#Franco Scataglini
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Pubblicato il "Vocabolario del dialetto di Matelica" a cura di Ennio Donati
La nuova corposa opera di Ennio Donati (600 pagine che contengono circa 16.000 vocaboli) è relativa alla costruzione di un vocabolario del dialetto di Matelica, comune del Maceratese dove è nato nel 1946. Dal 1980 l’Autore, pur indissolubile alla sua città natale, vive nella rivierasca Senigallia. Laureato in Ingegneria Chimica all’Università “Alma Mater” di Bologna nel 1970, è iscritto…
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#Agostino Regnicoli#dialetto#Diego Poli#dizionario#Ennio Donati#Flavio Parrino#folklore#Franco Scataglini#Gabriele Ghiandoni#Leonardo Mancino#Lorenzo Spurio#Marche#Matelica#Matelicese#poesia#popolare#Teatro Piermarini#Vocabolario#Vydia#Vydia Editori
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venticinque luglio
Guido Scarabattolo
Simetriche, duerne sul calamo, ed alterne, otto foie guarniva la rosa promissiva. Quando anusai el suo odore seppi che né p’amore né per forza strappato saría da l’incantato fiore, da vivo, mai. Súbito l’acostai
per còielo, ma invano: s’ergea contro la mano la driza de le spine come un stigio confine. Amore, non distante (no avea smeso un istante
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#Don Ellis#Elias Canetti#Franco Scataglini#Guido Scarabottolo#Johnny Hodges#Joyce Mansour#Luca Cerchiari#Paul Watzlawick#Wanda Wulz
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la festa della poesia "i fumi della fornace", 27-29 agosto 2020 a valle cascia, nelle marche
la festa della poesia “i fumi della fornace”, 27-29 agosto 2020 a valle cascia, nelle marche
Anteprima del programma della seconda edizione de I fumi della fornace – Festa della poesia 2020 (27, 28, 29 agosto, Valle Cascia)
27-28-29 AGOSTO, dalle 19:00 alle 20:00
-La Specie Storta. Un rito teatrale collettivo orchestrato da Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi
27 AGOSTO, dalle 22:00
-Due pezzi di teatro pandemico – Parte I di Francesca Rossi Brunori; suono di Domenico Maria Mancini
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#Andrea Balietti#Andrea Franzoni#Andrea Luzi#Angelo Ferracuti#Argolibri#Barbara Aliké Mancini#Benway series#Bevano Est#Carlo Selan#Cervi Volanti#concerto#Corrado Costa#Diana Caponi#Domenico Maria Mancini#Eleonora Tanucci#Francesca Rossi Brunori#Francesco Iannone#Franco Scataglini#Giorgiomaria Cornelio#Giuditta Chiaraluce#Giulia Gallo#Giulia Pigliapoco#I cervi volanti#I fumi della fornace#Ilaria Pranzetti#incontro#Ivo Consalvi#lettura#Lorenzo Conforti#Loris Cericola
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Dave Holland Quartet con poesie di Franco Scataglini
Dave Holland Quartet con poesie di Franco Scataglini
Teatrini d’ombreFinestre iluminatepe’ le viuze sgombre:pare teatrini d’ombrein ‘ste noti d’estate. Se move senza posale snele figurinein rilievo, turchinesopra quei schermi rosa. Recite senza ‘n filode trama, come ‘n sogno.Però resta ‘l bisognod’indovina’ ‘n profilo. * M’hai lasciato un giardi’C’è chi lascia un poemae chi non lascia nienteperché esse muto è il temade vive, in tanta gente. Però te…
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Dentro l’arte di Enrico Piras, l’incisore mitologico. Come Giovanni Pascoli, Mario Luzi, Paolo Volponi
Ci sono delle patrie poetiche che attengono al mondo dell’incisione, la quale ha una stretta correlazione con la scrittura in versi. Ci riferiamo a quella tecnica in cavo nella matrice di metallo che può essere incisa direttamente (bulino o puntasecca), oppure mediante acidi (acquaforte, acquatinta, cera molle). L’inchiostro penetra nei solchi creando un distintivo, un marchio d’arte. Un incisore e pittore di livello, Enrico Piras (nato a Sassari nel 1931, dopo la laurea in Lettere fu a contatto con illustri personalità tra cui Joyce ed Emilio Lussu), ha fatto di Olzai, un paese sardo in provincia di Nuoro, il suo universo granitico nel piccolo anfiteatro a ridosso della montagna, una specie di villaggio perso in una rifrazione come tante altre nella relazione profonda alla radice del sentire (senso e sentimento del luogo). Le sue incisioni sono architetture naturali tra posti impervi in pietra, case, scalette, campane, vegetazione, alberi, cespi, inquadrature viste dalla finestra delle abitazioni dei contadini. Come ha scritto Manlio Brigaglia, Enrico Piras ha avuto il “dono dai suoi dei”: non solo portare appresso il suo borgo (nel rione Drovennoro), ma continuare ad abitarlo dall’infanzia e dalla giovinezza, dando dunque una figurazione alle cose inalterate nel tempo e nello spazio. Di queste incisioni colpiscono le stradine periferiche che potrebbero delineare il riquadro di qualunque secolo, un passaggio stretto verso il bosco millenario, i viottoli medievali, scorci poveri e per lo più di esterni (raramente di interni domestici). La vernice molle e l’acquatinta ricreano le nevicate d’epoca in un orizzonte storico e geografico di questo microcosmo isolano: una vera e propria terra elettiva.
