#Creatura di Sabbia
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[Notte fatale][Tahar Ben Jelloun]
Notte Fatale: Zahra Emerge Dall’Ombra, Sfida la Società e Conquista la Libertà Titolo: Notte fataleScritto da: Tahar Ben JellounTitolo originale: La Nuit sacréeTradotto da: Egi VolterraniEdito da: La nave di TeseoAnno: 2024Pagine: 208ISBN: 9788834618493 La trama di Notte fatale di Tahar Ben Jelloun Ma non è stato il primo figlio maschio, dopo sette femmine, come Hadj ha fatto credere a tutti,…
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In tutta la mia vita, l'unica certezza in cui ripongo fede è Dio. Quando tutto intorno a me sembra vacillare, quando le ombre si allungano e il silenzio diventa assordante, è in Lui che trovo rifugio. Le strade che percorro possono essere impervie, le tempeste possono scuotere il mio cammino, ma c'è una luce che non si spegne mai. Nei momenti di gioia e in quelli di dolore, sento la Sua presenza accanto a me. È il soffio leggero del vento tra le foglie, il calore del sole sulla pelle, il sorriso di uno sconosciuto che passa per strada. È in ogni battito del cuore, in ogni respiro che mi tiene in vita. Non mi affido alle cose effimere di questo mondo, né alle promesse che svaniscono come la nebbia al mattino. L'unica verità che mi sostiene è quella che non posso vedere con gli occhi, ma che sento profondamente nell'anima. È una forza silenziosa che mi guida, una melodia che mi accompagna nel viaggio. Anche quando le ombre si fanno più scure e la solitudine mi avvolge, so che non sono mai veramente solo. C'è una mano invisibile che mi sostiene, un amore infinito che avvolge ogni cosa. È in questa consapevolezza che trovo la pace, nel sapere che c'è un disegno più grande, una speranza che non delude. Le stelle nel cielo notturno mi ricordano la Sua grandezza, il mare infinito racconta della Sua maestà. Ogni dettaglio dell'universo sussurra il Suo nome. Quando guardo negli occhi un bambino e vedo la purezza del suo sguardo, riconosco la scintilla divina che abita in ogni creatura. Il mondo cambia, le persone vanno e vengono, le certezze si sgretolano come castelli di sabbia, ma la Sua presenza rimane immutabile. È l'ancora che mi tiene saldo nelle tempeste, il faro che mi guida attraverso le tenebre. In Lui trovo risposte alle domande più profonde, conforto nelle ferite più dolorose. Non pretendo di capire tutti i misteri, né di avere tutte le risposte. Ma so che la fede non è cieca, è una visione oltre il visibile, un ascolto oltre il silenzio. È una mano tesa nell'oscurità, una promessa che risuona nel cuore. E così, nel fluire dei giorni, nel succedersi delle stagioni, continuo il mio cammino con fiducia. Perché so che, al di là di tutto, c'è un amore che non conosce fine. E questa è la verità a cui mi aggrappo con tutto me stesso.
Empito
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Extraterrestre, portami via
Rino era stanco della vita sulla Terra. Il traffico, il lavoro, gli influencer...
Aveva sentito parlare di un'agenzia intergalattica che offriva pacchetti vacanze su pianeti esotici, oppure erotici o anche apotropaici. Così, un po' per scherzo e un po' per disperazione, aveva compilato il modulo online.
"Destinazione preferita?" aveva chiesto il chatbot alieno identificato con il codice: R0TT0 D3N7R0.
"Un posto tranquillo con suoni a bassa frequenza e foreste con colori fluorescenti... come quelli in Avatar e magari una stella tutta mia," aveva risposto Rino, sognando a occhi aperti.
Il chatbot alieno non rispose. Sembrava non curarsi di Rino, fu li che Rino ebbe il sospetto che in realtà R0TT0 D3N7R0 non si curava davvero di lui. Una sensazione a cui era maledettamente abituato, poveRino. (licenza poetica dell'autore ndr)
Qualche giorno dopo, alla sua porta si presentò una creatura alta due metri, con tre occhi e una tentacolare appendice al posto del braccio.
"Signor Rino?" chiese la creatura con una voce metallica. "Salve mi chiamo Pdor e sono venuto a prelevarla. La sua navetta è pronta per la partenza."
Rino sgranò gli occhi. "Ma... ma davvero?", balbettò, "lei è il grande Pdor figlio di Kmer della tribù di Instar?"
"Certamente," rispose l'alieno.
"Non ci posso credere", urlò Rino agitando le mani.
"No che non lo sono", ribatté l'alieno evidentemente seccato, "ma tutte le volte che mi presento con voi umani in terra italica è sempre la stessa battuta. Comunque bando alle ciance, abbiamo trovato un pianeta perfetto per lei. Colori fluorescenti, spiagge di sabbia rosa, zone dove il vento crea suoni a bassa frequenza per il relax e soprattutto una pizzeria gestita da robot, che sono stati costruiti e brevettati a Napoli."
Con un po' di timore, Rino salì a bordo della navicella spaziale. Il viaggio fu più breve del previsto. Quando arrivò sul nuovo pianeta, rimase sorpreso. Era tutto come gli era stato promesso: colori, suoni, pizza... e una stella personale, proprio come aveva richiesto.
Ma dopo qualche giorno, Rino iniziò a sentire la nostalgia di casa. La sabbia rosa era scomoda per prendere il sole, le pizze fatte dai robot erano poco sapide e la stella, pur essendo tutta sua, era un po' solitaria. Si sentiva come il Piccolo Principe nelle illustrazioni.
"Senta," disse all'alieno, che lo aveva accompagnato nel suo viaggio, "mi scusi, ma vorrei tornare a casa."
L'alieno alzò un sopracciglio, una delle sei sopracciglia. "Ma... ma lei ha appena iniziato la sua vacanza!"
"Lo so, lo so," sospirò Rino, "ma la Terra mi manca. E poi, la pizza è migliore, gli influencer posso sempre bloccarli, in fondo la vita lì non è poi così male. Lì esiste Alberto Angela e Alessandro Barbero, vuole mettere?"
L'alieno annuì, comprensivo. "Nessun problema, signor Rino. La riporteremo a casa. Ma la prossima volta, la prego di leggere attentamente il contratto. C'è una clausola che vieta il rientro anticipato a causa della nostalgia."
Rino tornò sulla Terra, un po' più saggio e con una nuova prospettiva sulla vita. Aveva imparato che, a volte, l'erba del vicino non è sempre più verde, che la casa è sempre il posto migliore e che fondamentalmente esiste sempre uno 'sticazzi' per qualsiasi cosa.
Capì anche che una strategia per affrontare le giornate, quelle peggiori, era quella di attendere silenziosamente che finissero.
Capì che un posto migliore nel mondo si poteva sempre trovare, come per esempio in una enoteca davanti a un calice di vino. Con il motto "comunque vada, andremo a bere".
Capì anche di apprezzare meglio quando qualcuno, giudicandolo, usa frasi come: "Non ho parole". Perché vuol dire che davvero non le ha, non sa neanche cosa pensare. Sciocco.
E così, mentre riprendeva la sua routine quotidiana, non poté fare a meno di sorridere al pensiero della sua avventura spaziale. Dopotutto era stata un'esperienza indimenticabile, anche se un po' troppo breve, perché gli e servita a capire molte altre cose.
Immagine: web
Musica negli auricolari: Extraterrestre di Eugenio Finardi
P.s. per questo racconto nessun Rino è stato maltrattato
#libero de mente#pensiero#ironia#racconto#extraterrestre#storia#dialoghi#Terra#pianeta#fuggire#viaggio#astronave#vita
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Sabbia sulle cosce
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Sabbia sulle cosce. Gratta, gratta, a volte fa male, ma è così piacevole! L'ho sempre adorata. Stare lì, così, accovacciata nella buca sabbiosa che ho ricavato tra una sdraio e l'altra, mi fa sentire un animale. Una creatura del mare, tipo una foca, o un granchio. Una primitiva. E, oh mamma, quanto mi piacerebbe esserlo davvero. Un ammasso di cellule, ciccia, ossa e muscoli con nessun altro scopo se non quello di vivere.
