#Fondazione Cesare Pavese
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La modernità di
Cesare Pavese
(Foto cklimt 2023)
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#Libri su Cesare Pavese#Letteratura#Monica Lanzillotta#Fondazione Cesare Pavese#luglio 2023#foto mie
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LE PAROLE SONO TENERE COSE grazie ❤ Ci metto un po' a scriverne. Se qualcosa possono restituire queste foto, il debutto de "La luna e i falò" è stato così. Appena una settimana fa. Lo terrò nel cuore a lungo. E lo rifarei anche domani. Il teatro pieno. Adulti, anziani, ragazzi insieme. Pubblico venuto per vedere una prima e riascoltare le parole di Pavese. Altro che titolo difficile. Le persone vogliono le cose alte, mettiamocelo in testa (parlo di Pavese, no di me). Amici, operatori che seguono il mio lavoro da anni, addetti ai lavori e non, venuti da ovunque, fino dalla Svizzera. Persone hanno fatto 300 km e preso la camera d’albergo. Non ho parole. Istituzioni mai così vicine e commosse per il mio lavoro. È la mia opera prima questo testo. 75 minuti di drammaturgia in solitaria tra parole mie e parole di Pavese diventate, spero, carne. Alla fine mi raggiunge Gerardo Guccini commosso per la scrittura, mi dice. Sono onorato. Paolo Ponzio, nuovo Presidente del Teatro Pubblico Pugliese, emozionato a parlarne dopo. Sono io che ringrazio te. Patrizia Ghedini, Presidente di ATER Fondazione, e ora cosa possiamo dire. Roberta Gandolfi, Università di Parma, che riporta a tutti che questo testo taglia e fa male. Molto. Pierluigi Vaccaneo, Direttore della Fondazione Cesare Pavese, che mi dice e mi commuove “sei nel gesto”. E so quanto vale questa citazione tra quelle di Pavese. A tutti faccio un dono. E' la cosa più decente che possa fare da qui. Non sono parole mie ma di Pavese ancora. Vengono da un articolo che si intitola "Gli uomini e le parole". È del 1946. E' a sua volta un dono che ho ricevuto. Lo ha ritrovato Cira Santoro, amica cara e forte di questo debutto e da ora custode con me di quanto è accaduto, nella sua copia del romanzo. Era stato ripubblicato, guarda caso, uno dei tanti “casi”, il 25 febbraio 1995, stesso giorno del debutto. Se siete arrivati a leggere fin qui leggete ancora questa parte che vi riporto in basso. È commovente. Siamo noi. A tutti quelli che hanno sostenuto con gli studi intermedi dell’estate 2022, con la co-produzione, con le parole distillate in radio, a loro e a chi non c’era fisicamente, ecco l’articolo. Con tenerezza e amicizia. Grazie. A prestissimo. “(…) Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di timidezza o ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene. E ci accade che proprio per questo, perché servono all’uomo, le nuove parole ci commuovano e afferrino come nessuna delle voci più pompose del mondo che muore, come una preghiera o un bollettino di guerra (…)” Cesare Pavese, 20 maggio 1945 𝗟𝗔 𝗟𝗨𝗡𝗔 𝗘 𝗜 𝗙𝗔𝗟𝗢' 𝗧𝗶𝗺𝗲 𝗻𝗲𝘃𝗲𝗿 𝗱𝗶𝗲𝘀 𝘥𝘪 𝘦 𝘤𝘰𝘯 Luigi D’Elia 𝘭𝘪𝘣𝘦𝘳𝘢𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘪𝘴𝘱𝘪𝘳𝘢𝘵𝘰 𝘢 𝘓𝘈 𝘓𝘜𝘕𝘈 𝘌 𝘐 𝘍𝘈𝘓𝘖’ 𝘥𝘪 𝘊𝘦𝘴𝘢𝘳𝘦 𝘗𝘢𝘷𝘦𝘴𝘦 𝘳𝘦𝘨𝘪𝘢 Roberto Aldorasi 𝘴𝘤𝘦𝘯𝘢 𝘙𝘰𝘣𝘦𝘳𝘵𝘰 𝘈𝘭𝘥𝘰𝘳𝘢𝘴𝘪 𝘦 Francesco Esposito 𝘳𝘦𝘢𝘭𝘪𝘻𝘻𝘢𝘵𝘢 𝘥𝘢 𝘊𝘰𝘴𝘪𝘧𝘪𝘤𝘪𝘰 – 𝘊𝘳𝘦𝘢𝘵𝘶𝘳𝘦 𝘚𝘱𝘦𝘵𝘵𝘢𝘤𝘰𝘭𝘢𝘳𝘪 𝘭𝘶𝘤𝘪 Davide Scognamiglio 𝘧𝘰𝘵𝘰 𝘦 𝘤𝘶𝘳𝘢 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘱𝘳𝘰𝘥𝘶𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 Michela Cerini 𝘥𝘢𝘵𝘰𝘳𝘦 𝘭𝘶𝘤𝘪 Francesco Dignitoso 𝘰𝘳𝘨𝘢𝘯𝘪𝘻𝘻𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘦 𝘥𝘪𝘴𝘵𝘳𝘪𝘣𝘶𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 Francesca Vetrano e Archètipo 𝘶𝘧𝘧𝘪𝘤𝘪𝘰 𝘴𝘵𝘢𝘮𝘱𝘢 Michele Pascarella una produzione Compagnia INTI di Luigi D’Elia e Archetipo con il sostegno di Teatro Pubblico Pugliese nell’ambito del progetto “𝘏𝘦𝘳𝘮𝘦𝘴” 𝘧𝘪𝘯𝘢𝘯𝘻𝘪𝘢𝘵𝘰 𝘥𝘢𝘭 𝘗𝘳𝘰𝘨𝘳𝘢𝘮𝘮𝘢 𝘐𝘯𝘵𝘦𝘳𝘳𝘦𝘨 𝘝-𝘈 𝘎𝘳𝘦𝘦𝘤𝘦-𝘐𝘵𝘢𝘭𝘺 2014-2020 Festival Parthenium calling e la collaborazione della Fondazione Cesare Pavese
#lalunaeifalo'#cesarepavese#luigidelia#robertoaldorasi#debutto#casalecchidireno#teatrolaurabetti#febbraio2023#teatropubblicopugliese#fondazionecesarepavese#archetipo
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Premio Pavese 2023, ecco i vincitori
I vincitori del Premio Pavese 2023, promosso e organizzato dalla Fondazione Cesare Pavese, sono Franca Cavagnoli (traduzione), Laura Pariani (narrativa), Paolo Repetti (editoria), Giovanna Rosadini (poesia) e Rosemary Salomone (saggistica). Domenica 10 settembre alle ore 15 a Santo Stefano Belbo riceveranno il premio e terranno il discorso di approvazione nella chiesa sconsacrata dei SS. Giacomo…
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Pavese Festival 2023
Con il mese di settembre torna l’appuntamento con il Pavese festival, quest’anno per la prima volta unito al premio Pavese, allo scopo di celebrare Cesare Pavese nel suo paese natale, Santo Stefano Bembo, e non solo. Se infatti il paese delle Langhe ospiterà gli appuntamenti da martedì 5 a domenica 10 settembre, oltre a venerdì 15 e sabato 16 settembre, sarà New York a chiudere la manifestazione mercoledì 27 settembre con un evento speciale come tributo alla passione dello scrittore per la cultura e la letteratura americane. A queste date si aggiungerà poi un fitto programma di appuntamenti off che dall’estate si succederanno fino all’autunno e l’immagine guida del Pavese festival 2023, Tra noi non occorrono parole, è stata realizzata dal grafico e illustratore torinese Francesco Lopomo, ispirata al racconto Il campo di granturco contenuto nella raccolta Feria d’agosto. Ad aprire le serate del festival sarà Claudio Baglioni, invitato giovedì 7 settembre alle 21.30 a Santo Stefano Belbo per ritirare il premio Pavese musica, un nuovo riconoscimento che da quest’anno affianca le cinque sezioni del Premio Pavese. La cerimonia di consegna verrà accompagnata da una conversazione tra il compositore e la direzione artistica del Premio e arricchita da brani musicali in cui Baglioni rivisiterà alcune relazioni tra musica d’autore e poetica letteraria. Il riconoscimento è nato da un’idea di Pierluigi Vaccaneo, direttore della fondazione Cesare Pavese, e di Massimo Cotto, conduttore radiofonico, giornalista e scrittore, ed è realizzato con il contributo di Ceretto ed ente Fiera di Alba in collaborazione con Le marne. Nella stessa serata alle 21.15, la presidente dell’ente Fiera di Alba Liliana Allena, il sindaco di Alba Carlo Bo e la direttrice di Confindustria Cuneo Giuliana Cirio presenteranno al pubblico la candidatura di Alba Bra Langhe e Roero come capitale italiana della cultura 2026. La giornata di venerdì 8 settembre verrà invece dedicata a Era sempre festa, un progetto speciale della fondazione Cesare Pavese, realizzato in collaborazione con Choramedia che, dopo un primo esperimento dedicato ai Dialoghi con Leucò, torna infatti a proporre il linguaggio del podcast, questa volta per raccontare i personaggi di cinque romanzi pavesiani attraverso lo sguardo di altrettanti lettori. Il progetto, di cui Neri Marcorè è host e narratore, ha coinvolto Andrea Bosca, Giulia Cavaliere, Antonio Dimartino, Sabrina Efionayi e Nicola Lagioia che saranno presenti al Pavese festival con Mario Calabresi e Cesare Martinetti per presentarlo alle 18. In serata, alle 21.30, il palco di Piazza Umberto I tornerà a ospitare Neri Marcorè che proporrà una versione speciale del podcast per il palcoscenico, accompagnato da Domenico Mariorenzi. Quest’anno il grande concerto del sabato sera, previsto per il 9 settembre alle 21.30, avrà come protagonista il soul jazz di Mario Biondi al Pavese festival per una tappa del suo Crooning soon tour, che sul palco di Piazza Umberto I ipresenterà in anteprima alcuni brani del nuovo album in uscita in autunno, dopo il grande successo di pubblico del Romantic tour dello scorso anno. I tre fondi di recente acquisizione, Molina, Vaudagna e Mondo, donati alla fondazione Cesare Pavese dalle rispettive famiglie saranno protagonisti di una mostra diffusa che verrà inagurata a Santo Stefano Belbo giovedì 7 settembre alle 17.30. Per l’occasione nella chiesa sconsacrata dei Santi Giacomo e Cristoforo saranno esposti i materiali pavesiani, editi e inediti, dei fondi Molina e Vaudagna in dialogo con le prime edizioni delle opere di Calvino, allievo di Pavese all’Einaudi, collezionate da Claudio Pavese e messe a disposizione dalla fondazione Mancini Carini, oltre ad alcune preziose testimonianze provenienti dalla biblioteca personale di Lorenzo Mondo. Read the full article
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Simonetti Walter, nato a Milano il 07/01/1971, è un demone implacabile della negazione, un portatore di luce, la reincarnazione dello stregone folle Il Padre della fratellanza MOCHI, appartenente suo malgrado cioè entusiasta dell’Ordine Galattico della Stella “La Cultura Fondazione”, chiamato anche “Gli Illuminati”. Ultimo dirigente del Partito dell’Anarchia, Agente della Morte Replicante rinato per Clonazione dis-umana mascotte del movimento del 77, cresciuto dai “cattivi innominabili maestri”. Nella sua infazia e adolescienza è stato IL Messia Autonomo, un khmer rosso in fuga dal mondo, un bisessuale, un monaco guerriero, un adepto di The Process Church ripreso salvato dalla gnosi contro culturale di Philip K. Dick che credeva fossi Gesù Cristo ritornato Il Santo del Assassini! Discendente di un popolo maledetto che arriva dall’antica Sumeria, di origini extraterrestri, gli Anunnaki. Tra i suoi antenati troviamo Zorasrtaini, Zeloti, Nizariti detti anche Assassini e i baschi. Per semplificazione viene considerato un ebreo rinnegato.