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Un lavoro di Enrico Piras, “Scala di granito” (acquaforte, 2005)
Enrico Piras, allievo di Carmelo Floris e Staney Dessy, è certamente ispirato da quelle stesse intenzioni con cui Vittorio Sereni, scrivendo ad Attilio Bertolucci, affermava che avere una patria poetica significa essere sovrano, sentenziando così il massimo risultato. La stessa cosa diceva Franco Scataglini, il dialettale di Ancona, ormai un classico del Novecento: “È dove vivi ogni giorno e ciò di cui vivi che costituisce con il tuo corpo la tua identità profonda”. Elisabetta Pigliapoco nel suo libro Patrie poetiche (peQuod 2010) ha attraversato i luoghi della poesia contemporanea coadiuvata dalle relazioni critiche di Alberto Casadei, Roberto Galaverni e Gualtiero De Santi (tra gli altri). Tornando ad Enrico Piras, si intuisce facilmente che esiste una poesia di gesti e una poesia di immagini, che il linguaggio della parola non è il solo con cui determinare una ricerca storica, la dolcezza di una realtà paesaggistica, così come lo stato d’animo che rappresenti e interpreti il proprio mondo, o meglio la coniugazione io-mondo. Piras è mitologico come Giovanni Pascoli, Mario Luzi, Paolo Volponi. L’esperienza dell’incisore non vuole dare rilievo ad un particolarismo riduttivo, ma essere fonte di un’idea che tutto ciò che sfugge alla connotazione determinata dal luogo conosciuto è anch’esso una misura assoluta nel mistero dell’esistere materiale e culturale, antropologico: un vissuto che gravità appunto in un’identità come fosse possesso, prodigio da ammirare nella grande memoria dell’Italia, lontana però da questioni di carattere sociale e politico, da un’ideologia allusiva, da un conflitto regionalistico. Le incisioni di Enrico Piras sono una produzione virgiliana, sovrastorica e dunque fuori dalla cronaca di oggi, immerse fatalmente in un territorio romantico.
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L’incisore, seguendo una sua toponomastica, non si chiude nel borgo, ma apre una via simbolica con le coordinate prive di misure o confini, quasi che la geografia specifica racchiuda anche una bussola per orientarsi in un anfratto iniziatico trasformato in canto, in godimento per la terra madre, in una verità fatta di illuminazioni, di abitudini umane nei casolari e dietro ai cancelli di quelle casupole dai tetti bassi o in quegli stabili innalzati verso il cielo, con i soffitti altissimi. Siamo ad Olzai, ma potremmo essere ovunque a raccontare un paese poetico: nella Langa di Cesare Pavese come nella Maremma di Mario Luzi, perché ogni escursione assomiglia ad un’altra, come ogni fusione tra natura e luogo urbano, nell’unicum della sacrale contrada affacciata dietro un cipresso o una quercia. La peculiarità espressiva è pertanto una partitura fitta di segni che fluiscono, nel vaso comunicante tra incisione e poesia, in un’area solo all’apparenza ristretta. Involontariamente Piras ci romanda allo stesso Gabriele D’Annunzio “passeggiatore” nel suo Abruzzo aspro e roccioso che assomiglia molto, in quel santuario d’amore en plein air, al territorio sardo nei dintorni di Olzai. Tecnicamente, l’opera è ben descritta da Nicola Micieli che parla di “gusto per la composizione a larga stesura cromatica”, nonché del senso della dispiegata luminosità nella materia pittorica, “che trova argine e salda disciplina nel disegno che definisce l’impianto visivo”.
