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#Domenico Starnone citazioni
princessofmistake · 4 months
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Avevo voluto tenere a distanza l’orrore che si distendeva per casa, per le strade, per la faccia della terra, infiltrandomi in tutto ciò che, intorno, pareva sereno, devoto, sacro, e al contrario si stirava, si slabbrava, si scheggiava, patendo.
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dinonfissatoaffetto · 2 years
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Ho imparato da un pezzo che persino le persone che ci vogliono bene fanno fatica a ricacciare indietro se stesse per lasciare spazio alle nostre smanie di centralità.
- Domenico Starnone
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gregor-samsung · 2 years
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“ Il maestro Piantieri parlava a tutti delle capacità straordinarie di quel bambino. Fdricchiè sapeva non solo disegnare, colorare, leggere e scrivere, ma anche dire con precisione la sua opinione in fatto d'arte, mostrando un precocissimo spirito critico e un'altrettanto precoce competenza. Un giorno, raccontava mio padre, successe che Piantieri portò in classe un quadro a olio di un pittore di nome Colizzi che rappresentava, come diceva il titolo, Effetti di neve all'alba. Fu il primo quadro a olio che vide nel corso della sua lunga vita e lì per lì gli fece una buona impressione. Ma dopo un po', avendo osservato con estrema cura il quadro, ne individuò i mille difetti e passò a una critica puntuale di ogni dettaglio sbagliato, dimostrando al maestro la pochezza del pittore Colizzi. Tanto che Piantieri, esterrefatto, chiamò subito don Mimì e gli disse: «Questo bambino deve andare d'urgenza alla scuola d'arte». Don Mimì arrivò di malavoglia, era la malattia mortale di ogni gratificazione o sentimento di commossa letizia che investisse il figlio. Il maestro si prodigò molto, elencò al tornitore tutti i meriti del bambino, disse che era il migliore in aritmetica, che scriveva benissimo, che cantava in modo molto intonato, che aveva orecchio per la musica, che aveva disegnato persino un bellissimo ritratto dell'onorevole Mussolini. Niente, don Mimì se ne fottette, specialmente di quell'ultima cosa. Appena a casa disse: «'O maestro è 'nu strunz! Che magni poi con la scuola d'arte?». Anzi da quel momento cominciò a chiedere spesso, ad alta voce, a un pubblico costituito sostanzialmente da Filumena: «Fdrì è meglio di me?». Domanda alla quale si rispondeva da solo, prima che la moglie si intromettesse: «No, non è meglio di me. Quindi farà l'operaio. Che c'è di male a fare l'operaio?». Qui mio padre, seduto davanti al cavalletto a disegnare, così mi spiegava: «Se uno sa fare solo l'operaio, Mimì, non c'è niente di male. Ma se uno ha un altro destino, e si vede benissimo da tanti segnali, che cazzo significa "che c'è di male"?». Non significava niente. Era solo una formula utile a suo padre per mandarlo al più presto a lavorare e raggranellare attraverso il primogenito un altro po' di danaro da giocarsi alle carte o alle corse dei cani. A questo tendeva don Mimì e perciò non voleva vedere, non voleva sentire. Gli occhi li aveva perfetti, le orecchie pure, era un uomo molto intelligente. Se avesse voluto ammettere: «Cazzo, guarda che figlio sono riuscito a fare», avrebbe potuto. Invece si era intestardito - mormorava Federì con una sofferenza di vecchia data nella voce - a scavargli una fossa profonda per buttarcelo dentro, figura d'orco che anticipava tutti gli orchi della sua vita futura: dirigenti scurnacchiati delle ferrovie, neoricchi presuntuosi, pittori chiavechemmèrd che gli strappavano premi importanti alle mostre. “
Domenico Starnone, Via Gemito, Feltrinelli (collana Universale Economica n° 8858), 2017⁶; pp. 249-50.
[Prima Edizione originale: 2001]
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lecitazionidilibri · 7 years
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Niente è più radicale dell’abbandono, ma niente è più tenace di quei lacci invisibili che legano le persone le une alle altre. E a volte basta un gesto minimo per far riaffiorare quello che abbiamo provato a mettere da parte.
Lacci, Domenico Starnone
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princessofmistake · 4 months
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Ho imparato da un pezzo che persino le persone che ci vogliono bene fanno fatica a ricacciare indietro se stesse per lasciare spazio alle nostre smanie di centralità.