E giocare, ovviamente. Selvaggia, rumorosa, sufficiente a me stessa. Invece ho dieci anni e quando questa estate cederà il posto all'autunno inizierò la scuola media. Ne ho una gran voglia, a dire il vero! È roba da grandi, un salto verso il domani, un'idea bellissima e nuovissima. Qualcosa che fa un po' paura, sì, ma che mette a disagio solo perché ancora non la conosco. Ne sono certa. Come quella sera di qualche mese fa, quando i miei stavano guardando "The Village" e io sarei già dovuta essere addormentata, al sicuro nella mia cameretta. Solo che non lo ero. Avvolta nel pigiamino blu, ero scivolata silenziosa come un furetto dal mio letto al corridoio; da lì, avevo provato a fare capolino dalla mezza parete che si affaccia sulla sala. Era tutto buio, ma le facce di mamma e papà erano illuminate dalla luce rossastra del film.
Mi ero messa sulla punta dei piedi per vedere lo schermo anch'io. Ed eccolo lì, il mostro di "The Village"! Era sbucato all'improvviso proprio mentre mi stavo sporgendo per curiosare. Ero tornata nel lettino con la coda tra le gambe, spaventatissima. Ma in realtà non avevo visto chissà cosa, giusto uno scorcio. Un microsecondo di quel mostro prima di scappare via. Mi aveva spaventata, molto, e mi era rimasto in testa per tutta la settimana, con quel suo mantello rosso, gli artigli e le zanne.
L'avevo anche disegnato, a un certo punto, da tanto era forte il bisogno di buttarlo fuori dalla mia mente! Mamma aveva visto il disegno e se n'era accorta. Mi aveva chiesto se per caso volessi parlarne e rivedere quella scena insieme a lei e papà, per far andare via la paura. Avevo detto sì e così avevamo fatto. Wow, a vederlo bene quel mostro non faceva per nulla spavento. Anzi, mi era sembrato quasi carino. Avevo sempre avuto un debole per le creature bizzarre. Sicuramente poteva venirne fuori un bel costume di carnevale per l'anno successivo.
Ecco, sono sicura che andare alla scuola media sarà proprio così. Mi sento nervosa e preoccupata, ma solo perché devo abituarmi e guardare tutto da vicino per la prima volta. Sarà fantastico; una cosa da grandi.
Sabbia sulle cosce. Mi metto a sedere e continuo a scavare, a giocare con la poltiglia sabbiosa che mi si forma nelle mani che ho appena immerso nel secchiello. Stravaccato sulla sdraio più vicina, c'è il nonno. Legge il giornale, borbotta qualcosa che non sento — c'è talmente tanto rumore lì, tra coccobello e la musica sparata a tutto volume dalle casse dei bagni 52. Sull'altra sdraio, la nonna. Si abbronza, i grandi occhiali da sole leopardati le coprono quasi tutta la faccia.
Sono loro i miei compagni di vacanza a Riccione. Mamma e papà sono ancora a casa, ci raggiungeranno più avanti. Mi mancano un po', ma diventare grandi è anche questo, no? Cavarsela da soli. Come una primitiva. Come una foca, o un granchio.
E, in fondo, non è per nulla male. Anche se…
Gratta, la sabbia gratta. Ora un po' più di prima, la sento sfregare sulla pelle delicata dietro le ginocchia: mi dà fastidio. La mia schiena è sudata. Da quanto tempo sono lì tutte quelle goccioline di sudore? Boh. Ma quanto rumore!
Pusch mi, en den giast tuch me, til ai chen ghet mai, satisfachton, satisfachton…
Quella canzone tutta agitata e dal suono che mi ricorda un po' le caramelle acide mi piace anche, parecchio, ma è tipo la quinta volta che oggi la mettono su e adesso inizia a trapanarmi le orecchie come non aveva mai fatto prima, mi entra giù nel collo e mi fa tremare le spalle. È troppo.
Quella sensazione pulsante corre da lì fino alla pancia e poi un po' più in basso, verso un punto a cui non penso quasi mai, se non per gioco o quando guardo i documentari sugli animali e a un certo punto il narratore spiega come avvengono gli accoppiamenti e le nascite dei cuccioli. Una piccola fitta proprio al centro, poi quel dolore sconosciuto si sdoppia e si sposta verso i fianchi. Ma come è possibile? Non mi era mai successo prima che il mio corpo avesse male in più punti contemporaneamente, non in quel modo.
Oh. Forse ho capito.
"Nonna?"
"Che c'è, Martinina?"
"Devo andare in bagno, posso? Mi scappa la pipì."
"Vai, vai."
Ma non è vero che mi scappa la pipì. Le toilette sono all'ingresso della spiaggia, proprio vicino agli spogliatoi e alle cabine dove William il bagnino mette tutti gli oggetti smarriti che ritrova sulla spiaggia dopo l'orario di chiusura. Entro in quella libera: dentro c'è odore di caldo, sabbia bagnata, sudore e acqua sporca. Non è certo gradevole, ma non direi che sia una puzza brutta; fa anche quella parte dell'estate e di Riccione. Mi abbasso la parte sotto del costume e mi siedo sul gabinetto. È tutto così buio, ma un po' di sole filtra in linee sottili dai tagli verticali della porta verniciata di bianco: guardo l'interno del costume.
Sangue. Sangue? Una macchiolina tutta rosa, pallida, sembra quasi un gioco di luce. Ma non è un gioco, è sangue vero. E il rosso sulla carta igienica che uso subito dopo me lo conferma.
Le mie cose. Urrà! Viva! Wow! Sono felicissima! Che emozione! Sono appena diventata una signorina. Mamma me ne aveva parlato. E anche nonna, anche se in un modo un po' da persona vecchia. Non sono impreparata, ho più o meno capito di che cosa si tratta e che cosa significa quando arrivano. Sapevo che le avrei avute anche io, prima o poi, ma mi sembrava una cosa fin troppo da ragazza grande: un'idea lontana, distante dalla mia vita di bambina che ancora gioca con il secchiello e fa le vocine per dare vita ai suoi pupazzi a forma di cavalli e draghi. E, invece, eccole lì, nelle mie mutandine. Sono una piccola donna.
Plic, plic. Un'altra scossa tiepida mi strizza la pancia e altro sangue scivola via da me, cadendo nell'acqua del water. Oh, ma allora è proprio una roba seria, qui c'è da dirlo a qualcuno. Mi pulisco come posso, tiro su il costume e torno dai miei nonni; felice, orgogliosa, con il cuore che mi batte a mille.
Ci affrettiamo a tornare in hotel, manco stessimo scappando dall'arrivo di un tornado. Nonno viene spedito prontamente a comprare degli assorbenti in farmacia — tornerà più tardi con quattro confezioni di marche diverse, due da me inutilizzabili, una troppo ingombrante, l'altra più o meno adatta; e anche dei cioccolatini.
Nonna si occupa di me. Mi dà un ricambio, mi spiega come lavarmi, mi chiede se sto bene. E io sto bene, eccome. Questa è una giornatona, è appena successa una cosa talmente importante che non riesco ancora a crederci. Chiedo a nonna di poter usare il cellulare per chiamare la mamma e dirglielo. Però, quando la voce di mamma tocca le mie orecchie e sento la curiosità elettrica di mia nonna agitarsi sopra la mia testa, in attesa che io mi sbrighi a dare la notizia, la mia euforia viene meno.
C'è qualcosa che non va. Qualcosa che non quadra. Io voglio dirlo alla mamma, ma le mie guance diventano tutte rosse e calde. Sento una sensazione spiacevole pizzicarmi la nuca, gli occhi e la gola. Non mi è estranea, l'ho già provata prima, quando le maestre mi rimproverano per qualcosa davanti a tutti o gli zii chiedono che io reciti la poesia di Natale davanti a tutti subito dopo aver mangiato gli struffoli e prima di scartare i regali. Imbarazzo. Vergogna. Che strano, non mi ero mai imbarazzata per qualcosa che riguardasse il mio corpo. Mai. E poi, perché nonna continua a darmi dei colpetti di gomito, esigendo che io dica quello che è successo? Che fastidio! E se non volessi dirlo? E se volessi che sia una cosa solo mia? Perché non può essere solo mia? Cos'è, se una cosa esce da te allora diventa di tutti?
Beh, comunque glielo dico, ovvio.
"Oggi ho ripassato le tabelline. Ho fatto un po' di matematica con nonna. Ah, e… e… emisonovenutelemiecose, ciao!"
"COSA?!"