Dal 1980 diventa il capro espiatorio della società italiana per volere della lobby Frankista e del Partito Comunista, Della Chiesa, Della DC e dei USA. La sua vita diventa un manicomio e cielo aperto. Tutto per interesse i soldi della lobby trasformano i suoi parenti, amici, sorelle e fratelli in traditori, viene abbandonato a se stesso. Violentato e rieducato da un intera comunità.
IL denaro lo sterco del diavolo trasforma le persone in mentecatti e il corporativismo frankista alza le percentuali di voto del PCI.
Nasce dopo l’esperimento del ringiovanimento per l’anagrafe l’11/05/1975 a Fossombrone. Con un altro nome Riccardo e un altra faccia.( prima pochi poi quasi tutti l’ho chiamano Dino poi contadino, mongoloide Femminiccia e Faccia di Mostro, Halloween! È un #segretodistato
E’ soggetto a multipersonalità e risulta per gli scienziati un esperimento da ritirare dopo averla massacrato e per gli psichiatri la diagnosi schizofrenia incurabile.
Soluzione che porta ha queste conseguenze la super intelligenza artificiale che sprigionava, e la sua memoria, tramite interventi di lavaggio del cervello e controllo mentale, se ne vanno per sempre all’inferno. La dislessia l’accompagna per il resto della sua vita. Ma resta un individuo Unico, speciale, sensibile troppo sensibile, terrorista poetico, spia ed agente provocatore doppiogiochista dello SDECE, e gola profonda al servizio della Stasi, cacciato con disonore dalla Legione Straniera.
Specialties: Agente Provocatore della Morte La Cultura Fondazione
PS: Questo post è dedicato a mia moglie una Zingara Felice che vive in un altra dimensione e i miei figli/e e tutti i veri fratelli e sorelle di spirito. Al Padre e La Dea Madre alla quaternity.
Al mio funerale solo i famigliari e i fratelli e sorelle di spirito ““Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi” Cesare Pavese
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La collina è notturna, nel cielo chiaro.
Vi s’inquadra il tuo capo, che muove appena
e accompagna quel cielo. Sei come una nube
intravista fra i rami. Ti ride negli occhi
la stranezza di un cielo che non è il tuo.
La collina di terra e di foglie chiude
con la massa nera il tuo vivo guardare,
la tua bocca ha la piega di un dolce incavo
tra le coste lontane. Sembri giocare
alla grande collina e al chiarore del cielo:
per piacermi ripeti lo sfondo antico
e lo rendi piú puro.
Ma vivi altrove.
Il tuo tenero sangue si è fatto altrove.
Le parole che dici non hanno riscontro
con la scabra tristezza di questo cielo.
Tu non sei che una nube dolcissima, bianca
impigliata una notte fra i rami antichi.
Cesare Pavese
[19 ottobre 1940]
Da "Lavorare stanca" pag 93
Cesare Pavese fotografato da Ghitta Carell, 1948. Copyright Archivio storico Fondazione 3M
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Luoghi immobili
Pubblichiamo un brano del racconto "I luoghi sono immobili", secondo classificato tra i testi in concorso per il Premio Pavese Scuole, inaugurato quest’anno in occasione del Premio Pavese per avvicinare i giovani allo scrittore e promuovere la lettura delle sue opere in chiave personale. L’autore è Ylenia Salvietti, studentessa della classe 4B del Liceo Scientifico Niccolò Rodolico di Firenze, a cui vanno i nostri complimenti.
"... Molti pensano che sia una sciocchezza affezionarsi ad un luogo. I luoghi sono immobili, restano lì, e se tu vai via non vengono a cercarti; i luoghi non ti aiutano se hai bisogno di un consiglio e non ti asciugano le lacrime quando tutto non va come vorresti. E forse è vero, forse hanno ragione loro: i luoghi restano immobili, non se ne vanno, ma proprio per farsi trovare sempre lì quando ne hai bisogno. I luoghi non vengono a cercarti, perché sei tu che te li porti sempre con te, dentro di te, ovunque tu vada, e non importa se passano gli anni, se cambi città, regione, paese: se un luogo ha trovato spazio nel tuo cuore sarà sempre lì.
I posti del cuore non ti aiutano se hai bisogno di un consiglio, ma basta tornarci per riuscire a riprendere fiato, a schiarirsi le idee, a piangere se necessario, e subito dopo ad asciugarsi le lacrime e pensare che va meglio, anche solo perché sei lì, in quel luogo, a farti confortare... e riesci a pensare soltanto a quante volte tornare in quel posto ti ha salvato, e chissà quante volte ancora ti salverà".
Il racconto completo lo trovate sul sito della Fondazione Cesare Pavese
https://fondazionecesarepavese.it/news/premio-pavese-scuole-2020-ylenia-salvietti/
Alcuni dei Luoghi immobili di Solbiate Olona (Foto di Matteo Colombo)
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Nono Luigi, Al gran sole carico d'amore / Au grand soleil d'amour chargé, (work notes), Arrangement by Irlando Danieli, Texts by Bertolt Brecht, Tania Bunke, Fidel Castro, Ernesto “Che” Guevara, Dimitrov, Maksim Gorkij, Antonio Gramsci, Lenin, Karl Marx, Louise Michel, Cesare Pavese, Arthur Rimbaud, Celia Sánchez, Haydée Santamaría, Edited by Luigi Nono and Jurj Ljubimov, Ricordi, Milano, 1972-1974 [Fondazione Archivio Luigi Nono, Venezia]
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Mario Giacomelli: Figure/Ground
da https://www.getty.edu (trad. G.Millozzi)
--- Nato in povertà, in gran parte autodidatta, Mario Giacomelli è diventato uno dei più importanti fotografi italiani. Dopo aver acquistato la sua prima macchina fotografica nel 1953, ha iniziato a creare ritratti "umanistici" di persone colte nei loro ambienti naturali e astrazioni drammatiche di paesaggi. Ha continuato a fotografare nella sua città natale, Senigallia sulla costa adriatica italiana, ma non solo, per quasi cinquant'anni. Rese in bianco e nero ad alto contrasto, le sue fotografie sono spesso grintose e crude, sempre intensamente personali.
Questa interessante mostra a Los Angeles (USA) presso il Centro della Fondazione Getty è dedicata alla memoria di Daniel Greenberg (1941-2021) ed è stata possibile grazie alla donazione da lui fatta insieme a Susan Steinhauser.
