliere turisti e cittadini in un centro storico vitale.
Sui significati della mostra, spiegano gli organizzatori, viene definito “habitat” anche un ambiente congeniale alle proprie preferenze e abitudini. Se andiamo oltre le definizioni da dizionario, la parola “habitat” ci parla di una “nicchia”, quasi una tana, un rifugio, un ritaglio di mondo che è proprio a qualcuno, in senso materiale o figurato. La stessa radice della parola richiama “abito”, “abitudine”, termini che trasudano quotidianità, appartenenza, familiarità, qualcosa a stretto contatto con la nostra pelle o i nostri gesti.
Qual è il nostro habitat, quello dove ci sentiamo nel nostro “ambiente congeniale”? Che sia uno stato mentale, un insieme di sensazioni (suoni, odori, colori, sensazioni tattili, sapori), uno spazio fisico, un oggetto, il nostro habitat è una zona franca dove ci spogliamo di tutto l’intorno e siamo veramente noi stessi… o la parte di noi stessi con cui andiamo più d’accordo.
Le artiste e gli artisti coinvolti sono: per Contest Alessandra Marin, Alessandro Ripane, Alice Caldarella, Andrea Bonetti, Beatrice Zampetti, Chen Wang, Daniel Trudu, Davide Spelta, Emanuele Benetti, Flavia Morra, Gianluca Natale, Giovanni Colaneri, Giulia Corascello, Giulia Perin, Giulia Serafin, Giulia Tassi, Giuseppe Gloria, Ksenia Kopalova, Laura Savina, Lidia Savioli, Liza Rendina Morel, Luca Di Battista, Mariacarla Taroni, Massimiliano Aurelio, Noemi Agosti, Sara Bernardi, Signor C., Simone Manfrini, Sofia Olivari e Tania Yakunova.
Invece per Micromega Elisa Macellari, Giordano Poloni, Daniele Simonelli, Ilaria Zanellato, Marco Cazzato, Bomboland, Michele Rocchetti, Morena Forza, Laura Borio, Daniela Tieni, Giulia Pastorino, Claudia Bordin, Silvia Mauri, Alberto Fiocco, La Tram, Monica Rossi, Susanna Rumiz, Marco Brancato, Anna Lang, Marta Baroni, Ninamasina, Lucio Schiavon, Elena Guidolin, e Marta Pantaleo. Infine per In town / Terra chiama Vanvere Arianna Bellucci, Camilla Garofano, Celina Elmi, Lisa Gelli, Giulia Lombardo e Giulia Quagli.
I negozi coinvolti sono Tandem, Amodo, Ultrafragola, Ibro, Pizzeria del corso, Bottega del Libro, Talmone, Verde Caffè e Finecorso in corso della Repubblica, Bibidi Bobidi Book, Koinè e Giometti&Antonello in corso Matteotti, Cose di Tè e Magacacao in piazza della Libertà.
L’edizione 2019 di Ratatà ha una forma diversa rispetto agli anni passati. Si sta sviluppando infatti in tre macro eventi distribuiti nell’arco di tutto l’anno, da aprile a dicembre, più una serie di eventi minori organizzati per mettere in luce progetti di rilevanza nazionale ed internazionale che stanno nascendo nel nostro territorio e che in un modo o nell’altro sono legate agli autori che nel tempo hanno gravitato attorno al festival, come testimonianza del profondo lavoro che Ratatà ha portato avanti negli anni di produzione culturale.
L’obiettivo è quello di preparare il pubblico all’edizione del festival 2020, “L’anno del topo”, dove sono previste esposizioni di disegno contemporaneo e non, una mostra mercato ancora più ricca, workshop e concerti con artisti di richiamo nazionale ed internazionale.
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nanni cagnone: "parmenides remastered"
nanni cagnone: “parmenides remastered”
Il poema Sulla natura del filosofo greco Parmenide di Elea (v Secolo a.C.), giunto fino a noi in 19 frammenti, non solo è un testo di riferimento per l’intera cultura greca, ma coinvolge i fondamenti di tutta la filosofia occidentale, tanto che nel ’900 ha dato spunto a innumerevoli considerazioni, in particolare da parte di quei filosofi che si sono confrontati con i temi primari dell’essere, la…
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“Com’è lungo e difficile morire da solo, da sola. Possibile che proprio a noi, inseparabili, tocchi questo destino?”. L’ultima lettera di Nadja a Osip Mandel’štam
Nel 1934, in maggio, Osip Mandel’štam, provato da anni di silente persecuzione, preda di allucinazioni notturne, viene arrestato. L’ultima stilettata velenosa che si era concesso era la poesia contro Stalin, il “montanaro del Cucaso” dalle “dita tozze, grasse come vermi” e i “baffi da scarafaggio”, per cui “ogni morte è una fragola”. Commutarono la pena nel divieto a soggiornare a Mosca, Leningrado e altre città. Tra la lista delle destinazioni concesse, Mandel’štam scelse Voronež. Gli anni del massacro non spensero la sua vena lirica, sempre più certa, luminosa, dolente; “gli forniscono aiuto economico l’Achmatova, Pasternak, Sklovskij, Višnevskij”. Ancora nel 1937 gli è impedito soggiornare a Mosca. Nel maggio del 1938, dopo mesi di stenti e tentativi di vita, il poeta è arrestato. “Dopo tre mesi viene emessa la condanna: cinque anni di gulag per attività controrivoluzionaria”. Da allora, del poeta non si sa nulla. Molti anni dopo sapremo che è morto di stenti in un campo di transito nei pressi di Vladivostock, due giorni dopo il Natale del 1938. Il suo corpo sperperato nella preghiera del gelo. La lettera che pubblichiamo, bellissima, l’ultima lettera di Nadja al marito poeta, mai ricevuta, specie di dialogo con il bianco e le sue ombre, conclude l’“Epistolario” di Osip Mandel’štam, edito da Giometti & Antonello, a cura di Maria Gatti Racah. Aveva conosciuto Nadežda, ‘Nadja’, nel 1919, l’aveva sposata a Kiev nel 1922. Nadežda, custode dell’opera del marito, sarà figura capitale della ‘resistenza’ intellettuale al regime sovietico. A lei Iosif Brodskij, nel 1981, dedica un saggio importante, raccolto in “Fuga da Bisanzio”. “La vidi l’ultima volta il 30 maggio 1972, in quella sua cucina, a Mosca. Il pomeriggio stava per finire e lei sedeva, fumando, nell’angolo, nell’ombra profonda proiettata sul muro della grande dispensa… Nadežda Mandel’štam sembrava un avanzo di un grande incendio, sembrava una minuscola brace che brucia se la tocchi”.
***
22 ottobre 1938
Osja, amico mio lontano! Mio caro, non trovo le parole per questa lettera che tu, forse, mai leggerai. La scrivo allo spazio. Magari tu ritornerai e io non ci sarò già più. Questo allora sarà l’ultimo ricordo di me.
Osjuša, la nostra vita da bambini, che felicità è stata! I nostri litigi, i nostri battibecchi, i nostri giochi e il nostro amore. Ora non guardo nemmeno più il cielo. A chi dovrei mostrare le nuvole che scorgo? Ricordi quando trascinavamo i nostri miseri banchetti alle nostre povere case randagie, da nomadi? Ricordi com’è buono il pane quando cade dal cielo e lo si mangia in due? E l’ultimo inverno a Voronež. La nostra felice miseria e le poesie. Ricordo: tornavamo dalla banja, avevamo comprato delle uova, o forse delle salsicce. Passò un carro di fieno. Faceva ancora freddo e io m’assideravo nella mia giacchetta (forse è il nostro destino: so quanto freddo hai tu). E quel giorno mi si è impresso nella memoria: ho sentito, chiaro da far male, che quell’inverno, quei giorni, quelle disgrazie erano l’ultima e la migliore felicità che avevamo in sorte.
Ogni mio pensiero è rivolto a te. Ogni lacrima e ogni sorriso è per te. Benedico ogni giorno e ogni ora della nostra amara vita, amico mio, mio compagno di viaggio, amata, cieca guida mia… Come cuccioli ciechi sbattevamo l’uno contro l’altro, e stavamo bene. E la tua povera testa delirante e tutta la follia, con la quale scaldavamo i nostri giorni. Che felicità era e come abbiamo sempre saputo che proprio quella era la felicità.
La vita è lunga. Com’è lungo e difficile morire da solo, da sola. Possibile che proprio a noi, inseparabili, tocchi questo destino? Noi, cuccioli, bambini… tu, angelo, l’hai forse meritato? E tutto va avanti. Io non so nulla. Eppure so tutto e, come in un delirio, vedo ogni tuo giorno, ogni tua ora nitida e chiara.
Sei venuto da me in sogno ogni notte e io continuavo a chiederti cosa fosse successo e tu non rispondevi. L’ultimo sogno: sto comprando del cibo nel lurido bar di un lurido albergo. Con me ci sono dei completi sconosciuti e io, dopo aver comprato tutte queste cose, capisco che non so dove portarle, perché non so dove sei tu. Quando mi sono svegliata ho detto a Šura: Osja è morto.