È divertente, in fin dei conti. Sento mia madre inchiodare con la macchina — sta tornando a casa — e balbettare qualcosa, tutta agitata ed emozionata. Seguono un po' di coccole fatte a voce, parole di conforto, congratulazioni, domande e qualche lacrima. Mamma è buona, non vuole sottrarmi quel momento importante che, a voler ben vedere, appartiene solo a me. Ma certe cose deve dirmele, è così che funziona il mondo. Deve dirmi che sono diventata signorina. Deve dirmi che ora ogni mese sarà così. Deve dirmi che è tanto, tanto felice per me. Deve dirmi che sono entrata nel club delle ragazze grandi. Deve, e lo fa con dolcezza.
Ed è bello sentirsi così speciali, grazie a quelle parole. Ma l'imbarazzo non se ne va.
Quel pomeriggio non andiamo al mare. Nonno se ne sta nella hall, a leggere il giornale e chiacchierare. Nonna e io ce ne stiamo in piscina. O meglio, siamo sedute a un tavolino vicino alla piscina. Lei beve un caffè, io un succo alla mela. La pancia mi fa un po' male, ma non è per nulla insopportabile. Anzi, mi fa quasi piacere sentire un dolore nuovo: quei pizzicotti che arrivano dall'interno mi ricordano che tutto sta funzionando proprio come dovrebbe e mi incuriosisce scoprire tutte queste sensazioni che il mio corpo di signorina può provare.
"Martinina," fa mia nonna, "ora sei una donnina, lo sai, sì?"
"Certo!"
"Ora sei diversa. E stai attenta, perché anche gli uomini sanno che sei diversa."
"Eh?"
"Ora puoi avere figli. E gli uomini ti vedono."
Ma in che senso? La guardo aggrottando le sopracciglia, con i baffetti sporchi di succo. Lei si sporge per pulirmi con un tovagliolo e fa un gesto generico verso gli altri tavolini vicini al nostro.
"Mah, tipo quello, quello ti guarda."
Quello è un uomo, in effetti. Un signore che non ho la minima idea di quanti anni abbia, potrebbe averne trenta come anche sessanta, per me sono tutti uguali, con quei pantaloncini del costume sempre blu o grigi, i nasi un po' scottati e le gambe pelose. L'ho già visto prima, è un ospite dell'hotel e gli piace stare in piscina. Mi sta guardando, è vero. E non è la prima volta, ora che ci penso. Mi ha guardata anche ieri, e l'altroieri. Mi guarda quando aspetto che le crepes siano pronte a colazione. Mi guarda quando rido alle battute degli animatori la sera. Mi guarda quando gioco nell'acqua della piscina. Ma, ehi, che problema c'è? Anche io guardo le cose attorno a me.
Ma adesso è diverso. Mi guarda. E io lo guardo. Lo guardo e vedo il nemico. Vedo il pericolo. Ed è un nemico diverso da quelli che nascono durante i giochi di fantasia che faccio ancora con i miei amici al parco o nel cortile della scuola. Quelli sono finti, iniziano e finiscono quando voglio. Dietro di essi ci siamo solo noi, i bambini, e noi ci conosciamo, ci fidiamo della bontà dei nostri compagni. Io mi fido di loro. I "facciamo finta che" funzionano, in fondo, perché so che Matteo, Samira o Anna non vogliono farmi male per davvero. Farsi male non è divertente e mette nei guai. È un gioco, solo un gioco. Mi fido di te, tu ti fidi di me, e i nemici sono solo una maschera spaventosa da mettere e togliere tra mille risate.
Ma quello è un nemico diverso. È un nemico vero. Non finisce e non inizia. Non finge. Non gioca. Non ha maschere. È, semplicemente è, un pericolo. Lo sento.
È stato risvegliato dal mio sangue, come una bestia magica? L'ho creato io, quel pericolo, con la macchiolina rosa nel mio costume, o è sempre esistito? Se fossi ancora senza macchia e senza sangue, sarebbe diverso? Non lo so, io davvero non lo so.
"Non dare confidenza, sai, agli uomini che non conosci. Non puoi, ora."
"Ok."
Di nuovo, imbarazzo. Vergogna. Torno a dare attenzione al mio succo alla mela. Sento una gocciolina umida scivolare sull'assorbente. Più quel sangue esce, più ho la sensazione che un velo si stia alzando. Mi sembra di vedere le cose in modo diverso, un po' come quando mi diverto a mettere e togliere e mettere e togliere gli occhiali da sole leopardati di nonna: quelli hanno le lenti rosate e il mondo sembra fatto di zucchero filato e sciroppo quando li indosso. Poi quando li tolgo tutto torna normale, tendente al grigio. Ecco, è così: è come se avessi cambiato le lenti. Ora tutto sembra più vero, concreto, reale, presente. Io sono presente, lui è presente. Il mio corpo è reale, il suo sguardo è reale.
"Nonna, sai che non ho ricoperto la buca con la sabbia? L'abbiamo lasciata tutta aperta."
"Vabbè, Martinina, ci pensa William."
"Magari domani la trovo ancora lì, per giocare."
"Certo."
E spero davvero sia così. Spero che la buca sarà ancora lì. Così potrò accovacciarmi, come una creatura del mare, tipo una foca, o un granchio. Una primitiva. Oh mamma, quanto mi piacerebbe esserlo davvero. Un ammasso di cellule, ciccia, ossa e muscoli con nessun altro scopo se non quello di vivere. Sufficiente a me stessa
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CREATURA DI SABBIA – TAHAR BEN JELLOUN, in NonSoloProust
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"La cosa bellissima della creatività, mi disse un giorno la Stella Marina grattandosi le punte, è che tu puoi fare di ogni situazione della vita un paesaggio meraviglioso. E’ un po’ come l’amore incondizionato.
Per esempio mentre dichiari il tuo amore a chi non se ne importa niente, puoi usare l’immaginazione per edificare intorno a te un castello a cinque punte, un muro di protezione attraverso il quale proiettare amore senza soffrirne le conseguenze, perché chi ama regna nel suo universo e nessuno lo può spodestare. "
La guardavo rotearsi sulla sabbia, consapevole della sua forma, consistenza e stazza, mi fece invidia per un momento: una creatura cosi’ felice e forte da poter perdere perfino un braccio e ricrearlo con la sola intensità del suo volere. Lei vive sul fondo e non teme di cadere, non teme di essere toccata e non si formalizza sulla perfezione, quanto sulla pura resilienza.
Vedi io faccio cosi, io amo così tanto la mia forma, che anche se qualcuno cerca di mutilarla, io lo lascio fare e poi la ricreo, e non mi costa alcuna fatica.
"Ma perche’ ti fai questo, perche’ lasciare che qualcuno ti riduca a meno di ciò che sei per l’incapacità di apprezzare tutta la tua essenza? Voglio dire vale la pena di de-strutturarsi per qualcuno che non ti ricambia?"
Mi rispose mostrandomi la faccia, ridendo come una vecchia che era sopravvissuta alla guerra: "l’amore e’ esattamente questo, se non lo hai capito. E’ amarsi fino al punto di rinunciare alla propria forma, di cambiarsi dentro senza paura. L’abilità di amare sta nel fatto che ami così tanto te stesso che sei pronto a correre il rischio di perderti pur di permetterti di provare questo sentimento.
Hai capito adesso?"
"Vuoi dire che io, dopo tanto lavoro per costruire il mio castello, lo devo lasciar distruggere da qualcun altro? non è amore, è masochismo!"
"Povero bipede aggrappato al tuo corpo, l’amore prescinde ogni forma e concetto, non ha niente a che fare con realizzazione o possesso.
Se sei amore, se sai amare, non hai bisogno di altro, puoi anche disintegrarti per il puro impulso di farlo. Lasci te stesso spiccare un volo, giocare un azzardo, perchè ti ami come un figlio e ti lasci vivere sapendo che anche se non verrai ricambiato, l’amore stesso ti insegnerà a ritrovare te stesso. Un sacrificio d’amore e’ solo una conferma ti ami a tal punto che sei pronto a donarti, romperti o cambiare e ad amarti più di prima quando, dopo voli e cadute, ti dovrai ricostruire. "
Diedi un sorso di birra, forse anche due. Lo avevo sempre saputo, ma ne ero terrorizzato. Questa idea di farsi soggiogare da una forza incontenibile, di esserne in balia consapevolmente, non l’avevo mai vista in quest’ottica. Non avevo mai immaginato che potessi essere io stesso l’amore, che potessi io stesso dissolvermi e ricrearmi senza temere, per permettere a me stesso il sacrosanto diritto concesso agli esseri viventi di amare, di visitare con fiducia e speranza, l’ultima oasi rimasta nel deserto della ragione.