Alessandro Moscè
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Castelnuovo Scrivia: Gennaro Pessini, Sugli argini solenni. Tutte le poesie edite
Castelnuovo Scrivia: Gennaro Pessini, Sugli argini solenni. Tutte le poesie edite
Castelnuovo Scrivia: Gennaro Pessini, Sugli argini solenni. Tutte le poesie edite
Carissimi, abbiamo il piacere di invitarvi a una presentazione molto particolare: Gennaro Pessini, cittadino di Castelnuovo Scrivia, è stato grande personaggio culturale e poeta importante, come prova la prefazione di Franco Scataglini alla prima delle sue due raccolte edite; con il Patrocinio del Lions Club di…
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#Angelo Lumelli#Castelnuovo Scrivia#Franco Scataglini#Gennaro Pessini#Lions Club di Castelnuovo#Poesie#Poeti#Puntoacapo
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Concetto e venature di "vita" in poesia. Note su poeti anconetani. Da Scataglini a Curzi e Ausili. Articolo di Stefano Bardi
Concetto e venature di “vita” in poesia. Note su poeti anconetani. Da Scataglini a Curzi e Ausili. Articolo di Stefano Bardi
Articolo di Stefano Bardi
Il poeta anconetano Franco Scataglini (1930-1994) nel 1977 diede alle stampe la raccolta So’ rimaso la spina, opera dal titolo fortemente simbolico; qui la Vita è intesa come una creatura che ci spolpa, proprio come l’irruenza delle onde del mare. Un primo tema è quello della Vita, che ci priva di qualsiasi cosa per noi importante, ci cancella, ci azzera e ci immerge in…
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#Ancona#anconetano#confessione#critica#dolore#Franco Scataglini#letteratura#Marche#Marco Ausili#poesia#poeta#recensione#saggio#Senigallia#solitudine#Stefano Bardi#Valtero Curzi#vita
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“La poesia può salvare le persone, ma il poeticismo sul web sta distruggendo un genere letterario. Io preferisco parlare con i poeti morti”: Gabriele Galloni dialoga con Alessandro Moscè
Alessandro Moscè come critico letterario ha pubblicato l’antologia “Lirici e visionari” (2003) e i saggi “Luoghi del Novecento” (2004) e “Galleria del millennio” (2016). Come poeta, tra l’altro, ha pubblicato “L’odore dei vicoli” (2004) e “Hotel della notte” (2013); ha pubblicato i romanzi “Il talento della malattia” (2012) e “L’età bianca” (2016). Tradotto in Romania, Spagna, Messico, Argentina, scrive di letteratura su “Il Foglio”. Un profilo più completo del suo lavoro è qui.
Il tuo percorso letterario non ha bisogno di alcuna presentazione. Le tue poesie sono tradotte in diverse lingue e le maggiori voci critiche del nostro paese si sono occupate della tua opera, che spazia dalla poesia al romanzo, alla saggistica, fino alla curatela di importanti antologie. Raccontaci, a introduzione, la tua strada. Dall’esordio in poesia, con L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro 2005), fino ai tuoi ultimi progetti.
Nasco come poeta, ma in realtà furono i miei primi racconti ad essere pubblicati in riviste di terza mano. Erano ciclostili che si distribuivano quasi clandestinamente nelle università e nei circoli improvvisati dove passavano politici, anarchici, paninari e new wave in un’epoca molto disimpegnata. Ero un ventenne che cercava la sua lingua e la sua cifra interiore. Leggevo i poeti e i narratori, i classici (Dante, Leopardi, Baudelaire, D’Annunzio, Sartre). Mi piacevano i filosofi, ma intuivo che la cerebralità del pensiero non faceva per me. Dovevo confrontarmi con la natura umana e con la vita, con l’esperienza, la mia innanzitutto. Per questo l’impatto più proficuo l’ho avuto con i viventi che restituivano storie assimilabili a quelle di tutti i giorni: La donna leopardo di Alberto Moravia e Il terzo aspetto di Giorgio Saviane furono libri capitali che mi indicarono la strada del sentimento (ma non del sentimentalismo) e dell’eros come elementi perfino formativi di un individuo. Ho amato molto Il canzoniere di Umberto Saba e Ossi di seppia di Eugenio Montale. Scoprivo i critici per incamerare una visione complessiva del mio tempo, ed eravamo alla fine degli anni Ottanta: Gianfranco Contini, Carlo Bo, Natalino Sapegno, Carlo Salinari, Geno Pampaloni. La letteratura mi prendeva la mano mentre conducevo studi universitari di Giurisprudenza. Più tardi ho scoperto la dimensione geograficamente più vicina, quella in cui risiedo, le Marche, con il massimo poeta dopo Leopardi, Franco Scataglini, e il suo concetto di residenzialità. “Che senso ha vivere qui e non altrove?”. Maturavo inoltre l’idea dell’inesattezza di un cascame di tipo accademico per cui poesia e narrativa sono generi distinti e inconciliabili. Credo nella contaminazione dei due generi e nella poesia-racconto, così come nella narrativa con un tono lirico ed epico. In Italia, stranamente, ad un narratore di successo non viene attribuita mai la patente di poeta: eppure abbiamo annoverato, nel secondo Novecento, Pier Paolo Pasolini, Paolo Volponi, Giorgio Bassani e Alberto Bevilacqua, solo per citare alcuni casi di ambivalenza creativa di notevole qualità. Capivo, da ragazzo, che la letteratura non manipola nulla, non strumentalizza la verità. Solo così i conti possono tornare. Il tempo della letteratura è l’esatto opposto di ciò che si forma nell’immaginario della gente. Cito María Zambrano che ha scritto La confessione come genere letterario. Vita e pensiero, ci ricorda la Zambrano, non sono due mondi eterogenei o due totalità autosufficienti, ma una sola realtà, quella esistenziale. Il pensiero non può porsi come antagonista della vita, bensì come principio capace di renderne conto.