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Mario Giacomelli (1925-2000) è unanimemente considerato come uno dei più importanti fotografi italiani del XX secolo. Nato in povertà, ha vissuto tutta la sua vita a Senigallia, una città sulla costa adriatica italiana, nelle Marche. Dopo aver perso suo padre all'età di nove anni ed aver completato ad undici la scuola elementare, ha fatto l'apprendista tipografo e lo stampatore, iniziando da autodidatta a dipingere e a scrivere poesie. Con i soldi donati da un anziano dell’ospizio dove la madre lavorava, aprì una sua tipografia, attività che gli ha assicurato la stabilità finanziaria per tutta la vita. Il suo impegno con la fotografia è iniziato poco dopo, profuso la domenica, quando il negozio era chiuso.
Dopo aver acquistato la sua prima macchina fotografica nel 1953, Giacomelli ottenne rapidamente numerosi riconoscimenti per la cruda espressività delle sue immagini, che echeggiavano molte dei temi del cinema neorealista del dopoguerra e della letteratura esistenzialista, con i loro interessi sulle condizioni della vita quotidiana e della gente comune come pensiero, individuale ed affettivo. La sua preferenza per la pellicola con grana grossa e per la carta da stampa ad alto contrasto lo ha portato a creare composizioni audaci e geometriche con neri profondi e bianchi luminosi. Focalizzando più frequentemente la sua macchina fotografica sulle persone, i paesaggi e le marine delle Marche, Giacomelli ha trascorso diversi anni ad esplorare la sua personale idea fotografica, ampliandola e reinterpretandola, o riproponendo un'immagine realizzata per una serie per includerla in un'altra. Dando inoltre alle sue opere titoli derivati dalla poesia, trasformò soggetti familiari in meditazioni su temi esistenziali, il tempo, la memoria e sul senso dell'esistenza stessa.
LA FORMAZIONE DI GIACOMELLI
Da giovane Giacomelli prestò per un breve periodo servizio nell'esercito italiano durante la II Guerra Mondiale. La sua pratica fotografica mostra l'influenza di due approcci prevalenti nella fotografia europea del dopoguerra: l' "umanesimo", che è spesso associato al fotogiornalismo, e l'espressione artistica come mezzo per esplorare la psiche interiore, derivata dalla teoria della fotografia soggettiva avanzata dal tedesco Otto Steinert (1915-1978). In Italia, questi approcci hanno trovato le loro rispettive controparti nei circoli fotografici "La Gondola", fondato a Venezia nel 1948, e "La Bussola", nato a Milano nel 1947. Giacomelli, da fotografo autodidatta, ha scambiato idee e conoscenze con i membri di entrambi i club. Fu anche cofondatore del circolo "Misa", una sezione locale de "La Bussola" che prese il nome dal fiume che scorre a Senigallia.
Le persone ed i luoghi di Senigallia sono motivi ricorrenti nell'opera di Giacomelli. Oltre a rivelare il suo interesse per le diverse comunità della sua città natale - dalle fotografie di una famiglia rom ai bambini che si divertono sulla spiaggia - dimostrando la sua capacità di combinare impulsi umanistici ed espressivi. Giacomelli sin da giovane capì come la grana grossa, il movimento e l'alto contrasto potevano fare di più che fornire semplicemente una sensazione di astrazione in quanto accrescevano anche il potere emotivo delle immagini.
I PRIMI LAVORI (1956–60)
Mia madre 1956, stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
Nel 1955 Giacomelli acquistò la fotocamera Kobell di seconda mano con obiettivo Voigtländer che avrebbe impiegato per il resto della sua carriera. In seguito la descrisse come qualcosa che era stato "rattolato", ossia tenuto insieme con del nastro adesivo e che perdeva sempre parti! Realizzata dai produttori milanesi Boniforti & Ballerio, la fotocamera utilizzava rullini 120 per produrre negativi 6 x 9 cm e dandogli la possibilità di usarla con obiettivi intercambiabili ed un flash sincronizzato. Per Giacomelli non era un dispositivo per registrare la realtà, ma un mezzo di espressione personale. La sua prima collaborazione con membri di club fotografici locali e nazionali e la sua sperimentazione con l'illuminazione naturale e artificiale, esposizioni multiple e altre tecniche con questa nuova macchina fotografica ed in camera oscura hanno presto portato a quella raffinatezza di un linguaggio visivo unico che lo contraddistingue.
Tra le prime fotografie di Giacomelli ci sono ritratti di familiari e amici: l'immagine di sua madre che tiene in mano una vanga è una delle sue più significative. Ha anche scattato fotografie di nature morte e studi di figura nella sua casa e nel giardino; i nudi esposti in mostra ritraggono il fotografo e sua moglie, Anna. Relativamente convenzionali nella composizione, queste opere illustrano come Giacomelli abbia imparato il suo mestiere, fornendo anche la misura in cui il suo soggetto è stato suggerito dalle persone e dai luoghi a lui più vicini.
OSPIZIO | VERRÀ’ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI (1954–83)
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, n. 97 , 1966; stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
La prima opera che Giacomelli espose in serie fu Ospizio. Raffigura i residenti della casa per anziani di Senigallia, dove sua madre lavorava come lavandaia, che ha visitato per diversi anni prima di iniziare a fotografarvi. Realizzate con il flash, le immagini che ne risultano sono caratterizzate da uno studio inflessibile di individui che vivono i loro ultimi giorni. In seguito si riferirà a queste come le sue fotografie più vere e dirette perché riflettevano la sua stessa paura di invecchiare.
Giacomelli ha continuato questa serie per quasi tre decenni, ribattezzandola nel 1966 Verrà la morte e avrà i tuoi occhi come il titolo di una raccolta di poesie dello scrittore Cesare Pavese (1908-1950). Nel portfolio pubblicato nel 1981 ha intensificato le qualità inquietanti del declino e dell'isolamento mentale e fisico ingrandendo piccole porzioni dei suoi negativi e stampando su carta accartocciata anziché piatta.
"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dalla mattina alla sera, insonne".
—Tradotto da Geoffrey Brock, 2002
LOURDES (1957 e 1966)
Lourdes, 1957, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
In contrasto con Ospizio / Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, la serie Lourdes descrive persone che vivono con malattie, ferite o disabilità che sono alla ricerca di una guarigione miracolosa. Giacomelli ricevette l'incarico di fotografare in questo luogo di pellegrinaggio cattolico nel sud della Francia nel 1957. Fortemente addolorato da ciò che vide, usò solo pochi rullini, restituì la somma che gli era stata anticipata e per un po’ di tempo non mostrò a nessuno le immagini scattate. Si recò poi di nuovo a Lourdes nel 1966, con la moglie e il secondo figlio. Questa volta era alla ricerca di una cura, per il loro figlio, che aveva perso la capacità di parlare a seguito di un incidente.
Lourdes è l'unica serie realizzata da Giacomelli fuori dall'Italia, anche se gli è stato attribuito un gruppo di fotografie realizzate in Etiopia (1974) ed un altro in India (1976). Giacomelli acquistò macchine fotografiche e pellicole per due persone che stavano programmando un viaggio in questi paesi, ed entrambi hanno tratto spunti e suggerimenti da precedenti discussioni con lui quando fotografarono nelle rispettive località. Giacomelli in seguito fece delle stampe dai negativi e firmò il suo nome su alcuni di essi, riconoscendo così la sua collaborazione.
PUGLIA (1958)
Puglia , 1958; stampato 1960, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
Giacomelli gestiva la sua tipografia, la Tipografia Marchigiana, nel centro di Senigallia. Un’attività di successo che divenne ben presto un luogo di ritrovo per fotografi, artisti e critici, il cui indirizzo stampato lo ritroviamo sul verso di tutte le sue fotografie. Nei suoi primi anni, l'attività occupava la maggior parte del tempo di Giacomelli, lasciandogli solo la domenica per le sue escursioni fotografiche. Così esplorava più spesso la vicina sua città, le sue spiagge e la campagna circostante nelle Marche, solo di tanto in tanto viaggiava anche più lontano.
Per questa serie, realizzata in Puglia, la provincia più a sud-est d'Italia (il “tacco dello stivale”), dovette fare un viaggio di circa 480 chilometri. Lì ha concentrato la sua attenzione sull'interazione di più generazioni di cittadini che si riuniscono tranquillamente sullo sfondo della tipica architettura semplice e imbiancata delle città collinari come Rodi Garganico, Peschici, Vico del Gargano e Monte Sant'Angelo. Queste immagini ci forniscono un'idea della capacità di Giacomelli di coinvolgere i suoi soggetti, sottolineando anche il fondamentale impulso umanistico nel suo lavoro.
SCANNO (1957-1959)
Scanno, n. 52 , 1957-1959; stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
A seguito della sua continua osservazione dei residenti dell'ospizio di Senigallia, le fotografie, che Giacomelli ha realizzato durante i viaggi a Scanno nel 1957 e nel 1959, dimostrano ulteriormente la sua capacità di descrivere le persone in un determinato tempo e luogo. In questo paese situato nell'Appennino dell'Italia centrale, a circa 430 chilometri a sud di Senigallia, Giacomelli incontrò uomini e donne che svolgevano le loro faccende quotidiane o si radunavano in piazza, drappeggiati in abiti o mantelli scuri, con il capo coperto di cappelli o sciarpe. Anche quando si radunano, i soggetti sembrano isolati o persi nei propri pensieri. Sia a fuoco nitido, che sfocato dal movimento, l'individuo, che accidentalmente guarda direttamente nella sua macchina fotografica, suggerisce un senso di mistero o furtività. Giacomelli ha usato, per fotografarli, una bassa velocità dell'otturatore e una ridotta profondità di campo.