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Talpa marsupiale estremamente rara che "naviga abilmente" tra le dune di sabbia avvistata nell'Australia occidentale Talpa Marsupiale Avvistata nel Deserto Australiano I ranger aborigeni hanno recentemente individuato una talpa marsupiale estremamente rara nelle dune di sabbia dell’Australia Occidentale. Si tratta di una creatura sfuggente, dalle dimensioni di un palmo di mano, con riccioli biondi lucidi. Specie Misteriosa del Deserto Le talpe marsupiali settentrionali, conosciute come Kakarratul, sono abitanti del Grande Deserto Sabbioso dell’entroterra australiano. La popolazione di queste creature è un vero enigma, data la loro eccezionale elusività. Caratteristiche e Abitudini Queste minuscole talpe sono rivestite di una pelliccia dorata e setosa e di solito trascorrono la maggior parte del tempo sottoterra, emergendo solo in
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𝐓𝐡𝐞 𝐑𝐞𝐜𝐤𝐨𝐧𝐢𝐧𝐠, 𝐚𝐭 𝐥𝐚𝐬𝐭.
𝑀𝑌 𝐻𝑂𝑃𝐸 𝐼𝑆 𝑂𝑁 𝐹𝐼𝑅𝐸, 𝑀𝑌 𝐷𝑅𝐸𝐴𝑀𝑆 𝐴𝑅𝐸 𝐹𝑂𝑅 𝑆𝐴𝐿𝐸 24th of May, 9.30 a.m. – Los Angeles. All’inizio non sai mai quale sia il giusto compenso per le proprie azioni. Si sceglie di andare sempre avanti perché è la cosa più giusta da fare. O almeno così dicono. Non avrebbe mai compreso quale fosse la soglia fra una scelta giusta ed una sbagliata, in che misura avrebbe potuto decretare una cosa del genere? Sbagliato? Cosa è sbagliato? Si sarebbe potuto risolvere tutto con un semplice proiettile sparato di netto fra gli occhi ma in quanti avrebbero considerato le sue azioni giuste? Nessuno, forse. Aveva ricevuto una chiamata improvvisa da Los Angeles mentre calpestava la sabbia finissima delle spiagge bianche delle Maldive. Sapeva esattamente per quale motivo fosse richiesta la sua presenza al dipartimento di polizia e non aveva potuto fare a meno di pensarci da quando aveva fatto ritorno alla città degli angeli. Era perfettamente consapevole del fatto che avendo riferito al suo diavolo custode quel singolo nome che era riuscita ad ottenere, avrebbe agito immediatamente. In effetti avrebbe dovuto pensarci prima. La consapevolezza di entrare in quell’edificio sapendo che attraversato il corridoio avrebbe visto in faccia volti sconosciuti ma che ancora marchiavano i suoi sonni con incubi le dava una mezza scossa. Come se improvvisamente il suo corpo si muovesse per la quantità d’adrenalina in corpo. Fu come se non fosse passato un solo giorno. Non appena li vide in fila la sua mente ritornò di colpo a quella notte; li ricordava tutti, uno per uno, prima che succedesse il tutto. Li aveva visti in occasioni differenti quella sera e non aveva idea di cosa avessero in mente. Non c’era un solo volto privo di abrasioni o graffi. Era certa che anche quella non fosse opera del fato. Si limitò a seguire gli ordini per deporre le informazioni ma il suo corpo le stava suggerendo soltanto di scappare da quel luogo il prima possibile. Troppe armi. Troppi modi per dar vita ai suoi sogni.
𝐼'𝑀 𝑇𝑅𝑌𝐼𝑁𝐺 𝑇𝑂 𝑅𝐸𝐴𝐶𝐻 𝐻𝐸𝑅 𝐼 𝐹𝐸𝐸𝐿 𝑇𝐻𝐴𝑇 𝑆𝐻𝐸 𝑌𝐸𝐴𝑅𝑁𝑆 24th of May, 6.15 p.m. – Los Angeles. In qualche modo era riuscita a sopravvivere a quell’incontro. Nessuno sapeva niente, gli unici ad esserne a conoscenza erano lei stessa e l’artefice. E non aveva neppure idea di cosa dover dire al riguardo. Aveva come quel ferro in gola che le diceva che era giusto che fosse finita in quel modo. Eppure, ancora non era soddisfatta. Non sentiva di poter tirare sospiri di sollievo, sentiva come un blocco pesante sul petto che le impediva di respirare. Glielo dicevano sempre. Concentrati sui respiri. Contali uno per uno e lascia che tutto il malessere fluisca via ad ogni respiro emesso. 1… 2… 3… 4… Per quanto contava quella sensazione non spariva, la gola stretta in una morsa. Boccheggiando contro sé stessa e quella sua parte sadica che godeva nel vederla ridursi in quel modo. Lo sapeva. Lo sapeva che era tutto un gioco mentale e che avrebbe potuto interrompere in qualsiasi momento quella sensazione. Ma la sua indole troppo debole e la sua rabbia troppo forte. Lo vedeva, quel suo doppio. Una perfetta copia di sé con l’espressione furiosa che la teneva in alto e per il collo. “ Insulsa – immonda creatura. Non meriti l’aria che respiri. ” 𝑆𝐻𝐸’𝑆 𝐿𝑂𝑆𝑇 𝐼𝑁 𝑇𝐻𝐸 𝐷𝐴𝑅𝐾𝑁𝐸𝑆𝑆 𝐹𝐴𝐷𝐼𝑁𝐺 𝐴𝑊𝐴𝑌 27th of May, 6 a.m. – Los Angeles. Non aveva idea di come fosse sopravvissuta all’intensità di quei giorni, prima il riconoscimento, successivamente l’incontro con la psicologa tanto suggerita. Doveva ammettere che era stata di una bravura ineccepibile, ma a quale prezzo. Le rivelazioni alla quale era giunta l’avevano fatta crollare in un limbo senza fine. Davvero sentiva quel rimorso schiacciante poiché sapeva che poteva evitare il tutto? Ma significava privarsi di godere una bella serata di divertimenti...perché avrebbe dovuto farlo? Aveva le forme di una fanciulla nel fiore dei suoi anni, tuttavia, l'intelletto di chi la vita l'aveva rosicata fino all'osso. La sua curiosità genuina l'aveva portata a porsi domande fin da subito. E ne aveva di domande. "Perché io?" "Perché a me?" "Perché questo dolore?" "Perché lo devo sentire?"
Dolore. Ah. Il dolore era diventato normale sentirlo. Quel dolore che nessuno si prendeva in carico di ascoltare perché troppo impegnati a non accorgersene. Eventualmente era diventato normale cacciarlo via affondando nell'abisso, allontanando qualsiasi ragionamento lucido.
Aveva sentito chiaramente quella risata profonda, eppure non c'era nessuno in quella stanza spoglia. Erano solo lei apparentemente inerme, distesa in un letto mentre la sua mente vagava riproponendo il susseguirsi di quelle immagini accompagnate dalle sensazioni più orribili: mani che si trascinavano lungo il suo corpo, fra i capelli. Dita invisibili che si insinuavano dentro ogni parte del suo corpo. Gli occhi spalancati, consapevole di essere sveglia ma intrappolata.
Erano anni che non attraversava più quelle notti, era riuscita a diminuire la frequenza delle nottate trascorse in quella maniera e a quel punto si era lasciata convincere di provare a vivere una normalità che però non avrebbe mai fatto parte della sua vita. Le era bastato interrompere la sua solita routine che il suo cervello automaticamente aveva ripreso la sua via per la follia. Avere la consapevolezza di stare attraversando un incubo e non avere la possibilità di lasciarlo, sentendosi ingabbiata all'interno di esso. Percependo secondo per secondo la sua lucidità andare ad infrangersi contro la completa perdita del senno. Sovrastata dall’orribile sensazione di un’immensa distesa d'acqua che non le permetteva di respirare, inchiodata in quell'istante di odio che fa rivoltare lo stomaco e venir voglia che tutto finisca, consapevole di stare rivivendo avvenimenti passati ma sentendoli ancora sulla pelle.