Non so se tu sia vivo, ma da quel giorno ho perso ogni tua traccia. Non so dove tu sia. Puoi sentirmi? Sai quanto ti amo? Non ho fatto in tempo a dirti quanto ti amo. Non riesco a dirlo nemmeno ora. Dico soltanto: per te, per te… sei sempre con me e io – selvatica e cattiva, che mai ho saputo semplicemente piangere – io piango, e piango, e piango. Sono io, Nadja. Dove sei? Addio.
Nadja
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“Ma io non so morire”. L’ingiustificato oblio di Massimo Ferretti, un grande poeta senza padrini e senza patria
Massimo Ferretti (Chiaravalle 1935-Roma 1974) è stato uno scrittore laterale e lo rimane anche oggi, tanto che sulla sua opera è caduto un incredibile oblio, se si si eccettua l’encomiabile impegno critico di Massimo Raffaeli e un bel libro di Elisabetta Pigliapoco nato da una tesi di laurea. Questa rimozione è tanto più ingiustificabile se si pensa che si è verificata nelle stesse Marche, dove Ferretti è vissuto (specialmente a Jesi) e nonostante sia da considerare a tutti gli effetti un autore rilevante in ambito nazionale per ben tre opere che riscossero il successo della critica: la raccolta poetica Allergia (Garzanti 1963, che ebbe una prima stesura non definitiva data alle stampe per la tipografia Civerchia di Jesi nel 1955); i romanzi Rodrigo (Garzanti 1963) e Il Gazzarra (Feltrinelli 1965). Ora, grazie all’editore Giometti & Antonello di Macerata, torna in libreria Allergia, con una nota critica degli editori e la prefazione che Massimo Raffaeli fece nel 1994 quando fu ripubblicato per i tipi della Marcos y Marcos. In più, in questa bella edizione, sono contenute delle lettere che Massimo Ferretti scrisse a Pier Paolo Pasolini, Antonio Porta, Carlo Antognini, Gianfranco Canestrari, tratte dal volume Lettere a Pier Paolo Pasolini e altri inediti, che si deve sempre a Massimo Raffaeli e al Centro culturale polivalente del Comune di Chiaravalle (1986).
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Ferretti ebbe rapporti epistolari con Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani, pur non abbracciando idealmente il Gruppo 63. Frequentò, a Roma, Pasolini, Attilio Bertolucci ed Enzo Siciliano. Allergia vinse il Premio Viareggio, opera prima, nel 1963. Questi testi ci consegnano un poeta di una “originalità prepotente”, come ebbe a dire Pasolini (ma Ferretti non aveva padrini ed è difficilmente collocabile in una corrente letteraria, stretto nella morsa della tradizione e dello sperimentalismo), con un temperamento deciso, che si serve di una lirica impressionista più che melodica, che guarda al mondo attraverso gli occhi, i propri e quelli degli altri, come nei fulminanti versi In trattoria, dove si notano accostamenti categorici: “la commedia del mio viso”, “il sentimento della morte” (Massimo Ferretti soffriva di endocardite reumatica), “il furore e la timidezza”. “Il mio complesso è una tragedia antica: / devo scrivere e vorrei ballare”.
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Il poeta non nasconde la sua propensione all’attesa del tempo, ad una preghiera non sacerdotale, all’allergia per qualcosa di definitivo, optando per un rapporto di distanza, distonia e divaricazione, come nota Raffaeli, a partire dal pometto introduttivo Deoso. Qui traspira tutta l’inquietudine dell’uomo isolato (“squassato e malandato”), il fondamento di un’ottica mai doma, polemica, sensibile, coerente. “Guardate genti: tolgo dagli occhi miei / le oscure lenti della paura, / mia fatale, maledetta matrigna”. Deoso è lo spirito anarchico, mortifero, un pellegrino addolorato che si solleva dalla cripta e corre tra le colline e i boschi delle Marche, della valle dell’Esino, tra terre malsane, visionarie pianure, fantastici deserti, ghiacciai, foreste. Un fiero lottatore, coraggioso come Ulisse che circumnaviga la sua Itaca e non l’abbandona, né di giorno, né di notte, pur non facendovi ritorno.
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Pasolini riconobbe uno sperimentare attaccato alla vita, ma nella stessa lettera che Ferretti gli scrive di getto, replicando ad un appunto del suo mentore, sottolinea: “il desiderio di morire appartiene alla tua psicologia, alla mia è del tutto estraneo”. Ferretti è il portavoce di una vitalità contrapposta all’afflizione per le condizioni fisiche che si riversano inevitabilmente sulla poesia confessionale e consolatoria: “È inutile, ragazzo, pensare di correre se il cuore ha le valvole bruciate”; oppure: “Il male è che il sabato continua a fare il padrone e la domenica la serva avvilita”. Con un senso di ribellione per nulla contenuta il poeta erompe in questo modo: “Il mondo si scopre nel mondo: la vostra angoscia è la mia felicità”. Appaiono versi più rasserenanti, specie nella seconda sezione di Allergia dal titolo La croce copiativa, un poemetto sugli anni del secondo conflitto mondiale e i successivi, dal sapore agrodolce, tipico del cantastorie. Si fa strada il ricordo spezzettato, l’immagine come impressa sulla pellicola cinematografica dei viali, dei tigli, della brezza, così come degli aerei che scendevano bassi, di una suora pazza che abbracciava i conigli, dei calzoni a tubo e delle camicie americane. E ancora il cuore, centro motore del pensare e dell’agire, paragonato ad un tappeto verde, ad un metropolita, ad un vincitore, nonostante quel resistente, commovente “ma io non so morire”. La poesia di Massimo Ferretti, preludio al romanzo al quale approderà immediatamente dopo la pubblicazione di Allergia, ha una componente strutturale che vira spesso verso il racconto, ma mantiene la vocazione nitida del suono musicale, del ritmo orale. Ed è un vero e proprio canto fuori dal coro.
Alessandro Moscè
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“Caro Pasolini, sei diventato vecchio o non hai più niente da dirmi?”. Intorno a Massimo Ferretti, autore di “Allergia”, un libro di culto
Vi fu, sempre, una intransigenza. A Carlo Antognini, interessato alla sua opera, il 3 maggio 1967, scrive, recisamente, “Vorrei, in breve, che fosse evitato ogni riferimento a padrini (reali o presunti) a premi letterari (vinti o perduti) all’appartenenza a gruppi letterari (presente o passata), ecc.”. Già allora, a 32 anni – era nato a metà febbraio, nel 1935, a Chiaravalle – Massimo Ferretti tornava sulle sue tracce, cancellandole.
*
Benedetto da una allucinata precocità, Ferretti scrive uno dei libri emblematici – e perciò remoti fino al pungolo dell’oblio – del secondo Novecento, Allergia. L’aveva scritto meno che ventenne, questo Dino Campana marchigiano, con una lampeggiante – e tutt’altro che ingenua – giovinezza, con un gesto d’ustione sul corpo della poesia – montaliana, ungarettiana, luziana – italica. Leggete questa, dal titolo emblematico, Polemica per un’epopea tascabile:
Sono un animale ferito.
Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda.
Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il cuore m’avrebbe solo bagnato.
Ero nato per la felicità della solitudine e il panico vergine dell’incontro: e mi sono ritrovato in una folla di eroi incatenati.
Ero nato per vivere: e m’avete maturato nella morte autorizzata dalla legge, nell’orgoglio delle macchine, nell’orrore del tempo imprigionato.
Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi organizzati nelle palestre, educati nelle caserme, ammaestrati nelle scuole: per la morte veloce delle bombe, per la morte lenta degli orologi delle seggiole dei telefoni.
Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare.
*
Vanno fatte giocare insieme, gemelli contrari, secondo me, le parole “polemica” ed “epopea”, “tascabile” e “ferito”. Ogni epos ha il gergo di polemos. C’era un ragazzo, insomma, che aveva fiducia lirica e coscienza storica, che si sentiva espulso e sputato, “con un bigino di Marx nella tasca della blusa e pillole di Leopardi nell’altra”, sintetizzavo – giovanilista pure io – inserendolo tra i Maledetti italiani (il Saggiatore, 2007), per merito di due maledetti lettori, Flavio Santi e Massimo Raffaeli.
*
Prima di voltare le spalle al mondo, gettando sale sul fatto letterario, per occuparsi, a Jesi, nei tardi Sessanta, dell’azienda del padre, d’ambito edilizio, Massimo Ferretti fu il prodigio della poesia italiana. A promuoverlo e a esortarlo al verso fu Pier Paolo Pasolini, privatamente (“sei un mistero davvero appassionante”), poi al pubblico, su “Officina”, nel 1956, dicendo del “caso di questo ragazzo ventenne, traumatizzato e quindi prematuramente rivelato a se stesso da un’endocardite reumatica” che “è veramente unico, preistorico meglio che pregrammaticale, malgrado la sua straordinaria maturità”. Ferretti, per sempre incluso in una battagliera giovinezza, aspra, rigettò il vezzo tragico di Pasolini – come testimonia la lettera che si pubblica – soprattutto quando si confronta con la tragedia vera, nel 1959, il suicidio del cugino venticinquenne. Tuttavia, a Roma frequenta, tiepidamente, Bertolucci e Siciliano, passeggia lungo i convegni del Gruppo 63 e nel 1963, per Garzanti, pubblica Allergia, ricavandone un Viareggio per l’opera prima. Il libro, vigoroso, anomalo, poi dimenticato, fu recuperato da Raffaeli per Marcos y Marcos nel 1994 e risorge oggi per Giometti & Antonello insieme ad altri documenti (le lettere, ad esempio) che dicono l’indole del poeta.