GIOVANI SACERDOTI | NON HO MANI CHE MI ACCAREZZANO IL VOLTO (1961–63)
Giovani sacerdoti, n. 74, 1961–63; stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
Tra le immagini più memorabili di Giacomelli ci sono quelle dei pretini (giovani sacerdoti) del seminario di Senigallia, che ha catturato mentre giocano nella neve o si rilassano nel cortile. Ancora una volta accoppiando le forme particolari di figure vestite di nero (questa volta, seminaristi in tonaca) su uno sfondo bianco (ambienti innevati o assolati), queste fotografie suggeriscono uno stato d'animo più spensierato di quanto non sia evidente in altre serie. Sebbene sembrino coreografie impostate, sono invece il risultato della sfrenata giovialità dei preti mentre corrono, lanciano palle di neve o giocano a girotondo, unite alla lungimiranza di Giacomelli di lasciare che le scene si svolgessero naturalmente, mentre le riprendeva dal tetto.
Dopo aver conquistato la fiducia dei seminaristi, Giacomelli iniziò ad interagire con loro, ma questa interazione si interruppe bruscamente quando propose ai giovani dei sigari in cambio di alcune fotografie che intendeva presentare a un concorso sul tema del fumo. Il rettore del seminario, scandalizzato dalla proposta, gli negò ulteriori accessi. Giacomelli in seguito diede a questa serie il titolo Non ho mani che mi accarezzano il volto, traendo le parole dai primi due versi di una poesia di padre David Maria Turoldo (1916-1992) dedicata ai giovani che abbracciano solitaria vita religiosa. Questo titolo conferisce intensità ai momenti di esuberanza e cameratismo che accompagnano le intense ore di studio in seminario.
I PRIMI PAESAGGI (1954–60)
Paesaggio: Fiamme sul campo , 1954; stampato 1980, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
La regione italiana delle Marche è caratterizzata da dolci colline, piccole fattorie e frazioni, tra i primi soggetti fotografati da Giacomelli. Come per i suoi ritratti e gli studi di figure di questo periodo, le composizioni dei suoi primi paesaggi sono abbastanza convenzionali, con elementi in primo piano al centro e sullo sfondo, altri organizzati attorno alla linea dell'orizzonte chiaramente distinguibile. Tuttavia, man mano che affinava la propria tecnica, Giacomelli si posizionava spesso in cima a una collina puntando la macchina fotografica verso il basso o alla base di essa puntandola verso l'alto, eliminando così l'orizzonte e creando un disorientante assieme di forme geometriche. Il suo particolare sviluppo del negativo, l'uso di carta da stampa ad alto contrasto e le manipolazioni in camera oscura hanno ulteriormente migliorato le qualità grafiche distintive delle sue immagini. Non era raro per lui incidere forme sui suoi negativi per aggiungere drammatici contrappunti.
Negli anni Giacomelli è tornato più volte in alcuni siti, documentandoli durante le diverse stagioni e rotazioni di colture. In seguito avrebbe incorporato fotografie realizzate per uno scopo in una serie che aveva altre ambizioni iniziali, in particolare quella di fungere da commento sulla capacità sia degli eventi naturali sia degli interventi umani di cambiare le caratteristiche della terra.
LA BUONA TERRA (1964-1966)
La buona terra, 1964-1966: stampato anni '70, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
Per questa serie, Giacomelli ha seguito le vicende di una famiglia di contadini per diversi anni mentre conducevano la loro vita quotidiana nelle campagne intorno a Senigallia, seminando e raccogliendo colture e curando il bestiame. Una volta ottenuta la loro fiducia, ha iniziato a realizzare fotografie che sottolineassero la natura ciclica della loro esistenza, includendo sia l'intreccio di più generazioni sia l'intreccio di compiti e responsabilità quotidiane, con momenti di svago e riposo. La buona terra racconta una storia di resilienza, autosufficienza e continuità.
L'ultima di queste immagini è simboleggiata dal motivo ricorrente degli imponenti pagliai che fanno da sfondo al lavoro, al gioco e alla celebrazione del matrimonio di una giovane coppia.
Periodicamente Giacomelli chiedeva alla famiglia, con la quale intratteneva un'amicizia al di là di questo progetto, di utilizzare il proprio trattore per arare precise sagome nei campi incolti. Le immagini risultanti, che costituiscono la base della sua serie Consapevolezza della natura, affrontano la questione degli interventi dell'uomo sul paesaggio. Alcuni esempi sono in mostra parte finale del percorso.
METAMORFOSI DEL TERRITORIO (1958-1980)
Metamorfosi della terra, n. 5 , 1971; stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
Le fotografie raccolte sotto il titolo Metamorfosi della Terra sono state realizzate nell'arco di circa due decenni nelle campagne senigalliesi. Senza una linea dell'orizzonte per ancorarli, sono disorientanti, richiedendo allo spettatore di fare affidamento su una casa o un albero solitario come punto focale. L'ambiguità prospettica abbonda: Giacomelli ha scattato le fotografie da un punto di vista elevato o abbassato? Ha tenuto la telecamera parallela o perpendicolare al terreno? Questa confusione è il risultato dell'intrinseca "verticalità" della regione collinare marchigiana, o Giacomelli si è affidato alla manipolazione in camera oscura (come la stampa su fogli di carta fotografica inclinati diagonalmente) per creare configurazioni ad angolo retto di forme che altrimenti dovrebbero retrocedere nella distanza ad un determinato punto, seguendo i principi della prospettiva?
Queste ambiguità sono ulteriormente intensificate dall'intenzione di Giacomelli di affrontare con questo lavoro le questioni di abbandono e perdita ecologica. Profondamente in sintonia con la geografia rurale e le pratiche agricole marchigiane, diffida delle conseguenze che hanno accompagnato il passaggio dai secolari sistemi di frazionamento e rotazione delle colture ai moderni metodi di meccanizzazione e concimazione che sovraccaricano il terreno mantenendolo in costante uso. La serie è quella del lamento.
CONSAPEVOLEZZA DELLA NATURA (1976-1980)
Consapevolezza della natura, n. 38 , 1977-1978; stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
Le fotografie di questa serie sono tra le più iconiche di Giacomelli, notevoli per la loro astrazione grafica e grintosa, che ha ottenuto grazie ad una prospettiva aerea e utilizzando pellicole scadute per esasperare il contrasto tra bianco e nero. Trovando una poetica reciprocità nel ritrarre una terra in “triste devastazione” con una pellicola “morta”, Giacomelli ha percepito queste immagini come un mezzo per resuscitare la sua amata campagna marchigiana e dotarla di un diverso tipo di bellezza. I campi arati pulsano con un'intensità ritmica che è assente dalle immagini precedenti, in parte perché ha chiesto che alcuni di questi solchi fossero incisi appositamente nella terra (come già anticipato, dalla famiglia di contadini che ha descritto in La buona terra). Un timbro sul verso di ogni stampa descrive ulteriormente la serie come “l'opera dell'uomo e il mio intervento (i segni, la materia, la casualità, ecc.) registrati come documento prima di perdersi nelle relative pieghe del tempo”. Le immagini risuonano concettualmente con la Land Art o Earth Art, un movimento artistico attivo alla fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, in cui gli artisti usavano il paesaggio per creare sculture e forme d'arte site-specific. Come era sua abitudine, Giacomelli ha incorporato fotografie di serie precedenti, che potrebbero essere state fatte da una collina vicina o che non includevano i suoi interventi.
LAVORI SUCCESSIVI (anni '80)
Le mie Marche, anni '70-'80, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
Giacomelli ha concepito molte delle sue serie come sequenze che raccontano storie di individui in un determinato tempo e luogo. Ha intervallato ritratti e paesaggi, ma ha anche unito questi generi in doppie esposizioni o sperimentando tempi di posa lunghi e muovendo la fotocamera durante l'esposizione per sfocare le linee tra la figura e lo sfondo. E ancora una volta, ha spesso riproposto un'immagine realizzata per una serie in un'altra serie, rafforzando il senso di fluidità che collega tutto il suo lavoro. Molte di queste sequenze sono state ispirate da poesie, non nel tentativo di illustrarle, ma per creare narrazioni parallele.
Sebbene le fotografie in questa sezione derivino da serie diverse, ne condividono il senso nell'impostazione, nella posizione o nell'atmosfera. Più facilmente classificabili come paesaggi, segnano un notevole passaggio dalla precedente posizione di Giacomelli di criticare il lento degrado della terra a quella che invece pone le basi per una contemplazione più metafisica dell'interconnessione tra spazio, tempo ed essere. La maggior parte è stata realizzata negli anni Ottanta, quando Giacomelli rifletteva sulla perdita della madre (morta nel 1986), sulla sua crescente reputazione internazionale come fotografo e sulla propria mortalità.
IL MARE DELLE MIE STORIE (1983-1987)
Il mare delle mie storie, 1983–87, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
Giacomelli ha annotato che il mare a cui si fa riferimento nel titolo di questa serie era quello della sua infanzia, l'Adriatico, ma in realtà era anche il mare di tutta la sua vita. Ha realizzato le sue prime fotografie lungo la costa di Senigallia dopo aver acquistato una macchina fotografica nel 1953. Circa trent'anni dopo, la curiosità su come una prospettiva aerea potesse trasformare l'aspetto delle persone lo ha portato a ricorrere ad un amico che possedeva un aeroplano per farlo volare sopra le spiagge della regione. Le composizioni risultanti creano motivi astratti sulla sabbia, generati dalle forme e dalle ombre di bagnanti, di sedie a sdraio, d'ombrelloni e di barche.