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princessofmistake · 4 months
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Il piacere sessuale, sganciato definitivamente dalla riproduzione di cui all’origine era solo l’incentivo, sbrodolava umori di continuo per tutto il pianeta, in ogni stagione, e non c’era controllo possibile, ciò che doveva accadere sarebbe comunque accaduto, era una spinta franosa dei corpi che travolgeva spietatamente mogli, mariti, figli, affetti, economie.
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princessofmistake · 4 months
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Cosa diventerà questo bambino in questa città. Tutto il suo so io, faccio io già a quattro anni, si muterà in un vuoto sfoderare nozioni insulse, competenze inesistenti, acida voglia di rivalsa, sbruffoneria? Quando ho smesso io di dirmi bravo da solo, di considerare ogni mia cosa una prodezza? Tardi, credo. O forse mai, nemmeno adesso. Ho un affetto grande, che cresce col tempo invece di diminuire, per l’io che ho dolorosamente selezionato tra tanti, il mio io. Quanto amiamo – tutti – il nostro spiritello ciarliero. La fatica comincia quando lo gettiamo nel mondo perché sia amato quanto lo amiamo noi. Cosa impossibile. Alla fatica segue la delusione.
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princessofmistake · 4 months
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Chissà quanti, meravigliandosi di se stessi, avevano tracciato segni ambiziosi sull’acqua o nella polvere, e di notte, avevano congiunto bagliori di stelle, abbozzato movimentate avventure lungo le linee casuali delle rocce, su per i corrugamenti delle cortecce, o anche trezziando carte con polpastrelli che plasmavano la sorte, cattiva o buona che fosse. I fantasmi fanno il nido nel futuro.
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princessofmistake · 4 months
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– Bravo, – mormorai e mi venne in mente che viviamo per tutta la vita come se il nostro continuo misurare e misurarci rimandasse a una verità inconfutabile; poi in vecchiaia ci rendiamo conto che si tratta solo di convenzioni, tutte sostituibili in ogni momento con altre convenzioni, e l’essenziale è affidarsi a quelle che ci sembrano di volta in volta più rassicuranti.
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gregor-samsung · 3 years
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“ Mio fratello dorme da piedi o finge di dormire. Su un lettino proprio accanto al mio c'è mia nonna col mio terzo fratello che ha sette anni. L'ultimo dorme nel letto dei miei genitori, che però non dormono. Sento le urla di mio padre, le frasi singhiozzate di mia madre, uno scalpiccio come di inseguimento, cose che cadono e si rompono. Dico preghiere che mia nonna mi ha insegnato da piccolo, l'Ave Maria per esempio. Recito mentalmente ma faccio in modo che la voce mi risuoni forte nella testa, più forte delle urla di mio padre. Accorgimento inutile. Penso allora che, preghiere o no, la Madonna, se esiste da qualche parte e ha un qualche potere, farà di tutto per impedirgli di uccidere mia madre. Dico perciò a fior di labbro, in dialetto, l'unica lingua che conosco bene: «Madonna mia, fallo smettere». Lo dico decine di volte, con molta concentrazione, come se l'iterazione potesse risultare più persuasiva. La Madonna però non fa niente. Allora cerco di vincere il terrore, mi alzo piano piano dal letto, vado alla porta, la socchiudo. Non so cosa fare. Ho dodici anni ma ho paura di mio padre. Non è una paura fisica, o comunque la paura fisica è quella che percepisco di meno, che ricordo di meno. E' una paura d'altro genere. Temo di trovarmi vuoto di fronte a lui, senza ragioni che giudichi degne di opporsi alle sue, pura cassa di risonanza degli insulti che sta gridando, delle bestemmie. Temo, di conseguenza, che mi costringa ad ammettere che ha il diritto sacrosanto di uccidere mia madre. Temo di acconsentire. Sicché la paura è insopportabile. Intanto lo vedo. Vedo anche lei che piange e cerca di sfuggirgli per la cucina, vedo bottiglie e pentole e bicchieri che cascano sul pavimento. Soprattutto mi è chiaro cosa le urla. Le urla: «Vanesia!», parola misteriosa che mi resterà impressa nella memoria per sempre con quel suono intollerabile di ingiuria, vocabolo estraneo al dialetto d'ogni giorno, voce stridente fra quelle che lui stesso sta pronunciando, oscenità, insulti. Nessuno in casa sa cosa significhi, nemmeno mia madre, nemmeno io che ho appena terminato la seconda media. Lo sa solo lui, il significato. E urla: vanesia, e la colpisce a schiaffi, uno dietro l'altro, di palmo e di dorso, e le rovina la pelle