Soltanto quando comprese di poter appigliarsi a quel filo invisibile della sua ragione alla fine riuscì a vedere finalmente ciò che circondava realmente quel corpo, le parve di cadere di piombo nel suo letto, come se stesse cadendo dall'alto di un grattacielo. Eppure, non si era mossa di un millimetro. Era solo la sua mente ad aver viaggiato proiettandosi in un limbo senza fine. Non sentiva più i sussurri o le mani che le toccavano i capelli, che sfioravano la pelle del suo corpo. Non sentiva quel peso che la schiacciava contro il letto costringendola a sentire ogni singola sensazione. Costringendola a ricordare il suo dolore.
𝐼’𝑀 𝑆𝑇𝐼𝐿𝐿 𝐴𝑅𝑂𝑈𝑁𝐷 𝐻𝐸𝑅𝐸 𝑆𝐶𝑅𝐸𝐴𝑀𝐼𝑁𝐺 𝐻𝐸𝑅 𝑁𝐴𝑀𝐸 4th of June, 7 p.m. – Los Angeles. Erano stati giorni senza pausa. Per sua fortuna il lavoro l’aveva rapita e l’unica cosa che le interessava era riuscire ad impegnare la mente giorno dopo giorno. C’era pure riuscita fino a quando non ricevette una chiamata. Non si preoccupò troppo di leggere l’assenza di identità, perfino a lavoro spesso utilizzavano identità nascoste per rintracciarla. Di conseguenza non perse troppo tempo nel rispondere presentandosi con il suo nome in codice. Goldie. Ah, più ci pensava più le veniva l’orticaria. L’unica cosa positiva che aveva quel nome era la sua presenza anche nel film Sin City. Inizialmente sentì solo silenzio, ma anche lì non si preoccupò troppo, nuovamente parlò al telefono con tono spedito, anche se vagamente distratto per via del suo intento nel cucinare la cena. Stava giusto trascinando il piatto con l’insalata sul tavolo quando finalmente sentì la voce dall’altro capo del telefono, non era certo il suo lavoro e non avrebbe mai capito con chi aveva a che fare. Al suo orecchio arrivò semplicemente il suono distorto che la informava semplicemente di stare attenta, che il nome mancante era giunto nella città. Inizialmente si limitò ad aggrottare la fronte senza capire neppure cosa stesse dicendo, convincendosi avessero sbagliato numero. Più volte si chiese a cosa potesse riferirsi. Insisté nel chiedere informazioni, pregando che chiunque vi fosse dall’altra parte non riattaccasse immediatamente. Chiese più volte che cosa volesse dire alla voce misteriosa fino a quando improvvisamente rispose unicamente con un solo nome. Una persona normale sarebbe andata immediatamente a denunciare l’accaduto, ma da quando lei era una persona normale? Non poté fare a meno di rimuginare su quel nome. Non aveva idea di chi potesse essere non le suonava neppure familiare. Ma soprattutto perché qualcuno le aveva dato quell’informazione?
𝑀𝑌 𝐻𝐸𝐴𝑅𝑇 𝐼𝑆 𝐹𝑅𝑂𝑍𝐸𝑁 𝐼’𝑀 𝐿𝑂𝑆𝐼𝑁𝐺 𝑀𝑌 𝑀𝐼𝑁𝐷 11th of June, 8.40 a.m. – Los Angeles. Avrebbe perso il lume della ragione a forza di scervellarsi per quel nome, aveva fatto tante di quelle ricerche per giorni di fila che oramai la sua cronologia aveva soltanto quel nome che figurava. Oramai aveva acquisito qualsiasi nozione che riguardasse quella persona misteriosa ma non v’era nulla che potesse collegarlo alla sua persona. Ovviamente non si sarebbe mai data per vinta; aveva spulciato ogni informazione riguardo quella persona e cosa assai strana ad un certo punto le informazioni sembravano non andare più indietro negli anni e nessuno sembrava aver mai pubblicato foto con questa entità, né un profilo social accessibile. Naturalmente, contemporaneamente si era comportata anche in maniera del tutto disinvolta agli occhi degli altri per la celebrazione della festa di compleanno. Nessuno si sarebbe accorto di nulla, perché come sempre avrebbe tenuto tutto sigillato nella sua mente, come ogni pensiero sulla sua esistenza. E oltretutto, non era ancora pronta a rinunciare a forse l’unico attimo di normalità in mezzo a quel caos. Era sul punto di rinunciare qualsiasi ricerca in merito a quel nome fino a quando non comprese di avere a che fare con una vera e propria intuizione mentre si dilettava con uno stupido gioco di parole. Quel nome. Il nome che aveva ricercato con smania non era altro che un anagramma. Probabilmente utilizzato per rifarsi una nuova vita. Improvvisamente parve sbloccarsi un mondo di fronte ai suoi occhi. Quel volto. Quel volto che per anni aveva visto come punto fermo. Sentì ribollire il sangue nelle sue vene, una rabbia profonda ed un odio mai provato attanagliarle le viscere. Oh, ricordava quel professore. Le aveva fatto tante di quelle ripetizioni quando al liceo il suo unico interesse era quello di scoprire la verità dietro le cose e non le storielle sui libri. La conosceva. Sapeva che sarebbe andata a quella festa e probabilmente aveva architettato il tutto consapevole della ragazzina che era. 𝐻𝐸𝐿𝑃 𝑀𝐸, 𝐼’𝑀 𝐵𝑈𝑅𝐼𝐸𝐷 𝐴𝐿𝐼𝑉𝐸! 15th of June; 3.30 a.m. – Los Angeles. Per giorni non riuscì a chiudere correttamente gli occhi e godere di sonni ristoratori. Nonostante avesse trascorso del tempo piacevole nel corso delle sue giornate quel pensiero la tormentava, la svegliava nel cuore della notte e ancor di più le portava un odio tale da farle percepire qualsiasi cosa in maniera distorta. Si era concentrata sul lavoro, infilandosi principalmente dentro il suo ufficio. Non tollerava provare quelle emozioni a causa di terzi, non le concepiva e ancor di più le trovava sbagliate. Chi era quell’essere per farla stare in quel modo? Come osava influire così tanto nella sua vita. Era ovvio che lo facesse da quel dannato giorno, ma la mancata conoscenza era riuscita a non destarle troppi problemi. La scoperta di quel dettaglio invece era stata la chiave per risvegliarle dentro quella parta assopita. Quella parte che con fatica era riuscita a incatenare dentro sé. Svegliatasi nel cuore della notte in preda all’ennesimo incubo, si limitò a proseguire le sue ricerche pur di impegnare il tempo rimasto prima di dare il via alla nuova giornata. Stava scorrendo l’ennesimo articolo, il nome oramai limpido nella sua mente; il volto indimenticabile sebbene fosse meno maturo all’epoca. Le venne in mente l’incontro recente avvenuto con la psicologa. Le rivelazioni sui suoi sogni, la capacità di descriverli così perfettamente senza provare pena alcuna ed improvvisamente perse il totale controllo della ragione. Impulsi ben più carnali si fecero largo nella sua mente, guidandola nella scelta più avventata che potesse prendere. Senza comprendere cosa stesse facendo lasciò la sua abitazione e salendo sulla sua monovolume si avviò in direzione della dimora dell’uomo. Non le importava se avesse avuto figli, moglie, relazioni, famiglia che avrebbe pianto, il suo obbiettivo era uno ed uno soltanto: vendetta. Giusta o sbagliata che fosse. Non ebbe alcuna difficoltà a trovare il posto designato. Per una giornata intera aveva studiato quei tragitti, qualsiasi strada da poter intraprendere e a quell’ora della notte le strade erano deserte. Nessuno l’avrebbe fermata. Neppure le volanti minacciose che probabilmente pattugliavano i soliti locali in cerca di ubriachi per strada. Non seppe se in un certo senso il fato era con lei, ma senza neanche volerlo il suo obbiettivo era seduto in una delle panchine esterne. Teneva un bicchiere in mano e nell’altra una sigaretta ridotta al filtro. Per quanto l’adrenalina la spingesse a muoversi con passi sempre più veloci, l’istinto le disse di proseguire quella marcia con passi lenti, quasi come se stesse annunciando