*
La parabola letteraria di Ferretti si dice presto. All’onda del successo poetico s’aggiungono due romanzi, Rodrigo (ancora Garzanti, 1963) e Il gazzarra (Feltrinelli, 1965); qualche incarico nel mondo editoriale – un passaggio in Longanesi, la traduzione, per Astrolabio, di testi di antropologia, e, per Feltrinelli, di Tra, romanzo sperimentale di una scrittrice da riscoprire, Christine Brooke-Rose – e niente. Segue, per disposizione d’indole, il rifiuto d’un mondo che si avverte già marcato dal mercato, prono all’abuso estetico, inutile e inerte, insomma (a Gianfranco Canestrari, nel 1970, “Lo snobismo di sinistra – la politica come afrodisiaco – è una cosa che m’ha fatto sempre schifo, ma Feltrinelli e C. hanno proprio rotto gli argini del disgusto. E intanto sto ad aspettare traduzioni che nessuno mi manda”). La morte precoce – nel 1974 – i carati del carattere (che non le mandava a dire), ne hanno garantito, da un lato, la palude dell’oblio, dall’altro il culto, per intimi.
*
Di questo Donchisciotte della Rabbia (così una sezione del libro) vanno amate le poesie inquiete, l’imperfezione, le provvidenziali sbavature, gli sbalzi lirici. Come questo, che ha nome Anch’io sono il mare.
Spolperanno le montagne fino allo scheletro del corallo ruberanno la fiamma al fuoco e violeranno l’aria fin dove sospira, ma il mare resterà il mare: l’eterna emozione l’elemento senza futuro.
Si sanno le piaghe aperte dalle navi i delitti delle reti e i tatuaggi carnali dei pescatori di perle, ma il mare non cambia colore.
Non dico questo perché ho segreti di conchiglie ribelli, e l’amo perché la sua bellezza non mi fa soffrire.
Da piccolo mi ci portavano per farmi crescere forte ma la mia stella incrociava altre acque e nel libro del buio stava scritto che il volto delle meduse lo avrei trovato nella gente di terra: e gli sono cresciuto lontano con la misera invidia per i suoi sereni peccati fatti di sole e di carne spogliata, e ho accettato la sua potenza, i lividi muri alzati tra nuvolo e abisso, e l’onda del nord senza sogni.
Ma non ho avuto pazienza: e l’acqua è rimasta col sale; non ho avuto pazienza perché anch’io sono il mare.
*
L’austera innocenza di Ferretti è un dono – d’altronde, quasi mai l’epoca riconosce i suoi. (d.b.)
***
A Pier Paolo Pasolini, Roma Jesi, 1 luglio 1959
Caro Pier Paolo,
«Molte volte un poeta si accusa e calunnia… »
mi hanno dirottato da Perugia la tua lettera che disgraziatamente non s’è perduta per la strada. Mi scrivi di capire tutto di me: e dimostri di non capire niente.
1) Il «desiderio di morire» appartiene alla tua psicologia, alla mia è del tutto estraneo. A 16 anni quando con la bicicletta mi sono buttato sotto un’auto (e s’è rovinata solo la bicicletta) l’ho fatto per disperazione «fisica»: da due anni una nevralgia reumatica nella zona del mediastino mi tormentava giorno e notte, e solo la morfina o gli ingorghi di stanchezza mi procuravano un dormiveglia di due ore una volta al mese: questa è «realtà» non auto-tenerezza, come è «realtà» – e non auto-esaltazione – il fatto che io non sono mai stato il malatino che fa pena; ma un «che peccato!», un’«incongruenza della natura», un «atleta fallito»: ho sorbettato queste qualifiche per tutta l’adolescenza: dal più scalcinato medico di campagna, al grande clinico, al colonnello-medico della visita di leva. Se ho registrato il «sentimento della morte» l’ho fatto per celebrare la vita. Io ho sempre desiderato vivere: e più stavo male, più volevo guarire.
2) Né l’Italia né io siamo in pericolo per il mio presunto e potenziale fascismo: l’Italia – come sempre – è minacciata dalla sua sacra ed eterna Natura, io dall’Indifferenza. Se scrivo di voler diventare un reazionario nello stesso momento so di aver semplicemente bestemmiato. A 17 anni, al tempo di Allergia, (quando ero «unico», «eccezionale», «straordinario») cercavo l’«immunità»: e tu sai che questo giovanotto «sufficientemente poeta» è sempre stato sufficientemente imprudente nel mondo dominato dalla «brutalità della prudenza». E tieni presente che ciò che io ho subito come si subiscono gli irrazionali fenomeni della natura, tu hai avuto modo di vederlo e capirlo: nel ’40 tu avevi 18 anni, io 5 (cfr. La Croce Copiativa).
3) Quanto al narcisismo schematizzi troppo. Io ho 24 anni. E se mi rimproveri di scrivere in prima persona (Leonetti direbbe in persona prima), mi costringi a guardarti con sospetto: «Se la nuova poesia si limita a denunciare in falsetto le ovvie miserie dei pastori e dei contadini a che cosa serve? Denunci, invece, quel proprio interno vizio conformistico…» scrivevi sul «Punto» del 25 maggio 1957 a proposito dei poeti meridionali, ma era un avvertimento che valeva per tutti. Allora: sei diventato vecchio o non hai più niente da dirmi? Non offre altre alternative la tua lettera acida in cui hai approfittato del mio dolore per fare il moralista a buon mercato. Lo saprò quest’inverno. Per ora ti prego soltanto di sopportare la noia della mia amicizia di cui tu non sai che fartene: io ho bisogno della tua: ti ho incontrato in un’età difficile e per me sei rimasto una presenza quotidiana. Che ti costa una lettera di otto righe, una volta all’anno? In bocca al lupo e rallegramenti anticipati per i premi; spero poi che avrai superato il trauma del trasloco e che i libri e i mobili siano in perfetto ordine. E i soliti abbracci sempre molto affettuosi, tuo
Massimo Ferretti
P.S. Mio cugino ha bisogno di molto silenzio: ora che appartiene ai commenti dei paesani.
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deleuze, "lettere e altri testi" (giometti & antonello): da domani in libreria
deleuze, “lettere e altri testi” (giometti & antonello): da domani in libreria
… Mi permetta però di farle un solenne richiamo, se non le spiace. Non si lasci incantare né trascinare da me. Ho visto casi di persone che volevano diventare «discepoli» di qualcuno, e che avevano certo tanto talento quanto il «maestro», ma che ne sono usciti inariditi. E questa è una cosa terribile. Lavorare su di me comporta due grandi inconvenienti: primo, non la aiuterà nella sua carriera…
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“Ho sofferto così tanto che sono stata espulsa dall’altro mondo”. Le poesie & i diari di Alejandra Pizarnik
Una ipnosi nel vetro: l’acustica di Alejandra Pizarnik è sinistra, sotto vuoto; sa di essere espulsa da tutti i mondi – dal giacimento dell’incomprensione estrae verbi-pugnali, di cristallo. “Una scrittura densa, fino all’asfissia, ma fatta con nient’altro che con ‘vincoli sottili’ che permettano la consistenza innocente, su uno stesso piano, del soggetto e dell’oggetto, così come la sovrapposizione delle frontiere abituali che separano io, tu egli, noi, voi, essi. Alleanze, metamorfosi”, scrive, nel dicembre del 1964. Niente è salvo, ma esiste quel periglio innocente – tra la parola bugiarda e quella che sbugiarda – che pare un bosco bianco. C’è sempre qualcuno che muore, però, per nutrire l’innocente.
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Nel 1964 la Pizarnik è a Parigi, da anni: di questo mondo non trova il punto di giuntura, i volti, umani, gli paiono cani, nodi, asperità, triangoli che separano sguardo da sapienza. “Un giorno forse, troveremo rifugio nella realtà vera. Intanto, posso dire fino a che punto sono in disaccordo?”, scrive in I posseduti tra lillà. Non ha neanche trent’anni, quell’ispirata giovinezza presa a unghiate. Il 5 ottobre di quell’anno – ma il loro anno è il ’63, s’erano conosciute, l’anno prima, a Parigi, entrambe attratte dall’abisso, dai libri come sequenza di pozzi, vuoti – le scrive Cristina Campo: “Mia cara amica, il mio cuore mi aveva detto che qualcosa di spiacevole doveva essere successo. Perfino la busta della Sua lettera era pallida, come se volesse anticipare da dove veniva. Ci rassicuri al più presto. (Ha un telefono? La chiameremo). Non ho nemmeno capito se l’hanno operata o solamente curata, e nel primo caso, di cosa? E Sua madre, ne è stata informata? Non crede che debba esserlo? Tutte queste ombre – e la distanza – sono di una tristezza opprimente. Io stessa sono a letto, pare che il mio cuore si sia dilatato, a causa delle tante preoccupazioni. Un sudore orrendo, colpi di pugnale. Nulla di nuovo: ma mio padre è ammalato, mia madre a malapena in convalescenza; Elémire solo. Autunno inoltrato – che cerco di accettare con dolcezza, gli occhi negli occhi chiari di due angeli terribili: il dott. Cechov, il dott. Céline”.