VORREI RACCONTARE QUESTO RICORDO (2000)
Vorrei raccontare questo ricordo, 2000, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
Il titolo poetico di questa serie riflette lo stato d'animo sempre più pensieroso dell'ultimo lavoro di Giacomelli. Di tanto in tanto intravediamo il fotografo stesso mentre si occupa di uno strano assortimento di oggetti di scena, tra cui cani e uccelli di peluche, un manichino e una maschera. Il suo brusco ritaglio, la leggera sovraesposizione per invertire i valori tonali e la pittura o il graffio di aree sul negativo introducono elementi dell'assurdo o del surreale come mezzi per affrontare l'inevitabilità della propria mortalità. La serie, una delle sue ultime, è una meditazione sulla malinconia, la perdita e il passare inesorabiole del tempo.
RIFLESSIONI SU GIACOMELLI
Giacomelli muore nel novembre 2000 dopo una lunga malattia. Aveva continuato a lavorare su diverse serie fotografiche fino ai suoi ultimi giorni, con il commovente titolo Vorrei raccontare questo ricordo attestando fino alla fine il suo temperamento profondamente introspettivo. Dai suoi inizi poco promettenti come ragazzo povero e poco istruito, Giacomelli ha reindirizzato il corso della sua vita, mantenendo un'attività di stampa di successo che gli forniva sicurezza finanziaria e dedicandosi alle arti come personale mezzo di espressione. Sebbene fosse autodidatta in poesia, pittura e fotografia, è stato con quest'ultimo mezzo che ha creato un senso di continuità e fluidità per tutta la sua vita. Ha ottenuto riconoscimenti internazionali come uno dei fotografi più importanti d'Italia nonostante abbia realizzato la maggior parte delle sue fotografie nella sua città natale, Senigallia e nelle vicine Marche.
“Naturalmente [la fotografia] non può creare, né esprimere tutto ciò che vogliamo esprimere. Ma può essere una testimonianza del nostro passaggio sulla terra, come un quaderno…
...Per me ogni foto rappresenta un momento, come respirare. Chi può dire che il respiro di prima sia più importante di quello dopo? Sono continui e si susseguono finché tutto si ferma. Quante volte abbiamo respirato stanotte? Potresti dire che un respiro è più bello degli altri? Ma la loro somma costituisce un'esistenza”.
—Mario Giacomelli, 1987
LA COLLEZIONE GIACOMELLI
Tra il 2016 e il 2020, i collezionisti di Los Angeles Daniel Greenberg e Susan Steinhauser hanno donato 109 fotografie di Mario Giacomelli al J. Paul Getty Museum. La loro collezione copre ampie aree della produzione di Giacomelli, da alcune delle sue prime immagini a quelle realizzate negli ultimi anni della sua vita. Attingendo dalle loro donazioni, questa mostra è concepita non come una retrospettiva completa, ma come un'opportunità per considerare la visione dei collezionisti nell'assemblare questi fondi in un periodo di vent'anni, facendo comprendere quelle che percepivano come le preoccupazioni chiave della pratica di Giacomelli: la gente e il paesaggio, così come la gente nel paesaggio – il rapporto “figure/ground” del sottotitolo della mostra.
Il Getty Museum è riconoscente anche all'Archivio Mario Giacomelli, con sede a Senigallia, Sassoferrato e Latina, per l'assistenza nella conferma di titoli e date. Nel corso della sua carriera Giacomelli è tornato alle singole immagini, ripensandole e rielaborandole per serie successive, complicando spesso il compito di assegnare titoli o date definitivi. Grazie anche a Stephan Brigidi dei Bristol Workshops in Photography per aver fornito informazioni sui portfolio dell'artista del 1981, La gente e Paesaggio. Le stampe dei portfolio sono dislocate nei quattro percorsi della mostra e presentate in cornici più leggere ed in misura più grande.
---Tutte le immagini in mostra: link
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Mario Giacomelli: Figure / ground
29 giugno-10 ottobre 2021
Getty Center
1200 Getty Center Drive, Los Angeles, CA 90049 ' +13104407300
Orario: 10.00 – 17.00, chiuso il lunedì
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14 mar 2021 18:05
“IL PD HA SMESSO DI PARLARE CON IL POPOLO, ALTRIMENTI MAI AVREBBE POTUTO ACCETTARE COSE COME IL CASHBACK” - UGO SPOSETTI, STORICO TESORIERE DEI DS: “LA SITUAZIONE NEL PD? SIAMO GIÀ MORTI. LA FINANZA INTERNAZIONALE HA COMMISSARIATO PALAZZO CHIGI CON DRAGHI, QUELLA EUROPEA SI APPRESTA A COMMISSARIARE IL PD CON LETTA - ZINGARETTI?
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SI VORRÀ CANDIDARE A SINDACO DI ROMA. BASTA CON LE PRIMARIE PER IL SEGRETARIO: NON FUNZIONANO - CONTE "PUNTO DI RIFERIMENTO DEI PROGRESSISTI"? UN'ESAGERAZIONE - LA LINEA DATA DA BETTINI? MI HA SEMPRE DISTURBATO. CHE PARLI LA SEGRETERIA”
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Susanna Turco per “l’Espresso”
Il custode del mausoleo, nel senso più vasto e vitale del termine. Possiede, anche materialmente, le chiavi di tutto quello che riguarda il Pci ora centenario: della fondazione che ne raccoglie i beni, del tempio funerario al Verano dove sono sepolti i membri del comitato centrale del Pci. Ultimo tesoriere dei Ds, è colui cui si ci rivolge e che fornisce tutto ciò che serve, dalla culla alla tomba: scherzando. gli hanno persino chiesto se sia stato lui, a dotare le Sardine di sacchi a pelo.
Della complessa famiglia comunista amministra le 2399 proprietà immobiliari, un numero indefinito di libri, documenti, quadri, locandine, nastri, film, foglietti, i segreti più indicibili così come le ricevute dei contributi previdenziali di tutti coloro che sono stati dipendenti del Partitone. Un universo che letteralmente lo ammanta: per questo le cose che dice Ugo Sposetti hanno una dimensione tutta loro, anomala. Come provenissero da sotto un mantello di storia e concretezza.
Lo incontriamo dopo un trittico di giorni particolari: il 4 marzo ha saputo da una telefonata (non usa i social) delle dimissioni di Zingaretti via Facebook; il 5 ha partecipato (verrebbe da dire: officiato) alla cerimonia di tumulazione delle ceneri di Emanuele Macaluso, al Famedio del Pci, nel loculo sotto a quello di Palmiro Togliatti come voleva lui; il 6 ha volentieri subito l' occupazione del Pd da parte delle Sardine, per poi dedicarsi come gli altri al caos che regna nel suo partito.
Circondato da cimeli, troneggia su una scrivania senza computer, dietro un mare di carte. «Noi autodidatti viviamo di carte. Siete voi quelli laureati. Io non ho neanche smartphone, così non sto appresso alle cose tipo Barbara D'Urso», dice alludendo all' ultima delle polemiche che ha investito l'ormai ex segretario dem, dopo aver difeso il ruolo della conduttrice tv argomentando che «avvicina la politica alla gente».
Cesare Pavese ha scritto che "verso il popolo ci vanno i fascisti, o i signori. E andarci vuol dire travestirlo, farne un oggetto dei nostri gusti". Insomma: "Non si va verso il popolo. Si è popolo".
«Ma Barbara D' Urso mica è popolo. Il popolo, qui a Roma, è per esempio Torpignattara, Cinecittà, è tutto il lungo nastro della Tuscolana. Se tu percorri quella strada e ti fermi a ognuno dei semafori, guardi a destra e a sinistra, tutti quei palazzi. Chi ci parla, con quelli che stanno lì dentro, con tutte quelle persone?».
Il Pd ci parla?
«Il Pd ha smesso, altrimenti mai avrebbe potuto accettare cose come il cashback».
Zingaretti quando è stato eletto voleva spostare la sede in periferia. È finito con le Sardine al Nazareno.
«Zingaretti ha fatto una scelta, che ormai seguirà. Si è dimesso, si vorrà candidare a sindaco di Roma: mi sembra normale, dopo due mandati. Le terze legislature sono sempre complicate. E insomma possiamo dire che i due fratelli sono in crisi. Quello televisivo ha lasciato Livia, l' altro il Pd».
Per fare cosa? C' è spazio per una cosa più di sinistra?
«Ma no. Mentre parliamo, l'ipotesi probabile è Enrico Letta, che è una sorta di commissariamento del Pd: non certo da parte dei comunisti. Così come il governo Draghi non è un commissariamento della Cina, no?».
Deduco che la soluzione non è gradita.
«Letta, da premier, ha abolito i rimborsi elettorali: io sono incompatibile con uno che ammazza i partiti, quindi auspicherei un' altra soluzione».
E può esserci?
«Non capisco perché una donna giovane non si candida. Magari accadesse, l'hanno chiesto per un mese, protestando, quando si faceva il governo. Poi però silenzio. La verità è che, di governo per il governo, si muore».
Il Pd è stato al governo oltre 11 anni su 15, ha ricordato Gianni Cuperlo nell' ultima Direzione. Governare è un vizio?