L’odore dei vicoli è una plaquette dove la dimensione esistenziale, notturna, misterica, abbraccia la mia città, Fabriano, e il luogo principe della mia poesia: il giardino comunale: una specola, una specie di piccola Langa dove non emerge il posto in sé, esiliato e anonimo come qualunque altro, ma l’occasione per interrogare il senso di perdita, i vivi e i morti, il ricordo struggente, le figure amatissime dei nonni paterni e materni. In quel giardino, da piccolo, ho incominciato a camminare, sono cresciuto, diventato adolescente. E’ un luogo aperto, da dove si arriva al centro della città passando attraverso vicoli sdrucciolevoli, con i muri delle case di mattone grezzo con l’intonaco sbriciolato e le finestre posizionate ad altezza d’uomo. Sembra di immergersi in un tempo lontano, sospeso, come spesso accade nell’estesa provincia del Centro Italia.
C’è una dimensione assoluta nella tua scrittura, che è quella del luogo. Luogo inteso come rievocazione, soprattutto: più illuminazione che epifania. Una residenzialità dell’anima (non a caso sui luoghi dell’anima e della scrittura hai scritto una bellissima raccolta di saggi, Luoghi del Novecento, edita nel 2004 da Marsilio). Le coordinate geografiche, precise e definite, sono il lasciapassare per un’identità poetica universale. Penso a certe rivelazioni di Stanze all’aperto (Fabriano d’inverno, i luoghi dell’estate, le tue luminosissime Marche) oppure a Hotel della notte, dove la stessa materia si dilata fino a rarefarsi ancor di più (la sedia impagliata su cui siede l’amico, i giovani nelle notti invernali, il nonno addormentato). Quel che voglio chiederti è: qual è il preciso rapporto tra poesia, la tua poesia, e il luogo? Pensi che l’opera di un autore sia inscindibile dai suoi luoghi?
I miei luoghi sono spesso concreti, visivi, fotografici. Luoghi fisici, ma anche metafisici, sempre sull’orlo di una scomparsa, di una ripresa, di una salvazione. La poesia non trova la sua necessaria radicalità nel luogo, piuttosto nella corrispondenza con il luogo come occasione per dilatare il mondo nella realtà globalizzata. Nasce quindi un vero e proprio sentimento del luogo in cui si mescolano confidenza e mistero nell’escursione dalla propria “roccaforte”. È Ancona il luogo che ho addomesticato di più nell’infanzia, perché ci hanno vissuto i nonni. Il Natale da nonno Ernesto assumeva la veste di un rito che per nessuna ragione poteva essere rifiutato. Una famiglia allargata si univa intorno ad una tavola per il pranzo delle feste. Quindi parlo di un luogo prettamente casalingo. Ma nella mia poesia c’è anche il luogo universale, mitico. La storia di Fabriano si compone di realtà e fantasia, come dappertutto. L’uno e l’altro aspetto non si distinguono più. Il passato è un oggi che la storia non lascia addormentato, arricchito di particolari secondo versioni sempre diverse. Per questo la leggenda locale ha una funzione: è una vera e propria partitura che si rinnova di decennio in decennio. La memoria della gente sente il beneficio di una scoperta, l’impazienza di aggiungere dettagli. Ma il passato non è solo testimonianza di ciò che è successo, che non succederà più. Rivive la presenza dei secoli nell’attimo in cui conosciamo la rappresentazione eterna del luogo. In questo le narrazioni orali assumono un significato fecondo. Scriveva Scataglini di aver messo a punto la premonizione che portava in sé dell’idea di residenza e che viene da un passo di Adorno in cui si parla esplicitamente di intellettuale residenziale in relazione al rapporto di Kant con la sua piccola Königsberg.
Nonno Ernesto, quando veniva da Ancona a Fabriano, sorseggiava il caffè poco zuccherato, io il cacao bollente. Mi accarezzava il viso e pronunciava parole ben scandite in dialetto anconetano. Si lasciava andare a battute ironiche, a pronostici sul campionato di calcio. Tifava per il Bologna, io per la Lazio. Nel capoluogo emiliano ci aveva fatto il militare e non sapeva dimenticare le lucine di San Luca. Amava i paesaggi collinari delle Marche. È stato lui ad insegnarmi il piacere dello sguardo rivolto ad immaginare le favole dietro i monti appenninici. Il luogo è anche la gente, lo sciame di persone che conosci e che ti conosce, il rito, l’abitudine. “Ci pare sempre di essere vissuti a lungo nei luoghi in cui abbiamo vissuto intensamente”, ha scritto Marguerite Yourcenar. Tutto ciò non può non confluire nella letteratura, se sei uno scrittore. Macondo di Gabriel Garcia Márquez, in fondo, è un luogo magico, corale, epico.