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Nel libro formidabile, La figlia dell’insonnia (Crocetti, 2020; la curatela è di Claudio Cinti), appena edito per festeggiare l’acquisizione di Crocetti da parte di Feltrinelli, una poesia della Pizarnik alla Campo, s’intitola Anelli di cenere.
Stanno le mie voci al canto Perché non cantino loro, i grigiamente imbavagliati nell’alba, i camuffati da uccello desolato nella pioggia.
C’è, nell’attesa, una voce di lillà che si spezza. E c’è, quando si fa giorno, una scissione del sole in piccoli soli neri. E quando è notte, sempre, una tribù di parole mutilate cerca asilo nella mia gola, perché non cantino loro, i funesti, i padroni del silenzio.
Tutto ciò che sancisce un patto, in questa poesia (anelli; voce; parole; asilo; sole), si scinde, si spezza, come mani dalle dita d’acqua (spezza; scissione; neri; mutilate; funesti). Ci si lega, sembra, perché, dopo, la separazione sia implacabile – ogni incontro ha in seno l’asperità del lutto. La poesia viene accolta in Los trabajos y las noches (1965). Quando la riceve, è l’ottobre del 1963, la Campo risponde, preoccupata: “Comunque, bisogna curare la Sua insonnia… Non oso interrogarLa sul significato reale della Sua insonnia, ma se lo desidera me ne scriva pure, La prego… Anche i Suoi versi mi preoccupano da questo punto di vista. Vedo, credo di vedere la Sua vita come la bella gabbia terribile che non vede l’ora di “trasformarsi in uccello”. Soffra in questa gabbia se è necessario (so bene che non si può abbreviare il tempo dell’incanto, della stregoneria) ma non la renda, mia cara, una gabbia di ferro…”.
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La tensione all’aforisma, al bagliore eracliteo, alla fiammata serafica, inevitabilmente ustiona, presuppone l’erma del morire. “E soprattutto guardare con innocenza. Come se nulla fosse, il che è vero”, scrive in Vie dello specchio. Quaderno della vita intima, cella delle torture, confessionale, lucida in una solitudine priva di dio (“Come chi non ama la cosa. Nessuna cosa. Bocca cucita. Palpebre cucite. Dimenticai. Dentro, il vento. Tutto chiuso e il vento dentro”), di chi si sceglie la trappola. Un’opera, d’altronde, è sempre un modo per approssimarsi alla morte – con inelegante e speziata spavalderia. “Ma la mia notte, nessun sole la uccide”. Battibeccando, ieri, pensavo, l’egotismo è lecito finché si annienta in un’opera, altrimenti è insopportabile. Pensano di sapere, gli umani, al posto di accettare la liturgia, di stare al criterio del miracolo, senza burocrazie dell’intelletto, barometri che valgano per la sanità di mente. Credono sia data la stazione eretta, credono sia eletta, duratura, cuspide del rango – in verità, una nobiltà rara è nella creatura orizzontale, all’orizzonte, pronta allo scatto, o che striscia, sibilando un valore secolare, non dissimile alla lava.
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“Invitata ad andare nulla più che fino al fondo”, scrive la Pizarnik, in certi versi terminali – frasi appoggiate come ossa, levigate fino a sdebitare una offesa, appuntite e puntate verso di sé. Non altro si fa, atleticamente, che forgiare l’ombra per gli altri mondi. Scelse, nel settembre del 1972, a 36 anni; preferì le pillole, ma l’altro gli aveva già succhiato gli occhi – vent’anni fa esce la racconta dell’Obras completas, anche in Italia, ora – penso alla raccolta delle lettere, come L’altra voce, edite da Giometti & Antonello – la Pizarnik ha una cospicua dote di accoliti, di accorti lettori. Il diario – di cui si traducono alcune lasse – è una tesoreria di intuizioni, una grotta al massacro. Più che altro, bisogna tenerla in braccio. (d.b.)
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Domenica 3 novembre 1957
Una rivoluzione per placare la mia ferita, un terremoto per sostituire la sua assenza, il suicidio del sole per il mio fervore fisico, la follia della notte per la mia sete segreta, la fine del mondo per soddisfare la mia prediletta angoscia.
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Venerdì 22 novembre 1957
Fede soltanto in te stessa, Alejandra. Fede in te sola. Impossibile la piena comunicazione umana. Gli altri ci accettano sempre mutilati, mai con la totalità dei nostri vizi, delle nostre virtù. O ci detestano per qualche aspetto che li mortifica, o ci accettano per qualcosa che è l’angelo della nostra carne. Spesso accadono giorni in cui è possibile comunicare, altri in cui tutto si annienta. Questi sono i giorni in cui qualcosa di umano ci è necessario. Sicuramente, ci respingono per questo volto da mendicanti repellenti che propinano angoscia e solitudine. È possibile vivere soltanto se nella casa del cuore arde un buon fuoco.
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Lunedì 16 dicembre 1957
È come se il mio sangue fosse amputato. Alzarsi di notte con il pugnale in mano e devastare il paese dei sogni. Di quei sogni divorziati dalla realtà. Grande vergogna non solo di essere, ma di essere semplicemente. Vergogna di vivere o di morire. Mi vergognerò anche quando sarò morta. Sarà, la mia, una grande morte inibita. Possibilità di vivere? Questa. Un foglio bianco e perdersi nella carta, uscire da me stessa e viaggiare su un foglio bianco.
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Domenica 2 febbraio 1958
Solitudine e silenzio. Ho pensato alla felicità di dedicarmi interamente alla letteratura, senza altra cura che scrivere e studiare. Bisogna recuperare il tempo perduto. So che questa felicità mi è accanto, ma non dipende dalla mia volontà, perché non sarebbe più felicità, allora, ma lavoro. Devo credere con tutto il mio essere, credere ossessivamente, lucidamente. Ma soprattutto, continuare a sostenermi nel difficile compito di non pensare all’“amore impossibile”, causa di tutti i miei mali.
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Venerdì 14 febbraio 1958
Mi è facile essere serena e obbiettiva con gli esseri che non mi interessano veramente, di cui non aspiro all’amicizia, all’amore. Sono calma, cauta, padrona di me. Ma con i pochissimi esseri che mi interessano… c’è l’assurda domanda, la convulsione, il grido, il sangue che ulula. Da qui deriva la mia assoluta impossibilità di sostenere l’amicizia con qualcuno attraverso una comunicazione profonda, risolta. Mi do così tanto, mi stanco, mi trascino, mi sfinisco, finché non vedo l’ora di “liberarmi” di quella prigione tanto amata. E se non interviene la mia stanchezza, agisce la volontà dell’altro, fiaccato da tanto presunto genio, che finisce per cercare una persona come sono io con chi non mi interessa.
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21 aprile 1958
Violento egoismo. La mia suscettibilità al minimo abbandono delle persone nei miei riguardi diventa così grande che mi tramuto in un morto. Tutte le prove di amicizia, di congiunzione hanno un esito così debole rispetto alle mie attese che non posso fare altro che entrare in un silenzio vestito di dignità, pulsante di delusione. Non posso accettare una realtà diversa da quella dell’arte. Questo mondo è orribile. Ma credo che la misura di ognuno sia nell’uso che fa della propria solitudine e angoscia. Più che “coraggio” direi “innocenza”.
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Sabato 26 aprile 1958
L’angoscia arriva. Non c’è altro che lasciare spazio al suo coltello, che affondi sempre di più, che una mano invisibile mi sottragga il respiro. Nessuna difesa è lecita. Tutto perde il suo nome, tutto si veste di paura. Anche pensare alla poesia come possibile salvezza è falso, nevrotico.
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16 maggio 1964
Ho paura del mio mostruoso pensiero su me stessa, della mia compiacenza e allo stesso tempo della mia estrema durezza. Voglio stare calma. E scrivere di questo tremare. La mia sete di realtà, a causa del mio confino forzato alla letteratura – qualcosa di prigioniero che si annuncia solo per la brama sessuale.
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Novembre 1971
Scrivere è dare senso alla sofferenza. Ho sofferto così tanto che sono stata espulsa dall’altro mondo. Scrivere è dare qualche senso al nostro dolore.