«No: è avere la testa rivolta al potere e non alla società, a quel che vuole la famiglia, il pensionato, il disoccupato, il giovane. Prendiamo l' esempio del cashback: soldi che sono dati a chi ha la carta di credito, a chi ha disponibilità sul conto. Ma oggi noi possiamo dare i soldi a quelli che già ce l'hanno? Ora che c' è Draghi, gli stessi di prima dicono: usiamo quei soldi contro la povertà. Finalmente. Però a suo tempo nessuno l' ha detto: e stavano sempre loro al governo».
Come definisce la situazione del Pd?
«È molto semplice: siamo sotto le macerie. Siamo già morti».
E quando è accaduto?
«Quando è nato il Pd: male. Non lo dico da nostalgico: ho detto allora che noi saremmo finiti così, perché vedevo che stavamo andando avanti senza robuste radici. Qualunque attività ha bisogno di solide fondamenta. Il Pd non le aveva: era una fuga verso un qualcosa che si pensava avrebbe potuto garantire un futuro. Ma allo stesso gruppo dirigente? Sì, alle stesse donne e uomini: non a una idea nuova. Ecco l' errore».
È finita con le Sardine che occupano il Pd. Che effetto fa? Il leader radicale Marco Pannella nel 1976 si presentò sotto la sede Pci di Botteghe oscure e gli uomini della vigilanza lo presero a ceffoni.
«Eh, ma era Pannella, e andava a provocare. Le Sardine non andavano a provocare.
Anche un vecchio socialista come Rino Formica ti dice che bisogna creare entusiasmo nel popolo: bisogna che qualcuno gli parli, gli crei voglia di discutere, di esserci. È quello che hanno fatto anche l' anno scorso, in Emilia Romagna. Sono stati di grande stimolo per la mia generazione, li hanno riportati in piazza, al voto. Sono stati i veri vincitori di quelle elezioni».
Sposetti diventa Sardina?
«Ma no, non ho l'età, non li frequento, sto chiuso qua. Sono pieno di libri, carte, cimeli, venissero a leggere Gramsci sarebbe bello. Noi abbiamo bisogno di giovani, di aria fresca. Sennò siamo morti. Stiamo sempre a parlare di accordi, accordini, posti. Stiamo tutti a guardarci l' ombelico. Nessuno apre un dibattito sulla politica internazionale: ora per esempio Biden propone di fare il G10 delle democrazie, contro la Cina. E noi che diciamo?».
Noi abbiamo Luigi Di Maio ministro degli Esteri.
«Quando lo dicevi a Macaluso ti cacciava di casa. Lo trovava inaccettabile. Ma, come partito, dovremmo fare queste discussioni, perché il governo non le farà».
Santori dice che il Pd è tossico.
«Io ho la tessera del Pd, a questo non arrivo. Qualche settimana fa ho letto, proprio sull'Espresso, un loro documento che ho molto apprezzato: parlava di corpi intermedi, finanziamento della politica, presenza sul territorio. Un'idea. Dobbiamo andare a cercare gli elettori che sono fuggiti».
Dimezzati. Erano 13 milioni nel 2008, 6,5 milioni nel 2018. Secondo Swg adesso il Pd è quarto partito. Colpa di Zingaretti?
«Può avere delle responsabilità, però c' è stata una congiuntura che lo ha costretto a fare scelte che lui non aveva in testa. Nel 2019 voleva andare alle elezioni, ed è andata un altro modo. E adesso, pro Conte-ter, la Direzione aveva votato all' unanimità».
Solo pochi giorni fa diceva che "il Pd non è mai stato unito come ora".
«È un falso. Quando leggevo, o sentivo alla radio, che la Direzione aveva votato all'unanimità, dicevo: "Sono dei falsi". Quando si sta in una comunità, si alza il ditino e si dice "scusa, non sono d' accordo. Voto contro", e poi si rispettano le decisioni della maggioranza. Questa è la storia da cui vengo. Io ci stavo bene, ero in dissenso quanto volevo. Ma quando, oggi, votano all' unanimità e due ore dopo rilasciano dichiarazioni contro quello che hanno deciso, non funziona».
Di chi parla?
«Non voglio fare nomi. Sono rimasto esterrefatto di fronte a un' intervista e un tweet di due persone più grandi di me che non difendono il segretario ma sono contro il segretario e contro le decisioni che loro hanno contribuito ad adottare».
Insomma, Pierluigi Castagnetti e Luigi Zanda, ad esempio, dovevano difendere Zingaretti, non attaccarlo.
«Bisogna ricollegare. Adesso, dopo i nomi di Roberta Pinotti, Anna Finocchiaro, Piero Fassino, il giovane Provenzano, c' è Letta. Quindi ci sono alcuni soggetti che ci danno Draghi. E altri che ci danno Letta».
Quali soggetti?
«La finanza internazionale. E la finanza europea. Una ha commissariato Palazzo Chigi, l' altra si appresta a commissariare il Pd. Mentre avremmo, per lo meno, bisogno di un segretario che non sia subalterno, no?»
Di subalternità è stato accusato anche Zingaretti, nei confronti di Conte, che è arrivato a definire "punto di riferimento dei progressisti".
«Un' esagerazione. Ma il punto è che in questa legislatura siamo al terzo presidente del Consiglio che non è stato eletto e non ha fatto neanche il consigliere circoscrizionale. Trovatemi una democrazia occidentale nella quale il capo del governo non è passato per un voto. In Europa, nel mondo, non c' è nessuno. È un problema per la democrazia italiana».
È colpa del Pd?
«Non solo del Pd, in questo caso».
A proposito di eccezioni, quale effetto le ha fatto che la linea del Pd sia stata indicata, per mesi, via intervista, da personalità come quella di Goffredo Bettini, che non erano neanche in Direzione?
«Mi ha sempre disturbato. Esiste la segreteria, che parli la segreteria».
Cosa si aspetta da questa Assemblea?
«Non accadrà, ma vorrei si dicesse: le primarie per il segretario non le facciamo più».
Perché?
«È un meccanismo che non funziona. Le primarie non danno una linea politica; si elegge un organismo pletorico, ingovernabile; si formano al suo interno delle correnti che hanno un peso enorme. Risultato: 12 anni, 7 segretari!»
Durata media: 22 mesi. Il segretario come lavoratore stagionale: i bagnini, i raccoglitori di pomodori, i capi del Pd. Ma c' era questo cannibalismo prima?
«Non era così, figuriamoci. Le primarie vanno bene come inizio di campagna elettorale: quelle di Prodi nel 2005, ad esempio. Invece il segretario lo devono eleggere gli iscritti, la comunità. Su una proposta politica, un progetto. Non il primo che passa sul marciapiede di fronte, pagando due euro».
Cosa cambia?
«La comunità che elegge il segretario ha fatto una battaglia per riuscirci, e dopo lo segue, lo difende. Una bella differenza: io sono stato eletto dai filippini, dai coreani, dai thailandesi... Parliamoci chiaro: ci ricordiamo quante volte è dovuta intervenire la magistratura sulle primarie?»
Cosa altro spera accada in assemblea?
«Ho detto ai quarantenni: se non vi intestate una battaglia politica, non avete futuro».
E che battaglia si possono intestare?
«Ribellarsi agli accordi tra tre persone».
Nel Pd i giovani non si sono mai ribellati. Per paradosso, l'unico è stato Renzi.
«Ma lui non si è ribellato: ha occupato il potere, quando quel partito era già contendibile. Non era una battaglia. Ma non fatemi dire cose su Renzi, il mio giudizio è noto».
Comunque i quarantenni, sopravvissuti anche al renzismo, sono pochi.
«Se non si sbrigano, muoiono pure loro. Mi auguro che ci sia un dibattito vero e un gruppo dirigente che giri l'Italia: serve che ascolti, non che parli. Dopo il Covid-19 nulla sarà come prima: vale per la società, ma vale pure per la politica. Le vede quelle? Sono le vecchie bandiere del Pci».
Stiamo per ammainare anche quella del Pd, siamo alla fine di un' altra storia?
«È quello che ho cercato di dire fin qui».
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FONDAZIONE CESARE PAVESE - S.STEFANO BELBO
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Spettacolo in occasione del 72esimo anniversario della morte di Cesare Pavese. Con la partecipazione di Neri Marcorè.
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Ed arriva il Carnevale ...
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” . Cesare Pavese
Colori, suoni, allegria, entusiasmo. Mi accolgono così all'ex me fondazione Domus de Luna mentre fervono i preparativi per il Carnevale.
Il Carnevale è questo e oltre: è appartenenza alla terra, è mistero, è magia. Per noi sardi è davvero qualche cosa di diverso, direi di arcaico, viscerale e identitario, quasi un richiamo di un mondo misterioso, fatto di riti, simboli, che si sprigiona in tutta la sua forza, manifestandosi, in particolare in questo periodo dell’anno. Infine è un passaggio, con la sua funzione apotropaica, ovvero di esorcizzare l'anno appena trascorso con le sue difficoltà e amarezze che si compie uguale nei secoli, ci prepara a superare l’inverno interiore verso una primavera di emozioni, di rinascita, di vita. Non so spiegare meglio da quale groviglio di sensazioni ed emozioni io sia investita quando vedo danzare i Mamuthones e Issohadores, correre i cavalieri per la stella o discendere su Componidori durante sa remada, Sa Carrela 'e Nanti di Santu Lussurgiu oppure quando osservo le maschere dei Boes e Merdules. Su Bundu, solo per citarne alcune.. o su Karrasegare Osinku o su Carrasciali Timpiesu o anche Su Harrasehare Lodinesu … ma non solo … appunto…
Ma sento che vengono da un io più profondo… Certo non caratterizzato dai fasti di un tempo, tuttavia, il carnevale resiste alle difficoltà e il lento declino dei nostri paesi … ed è ancora presente nelle sue varie forme e ritualità. Data la mia origine Oristanese, la Sartiglia rappresenta da sempre un appuntamento fisso… e fin da piccoli, vestiti in maschera eravamo lì in prima fila ad osservare la discesa dei cavalieri.