olivastra, la bocca, la pettinatura, e le fa schizzare via i pettini eleganti. Io non so che fare. Sommo le botte che non ho visto a quelle che sto vedendo, sommo quello che ho sentito dal letto a quello che sto sentendo - lo faccio anche adesso che ne scrivo, - e botte e parole ripetono all'infinito che lei non deve più uscire di casa, mai più mai più, per colpa sua stasera mio padre ha perso almeno trecentomila lire, l'ingegnere Isabella voleva comprare due quadri, la trattativa era in atto, e lei invece gli ha rutt'o cazz, che sfaccìmm'erano tutte quelle smorfie, che sfaccìmm significava chella coscia, tu non ti rendi conto Rusinè, la risatella, la risata, Rusinè tu non capisci, tu non sai che gente è quella, gente di merda, il poeta di questo cazzo, lo scultore di questo cazzo, l'ingegnere di questo cazzo, mo stanno ancora tutti sotto i portici della Galleria a ridere, e sai che dicono? dicono: scommettiamo che quella me la chiavo prima io, questo dicono, e già spargono la voce che il ferroviere i quadri li vende grazie alla muglièra, senza la moglie sta fresco, quello non sa manco pittà, e tu m'hai messo in questa situazione, vanesia, vanesia, vanesia. Con altre e altre parole, tutto dialetto, suoni di mani a schiaffo, molte fantasiose irriferibili ingiurie. Ne ebbi così orrore che mi ritrassi. O forse non mi alzai nemmeno dal letto. Forse me lo impedì mia nonna, che era sveglia e guardava il soffitto e disse: ciunkllochemmommò, parola della malmagìa che significa férmati, immobilìzzati, resta a letto come se fossi paralizzato all'improvviso dalla paralisi infantile, è colpa 'e màmmeta, non gli deve rispondere a quello, gliel'ho detto mille volte che non gli deve rispondere; ma lei non vuole capire, è tosta, madonna mia madonna mia, ciunkllochemmommò che non sono fatti tuoi, non sono fatti nostri, sono fatti di moglie e marito che domani si vorranno bene più di ieri e meno di dopodomani. Un sussurro ma forse sufficiente a fermarmi. O forse mi fermò lo spossamento, come in mille altre occasioni: quell'assenza di energie che mi causava sempre la voce rabbiosa di mio padre, una sua orribile capacità di rendermi con una sola nota della gola corpo pesante e insieme vuoto, vuoto di ragioni mie e colmo di piombo fino alla bocca, una pesantezza che per quanto opponessi resistenza mi dava subito da piangere. E le lacrime mi abbattevano, nel senso che mi atterravano e mi avvilivano, mi umiliavano, cioè, per un tempo indefinito, forse per tutta la vita. Fatto sta che mentre vedo gli schiaffi, mentre vedo Federì che la colpisce e mia madre che cerca di ripararsi, mentre vedo i pettini che volano sul pavimento - ma vedere non è una certezza: vediamo con tanti possibili occhi, non c'è parola o sillaba o gorgoglio o schiocco che non sia subito anche un'immagine o due o cento contemporaneamente -, mentre vedo tutto questo, non vedo il resto, sento solo che lui continua a urlare, ora minaccia che se uno di quegli stronzi di merda di cane si fa vivo per ronzarle ancora attorno lo butta giù dalle scale, 'st'uommenemmèrd, non hanno ancora capito che tipo è lui, lui non è come Nicola di una storia che gli raccontava da bambino sua nonna Funzella per prepararlo alla vita, lui non è piécoro, becco, curnuto contento com'era Nicola della favola per colpa di quella zoccola della moglie Lillina, a lui nessuno canterà mai la sera, mentre torna a casa dal lavoro: 'a Lillina 'e don Nicò, fa' l'ammore con Totò, 'on Nicò, 'on Nicò, tu sì piécher'e nuje no; lui piuttosto l'ammazza sua moglie, la strangola con queste mani, padreterno che ho fatto di male io per meritarmi questo, ma basta, ah basta, dammi quei pettini, quei pettini non li metterai mai più, mai mai mai, troppo vanesia Rusinè, troppo vanesia. Vuota. Vuoto interiore di mia madre. Che non ha pensiero, nemmeno lei. E' canna di camino. Quando parla soffia vento di vanità. O esala fumo, quello che si spande per casa. E poi l'odore. E' un odore denso di oggetto resistente che si arroventa, libera sostanze volatili di colore scuro e brucia sul carbone del focolare. Lei singhiozza forte, mia nonna ha attaccato un rosario che implora vendetta, mio fratello piange dal fondo di un falso sonno, i pettini sfiammano - credo almeno, così li vedo - nella notte di giugno. Il loro odore mi dà la nausea, una sofferenza del naso e dello stomaco, un sentimento olfattivo di strazio. Lo custodirò con cura. Diventerà parte indissolubile del corpo di mia madre, come se nel fuoco Federì avesse bruciato non i pettini, ma le sue unghie o i suoi capelli o le ciglia nere e folte che le ombreggiavano gli occhi. “
Domenico Starnone, Via Gemito, Feltrinelli (collana Universale Economica n° 8858), 2017⁶; pp. 23-25.