Alla rievocazione lirica, nella tua poesia, si accosta spesso un’impronta, una vena narrativa. Non a caso sei anche romanziere (Il talento della malattia e L’età bianca, editi entrambi dall’editore Avagliano). I due binari, prosa e poesia, procedono parallelamente? Si influenzano l’uno con l’altro?
In parte ho risposto nella prima domanda. Certamente sono contesti immaginativi che si intersecano nella visione dei luoghi, dell’assoluto metafisico, degli affetti familiari, nella biografia restituita alla scrittura, nei personaggi e nelle ambientazioni. C’è una rappresentazione della realtà che si può scrivere mediante la narrativa e la poesia, non tracciando uno spartiacque. Esiste anche la possibilità di incrociare le due scritture dentro uno stesso libro, dentro una stessa struttura. Un romanzo ha l’alibi della trasformazione, della dilatazione della realtà. La poesia è più istintuale, primitiva. Non tutto può essere espressione della lingua all’interno del canto, perché il lettore non lo capirebbe, sentirebbe il peso dell’inesprimibile. I romanzi e le poesie si giudicano quando si leggono, con la speranza di trovare ancora lo stupore della vita feriale. Le letteratura tutta è un avvenimento, non solo un percorso di parole: incanto e disincanto, visibile e toccabile. La poesia si annida spesso nel senso del non detto, del volontariamente celato. E quando il poeta sfida le convenzioni sociali e mette a nudo l’uomo, fa cadere un tabù. La poesia educa allo svestimento come l’arte figurativa, e non è un caso che le grandi tele e le grandi sculture del passato raffigurino dei nudi. Il mio orecchio è allenato alla lirica, alla melodia, non ad una versione sperimentale, gergale. La poesia è testimonianza. La narrativa mi permette una diluzione del tempo e dello spazio, e naturalmente molta più descrizione.
Hotel della notte è stato da poco tradotto in Sudamerica da Antonio Nazzaro (per l’editore Buenos Aires Poetry). Un riconoscimento importante e necessario per un libro che, a distanza di cinque anni dall’uscita, è ormai un caposaldo della nuova poesia italiana. Quanto e quale è stato il lavoro dietro questa traduzione? Il background, ecco.
È nato semplicemente dalla stima di chi ha letto Hotel della notte edito da Aragno nel 2013 e mi ha proposto la traduzione, ritenendo questa raccolta degna di essere conosciuta in un paese che presta moltissima attenzione ai poeti. Amore e combattimento sono due crocevia del libro, un’indicazione che accorpa il senso di una fede: se da un lato non credo alla funzione sociale e civile dello scrivere in versi, dall’altro sono però convinto che la poesia possa salvare le persone. I sudamericani prediligono la dimensione reale e visionaria, che del resto è anche la mia. Hotel della notte vivifica gli archetipi come la nascita e la morte, che entrano prepotentemente nel tempo che ci sottrae età, giovinezza, amori. La battaglia del poeta è contro tutto ciò che deperisce e si dissipa, contro tutto ciò che finisce. Non è un caso che gli stessi oggetti, nei miei versi, abbiano anima e voce. Antonio Nazzaro ha apprezzato il linguaggio anacronistico dove gli archetipi dominano l’istinto, ciò che non sarebbe mai espresso con un articolo di giornale. La comunione tra i vivi e i morti, alla quale alludevo, è incentrata specie su Pierino, al quale spesso ricorro. Era un omino della casa di riposo di Fabriano, un personaggio felliniano. Si diceva che portasse fortuna e per questo veniva invitato a battesimi e a matrimoni. Parlava con la Madonna e con la madre attraverso i pozzi e le pareti dell’ospizio. L’hotel della notte è il luogo fantastico del convivio dove in una hall affollata si ritrovano i miei protagonisti.
Questa è una domanda che mi piace rivolgere a ogni intervistato. Uccidere i maestri. Sei d’accordo con l’affermazione? E quali sono, o sono stati, i tuoi maestri?
Non ho avuto maestri, ma compagni di via e non li ho mai uccisi, ma anzi esaltati, valorizzati con i miei scritti critici. Alcuni sono vivi e altri non ci sono più. Chi mi ha apprezzato di più, recensito su grandi giornali, consigliato e incoraggiato è stato senz’altro Alberto Bevilacqua, che considero un grande classico del Novecento trascurato dalla critica e dopo la morte del tutto dimenticato. Mi consenta di dire che in Italia mancano i critici coraggiosi che si espongano sul monitoraggio delle vecchie e delle nuove leve senza lasciarsi condizionare dalle frequentazioni e da posizioni meramente di rendita. Molti, diciamo la verità, scrivono sul già scritto. È necessario, per dirla con Baudelaire, il padre del modernismo, andare in fondo all’ignoto per scoprire il nuovo. Gli spazi dei social media vengono utilizzati poco e male non consentendo una cernita seria e una selezione continua. Dentro internet finisce di tutto e le spezie hanno lo stesso sapore. Credo che ci sia molta supponenza tra i giovani, che farebbero meglio a seguire appunto dei compagni di via ideali, a leggere di più, invece che a mettersi in competizione tra loro. L’editoria è in crisi al punto tale che la poesia non è considerata un prodotto di mercato e molte collane purtroppo hanno chiuso i battenti. Continuo a preferire il dialogo con i poeti morti. In questi giorni, sul mio comodino, ho lasciato aperto l’Oscar Mondadori di Alfonso Gatto. Faccio mia, nei versi iniziali, la poesia, straordinaria, dedicata al padre: “Se mi tornassi questa sera accanto / lungo la via dove scende l’ombra azzurra già che sembra primavera, / per dirti quanto è buio il mondo e come / ai nostri sogni libertà / s’accenda di speranze di poveri di cielo, / io troverei un pianto da bambino / e gli occhi aperti di sorriso, neri / neri come le rondini del mare”.