E mi tornano ora in mente le immagini degli anni liceali quando anche con le mie compagne non potevamo perderci il Carnevale ghilarzese (che coinvolgeva l’Alto Orisanese, il Guilcer, Barigadu e dintorni) dove carri allegorici, maschere, coriandoli e cibo (ricordo signore che ai bordi offrivano dolci fatti a mano porgendo enormi cesti e signori con vino ) e tanta allegria ed ilarità rendevano quei giorni una esperienza straordinaria.
Ed ecco ora il Carnevale cagliaritano... Ripristinato dopo alcuni anni di stop. Ed è una meravigliosa scoperta anche per me oramai cittadina da oltre vent'anni di questa splendida città. Ne leggo le antiche tradizioni e significati. Innanzitutto le maschere caratteristiche che raccontano qualcosa di più di Cagliari città e ancora oggi fanno parte del quotidiano, come sa panettèra “la panettiera”, su caddemis il mendicante che chiede l’elemosina; sa fiùda, la vedova inconsolabile; su sabattèri, il ciabattino che simboleggia i lavori più umili; sa dida, la balia.
E sa ratantina ( o sa ratantira nella variante successiva da parte degli abitanti del quartiere della Marina) è il simbolo che forse più lo caratterizza: è un ritmo coinvolgente che accompagna il corteo, composto prevalentemente da tamburi, che rappresenta quasi fosse una iniziazione, l’invito ad unirsi nella danza e a lasciarsi coinvolgere dalla musica delle caratteristiche percussioni, quasi a lasciarsi andare e a godere dei vizi, prima di ritirarsi nell’austerità della Quaresima. E mi raccontano che il nome deriva dal rombante TAN TAN ripetuto dei tamburi genera un melodioso ratantan.
Ed eccomi a Pirri, dove si partecipa al Carnevale cagliaritano non solo con una sua giornata ( Sabato 10 febbraio) ma addirittura con una propria maschera tradizionale, is tiàulus, diavoletti maligni e pestiferi che danzano rapiti intorno al rogo di su Rei Cancioffàli.
Sono coinvolti i ragazzi e bambini del rione e del vicinato di Santa Teresa, le comunità che la fondazione Domus De Luna gestisce, le parrocchie e le associazioni pirresi. La Fondazione, e l’Amministrazione comunale, ha preso a cuore questa manifestazione attribuendogli quel valore sociale e non solo culturale, di aggregazione, partecipazione attiva della comunità, che vuol dire suddivisione di compiti, definizione e condivisione di regole. Osservo i volontari che lavorano con entusiasmo ai preparativi, chi taglia, chi assembla, chi cuce i costumi e gli accessori. Per un attimo giochiamo un po’….
Cerco i ragazzi che suonano sa ratantira… Eccoli arrivare: stanno provando per le vie della cittadina... mi fermo un po' in mezzo al gruppo e mi invitano a suonare il tamburo ... ne approfitto e come loro sono rapita dal ritmo ….
Ma perché il diavolo come maschera a Pirri? Si racconta che per secoli in piazza Italia ci fosse il patibolo e si giustiziassero i malviventi (da qui il detto “su gancio ‘e Pirri ti donu?) e vagassero poi per Pirri anime perse, reiette ... (chissà..secondo me scoprirò prima o poi anche qualche storia di fantasmi …).
Che dire di più…..
Siamo invitati a partecipare sabato 10 febbraio a Pirri alla sfilata che partirà dalle ore 16.30, chi da diavolo da angelo (una variante)se vuole mantenere la tradizione o qualunque altra, purché si faccia festa! E io quale costume sceglierò?
“Cambarà cambarà cambarà e maccioni, pisciurrè, sparedda e mumungioni!”
Per info la pag facebook
https://www.facebook.com/events/1581337198569811/1591229277580603/?notif_t=plan_mall_activity¬if_id=1517601991952890
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MIO CARO LEONIDA Sabato 11 da Mag si presenta il saggio di Natale Pace dedicato a Repaci
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/mio-caro-leonida-sabato-11-da-mag-si-presenta-il-saggio-di-natale-pace-dedicato-a-repaci/
MIO CARO LEONIDA Sabato 11 da Mag si presenta il saggio di Natale Pace dedicato a Repaci
MIO CARO LEONIDA Sabato 11 da Mag si presenta il saggio di Natale Pace dedicato a Repaci
MIO CARO LEONIDA Sabato 11 da Mag si presenta il saggio di Natale Pace dedicato a Repaci Lente Locale
R. & P.
Leonida Repaci riletto nei molteplici aspetti della sua vita: l’opera letteraria, l’attività politica, la lunga e complicata gestione del Premio Viareggio dalla sua fondazione, i suoi spesso polemici e tempestosi rapporti coi più importanti personaggi del Novecento.
“Mio caro Leonida…” di Natale Pace (2019, Pellegrini editore) è un recentissimo saggio scritto sulla scorta dello studio-analisi di documenti epistolari originali in cui l’autore svela dei retroscena inediti nei rapporti tra Repaci e Antonio Gramsci compiendo, altresì, un viaggio nel Novecento italiano in cui compaiono figure come Luigi Longo, Cesare Pavese, Maria Fida Moro, Maria Bellonci, Gaetano Sardiello,Fortunato Seminara, Camillo Pilotto, solo per citarne alcuni.
“Mio caro Leonida…” verrà presentato sabato 11 gennaio alle 18 nello spazio culturale “MAG. La ladra di libri” di Siderno.
Gianluca Albanese dialoga con l’autore, insieme al giornalista del “Quotidiano del Sud” Ilario Camerieri.
MIO CARO LEONIDA Sabato 11 da Mag si presenta il saggio di Natale Pace dedicato a Repaci Lente Locale
MIO CARO LEONIDA Sabato 11 da Mag si presenta il saggio di Natale Pace dedicato a Repaci Lente Locale
R. & P. Leonida Repaci riletto nei molteplici aspetti della sua vita: l’opera letteraria, l’attività politica, la lunga e complicata gestione del Premio Viareggio dalla sua fondazione, i suoi spesso polemici e tempestosi rapporti coi più importanti personaggi del Novecento. “Mio caro Leonida…” di Natale Pace (2019, Pellegrini editore) è un recentissimo saggio scritto sulla […]
MIO CARO LEONIDA Sabato 11 da Mag si presenta il saggio di Natale Pace dedicato a Repaci Lente Locale
Francesca Cusumano
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Il canone inverso di Tondelli. Quando “Vicky” spostò l’asse della letteratura italiana sulla riviera romagnola. I suoi eroi? Panzini e Arfelli, Zavattini e Guareschi, Pasolini e Scerbanenco
Un weekend postmoderno a Riccione. Qualche anno fa – l’esito ha una data, il 2015 – ho avuto la fortuna di avventurarmi dentro alcune carte di Pier Vittorio Tondelli, quasi ignote, per lo più ignorate. Il pretesto fu l’edizione numero 53 del Premio Riccione. Che c’entra Tondelli con Riccione? Beh, tra Rimini & Riccione, all’epoca lampeggiante California italiana della dissipazione, dello scialo, della moina sull’edonismo radicale, si compie il genio di PVT. Nello stesso anno in cui Bompiani pubblica Rimini (romanzo bruttino e stagionato), è il 1985, nello stesso giorno in cui compie 30 anni, il 14 settembre, Tondelli vince una sezione del Premio Riccione, il Premio speciale Bignami, per un testo che s’intitola La notte della vittoria (“un’opera dal dialogo asciutto e ironico, che segna l’ingresso in teatro di un giovane autore già noto per i suoi romanzi”, così la comunicazione della giuria), che PVT, tramite una lettera del 3 settembre 1985, dieci giorni prima della serata di gala, rinomina Finali di partita per poi battezzarlo Dinner Party, testo, per la verità, mai andato in scena ad autore vivente. Per la cronaca, dalla bagarre del premio fu escluso un altro scrittore quasi coetaneo di Tondelli e baciato da analogo successo, Andrea De Carlo, che aveva partecipato con Time Out, su partitura di Ludovico Einaudi.