[Prima Edizione originale: 2001]
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140eoltre · 3 years
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Cos'è l'infanzia? L'infanzia è la stupefacente selva oscura delle parole. Vengono giù a pioggia dal mondo lontano, incomprensibile, degli adulti. È una pioggia esaltante ma anche minacciosa. Minacciosa? Il maestro di prima elementare si presentò così: "Vedete? Questa è una bacchetta di ebano. Vi punirò per ogni errore o cattivo comportamento colpendovi sul palmo o sulle nocche". Non ci disse mai cos'era l'ebano. E? Per molto tempo ho pensato che Ebano fosse il crudele proprietario della bacchetta.
Domenico Starnone intervistato da Teresa Ciabatti per Sette del Corriere della Sera n. 48 del 27.11.2021
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140eoltre · 3 years
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figuriamoci narrare
Scrivere è provare a colmare i buchi e fallire ad arte. […] Noi abbiamo in testa, all’origine di ogni storia, solo figure mutilate. Di conseguenza la scrittura – anche quella che punta al frammento lirico – non può fare a meno di inventarsi protesi, senza di quelle non funzionerebbe niente. Del resto persino ricordare significa inventare, figuriamoci narrare. […] Quindi la narrazione più è…
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gregor-samsung · 3 years
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“ Mio padre aveva insistito molto sullo studio. Quel bisogno mi era venuto da lui. Nella sua chiacchiera ora aggressiva ora accorata c'era sempre il rimpianto di non aver studiato a sufficienza, a cui però associava subito il disprezzo per l'istruzione senza intelligenza e senza fantasia. Affrontava di petto ogni diplomato o laureato. Voleva confrontarsi con loro e dimostrare di saperne di più, o comunque di saper trarre dal poco che conosceva più di quanto sapesse chiunque avesse fatto studi regolari. Da ragazzo non riuscivo a capire. Oggi era diplomato, domani no. Sfoderava competenze in ogni settore, teoria e pratica. Con disappunto di mia madre, a volte azzardava persino di essere laureato. Quella situazione confusa per anni mi ha causato imbarazzi, non sapevo come definirlo con gli amici. Poi piano piano Federì si è rassegnato e invecchiando ha preferito ammettere che non aveva diplomi né lauree. Ma lo ha fatto solo per poter meglio inveire contro suo padre. Colpa di don Mimì, diceva. Il tornitore, quando quel suo figlio di genio compì il decimo anno, decise bruscamente di mandarlo a lavorare in Francia, presso un fratello che era emigrato. Ma trovò l'opposizione durissima di nonna Funzella e di Filomena. E poiché temeva le scenate di sua moglie - vere dimostrazioni di furia senza alcun senso del limite: Filumè sapeva diventare pericolosa per sé e per gli altri -, si rassegnò momentaneamente a iscrivere il bambino alla scuola di avviamento al lavoro «Casanova», otto ore al giorno di frequenza, un anticipo dell'officina, della fabbrica. In genere a quel punto Federì apriva una parentesi per predirmi: «Tu invece studierai. Io non sono come mio padre. Tu potrai fare tutto quello che ti piace: l'ingegnere delle ferrovie, qualsiasi cosa. Non ti contrasterò». Ascoltavo e sentivo che avrei preferito essere contrastato. Confusamente intuivo che dietro quel «qualsiasi cosa» si nascondeva la necessità che facessi una cosa di grande soddisfazione per lui, tipo appunto l'ingegnere delle ferrovie. Perciò venivo preso dalla paura di non soddisfare le sue aspettative e gli invidiavo quel suo genitore che gli aveva messo i bastoni tra le ruote in tutti i modi, dandogli agio poi di dire: «Tutta colpa di mio padre». Ma lui non se ne accorgeva, chiudeva la parentesi e ribadiva: «Voleva mandarmi a faticare». Solo grazie ad altre terribili scenate di Filomena, memorabili in tutto il caseggiato, era riuscito a sottrarsi ancora una volta, finito l'avviamento, al lavoro. Don Mimì, spaventato, si era piegato di nuovo e aveva mandato il figlio all'Alessandro Volta per farlo diplomare operaio specializzato. Intanto le provava tutte per rendergli difficile la vita scolastica: non pagava le tasse se non con molto ritardo, non gli comprava i libri, lo aveva messo in condizioni di fargli perdere anni, di farlo cacciare da scuola. Il racconto di mio padre, di solito così colorito, in quell'area si perdeva in sussurri. Ancora negli anni novanta, anche dentro i quaderni delle sue memorie, lasciava calare una nebbia sulle storie smargiasse di precocità artistica, si perdeva la traccia della sua vivace autocelebrazione, si ottundeva il gusto di reinventarsi da capo a piedi. Accadeva come se il suo genio a quel punto si fosse raccolto in sé e, umiliato, avesse deciso di tacere. “
Domenico Starnone, Via Gemito, Feltrinelli (collana Universale Economica n° 8858), 2017⁶; pp. 251-52.