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“Dove vive la fiaba”. Walter Benjamin, il bambino eterno e una collezione di libri formidabili
Isaac B. Singer scriveva storie – cosa ben diversa dal redigere romanzi o racconti. Per questo, è uno straordinario scrittore per bambini. “Nella nostra epoca, in cui l’arte di raccontare storie è stata dimenticata e rimpiazzata dalla sociologia amatoriale e dalla psicologia d’accatto, il bambino è ancora un lettore indipendente che non si fida di altro che non sia il suo gusto. Nomi e autorità non significano niente per lui”, scrive il grande Singer in un saggio, I bambini sono i migliori critici letterari?, pubblicato in appendice a Il sogno di Menaseh e altri racconti (Mondadori, 2008). Singer scaglia i bambini contro la muraglia intellettuale della letteratura: per eccesso di ferocia, indipendenza di pensiero, audacia i bambini lo confortano. “Quando la letteratura per adulti sarà andata in rovina, per molto tempo ancora i libri per bambini costituiranno le ultime vestigia dell’arte di raccontare storie, del senso logico, della fede nella famiglia, in Dio e nel vero umanesimo”.
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Singer racconta della “grande gioia che ho provato nel leggere l’edizione in yiddish delle avventure di Sherlock Holmes scritte da Conan Doyle”; io vorrei leggere Conan Doyle in yiddish per il gusto di non capire nulla, di ammirare la lotta di lettere ignote, inquiete, riferendo a caso il senso, insensibile alla moda della ragione. In ogni caso, Singer fa risalire la sua capacità letteraria dalle “storie della Bibbia, che leggevo e rileggevo continuamente”. In quelle storie, Dio è incorporato al massacro, tra grano e sterminio la distanza è nel groviglio di sussurri ottenebrati in un roveto ardente. Molto tempo fa, Beatrice Buscaroli mi regalò un libro edito da Adriano Salani nel 1913. Il marchio editoriale raffigura un torchio con la scritta “In labore dignitas”, il libro, costruito da Enrichetta Susanna Bres, s’intitola La Storia Sacra del Bambino. Insomma, la Bibbia riassunta per pargoli, con illustrazioni importanti, un linguaggio arcano non privo di oscuro (“I soldati, imbattutisi in Assalonne impigliato co’ capelli ai rami d’una quercia, lo trafissero. Davide pianse a lungo il suo figliolo”). Il libro, forse, piacerebbe a Walter Benjamin.
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“La sua biblioteca, che conoscevo abbastanza bene, rispecchiava in effetti con grande limpidezza la sua indole assai differenziata… Di tale collezione, due settori in particolare mi stanno dinnanzi agli occhi: libri di psicopatici e libri per l’infanzia”: così Gershom Scholem ricorda il labirinto librario di Walter Benjamin. Malattia mentale e infanzia sono gli estremi del linguaggio: l’al di là e l’al di qua del linguaggio. Inevitabilmente, appassionavano Benjamin.
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Orbis pictus, è un libro straordinario, raccoglie gli “Scritti sulla letteratura infantile” di Walter Benjamin, e, in lista, la sua collezione di volumi per bambini. Il libro lo ha pubblicato, con magnificenza editoriale, Giometti & Antonello, la cura è di Giulio Schiavoni, si ripropone, in “riedizione riveduta, aggiornata e ampliata”, il testo stampato nel 1981 dalle edizioni Emme di Milano. Il catalogo della collezione Benjamin occupa 55 pagine del libro; da Capri, il 19 agosto 1924, Benjamin invia alla moglie Dora un abbecedario illustrato, con carte allegate, stampato a Vienna: “Ecco per te, mia diletta, la piccola strenna napoletana. Anche se essa non reca il colore dei luoghi da me visitati, possiede tuttavia quello della pienezza dell’amore, che vorrei delicato come quello dell’incomparabile frontespizio”.
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Parlare è fisiognomica. Insegnare a parlare in un certo modo significa formare una certa visione del mondo, un volto. Dovremo annegare nella piscina dell’incomprensibile, tra miriadi di linguaggio, giocando con le lettere, fino a riconoscere nella M la natura alpina, nella L l’emblema di giraffa, nella S il crinale del cobra, nella T il salto di una tigre, l’esordio di un racconto. “La fiaba è un residuo… forse il più potente che si trovi nella storia spirituale dell’umanità: un prodotto di scarto nel processo della nascita e della decadenza della leggenda. Il bambino può disporre della materia della fiaba nello stesso modo sovrano e naturale in cui dispone dei pezzi di stoffa e delle pietre da costruzione”, scrive Benjamin in un testo del 1924.
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Le illustrazioni salvano i libri ‘per bambini’ dall’ossessione pedagogica e dai santi intenti di edificare buoni cittadini in batteria scolastica: “C’è una cosa che salva persino le opere più antiquate, meno libere dal pregiudizio di quest’epoca: l’illustrazione. Quest’ultima sfuggiva al controllo delle teorie filantropiche, e gli artisti e i bambini si sono messi presto d’accordo alle spalle dei pedagogisti”. La letteratura, in effetti, non dovrebbe essere ‘per bambini’, ma per un unico bimbo, un tu-per-tu nella pappa del verbo – un tempo coltivai l’utopia di un singolo libro costruito con e per quel preciso piccolo uomo. Il linguaggio non va imparato, ma giocato; il vocabolario è mappa per evoluzioni e disarticolazioni, l’abbecedario serve a istigare un altro alfabeto ancora. “Quando inventano storie, i bambini sono registi che non si lasciano tarpare le ali dal ‘senso’. Basta scegliere quattro o cinque parole ben precise facendole poi combinare in una breve frase e si vedrà scaturire la prosa più inaspettata”. Benjamin pare Rimbaud, che alle vocali dava un colore, un odore, una percezione tattile (“Ecco che d’un tratto le parole si vestono in costume e – in un baleno – sono implicate in duelli, scene d’amore o baruffe”, è ancora Benjamin).
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“Con la malìa malinconica di chi, anche tra il vecchio, tra i fondi di magazzino, nelle cose fuori moda, nella miniera del dimenticato e dell’accantonato, cerca ed esplora rincorrendo con accanimento segni che possano offrire anticipazioni di un futuro liberato”: così Giulio Schiavoni parla dell’accanito collezionismo di Benjamin, dell’ossessione bibliofila. Ricorre nella mia testa perforata il carillon rimbaudiano, i suoi Deliri, “Mi piacevano le pitture idiote, sovrapporte, addobbi, tele di saltimbanchi, immagini popolari; letteratura fuori moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle bisavole, racconti di fate, libri per bambini, vecchie opere, ritornelli semplici, ritmi ingenui”.
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“Di fronte al suo libro illustrato egli realizza la tecnica del perfetto taoista: domina la cortina illusoria della superficie, e tra tessuti colorati e quinte variopinte calca la scena dove vive la fiaba”.
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Capì, forse, che l’infanzia è un paradosso, che diventare adulti è tornare bambini, che crescere è un compromesso contrario che non si addice alle montagne, che il linguaggio delle foglie è un Canzoniere. Singer – ancora lui – diceva che “i bambini sono assai interessati alle cosiddette questioni eterne: chi ha creato il mondo? Chi ha fatto la Terra, il cielo, gli uomini, gli animali?… Quando ero piccolo facevo tutte quelle domande che poi ho ritrovato nelle opere di Platone, Aristotele, Spinoza, Leibniz, Hume, Kant e Schopenhauer. I bambini riflettono e si interrogano su questioni come la giustizia, il senso della vita, il perché del dolore”. Crescendo, è come se deviassimo dalle domande fondamentali, dando, ad esempio, il linguaggio per scontato, dato, dimesso. Non si resta bambini – è tutto il resto, semmai, che è il residuo del bambino futuro. (d.b.)
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“Non voglio parlare con nessuno. Voglio vederci chiaro dentro di me”. Una lettera inedita di Alejandra Pizarnik
Alejandra Pizarnik è artista ‘totale’, esempio raro, radioso, in cui l’opera s’incardina in una incessante ricerca esistenziale. Naturalmente, della Pizarnik vanno lette, soppesate, amate le poesie; ma è la sua vita, come capita al poeta che pare assumere in sé tutti i dolori della terra, ad affascinarci. In questo caso, le lettere sono un telescopio formidabile. La casa editrice Giometti & Antonello, con pregio riconosciuto, ha raccolto parte dell’epistolario nel volume “L’altra voce”. Tanto è da tradurre: i diari, le mirabili lettere di Cristina Campo, ad esempio. Nel 2012 l’editore Eduvim, per la cura di Andrea Ostrov, ha pubblicato la raccolta di “Cartas” tra la Pizarnik e León Ostrov; il libro ha avuto una edizione francese nel 2016, e una traduzione parziale in inglese. A dire dell’interesse che gravita intorno alla piccola, grande Pizarnik. Le lettere coprono gli anni 1960-1964, quelli ‘parigini’, e sono importanti perché Ostrov è stato il primo psicanalista della Pizarnik, con cui lei iniziò la terapia – durata per un anno – a 18 anni, nel 1954. La lettera che traduciamo, in particolare, esito di un viaggio italiano della Pizarnik (che è anche un viaggio nella psiche), non è datata. Di certo, è scritta dopo l’agosto del 1961: la Pizarnik fa cenno ad alcune poesie pubblicate per la prima volta su “La Nouvelle Revue Française”. In quel numero (il 104, agosto 1961), insieme a lei, testi di Jean Giono, Maurice Blanchot (“Rimbaud e l’Oeuvre finale”), Philippe Jaccottet. Testi della Pizarnik furono pubblicati anche nel numero della N.R.F. del maggio 1962, in quel caso insieme a testi di Marcel Jouhandeau e Roger Caillois, Michel Butor e Borges.