Dagli Archivi del Premio Riccione, una lettera di Pier Vittorio Tondelli a Nico Naldini
Antologia della letteratura adriatica. Premessa: gli archivi del Premio Riccione sono una miniera. Quasi inesplorata. Nel 1947, ormai è storia bibliograficamente acquisita, è passato dal Premio Riccione Italo Calvino, con Il sentiero dei nidi di ragno (da leggere lo studio eccellente di Andrea Dini, Il Premio nazionale “Riccione” 1947 e Italo Calvino, 2007). Costretto a vincere per ragioni “di partito”, il romanzo sulla Resistenza sarà pubblicato qualche mese dopo da Einaudi, surfando sull’alloro riccionese. Ma da Riccione sono passati in tanti, da Enzo Biagi (erano gli anni Cinquanta e il futuro giornalista sperava di far fortuna come drammaturgo) a Tullio Pinelli, da Enrico Vaime a Dacia Maraini (che vince tre edizioni), da Franco Quadri a Luca Ronconi e Ugo Chiti. Lasciando manoscritti, lettere, telegrammi e documenti vari. E soprattutto, una storia ancora da narrare e documentare. Come quella di Tondelli e della sua impresa più importante: costruire “una grande mostra sulla città di Riccione”, o meglio, “fare di Riccione la città mitica dell’immaginario italiano di questi ultimi sessant’anni”, attraverso un potente lavoro di ricerca letteraria. L’ambizione di Tondelli ha successo: la mostra-monstre Ricordando Fascinosa Riccione, dedicata a investigare “Personaggi, spettacolo, mode e cultura di una capitale balneare” si realizza il 22 giugno del 1990, è cementata in un catalogo edito dalla bolognese Grafis e ripreso (ampliato e analizzato) nel 2005, all’interno del libro curato da Fulvio Panzeri, Riccione e la Riviera vent’anni dopo (in questo caso, stampa Guaraldi). Nello specifico, Tondelli si occupa di Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica, costruendo una antologia di autori che va da Sibilla Aleramo a Valerio Zurlini, passando per la Romagna di Alberto Arbasino (in Fratelli d’Italia), per le poesie di Tonino Guerra e di Raffaello Baldini, per l’Igea Marina di Giovannino Guareschi e naturalmente per la Rimini di Tondelli medesimo. L’esito, secondo gli appunti privati di Tondelli, è che la “storia letteraria della riviera adriatica non ha nulla da invidiare a quella di Viareggio così ricca di premi, presenze e pagine prestigiose”, insomma, “si pensa sempre alla riviera adriatica come un luogo balneare pop e middle class. In parte è vero. Ma la nostra ricerca dimostra che questi luoghi hanno un passato non solamente esclusivo, ma anche intellettuale assai prestigioso”. Tondelli lotta contro l’immaginario della Riviera trash (sono quelli gli anni di Rimini, Rimini e di Abbronzatissimi), esalta Il mare d’inverno (in un celebrato articolo su “Rockstar” del 1989), dove la spiaggia di Riccione si converte in qualcosa di esistenziale che sta tra il “deserto nordafricano” e l’inquietudine “in riva all’oceano, nel Maryland o nel Delaware”, bastona “i nostri scrittori, democratici e pop, [che] preferiscono altre mete. Si turano il naso: Riccione? Per l’amor di Dio! Rimini? Basta, basta! E non hanno mai messo piede su questa spiaggia”.
Un biglietto autografo di Tondelli a “Marolì”, mitica factotum del Premio Riccione
Il canone inverso. La conversione passa, si sa, per l’atto culturale. Tondelli ce la mette tutta. “Non dico che abbiamo avuto dei premi Nobel, ma basterebbe valutare l’importanza di queste spiagge nell’opera di autori del Novecento per parlare di un ruolo importante nella prosa novecentesca”, scrive, ancora, in quel foglio inedito. Nel suo “canone inverso” Tondelli, aiutato dal professore bolognese Alberto Bertoni e con qualche dritta di Ezio Raimondi, imbarca Alfredo Panzini e Dante Arfelli, Alfredo Oriani e Riccardo Bacchelli, Marino Moretti, Renato Serra, Cesare Zavattini, Guido Piovene, Giorgio Scerbanenco (“le spiagge di Rimini, di Riccione e di Cervia devono essergli parse il contraltare estivo della Milano in cui si muovono i suoi ruffiani”), Filippo De Pisis, Francesco Leonetti. Una squadra che non scherza. E che Tondelli avrebbe voluto esaltare costruendo una sezione degli “antecedenti letterari”, compilando “una piccola antologia tematica sul mare: Dante, Tasso, Daniello Bartoli, Ippolito Nievo”. A questa antologia anticanonica Tondelli lavora come un matto, per due anni. Gli archivi del Premio Riccione testimoniano l’opera attraverso una ricca massa di lettere inedite: a Einaudi, alla Fondazione Mondadori, a Feltrinelli. E in particolare a Tonino Guerra (“potresti essere così gentile da orientarmi nella ricerca?”), a Maria Corti, a Nico Naldini (“Le scrivo dunque per chiederle, in riferimento al suo prezioso lavoro su autori come Comisso o Pasolini, se può segnalarmi qualche pagina o aneddoto riferito alle villeggiature riccionesi”), grazie al quale ottiene le fotografie di Pier Paolo Pasolini giovinetto sulla spiaggia di Riccione e le prime testimonianze scritte del poeta: “una lettera di Pier Paolo bambino a suo padre da Riccione”, oltre agli “originali autografi dei Quaderni Rossi di Pasolini, dove appunto si parla di Riccione” (Naldini). Una lettera al figlio di Guareschi, poi, testimonia la passione di Tondelli per Giovannino (“non poteva mancare la presenza di Guareschi…”), i cui libri “ho poi avuto modo di leggere con grande godimento e piacere”. Tondelli – più decadente che avanguardista – ha capito che i luoghi esistono finché uno scrittore si ostina a setacciarli: se Cesare Pavese vedeva l’Ohio nelle Langhe, Pier Vittorio sognava la costa americana da una spiaggia romagnola. Che poi la Riviera non sia più “discoteche fino al mattino”, “amoreggiare dietro le cabine al chiar di luna”, “sepolto di garganelli e piadine durante il giorno, a prendere il sole nel tardo pomeriggio in compagnia di qualche belva” è un fatto, si sa. I luoghi cambiano e gli scrittori attualmente dormono. (Davide Brullo)
*In copertina: Pier Vittorio Tondelli a Riccione, fotografato da Fulvia Farassino
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PESARO – Venerdì 24 agosto, alle ore 21, al teatro Sperimentale di Pesaro (via Rossini) si terrà un incontro con Enzo Bianchi, saggista, monaco laico, fondatore della comunità monastica di Bose, a Magnano. A presentare Bianchi sarà il prof. Ivano Dionigi, latinista, rettore dell’Università di Bologna dal 2009 al 2015; interverrà anche l’assessore comunale alla Crescita Giuliana Ceccarelli.
L’iniziativa è organizzata dalla fondazione don Gaudiano e ha il patrocinio del Comune di Pesaro (assessorato alla Crescita).
Enzo Bianchi è nato a Castel Boglione (At) nel Monferrato, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, alla fine del 1965 si è recato a Bose, una frazione del Comune di Magnano, sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di far nascere una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, ha scritto la regola della comunità che conta un’ottantina di membri di cinque diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Br), Assisi (Pg), Cellole-San Gimignano (Si) e Civitella San Paolo (Rm). È stato priore della comunità dalla fondazione fino al 25 gennaio 2017.
Nel 1983 ha fondato la casa editrice Edizioni Qiqajon che pubblica testi di spiritualità biblica, patristica, liturgica e monastica. Nel 2000 l’Università degli Studi di Torino gli ha conferito la laurea honoris causa in “Scienze Politiche”; nel 2016 anche l’Università degli studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo gli ha conferito la Laurea Honoris Causa. E’ membro del Consiglio del Comitato cattolico per la collaborazione culturale con le Chiese ortodosse e orientali del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.
Nel 2014 Papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Nel 2007 ha ricevuto il “Premio Grinzane Terra d’Otranto”, nel 2009 il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro Il pane di ieri, nel 2013 il “Premio internazionale della pace”, nel 2014 il “Premio Artusi”, nel 2016 il “Premio Emmanuel Heufelder”. Dal 2014 è cittadino onorario della Val d’Aosta e di Nizza Monferrato, dal 2017 della città di Palermo.
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Dieci anni
Iniziativa 21058 nasceva 10 anni fa per essere una cassa di risonanza per le idee, i progetti e gli scenari che possono nascere dalla conoscenza dei problemi reali e dalla passione civile di singoli cittadini e di altre realtà associative della Valle Olona. Ci siamo impegnati ad ascoltare e promuovere le idee migliori, sostenere e moltiplicare i progetti più innovativi, trasformare le idee in risposte, e nel nostro piccolo pensiamo di esserci riusciti. Dalla prima conferenza sulla famosa influenza aviaria del 2009, fino al bookcrossing, passando per il Barcamp e il debate sulla Riforma costituzionale di strada ne abbiamo fatta.
Per celebrare questo anniversario siamo stati a Santo Stefano Belbo alla Fondazione Cesare Pavese, uno dei nostri autori più cari
Per il futuro Iniziativa21058 continuerà ad usare come bussola una frase di Andrea de Carlo:"Dalla letteratura sarebbe bello che la politica apprendesse la capacita' di spostare il proprio punto di vista. Un romanziere, quando racconta una storia, puo' farlo anche da una prospettiva diversa dalla sua. E' un esercizio di immedesimazione in personaggi a volte anche molto lontani, di cui diventa necessario capire le ragioni, e puo' essere utile a chiunque, a un lettore normale come a un politico. Perche' altrimenti si rischia di guardare il mondo come da dietro a una trincea, a seconda dello schieramento a cui si appartiene. E questo limita fortemente la visione".
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