La tua generazione è stata quella che ha rivitalizzato e rinnovato non solo la critica letteraria ma anche l’idea stessa di letteratura in Italia. Da critico, qual è il tuo rapporto con i contemporanei? Te lo domando anche alla luce delle antologie che hai curato (Lirici e visionari, Il lavoro editoriale 2003; The new italian poetry, Gradiva 2006).
Sul piano qualitativo la poesia sta andando meglio della narrativa, ma vive nelle catacombe. Che la mia generazione abbia dato un impulso di rinnovamento, sinceramente non lo penso. Trovo che invece sia abbastanza asfittica e poco generosa, quanto egocentrica e autoreferenziale. Nel web si diffonde del poeticismo che non fa bene alla salute di un genere letterario la cui salvaguardia passa per la distinzione tra ciò che è poesia e ciò che non lo è. Nel 2018 sembra di essere ai primordi, eppure la realtà è questa, con molto affastellamento e sempre meno scelta. Il rapporto con i contemporanei è di continua scoperta e lettura, se intendiamo contemporanea la letteratura che va dal secondo Novecento ai primi venti anni del terzo millennio. Ma penso che il concetto di contemporaneità sia alquanto elastico. Si può negare, del resto, che Leopardi sia ancora contemporaneo?
In ultimo: quali sono i tuoi progetti futuri? A cosa stai lavorando?
Sto scrivendo una nuova raccolta poetica che mi impegna da tre anni e che probabilmente intitolerò Le ombre parlano (ma cambio il titolo in continuazione). La poesia nascente che amo di più e che non scade mai, è nei versi del già citato Montale, ma dello stesso Sereni, di Caproni, Gatto, Penna, Raboni. Sono su quella linea lirica con una vena più narrativa. Ho letto recentemente l’americano Charles Wright e mi ha folgorato la sua capacità fotografica di cogliere la forma delle cose. Il mio prossimo romanzo, Gli ultimi giorni di Anita Ekberg, che è in uscita presso l’editore Melville, sarà una biografia romanzata sulla celebre attrice che finì dimenticata da tutti in una residenza protetta per lungodegenti a Rocca di Papa. Il romanzo è innescato, per così dire, nell’epoca della dolce vita e nei decenni successivi, fino al Duemila. Inserisco spesso fatti di cronaca perché credo nel lavoro di patchwork, in un’ibridazione di saperi trasversali, in una mediazione che inquadra la grande storia e la piccola comunità. Sto lavorando anche attraverso il mio sito personale ad un progetto composito che vuole invertire la tendenza tutta italiana per cui ciò che conta appare in televisione o su “Repubblica”. Il resto è oscurità. Esiste invece una zona franca, la quotidianità di chi non finisce sullo schermo o sui giornali, quella della gente comune che gioisce o soffre dentro una casa, nel posto di lavoro, in mezzo alla strada. Gli scrittori devono fare soprattutto questo: operazioni di repechage di storie straordinarie eppure usuali.
Gabriele Galloni
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Cesare Viviani ci avvisa che la poesia è finita. Forse è finita per lui. In realtà, la poesia è viva, vivissima, basta leggerla. La reazione di Alessandro Moscè
Se era una provocazione è riuscita decisamente male. Se era un’intenzione seriosa il risultato indica sfasature e approssimazioni non comprensibili per un poeta di primo piano che personalmente stimo. A Cesare Viviani riconosco due o tre libri notevoli: L’amore delle parti (Mondadori 1981); Le forme della vita (Einaudi 2005); Credere all’invisibile (Einaudi 2009). Sono al di sopra di ogni sospetto perché nel mio libro di saggi più corposo che abbia pubblicato, Tra due secoli (Neftasia 2007), Cesare Viviani ha uno spazio di rilievo insieme a pochissimi altri poeti del nostro tempo. Il saggio che il senese, psicoanalista di professione, ha appena consegnato alle stampe, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… (Il Melangolo 2018), assomiglia all’oroscopo egizio del Dio della guerra e delle tempeste. Se ogni poeta ha tabù e antipatie, prelazioni e idiosincrasie, Viviani sembra essere scivolato nell’imprudenza della non definizione del suo stesso lavoro, come se il mistero di Dante e Petrarca, di Leopardi e Montale fosse qualcosa di criptico, al punto tale da rimanere irrelato, non codificato, quindi non convenzionale.