***
Caro León Ostrov,
le scrivo da Capri, da un caffè circondato da barche dentro un mare perfettamente blu e sotto un cielo purissimo. Sono stata tre giorni a Roma – seguendo il suo consiglio – e mi sono innamorata delle sue strade. Mi sono promessa di ritornarvi per più tempo. Adesso sono a Capri – è il mio primo giorno– e mi sento scontenta… Il mese scorso sono stata così stanca da non avere le forze neppure per scegliere un posto dove trascorrere le mie vacanze (un mese). Dietro consiglio di mia cugina, che studia Medicina, sono venuta a Capri con il Club Méditerranée, una sorta di agenzia di viaggi influenzata, forse, dagli accampamenti israeliani visto che al posto dell’albergo ci sono delle capanne e i membri di ogni contingente si manifestano estremamente desiderosi di fare una vita comunitaria. Io, più stanca che nuova, e senza poter parlare con nessuno, ma come parlare con questi giovani che mi ricordano la mia adolescenza beota? Quel che è certo è che sono assolutamente esiliata dalla società e ho appena appurato che non è un’espressione vuota di senso. Semplicemente, non ho niente di cui parlare con quelli, non c’è niente in comune. Ma sono io quella che capisce, sono io quella che sa. Questo non è così difficile da dire. Ma poi non voglio parlare con. Con nessuno. Voglio vederci chiaro in me. Ho voglia di tornare a casa mia (a Buenos Aires). Ragioni di salute. Ogni giorno mi sento più stanca, più malata (solo e sempre capogiri e stanchezza). Mi piacerebbe andare a riposarmi qualche mese. Ma dalle parti di Parigi o Roma, ma che farò in una città tanto brutta come Buenos Aires. Ma non si vive per le strade. Insomma, non so come farò a sopportare questo mese a Capri non solo per gli idioti del club ma anche per le sue spiagge orribili. Un’altra cosa che mi disgusta è il paesaggio tipico delle classiche cartoline postali. Non ci sono dubbi, il surrealismo mi ha fatto male… Non so se le ho detto che mi hanno pubblicato le poesie nella N. R. F. e nelle Lettres Nouvelles. Insomma, sono stanca e soffro di insonnia. Sono spiacente per questa lettera senza umore, senza niente. Sono priva di forze per fare di più. Inoltre adesso mi angoscia questa mescolanza di francese, italiano e spagnolo che uso nella mia vita quotidiana. Parlare varie lingue è non parlarne nessuna. Non invano Rimbaud lasciò la poesia per dedicarsi immediatamente alle lingue. Così io, adesso, mi nego di parlare spagnolo addirittura con chi lo sa. Da due mesi non scrivo poesie. Credo sia “conveniente” tornare a riposare e scrivere. Mi piacerebbe dirle di più. Ho guardato tanto e pensato e osservato tanto in questi giorni. Scriverò qualcosa chissà, un racconto chissà, una cronaca sulla scoperta di quanto imbecille possa essere la gente che lo è. E nonostante sia triste per questo, per rendermene conto io, e loro no. Se sapendo quel che so non scrivo poesie belle… Insomma, conflitti di qualcuno senza una vita personale. Le scriverò ancora, da qui o non appena arriverò: “Chiedo perdono per la tristezza”. Abbracci a tutti e tre,
Alejandra
*la traduzione italiana è di Mercedes Ariza
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Avremmo avuto Baudelaire senza l’oppio? Su droghe, letteratura e CIA. Dialogo con Mario Iannaccone
Tutto è estasi. L’uomo è qui per andare al di là – uscire fuori di sé, da sempre, è la formula per capire chi si è. Ombelico e terzo occhio; interiorità estrema ed esplosione. Ovviamente… tra Woodstock ed Eleusi la distanza è straordinaria. In Messico, tra i Tarahumara, Antonin Artaud cerca la Cabala, “la musica dei Numeri”, che regge la Natura; descrivendo la danza del Peyotl, “nel profondo della montagna di quegli Indi tarahumara”, gli accade, in visione, “la Natività di Hieronymus Bosch”. D’altra parte Ernst Jünger, che fa il suo primo viaggio a base di Lsd nel 1951, a 55 anni, guidato da Albert Hofmann, nel 1966 osserva come la droga, veicolo sacro che chiede spazi adeguati e adatti ‘sacerdoti’, che pretende il segreto, sia stata “profanata” dal fenomeno beat, di massa (“Non lo dite a nessuno, solo al saggio: ciò vale anche davanti a questa profanazione”; si legga: Jünger-Hofmann, Lsd. Carteggio 1947-1997, Giometti & Antonello, 2017). “L’interesse per le droghe entra nella cultura occidentale alla fine del Settecento. Viaggiatori curiosi, spintisi a studiare i costumi dei lapponi, delle popolazioni siberiane o indie, riportavano racconti di costumanze religiose basate sulla possessione degli spiriti e sull’uso di sostanze inebrianti. Le sostanze allucinogene, veniva raccontato ai viaggiatori, indeboliscono le barriere che sbarrano la via agli influssi soprannaturali nella coscienza, permettendo agli spiriti e ai demoni di parlare. Chi sa usare queste comunicazioni, e trarne benefici per tutti – si leggeva nei primi resoconti che spiegavano tali pratiche, come il De Lapponibus di Canutus Leemius (Copenaghen, 1767) – sono gli sciamani”, scrive Mario Iannaccone in uno studio sulla Rivoluzione psichedelica – in versione aggiornata e accresciuta rispetto a quello edito da SugarCo nel 2008. Il libro, informatissimo, parte dall’uso ‘estetico’ – o meglio: per una estetica dell’estasi – della droga – i paradisi artificiali di Baudelaire, Coleridge, Gautier, Freud, Jung, D.H. Lawrence – fino alla funzione attribuita all’eccitante da Aldous Huxley, alle scoperte di Timothy Leary e Richard Alpert, all’uso di massa, veicolato dai beat, che avrà fatto gran bene alla musica ma non troppo all’uomo. Iannaccone studia l’uso ‘politico’ che fu fatto della droga, l’abuso dei servizi segreti, le nuove frontiere della ricerca lisergica (che ci coinvolgono). Nella zuppa degli anni Sessanta-Settanta, in cui il Libro tibetano dei morti veniva alternato ai Beatles, dove tutto era essoterico, si scambiava il sesso libero con il tantrismo e dal triplice love si passò alle pallottole e alla coercizione per mezzo di allucinogeni, l’uomo cercava, è canone, l’Oriente fuori di sé, l’El Dorando in un’India dei desideri. Di solito, basta guardare sotto i piedi, nell’erba, dietro la sedia. (d.b.)
Da Coleridge (su cui apri il libro) in qua, fino a Baudelaire, Artaud, Jünger, si ritiene che l’eccitante sia necessario ad ‘aprire la mente’ verso immaginari inauditi, utili, in era moderna e contemporanea, all’arte: è effettivamente così?
Necessario no, direi utile ad alcuni sicuramente. A qualcuno lo shock chimico ha dato una scossa creativa. Samuel T. Coleridge, in un momento di stanca, iniziò a scrivere il poemetto Xanadu, piccolo gioiello del sublime, ma non riuscì a finirlo. Si servì del laudano, l’oppio in forma alcolica, per calmare le ansie di cui soffriva ma in seguito vi ricorse meno. Un vero cultore di una sostanza che, in certi casi e ad alte concentrazioni, viene talvolta inserita nella farmacopea psichedelica (parola inventata come è noto nel 1957 dallo psichiatra Humphry Osmond) è stato Charles Baudelaire. Avremmo avuto Baudelaire senza l’hashish e senza l’oppio? Non credo. Antonin Artaud è un altro caso interessante. Era dipendente dagli oppiaci a causa di dolori cronici ma la sua vera ricerca delle visioni iniziò con il peyote. Negli anni Trenta si recò in zone selvagge del Messico, a dorso di asino, camminando per strade difficili, giungendo al paese dei Tarahumara che descrive con accenti che ricordano i “paesi impossibili” di Howard P. Lovecraft. L’esperienza che ebbe con un “prete dei cigurì”, come lo chiama lui, sciamano del peyote, è impressionante. La descrive, appunto, nel libro Al paese dei Tarahumara. Sottoposto al rituale – dopo essere stato messo in guardia – si trova proiettato in un mondo inaudito, dove vi sono occhi giganteschi, figure colossali e incomprensibili. Alla fine si sente “rovesciato” da se stesso e da allora non abbandona più quella sensazione. Ma è difficile dire se questa esperienza abbia influito sulla sua creatività: pochi anni dopo verrà rinchiuso in una clinica psichiatrica. Chi, a parte Baudelaire, ha sicuramente lucrato di più di questi esperimenti è stato Ernst Jünger. Con la sua olimpica tranquillità, ha “assaggiato” di tutto” senza perdersi. Aveva internamente il modello del suo personaggio Peri che si trova nel romanzo Heliopolis (1949). Peri è lo psiconauta che nel suo romanzo cerca nei territori del sogno aiutandosi con droghe rare che prende con oculato timore. A differenza di tutti gli altri, Jünger, che 20 anni fa ci metteva in guardia dall’avvento dell’epoca dei “titani”, la nostra, è morto a 102 anni.