l’arrivo alla sua preda. Non dovette neppure arrivargli alle spalle. Anzi, voleva che la guardasse dritta negli occhi. Che vedesse bene in faccia il volto di chi avrebbe spento la sua inutile vita. Regnava un’insolita quiete, accompagnata solo dai blandi rumori della notte. Notando l’ombra l’uomo alzò lentamente il viso, portandolo ad un’inclinazione tale da potergli permettere di vedere chi avesse di fronte. Inizialmente parve fremere alla vista di quella canna puntata dritta contro la sua fronte. Ma successivamente parve quasi rassegnato alla sua sorte. « Me lo dicevo. Sembra un film. Troppo artistico per sembrare vero, ma nonostante i miei sforzi per sparire dalla circolazione, alla fine sei arrivata. L’ho sempre sostenuto tu fossi una persona troppo intellige…» « Taci. Risparmia il fiato. Dove andrai ti servirà. Che tu sia dannato per l’eternità. Non hai alcuna ragione per vivere la vita che vivi. Non meriti di vivere. » « ...in un certo senso, Erianthe, ho temuto l’arrivo di questo giorno, ogni giorno per sette anni. Sapevo saresti tornata da me come l’angelo della morte. » « Oh, non ci saranno angeli per te. » « Non sei qui per ricevere delle scuse…fa ciò che devi. » Non seppe bene cosa mosse la giovane donna, avrebbe potuto essere lo sguardo di sfida dell’uomo che pacatamente finiva il suo scotch nel bicchiere. Oppure la calma con la quale aveva pronunciato quelle parole. Forse si aspettava un passo falso, forse pensava di avere di fronte la ragazzina che avrebbe ceduto di fronte alla sua rassegnazione. Rimase per diversi istanti ad osservare quel volto, il mezzo sorriso vittorioso per l’attesa della donna senza pensare che in realtà quello sarebbe stato il suo ultimo respiro. Accadde in una manciata di istanti come se non provasse alcun timore per la pistola puntata contro la sua testa l’uomo decise di fare un passo avanti. Le parve di vivere quella scena come fosse una spettatrice, seguirono solo tre colpi secchi silenziati e due secondi dopo si ritrovò il corpo esanime addosso quasi come se volesse aggrapparsi alla donna. Lo sguardo vitreo ed impassibile mentre il rosso cremisi si disperdeva nel pavimento, lasciandola infine a reggere una pistola che ancora fumava nella mano e nell’assoluto visibilio parve ridere di sollievo. 𝐼 𝐶𝐴𝑁𝑁𝑂𝑇 𝑅𝐸𝑉𝐼𝑉𝐸 𝑊𝐻𝐴𝑇’𝑆 𝐴𝐿𝑅𝐸𝐴𝐷𝑌 𝐷𝑅𝑂𝑊𝑁𝐸𝐷 𝑆𝐻𝐸 𝑊𝑂𝑁’𝑇 𝐶𝑂𝑀𝐸 𝐴𝑅𝑂𝑈𝑁𝐷 15th of June; 6.30 a.m. – Los Angeles.
La realizzazione delle sue azioni non avvenne mai in tempo. Si ritrovò con le mani tremanti, la pistola caduta ai suoi piedi e la pozza di sangue in aumento. Non credeva di poter avere quella forza. Eppure, si era macchiata anche di quel crimine. Rimase per diversi istanti immobile, osservando con estremo sdegno il volto dell’uomo che anni prima aveva orchestrato il tutto. Quell’uomo che l’aveva sempre aiutata. Sentì il forte impulso di dover rimettere ogni singolo fluido rimastole in corpo. Cosa fare a quel punto? Non aveva idea di cosa dovesse fare. Tornare a casa in quelle condizioni sapeva bene di non poterlo fare; raggiungere la sua famiglia sarebbe stato fuori discussione. Li avrebbe macchiati dello stesso identico crimine. Si accorse di correre a predi fiato senza neppure comprendere cosa stesse facendo il suo corpo. Stava solo correndo verso quella direzione che il corpo le indicava, senza mai fermarsi o voltarsi. Le strade cominciavano a divenire sempre più chiare per via del sorgere del sole e non appena i suoi piedi si fermarono per farle riprendere fiato, comprese che il suo subconscio aveva agito ancor prima che potesse farlo lei stessa. La gente brulicava fuori dal locale dopo una notte di alcol e danze sfrenate. Ma era corretto invischiarlo in quella situazione? Che altro avrebbe potuto fare? Consegnarsi? Raggiunse l’entrata del night club ormai familiare, non si preoccupò neppure di frenarsi di fronte agli sguardi sconcertati della gente, percorse d’un fiato la strada in direzione dell’ascensore che avrebbe portato all’attico. Non aveva idea di cosa avrebbe trovato lì dentro. Probabilmente qualcuno dormiente, o forse già pronto per affrontare la giornata. L’unica cosa che sapeva era che in quel momento desiderava unicamente crollare. Sentì il campanello che annunciava l’arrivo nell’attico e fra tutti gli scenari quello era l’unico che non si aspettava. Forse avrebbe dovuto però. Aveva mosso solo pochi passi raggelandosi non appena sia il proprietario dell’attico, sia l’ospite dalla chioma bionda si voltarono di scatto puntando i loro sguardi sulla sua figura.
« Io..è stato tutto…troppo…tutto veloce..io..l’ho ucciso. »
Esalò solo quelle ultime parole prima di crollare sulle ginocchia, esausta, madida di sudore e ricoperta di sangue.
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“ Lo so, in questo paese una donna sola è destinata ad essere sempre socialmente rifiutata. In una società morale, ben strutturata, non soltanto ciascuno sta al suo posto, ma non c'è assolutamente posto per colui o colei, soprattutto colei, che, volontariamente o per errore, per spirito ribelle o per incoscienza, trasgredisce l'ordine. Una donna sola, nubile o divorziata, una ragazza-madre, è un essere esposto a ogni rifiuto. Un bambino illegittimo, nato da un'unione non riconosciuta, è destinato, nel migliore dei casi, a finire in un orfanotrofio, là dove sono allevati i cattivi germogli: germogli del piacere, insomma dell'adulterio e della vergogna. Una preghiera segreta sarà detta perché quel bambino faccia parte del lotto dei centomila bebé che muoiono ogni anno per mancanza di cure, per carenze alimentari o per la maledizione di Dio. Quel bambino non avrà nome. Sarà figlio della strada e del peccato e dovrà subire tutte le tappe di una sorte infelice. Bisognerebbe predisporre all'uscita di ogni città uno stagno abbastanza profondo da poter accogliere i corpi di questi figli dell'errore. Si chiamerebbe lo stagno della liberazione. Le madri ci verrebbero preferibilmente di notte, legherebbero saldamente la loro prole ad una pietra che una mano benefattrice offrirebbe loro e, con un ultimo singhiozzo, lascerebbero andar giú il bambino che delle mani nascoste, magari sott'acqua, tirerebbero verso il fondo fino all'annegamento. Tutto questo verrebbe fatto alla luce del sole, ma sarebbe indecente, sarebbe vietato parlarne, persino evocare l'argomento, neppure per allusioni. La violenza del mio paese è anche in questi occhi chiusi, in questi sguardi distolti, in questi silenzi fatti piú di rassegnazione che di indifferenza. Oggi io sono una donna sola. Una donna sola e già anziana. Con i miei venticinque anni compiuti, considero che la mia età sia di almeno mezzo secolo. Due vite con due modi di sentire e due volti, ma gli stessi sogni, la stessa profonda solitudine. Non penso di essere innocente. Credo persino di essere diventata pericolosa. Non ho piú niente da perdere e ho talmente tanti danni da riparare... Ho il sospetto di essere capace di rabbia, di collera, ed anche di odio distruttore. Non c'è piú nulla che mi trattiene, ho soltanto un po' paura di quello che sto per intraprendere; ho paura perché non so esattamente cosa farò, ma sono decisa a farlo. “
Tahar Ben Jelloun, Creatura di sabbia, traduzione di Egi Volterrani con una nota di Sergio Zoppi, Einaudi (collana ET Scrittori, n° 107), 2006¹⁴; pp. 115-16.