Non è vero che la poesia non si spiega. La si può non capire, ma la si può certamente interpretare. Che cos’è la poesia? Innanzitutto un linguaggio anacronistico. Basterebbe questo per inquadrarla sommariamente e per sfuggire alla retorica della diffidenza e dell’indistinguibile oggetto sotto gli occhi di qualche curioso lettore. Non è forse nell’elastico vita/morte che il tempo contrassegna, che la poesia si distingue in uno dei suoi inalienabili archetipi? Se fosse vero che “le disgrazie della vita di un poeta non possono diventare motivazioni dirette o contenuti espliciti della poesia”, non avrebbero senso una raccolta tra le più celebrate di questi giorni: Dolore minimo (Interlinea 2018) di Giovanna Cristina Vivinetto, accolta con netto favore dalla critica. Ma basterebbe pensare a Tema dell’addio (Mondadori 2005) di Milo De Angelis; a Duetto per voce sola (Einaudi 2008) di Alberto Bevilacqua; ad Antenate bestie da manicomio (Manni 2008) di Alda Merini, i primi tre libri che mi vengono in mente. Potrei continuare con una lunga sequenza di opere che hanno come vertice la sofferenza fisica e psichica vissuta sulla propria pelle. Se dovessimo marcare la narrativa del Novecento italiano, Primo Levi sarebbe una garanzia indiscutibile per chiunque e smentirebbe categoricamente l’antefatto di Cesare Viviani.
Leggo da La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che…: “L’autobiografia non può mai essere poesia, né quella confessata, manifesta ed esplicita, né quella occultata”. Cosa sarebbero, allora, i versi livornesi di Giorgio Caproni contenuti nella raccolta Il seme del piangere (uscita nel 1959 da Garzanti) dedicati alla giovane madre, Anna Picchi, inseguita nella memoria, nel vento, nel passato che si apre all’adesso? “Porterà uno scialletto/ nero, e una gonna verde./ Terrà stretto sul petto/ il borsellino, e d’erbe/ già sapendo e di mare/ rinfrescato il mattino,/ non ti potrai sbagliare/ vedendola attraversare”. Versi di anima e memoria struggenti, suggellati da una malinconica autobiografica che si immerge nel rifiorire continuo della vita, in una suggestione cedevole proveniente da un mondo sepolto e riportato alla luce, in un nucleo tematico soggettivo e universale, in un canzoniere d’amore per la figura materna che suscita una specie di potere incantatorio, dolcissimo.
La stravaganza di Cesare Viviani continua quando si lamenta del fatto che i poeti dai venti ai quaranta anni non valorizzerebbero il lavoro dei più anziani. Ci sono critici che lo fanno con un impegno serio e meticoloso, mai remunerato, sensibili alle poetiche in labirinti come quelli odierni dove è difficile mettere le mani e dove le poetiche sono affastellate, quindi non facilmente comprensibili e catalogabili. Ma quanti sono i poeti di lungo corso che si occupano dei giovani, che sono considerati tali anche a cinquant’anni? Vorrei ricordare a Cesare Viviani che almeno due generazioni di autori (quelli nati negli anni Sessanta e Settanta), a differenza della sua generazione, non sono mai prese in considerazione e non è mai stato scritto un elaborato compiuto che le monitori (se si eccettua, in parte, Poeti nel limbo di Marco Merlin uscito da Interlinea nel 2005).
La poesia può essere vuoto, ma anche pienezza (“il pieno del vuoto” direbbe Giacomo Leopardi) e non il nulla. Al punto tale che per Andrea Zanzotto, in un’intervista apparsa nel 2011 su “Avvenire”, la definiva (appunto, la definiva) “il massimo della speranza, dell’anelito dell’uomo verso il mondo superiore”. Dunque scopriamo un’ulteriore spiegazione, una retta parallela, spesso, al bisogno di contestualizzare ciò che si scrive (o si legge).
Che tra la poesia e la pappa ci sia la distanza di un millimetro, francamente non so cosa determini nell’intuizione di Viviani, così come che la visionarietà non sia un eccesso di visione, ma un “eccesso di accoglienza”. In realtà, molto più semplicemente, la visionarietà altro non è che un vedere ad occhi chiusi, cioè un sognare. Il fantastico, l’immaginifico, fa parte della poesia sin dalla nascita: è una parte essenziale della sua energia. È vero che la poesia, come un’anguilla, ci sfugge dalle mani, perché non può essere chiusa in uno schema, in un dettato, in un calcolo, così come ogni materia non oggettiva che si stacca dal principio di razionalità che la domina. Se Viviani afferma che la migliore scuola di poesia per imparare ad amarla, e magari anche a scriverla, è leggerne tanta, con intensità e lentamente, non ci si può fermare a Luzi, Sereni, Giudici, Zanzotto, Raboni, Gramigna, Porta ecc., perché la poesia avanza, silenziosamente, di generazione in generazione, modificando stile e linguaggio, al punto tale che qualcuno parla di fine della tradizione, mentre altri affermano esattamente l’opposto, cioè la forza di un neo-lirismo tra le giovani leve che si affacciano nel secondo decennio del secolo.