Qual è l’autore più ‘lisergico’ e quello per cui l’uso di eccitanti si è rivelato un disastro?
Personalmente credo che l’uso massiccio di LSD, in particolare, sia stato un carburante per il rock e il pop ma un deprimente per gli uomini di lettere, per la filosofia e per il pensiero in generale. Anche se ci sono delle eccezioni. Si potrebbe citare il romanziere Ken Kesey. Giovanissimo, dopo un corso di letteratura, mentre cercava di scrivere, accettò di sottoporsi a sessioni pesantissime di assunzione di sostanze allucinogene in un ospedale militare. Si trovò cambiato per sempre e durante quelle sessioni scrisse un romanzo bellissimo: Qualcuno volò sul nido e del cuculo. È il romanzo che ci racconta che i matti sono più sani dei sani (era l’argomento di quegli anni, ma anche dei nostri tempi folli); e del capo indiano che viene liberato dalla sua riserva mentale. Quello fu scritto sotto l’effetto dell’LSD. Come Sometimes a Great Notion. Dopodiché, Kesey si perse. Rimase per sempre il leader dei Merry Pranksters, gli Allegri Burloni che inventarono il viaggio americano Coast to Coast sul famoso bus multicolore Furthur: fecero il viaggio coast-to-coast al contrario, dalla California allo stato di New York, sino alla tetra dimora dove si erano rifugiati i professori di Harvard psichedelici, Leary e Alpert. Andrò contro il gusto di alcuni ma, secondo me, il disastro maggiore è William Burroughs, che si sentì posseduto da un demone dopo aver ucciso la moglie sotto l’effetto della droga, un demone che lo tormentò per tutta la vita. Scrisse di incubi e orrori e poco altro. Disse di sentirsi più tranquillo quando si fece fare un esorcismo, ma successe negli ultimi anni della sua vita.
D’altronde, da quando l’uomo è uomo cerca i metodi più facili per ‘uscire di sé’: tra estasi ed ecstasy la distanza pare breve… Cosa ha animato la tua ricerca, perché l’hai svolta, da quale ispirazione sei partito?
Sono sempre stato affascinato dagli stati alterati di coscienza, da ciò che possono indurre, dai loro pericoli, dal fatto che vengano sempre ricercati. La preghiera cerca un’alterazione della coscienza, e la mistica anche, necessariamente. Non a caso, ho concluso il mio percorso universitario con una tesi sugli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola, che comprendono una fase di immaginazione attiva, immersiva, assolutamente unica. Lui coronò la sua conversione con la visione di Manresa, dopo la quale vide che tutto era come lo aveva sempre visto, ma con un “significato diverso”. Parole enigmatiche e affascinanti, un’esperienza potente ma indicibile, che mi ha sempre affascinato. E più di recente, ho pubblicato una biografia di san Giovanni della Croce, Benché sia notte, il carmelitano scalzo spesso inabissato in lunghe estasi. Senza capire molto della qualità della sua estasi e senza sottilizzare in teologia, i dottori lisergici di Millbrook usavano proprio La Notte Oscura di Giovanni durante i loro trip. Dunque, a chi mi chiede come mai mi occupi di cose così diverse fra loro, rispondo che non sono argomenti diversi: è lo stesso argomento visto da angolazioni diverse.
Jünger, nel suo dialogo con Alfred Hofmann, lo ‘scopritore’ dell’Lsd, pone una netta differenza tra un uso della droga che tocca il sacro, esito di un percorso di ricerca personale, e il vilipendio pop (beat) della medesima sostanza, come ‘sballo’. Regge questa distinzione?
Regge, perché – lasciando perdere le culture sciamaniche orientali o nordiche – per millenni nel centro dell’Europa sono esistiti luoghi come i templi di Apollo, Demetra e Persefone, con Eleusi in primis, dove l’esperienza estatica era favorita, nelle sue visioni, da ingestioni di sostanze, funghi o bevande inebrianti. Lì non c’era sballo ma ricerca, ritualmente ordinata, preparata. Il vino dell’eucaristia sta proprio a significare la sostituzione, una volta per tutte, di ogni sostanza inebriante, portatrice di visioni e stati alterati di coscienza, con la Visione ultima, cristiana. Dunque, sì, la distinzione proposta dall’aristocratico Jünger, psiconauta attentissimo, è valida e concordavano molti seri studiosi, a cominciare da Mircea Eliade. L’intossicazione della Rivoluzione psichedelica fu selvaggia, sregolata, all’inizio indotta poi autoalimentata, e produsse inizialmente una fiammata di creatività soprattutto nella musica, diciamo sino alla metà degli anni Settanta o poco oltre, dopodiché si spense. Oggi, nei rave, altre sostanze che alterano la percezione del tempo e dello spazio impongono un dionisismo brutale, feroce.
Come si connette l’uso della droga con una propensione ‘politica’, con una scelta sociale? Uscire da questo mondo in una forma ‘rivoluzionaria’, per costruire un altro mondo.
L’uso della droga per alimentare smottamenti politici fu teorizzato prima dai Beat, negli anni Cinquanta. Erano intossicati di anfetamine, benzedrina, alcool: isterici, veloci, cattivi e disorganizzati. Piccole cerchie che cercavano la rivoluzione personale che doveva poi estendersi alla politica, ma con calma. Poi arrivarono gli Hippy, molti dei quali erano sicuri che la civiltà sarebbe velocemente crollata, che ci sarebbe stata penuria di tutto, che il sistema non avrebbe retto e che soltanto gli psichedelici potevano “curare” la società. Era la versione pop di ciò che pensavano anche alcuni psicologi come Richard Alpert (che poi divenne il guru Ram Dass). Alcuni produttori indipendenti di LSD proposero veri e propri manifesti politici per distribuire l’LSD ai potenti. L’acido lisergico divenne la sostanza più importante e diffusa, più dei derivati del peyote (mescalina) e del derivato del fungo provato da Artaud, la psilocibina. L’LSD era più abbondante, potente. Anche i politicizzati di Berkeley vi si convertirono. Erano convinti che potesse “cambiare” il mondo, rivoltarlo, spargendo pace, amore e tolleranza e… Love, Love Love. Ci credettero davvero, alcuni, tanto che distribuirono decine di migliaia di dosi gratuitamente. Sono i cosiddetti Johnny Appleseed, i “disseminatori”, i distributori di LSD, più o meno collegati a centrali oscure, come Al Hubbard o l’inglese Michael Hollingshead soprannominato L’uomo che ha acceso il mondo. E Aldous Huxley, naturalmente, che è stato il vero ideologo della Rivoluzione psichedelica. Soltanto che Huxley non credeva ai progetti rivoluzionari alla Leary, ma a un’infusione lenta, per cerchie che dovevano allargarsi piano piano. Non negli stadi, come volevano Leary o i Merry Pranksters di Ken Kesey. Huxley ha lasciato un vero e proprio progetto politico nel libro L’isola, scritto poco prima di morire.
Come entra la Cia nella tua ricerca?
La Cia entra perché, come tutte le agenzie del mondo (di quella russa sappiamo meno), aveva attivato dei progetti per capire come potevano essere usate determinate sostanze. E ha unificato nel 1953 tutti i progetti militari già attivi, principalmente interessati a capire se fosse scientificamente possibile il “lavaggio del cervello” e il controllo mentale, nel famoso progetto ombrello Mk-Ultra, attivo, con vari nomi, dal 1953 al 1973, e poi inabissatosi probabilmente con altri nomi. Hanno così sperimentato in studi finanziati a università e centri ricerca, ma anche in studi sul campo molto meno scientifici, e persino su soggetti inconsapevoli, gli effetti di mescalina, psilocibina, DMT, LSD principalmente, e poi di altre sostanze. Alla fine hanno probabilmente scoperto che gli usi non potevano essere massicci come si pensava. Eppure una fazione interna, secondo Leary e altri protagonisti di quella stagione, volle la distribuzione massiccia dell’LSD nelle strade come esperimento sociale. La sostanza, si diceva, diminuiva la conflittualità sociale. Così nacque l’esperimento di Haight-Ashbury e della Summer of Love. Molti aspetti sono poco chiari ma è sicuro che dopo la messa al bando dell’LSD nel 1966, servizi segreti, grande finanza e trafficanti internazionali, tutti collegati, si misero nell’affare della produzione di sostanze di vario effetto, e soprattutto dell’eroina che inondò il mercato a fine decennio, cambiando il mood. Ad ogni modo, a parte i finanziamenti cospicui, a pioggia, a tanti istituti che dovevano studiare gli usi militari o di intelligence delle sostanze psichedeliche, non si possono ignorare due fatti: Timothy Leary era l’autore del manuale di profilazione degli agenti della CIA (il Leary) prima di diventare il profeta dell’LSD. E tutta la storia dell’interesse dell’agenzia per la sostanza venne fuori quando la famiglia di Olson, l’uomo a cui era stato sciolto dell’acido in un cocktail e che si era ucciso gettandosi da una finestra, chiese la desecretazione dei documenti. Da qui, la commissione Church nel 1977 pubblicò migliaia di pagine dove venne fuori la vastità dei programmi di ricerca dell’agenzia.