[Ed.ne or.le: L'Enfant de sable, Éditions du Seuil, 1985]
#Tahar Ben Jelloun#Creatura di sabbia#Egi Volterrani#leggere#citazioni letterarie#letture#libri#letteratura del '900#XX secolo#letteratura marocchina#narrativa del '900#Maghreb#Marocco#letteratura Maghrebina in lingua francese#Sergio Zoppi#nordafrica#letteratura del maghreb#letteratura maghrebina#femminismo#letteratura del nordafrica#letteratura franco-marocchina#donne#rassegnazione#indifferenza
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Le gelide acque dello stretto e la birra Messina. Cosa ho inventato questa volta?
Si avvicinò al bagnasciuga e quando l’onda toccò i suoi piedi sentì che era gelata. “bellissimo” Si disse soddisfatto. Guardò la spiaggia. Il caldo faceva ondeggiare l’aria che toccando la sabbia infuocata, risaliva verso il cielo azzurro danzando sinuosa come un’odalisca. Il cielo era di un azzurro purissimo e le poche nuvole che si formavano scomparivano immediatamente lasciando la sensazione che il sole regnava sulle montagne, le case e la spiaggia grigia e dominava ogni creatura che avesse l’ardire di abbandonare la salvifica ombra. Lui era con l’acqua fino alle ginocchia e sentiva le fredde onde che gli lambivano le gambe quasi a sfidarlo. U Prufissuri, un suo amico molto istruito che per l’ottava volta era al secondo anno di università, gli aveva spiegato che tra Messina e Villa, correva sotto il mare una catena montuosa che arrivava quasi alla superfice. Per questo motivo le correnti fredde del Tirreno, dovevano risalire dagli abissi oscuri in cui scorrevano ed arrivare fino alla superfice per poi disperdersi nel mare Ionio. Nel fare questo, portavano dal profondo mare, i pesci abissali come le Spatole, o il pescespada e andavano poi a sbattere sulla costa ionica di Messina gelando i bagnanti con le loro freddissime acque. A lui piaceva l’idea che si potesse tuffare nelle acque che erano state il cuore segreto del Mediterraneo, quello mai visto dal sole o sporcato dall’uomo. Ma le acque erano freddissime, allora si era immaginato che quelle acque fossero un immenso bicchiere di birra, di quella freddissima, che quando c’era il caldo afoso che non faceva respirare, andava giù per la gola arsa dando un piacere immenso. Un infinito bicchiere di birra gelata che andava da Alì fino a Porto Melito, dall’uno all’altro lato dello stretto, con la schiuma densa e purissima che aveva la birra e dove le correnti fredde erano le bollicine che dal profondo risalivano a diventare schiuma e sorridere al sole. L’idea di un enorme bicchiere di birra con due dita di schiuma ed il vetro appannato gli si materializzo davanti e vedendoselo di fronte, invitante e seducente, si tuffò. Appena entrato in acqua il freddo gli fece fermare quasi il cuore e i polmoni smisero di dilatarsi. I muscoli si irrigidirono e per un istante gli sembrò quasi di morire. Diede un colpo di reni e scese in profondità, dove l’acqua era più scura ed il sole non riusciva ad arrivare. Immaginò di navigare in un mare di birra e per un momento gli sembrò di sentirne il gusto amaro ma dissetante, le bollicine lungo il corpo e fu tentato di aprire la bocca per berne il più possibile. Scendeva lentamente, minimizzando ogni sforzo, mentre sentiva i nervi gelarsi e mandare segnali preoccupati al cervello. Sfiorò il fondale, intravedendo la sua ombra scivolare sulle alghe marroni che lo coprivano. Diede un colpo di reni ed incominciò a risalire lentamente immaginandosi di essere sul fondo di un altissimo bicchiere di birra e di avvicinarsi piano piano alla spessa e densa schiuma che lo copriva. Vide in alto la superfice del mare e la luce del sole illuminare quel cielo liquido. A pochi metri dalla superfice incominciò a svuotare i polmoni, così che una volta raggiuntala inspirò l’aria calda che inondò i polmoni riempiendoli di vita e di fuoco. Lentamente nuotò verso la riva ed una volta uscito dall’acqua si sdraiò sulla sabbia rovente, raccogliendola sotto di se con le braccia per sentirne il calore. Restò così, con la sabbia che scaldava il corpo e pensò che una volta asciugato sarebbe andato al bar e avrebbe chiesto una birra in un grande bicchiere e dopo aver osservato il vetro appannarsi e le grosse gocce di acqua condensata dalla fredda superfice, scivolare lungo il vetro, avrebbe bevuto lentamente la birra, sorso dopo sorso, fino a che la calura della sabbia sarebbe scomparsa e lui si sarebbe sentito nuovamente, nelle braccia delle oscure correnti del mare, quelle che non vedono mai il sole e sono abitate da pesci strani e misteriosi.
The icy waters of the strait and Messina beer. What did I invent this time?
He approached the shore and when the wave touched his feet he felt that it was frozen. "very beautiful" He said, he was satisfied. He looked at the beach. The heat swayed the air which, touching the fiery sand, rose towards the blue sky, dancing sinuously like an odalisque. The sky was a very pure blue and the few clouds that formed disappeared immediately, leaving the feeling that the sun reigned over the mountains, the houses and the gray beach and dominated any creature that dared to abandon the saving shade. He was with the water up to his knees and felt the cold waves that lapped his legs as if to challenge him. U Prufissuri, a very educated friend of his who for the eighth time was in his second year of university, had explained to him that between Messina and Villa, a mountain range ran under the sea that almost reached the surface. For this reason the cold currents of the Tyrrhenian had to rise from the dark abysses in which they flowed and reach the surface and then disperse into the Ionian sea. In doing this, they brought abyssal fish such as Spatulas or swordfish from the deep sea and then hit the Ionian coast of Messina freezing the swimmers with their very cold waters. He liked the idea that you could dive into the waters that had been the secret heart of the Mediterranean, the one never seen by the sun or soiled by man. But the waters were very cold, then he had imagined that those waters were an immense glass of beer, the very cold one,. A beer that when there was the sultry heat that did not make you breathe, went down the parched throat giving immense pleasure. An infinite glass of frozen beer that went from the town Ali to to the harbor of Porto Melito, from one to the other side of the strait, with the dense and pure foam that beer had. He thinked cold currents in the sea as bubbles that rose from the depths to become foam and smile in the sun. The idea of a huge glass of beer with two fingers of foam and the misted glass materializes in front of him and seeing it in front of him, inviting and seductive, he dived. As soon as he entered the water the cold made his heart almost stop and his lungs stopped expanding. His muscles tightened and for an instant he felt like he was almost dying. He gave a kick of the kidneys and went down deep, where the water was darker and the sun could not reach. He imagined he was sailing in a sea of beer and for a moment he thought he could feel the bitter but thirst-quenching taste of it, the bubbles along his body and he was tempted to open his mouth to drink as much of it as possible. He slowly descended, minimizing any effort, while he felt his nerves freeze and send worried signals to his brain. He skimmed the bottom, catching a glimpse of his shadow slipping over the brown algae that covered the bottom of the sea. He gave a kick of the kidneys and began to rise slowly imagining himself to be at the bottom of a very high glass of beer and slowly approaching the thick and dense foam that covered it. He saw the surface of the sea above and the sunlight illuminating that liquid sky. A few meters from the surface he began to empty his lungs, so that once he reached it he inhaled the hot air that flooded his lungs, filling them with life and fire. He slowly swam towards the shore and once he got out of the water he lay down on the hot sand, gathering it under him with his arms to feel the heat. He stayed like that, with the sand warming his body and he thought that once it dried he would go to the bar and ask for a beer in a large glass and after observing the glass mist and the large drops of condensed water from the cold surface, slide along the glass, he would drink the beer slowly, sip by sip, until the heat of the sand would disappear and he would feel again, in the arms of the dark currents of the sea, those who never see the sun and are inhabited by strange and mysterious fishes.