Non so neppure a quanto serva scrivere l’ennesima recensione, su grandi giornali, che riguarda il poeta canonizzato, storicizzato, sul quale sappiamo tutto tramite saggi, antologie, approfondimenti, tesi di laurea ecc., trascurando completamente le nuove uscite e le nuove generazioni. Nel 2018 non è il diritto di anzianità che può decidere le sorti della poesia, ma un inquadramento, come sostengo spesso, di tipo storico e geografico come si dovrebbe fare nei dipartimenti di italianistica. Del resto Carlo Dionisotti pubblicò proprio l’opera capitale Geografia e storia della letteratura italiana nel 1967. Vengo dalla terra di Franco Scataglini, le Marche, e sono cresciuto anagraficamente in una fase memorabile, negli anni Ottanta, in cui la residenzialità era diventata anche un modo di dire sulla direttiva Ancona-Urbino-Macerata: in una periferia diventata centro, come succede nella poesia e nella narrativa, dove un luogo fisico e letterario è alienato come qualunque altro.
Il critico militante si arrogherebbe la presunzione di essere onnipotente e valorizzerebbe il poeta che manca completamente di talento e di ispirazione, scrive Viviani. Di quali critici si sta parlando? Se sono critici militanti e non pseudo critici, o sedicenti mestieranti, sarebbe stato il caso di fare nomi e cognomi, di uscire allo scoperto senza lanciare l’amo e senza mettere in risalto una zona oscura che appartiene ad un mondo già di per sé nebuloso, intorbidendolo con un’accusa generica, demoralizzante.
In ultimo il consiglio di non partecipare alla chiacchiera diffidando di Internet. Non sono affatto d’accordo. I nuovi mezzi di comunicazione aprono spazi che altrimenti sarebbero chiusi e perduti. Quante riviste letterarie, creative, non potendo resistere nel cartaceo, dati i costi eccessivi, si sono trasferite sul web? “Pangea” è una nuova creazione, ma basterebbe ricordare “Anno Zero”, “Nazione Indiana”, “Atelier” (che fortunatamente conserva anche la versione cartacea). Gli spazi si sono moltiplicati: il punto di svolta sta nel saperli utilizzare bene, con la stessa competenza riservata alla rivista che usciva in edicola. Anche “Nuovi Argomenti”, fondata nel 1953 da Alberto Carocci e Alberto Moravia, sta avviandosi su questa via, più difficile da percorrere ma non meno interessante (la redazione online è affidata alla giovane poetessa e studiosa di letteratura italiana Maria Borio).
Non crediamo che il miglior consiglio da affidare ad un poeta sia di appartarsi, di starsene in silenzio, come se la valorizzazione rientrasse nel campo utilitaristico dell’ottenere qualcosa. Se così fosse non avrebbe senso neppure pubblicare libri di poesia e di critica. Non avrebbe senso organizzare incontri, festival e recital (che tolgono dall’agonia il poeta che non pubblica, che non vende, che non è conosciuto). Non avrebbero senso i premi ai quali tutti vorrebbero partecipare e che tutti vorrebbero vincere: dai poeti più celebrati agli esordienti. Dirigo da undici anni il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano” e ho assistito a poeti di calibro perdere con dignità, ad altri prendersela molto, ad altri ancora polemizzare e andarsene perché la giuria popolare li avrebbe ingiustamente penalizzati. Lo spazio sulla scena, se per Cesare Viviani è un male, per altri è una finalità, e non solo tra i giovani ai quali si rivolge. Quell’isola deserta a cui bisognerebbe approdare per la voce della poesia, temo che rimarrebbe ancora deserta, perché la distanza netta dalla comunicazione stessa, non fa il bene della poesia. Finisce inevitabilmente per affondarla nell’iconografia catacombale, in un vuoto storiografico a disposizione solo degli addetti ai lavori. Uscire dai sepolcri dovrebbe essere un imperativo.
Cesare Viviani manda un caro saluto e una raccomandazione, alla fine del suo libro: “quella di non adirarvi e non angosciarvi se qualcuno critica le vostre poesie e le considera solo scrittura in versi”. Nessuno si adirerà e si angoscerà. Probabilmente, nella percezione del limite, nessuno ascolterà e acconsentirà, leggendo questa lezione. Con buona pace del poeta che ha compiuto 70 anni.
Alessandro Moscè
L'articolo Cesare Viviani ci avvisa che la poesia è finita. Forse è finita per lui. In realtà, la poesia è viva, vivissima, basta leggerla. La reazione di Alessandro Moscè proviene da Pangea.
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