Qual è stata la scoperta più sorprendente in cui sei incappato facendo ricerca?
La scoperta è che oggi si torna a progettare una rivoluzione psichedelica, ma più medicalizzata. Molti di coloro che furono in disaccordo con la messa al bando delle sostanze psichedeliche ed enteogeniche nel corso del 1966 e poi via via, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, hanno costituito fondazioni e centri ricerca riuscendo a far riammettere programmi per l’uso clinico dell’LSD e altre sostanze a scopo terapeutico, come la cura dell’alcolismo. Il che va bene, è un ritorno a sperimentazioni già tentate, ma la cosa più preoccupante è che molti di questi scienziati e attivisti sostengono l’uso di certe sostanze per migliorare quelle personalità che loro considerano “dogmatiche” “rigide” o “intolleranti”. Si apre così alla possibilità della psichiatria politica del resto già apertamente discussa ad Harvard, oggi come 50 anni fa.
Sintetizza la ‘morale’ della favola, le conclusioni del tuo libro.
Che la favola degli apprendisti stregoni andrebbe continuamente rimandata a memoria.
*In copertina: Maggio 1969, di fianco a John Lennon e Yoko Ono, a destra, Timothy Leary e la moglie Rosemary
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“Come giglio affondato nel canile”. In memoria di Mario Scalesi, il poeta maledetto finito in una fossa comune
Accade, talvolta, di ritrovarsi nelle “vite degli altri” ancor prima che nella propria. E tanto più quanto vivere ci espone allo scherno e al fallimento, a essere braccati dall’ipocrisia delle conventicole, al consumarsi dei sogni incendiari. Mario Scalesi fu poeta nel più compiuto dei cammini, quella balistica esistenziale che mirando ad astra lascia le ossa a marcire nel fango. Di origine siciliana ma di lingua francese, nasce a Tunisi nel 1892 e si spegne, ormai eroso dalla tubercolosi e dalla demenza, nel manicomio Vignicella di Palermo, a trent’anni, ufficialmente “per marasmo”. Una voce, quella del poeta tunisino, che contiene, come un glauco guscio di conchiglia, l’eco di mille voci: dalle più illustri e roboanti alle più miserabili e profanate. Scalesi intitola la propria unica raccolta poetica – pubblicata peraltro post mortem – Les Poèmes d’un Maudit; è una dichiarazione d’intenti, una consapevole revolverata all’angusto mondo letterario coloniale e, nel contempo, un affiliarsi al ceppo fecondo degli Hommes d’aujourd’hui. Sia detto, per scrupolo aneddotico, che il tunisino, figlio della plebe del Maghreb, portava con sé, come breviario e reliquia quella magistrale, e nondimeno borghesissima, melopea antiborghese che sono i Fiori del Male. La condizione umana, come avrebbe scritto Malraux, che fa da quinta alle liriche di Scalesi è lo squallore pulsante dei suk nordafricani, sideralmente lontani dai fasti artificiosi dei boulevards. Un richiamo a quell’ancestralità del popolo incorrotto, alla sua vitalità primigenia, che in Italia sarà soggetto privilegiato dell’opera di Pasolini.
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Poeta, dicevamo. Minore, senz’alcun dubbio. Il primo approccio meditato all’opera di Scalesi si deve a Pierre Mille, critico letterario per “Les Nouvelles Littéraire”, il quale nel 1934 avrà a scrivere, impossibilitato a evitare la scomoda comparazione tra il tunisino e la diarchia Baudelaire/Verlaine: «La sonorità, l’ispirazione, e io oserei dire anche la sincerità nuda e cruda, sono del tutto differenti! Io mi convinco volentieri (…) che Scalesi ha il diritto di essere incluso nel novero dei poeti ‘minori’ ma perciò essenziali che, maledetti o no, avevano qualcosa da dire, e l’hanno detta come nessuno aveva fatto prima di loro, con accenti che sono loro propri, che non si trovano presso altri». Può infatti dirsi minore soltanto colui che nasce lontano dai riflettori della scena letteraria, ignorato dalla critica e schifato dalla notorietà; perché di ‘minore’, nel poeta tunisino, c’è ben poco, certamente non più di quanto possiamo rinvenire nelle nervose e dolenti pagine di un Carnevali, altro negletto figlio d’Italia.
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E se minori si diventa, maledetti si nasce. Frutto sofferto di un sottufficiale della Regia Marina Italiana, riparato clandestinamente a Tunisi, e di una donna italo-maltese domestica a ore, Scalesi all’età di cinque anni subirà il primo degli innumerevoli rovesci che il destino, come per Carnevali, gli ha riservato: cadendo dalle scale della propria abitazione lesionerà irrimediabilmente la colonna vertebrale, condannandosi alla deformità. Le precarie condizioni economiche della famiglia non gli consentiranno una istruzione adeguata: la miseria – per voler restare nel solco del maledettismo ‘minore’ –, come soleva dire Giovanni Antonelli nel suo autobiografico Il libro di un pazzo, «è il maggior delitto per gli uomini». Il giovane tunisino si vede così costretto a impiegarsi come contabile e contabile resterà fino all’aggravarsi irreversibile del proprio quadro clinico. Un poeta da partita doppia, un Pessoa in tredicesimo, si licet.
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Da questo intossicato humus germinano le sue visioni: liriche votate a un anelito di purezza, alla radiosità mediterranea – a lui preclusa – dell’amore, al vagheggiare impossibili rivoluzioni, alla preghiera blasfema, fino al lamento di uno spirito segregato in una carne marcia. Senz’alcuna concessione alla compiacenza – così tipica degli scrittori di estrazione borghese, dardo scagliato contro lo stesso amato Baudelaire – Scalesi scrive: «Maurice Olivant è uno di quei poeti puramente parnassiani, innamorati del verso chiaro e semplice, che, tenendosi lontani dalla virtuosità di Hugo, dal sentimentalismo oltranzista di Musset, dalla stupida isteria di Baudelaire, dall’insopportabile freddezza di Leconte de Lisle, si sono applicati a fare versi soltanto perché essi amano i versi» (“ChroniqueLittéraire”, 14 dicembre 1919).
La lingua che non dimentica del poeta sa screziarsi di timbri violenti, come nel sonetto Communion:
L’anima mia, un tempo, in un sospiro con fiori ingenui volava ai tuoi piedi, Signore! Avevo la fede degli avi e ti credevo buono, o Dio crudele.
Ti insegnò, Giuda, l’arte del tradire. Il cielo, il sole e le false dolcezze riflettono il suo bacio dal Getsèmani…. Ho bisogno d’aver fede e di odiare.
Ingelosendo Maria e i suoi angeli, dove il pane eucaristico si serve attenderò, sornione, inginocchiato.
Imboccherò quell’ostia immacolata, e insanguinando l’istante sacrilego ti spezzerò come tu m’hai spezzato.
O di fraterna pietà per la sorte dell’uomo, impotente dinnanzi all’indifferenza divina, come in La robe blanche:
Indossa l’anima, nascendo, un abito ordito da celesti dita magiche, etereo e puro, dall’aerea trama, più bianco d’una candida gelata.
Ma ai primi passi nell’aspra vallata dall’aria infetta da antichi peccati, come giglio affondato nel canile s’annerisce la fibra immacolata.
Viandanti in preda a cecità, sacrileghi, del tutto profaniamo il bel vestito per ripartir coperti d’ombra e fango.
Perciò, nell’ora triste dei rimorsi, mentre l’eternità specchia cupezza, dimora orrore negli occhi dei morti.
«L’Africa del Nord», ebbe a scrivere il poeta in un articolo pubblicato su “La Tunisie Illustrée”, il 24 dicembre 1918, «è letterariamente inesauribile. Cento scrittori non basterebbero a evocare il suo prestigioso passato o a sfruttare i suoi aspetti pittoreschi. Ci restano molte cose da dire; quasi tutto. E noi arriveremo a dirlo».
Nel 1922 il corpo di Mario Scalesi venne gettato in una fossa comune del cimitero di Palermo. La sua voce randagia non cessa di risuonare tra le rene e le onde.
Luca Ormelli
Editing Matteo Fais e Luisa Baron
Bibliografia:
*Mario Scalesi, Les Poèmes d’un Maudit – Le Liriche di un Maledetto, a cura di Salvatore Mugno, ISSPE, Palermo 1997. Si tratta dell’unica traduzione in lingua italiana di parte del suo corpus poetico, arricchito con dovizia di contributi, saggistici e biografici, cui ho attinto nella stesura di questo articolo.
*Giovanni Antonelli, Il libro di un pazzo, Giometti & Antonello, Macerata, 2016.
Il mio ringraziamento a Salvatore Mugno e a quanti, nel corso degli anni, hanno soffiato sulla brace di Scalesi per tenerne viva la memoria.
**In copertina: Mario Scalesi in un ritratto di Fichet del 1920
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