[Prima Edizione originale: 2001]
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140eoltre · 5 years
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L'amore come l'ho conosciuto io [...] è una lava di vita grezza che brucia vita fine, un'eruzione che cancella la comprensione e la pietà, la ragione e le ragioni, la geografia e la storia, la salute e la malattia, la ricchezza e la povertà, l'eccezione e la regola. Resta solo una smania che torce e distorce, un'ossessione senza rimedio: lei dov'è, dove non è, cosa pensa, cosa fa, cosa ha detto, qual era il significato vero di quella frase, cosa mi sta tacendo, e se è stata bene come sono stato io, e se seguita a stare bene ora che sono lontano, o se invece la mia assenza la debilita come la sua fa con me, annichilendomi, togliendomi tutta l'energia che invece genera la sua presenza, cosa sono senza di lei, un orologio fermo all'angolo di una strada trafficata, ah la sua voce invece, ah starle accanto, accorciare le distanze, azzerarle, cancellare chilometri, metri, centimetri, millimetri, e fondermi, confondermi, smettere di essere io, anzi già mi sembra di non esserlo mai stato se non in lei, nel piacere di lei, e questo mi rende orgoglioso, mi fa allegro, e mi deprime, mi intristisce, e di nuovo mi riaccende, mi elettrizza, quanto le voglio bene, sì, ciò che voglio è soltanto il suo bene, sempre, qualunque cosa accada, anche se si sottrae, anche se ama altri, anche se mi umilia, anche se mi svuota di tutto, persino della capacità di volerle bene. [...] Non so che farci con l'amor serafico, l'amore confortevole, l'amore che scampanella, l'amore che purifica, l'amor patetico.
DOMENICO STARNONE, Confidenza, Einaudi, Torino 2019, pp. 3-4.
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140eoltre · 7 years
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Betta che si strusciava al suo collega era scostumata; e suo marito incuneato tra lei e l'estraneo – un amante, un fratello, un amante fraterno – era scostumato; come scostumate erano le pareti, il vento che soffiava dalla Marina, la città. Qualche tempo dopo la morte di mia moglie, avevo guardato tra le sue carte – scostumato anch'io – e mi ci era voluto poco per rendermi conto che, mentre ero distratto giorno e notte dalle piccole dure battaglie per la mia affermazione artistica – erano stati tanti, tantissimi, gli anni di distrazione nel corso dei quali la cosa che aveva contato di più era andare dietro al mio estro –, lei mi aveva tradito spesso, già pochi anni dopo che c'eravamo messi insieme. Perché. Non se lo spiegava nemmeno lei, faceva solo ipotesi. Per ricordarsi che c'era. Per darsi un po' di centralità. Perché la mia centralità, all'interno della nostra relazione, era eccessiva. Perché il suo corpo aveva bisogno di attenzione. Per una mossa cieca della sua vitalità. Dietro la vita costumata di ogni giorno – sospirai pieno di scontento – c'è uno spiritello senza educazione che fingiamo di non vedere, un'energia che ci anima la carne debellando a scadenze fisse ogni compostezza, anche nei più composti.
DOMENICO STARNONE, Scherzetto, Einaudi, Torino 2016, p. 16
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