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Trigun Stampede presenta la 12ª concept art di Kouji Tajima L'immagine è così descritta: "La creatura gigante 'Worms' salta fuori dal mare di sabbia". Info:--> https://www.gonagaiworld.com/trigun-stampede-presenta-la-12a-concept-art-di-kouji-tajima/?feed_id=311813&_unique_id=63591adcab4ef #KoujiTajima #StudioOrange #Trigun #TrigunStampede #YasuhiroNightow #トライガン
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alcune sere mi passa per la testa la stessa follia, e mi sembra che l’unico sollievo a cui posso giungere sia svuotarmi da dentro e togliere tutti i residui che giacciono nell’abisso. lasciar fuori dalla stanza l’idea malata che ogni essere umano al di là di quella porta sia bellissimo, senz’altro più bello di me, speciale, almeno un pizzico in più di quanto potrei esserlo mai, intelligente, con cervelli grandi e aggomitolati, senza alcun dubbio, con più idee geniali di quelle che ho mai avuto. la rincorsa estenuante verso la perfezione mi ha deteriorata, e mi pugnala ogni giorno, mi tortura dalla mattina quando apro gli occhi fino all’imbrunire quando mi lascio avvolgere dal buio della stanza. il mio stomaco si contorce ma in questi giorni delle volte ha anche danzato leggero, dimenticandosi per un istante di stare al mondo. sentire la mia risata che rimbomba nella stanza è una stranezza, rimango incredula dentro di me quando mi ripeto in testa quel suono. ti ringrazio per essere riuscito ad avermelo strappato di bocca, un sorriso sciolto da ogni costrizione e finzione, slegato da ogni ridicola recita. da una parte mi fa sentire tremendamente ingombrante, ridere, che poi è per questo che ho smesso di farlo, per rimpicciolirmi finché nessuno potesse più vedermi. e vorrei ancora, molte volte, mettere la testa sotto la sabbia o nascondere la creatura ripugnante che penso di essere. ha ragione mamma quando dice che le persone insicure non attraggono belle cose, ma sono convinta tu sia una bella cosa, qualsiasi cosa questo possa significare. non so come hai fatto ma hai reso leggere giornate che sembravano macigni insormontabili. e hai inconsapevolmente asciugato il sangue che sgorgava in tutto il mio corpo. riesci in qualche modo a bloccare la mia perpetua emorragia. non so dire che tipo di sentimento sia questo, ma è un bene sconfinato. mi sento la me bambina, che rideva e diventava subito rossa, timida ma sempre impicciona, che faceva pensieri perversi e bizzarri, però rideva rideva rideva e oggi ha riso come allora, e ieri lo stesso. e se il suo destino è odiarsi, spero lo faccia mostrando forte i denti.
grazie, ancora
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Carmelo Bene
[…]
Carmelo Bene parla e gioca. Prima di calare una carta si concentra a lungo, le rughe gli si incidono sulla fronte per lo sforzo mentale che fa. Anche lo scopone, per lui, richiede un ossessivo ascolto interiore. E sono urla, pugni sul tavolo, se il compagno non risponde a tono. Decisamente, è un partner difficile, molto difficile.
[Riprende, cambiando argomento.]
Adesso il mio combattimento è con Alessandro Manzoni. Voglio fare l’Adelchi per le prossime celebrazioni manzoniane. Ma come aggredirlo? Come recuperare la Voce che lo ha ispirato? Manzoni mi intriga. Dice: la “provvida sventura.” E perché, per quale mistero, una sventura può essere “provvida”? C’è tutta la problematica cattolica dentro. Lo scandalo della croce. Cristo che si fa uccidere per salvare gli uomini e il Padre che lascia compiere il sacrificio. La questione cattolica, già. Io sono cattolico. Il mio teatro tende a diventare sempre di più un teatro religioso.
Religioso?
Sì, religioso in senso teologico. Non a caso, l’ho chiamato “Teatro dell’Assenza”. E chi è Dio se non l’Assenza assoluta, il punto vuoto in cui precipitiamo noi e le cose?
Così, sulla scena, tu cerchi di esprimere, di dare una voce a questo vuoto che è Dio?
Io non cerco di esprimere niente. Io sono la musica del Nulla. Non ho “messaggi” da offrire agli uomini. La mia voce è la voce del silenzio.
E cosa è il silenzio per te?
Un tempo musicale. E si intende che per me la musicalità è tutto. È la vita che si avvolge su se stessa, si sfalda, precipita nel Nulla. Da dove vengono le cose? Dove vanno? Ecco il problema. L’uomo, questa “creatura di un giorno” come diceva un antico poeta greco, è nient’altro che una “situazione”. Bisogna essere proprio degli incoscienti, o dei pazzi, o dei visigoti, per dire “io”. Noi siamo i cadaveri di noi stessi.
Come “cadavere”, riconosci che fai molto rumore….
Il mio è il “rumore” della vita che si fa Voce per dire il suo struggimento sulla scena dell’apparire. Se vuoi un’altra immagine di me, pensa alla mia persona come a una maschera del Nulla.
Che tipo di maschera?
Una maschera che risale all’alba del tempo. Io sono un uomo del sud, anzi del sud del sud. Vengo dalle rive di Omero, da quel mondo perduto che ha inventato la nostra vita. Sono un poeta che ha voltato le spalle all’evento e che scrive le sue storie sulla sabbia. Mio fratello è Eraclito, il filosofo che diceva che l’universo è un fanciullo che gioca. Il mio futuro è il mio passato. Il mio sigillo è l’inattualità.
Per questo il tuo linguaggio risulta spesso incomprensibile?
A chi? [Si ribella Carmelo Bene scagliando una carta azzardata che sconcerta i nostri avversari.] Ai gazzettieri? Ai visigoti che pretendono di alfabetizzare il linguaggio della poesia? Ma la mia voce non è fatta per loro. Per loro io semino al vento. Io non voglio, io non devo essere capito. La comprensione è dei cretini. La poesia bisogna intenderla con l’intelletto, non capirla con la grammatica. La grammatica recepisce solo il cadavere della poesia.
C’è chi ti accusa di usare le parole, a volte, solo per fare scandalo, per creare malintesi.
Ma questa accusa per me è un elogio. È il più bell’elogio che mi si possa fare. La parola è scandalo, perché in essa risuona la voce di Dio, il grande Assente del nostro tempo. E l’uomo che cos’è? Nient’altro che un “malinteso” sulla scena dell’esistere.
[…]
Dall’intervista “Io, la musica del nulla” di Giuseppe Grieco (“Spirali”, 1983) raccolta su Panta n. 30, 2012
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Volo di farfalla
Mi emozioni sempre, da ogni tua parola che dolce, spensierata a volte infuocata, esce dalle tue labbra... ricopri di pioggia d' emozioni il mio tempo e cammino su un tappeto allegro di foglie colorate che dipingono il mio sentiero di uomo innamorato. Porgimi la tua bocca, deliziosa, da baciare. Porgimi il tuo volto liscio e caldo da coccolare. Annegami dentro i tuoi occhi, placidi e profondi, stringimi con le tue mani morbide e respira e riposa nel mio amore. Appassionami accendendomi delle fiamme del tuo cuore d'estate. Amami con l'amore che hai, con l'amore che dai, con ciò che sei... splendida creatura. Danza amore… danza con me... quella melodia che odi nel sottofondo, nel riverbero delle giornate che passano lente, troppo lente… senza te. Danza appoggiata a me… alle onde dei miei sospiri e prendi il cielo con le mani, volando più in alto degli aquiloni. Sei la luce della luna che dolce mi rischiara... sei l'impetuoso vento che soffia su i miei capelli... sei la ninfea che pattina sulle sponde ghiacciate dei miei occhi, mentre sogno. Amo te… davvero… anche senza certezza... ti amo... mia commozione... mia tenerezza. Amo te… tramonto caldo d'autunno... Amo te... inebriante profumo d'amore... Amo te… spirito ribelle. Amo in te... la donna... amo in te la forza e la dolcezza... amo in te le tessere che fabbrichi per comporre il tuo mosaico di vetro e sabbia, di fiori e di acqua... di luce e colori... Amo te nella debolezza e nella sicurezza... di esistere... Amo in te… sopratutto... te. E piango e rido e sono finalmente felice, grazie amore mio. Questa lettera è per te, vorrei che fosse leggera come una nuvola. Vorrei che il mio amore sciogliesse la distanza e che la pioggia che cade addosso fosse l’acqua che spegne la mia sete di te. Con questa lettera vorrei donarti un pensiero, un sorriso, vorrei dirti grazie per tutto quello che hai fatto per me. A te che mi hai regalato un’emozione, cosi forte che ho avuto persino un po' paura ad aprire il mio cuore, eppure l'ho fatto, non ho esitato, forse perché ho capito che era bello lasciarsi cullare dalle tue dolci parole. Permettere che i miei sentimenti volassero liberi nell'aria per giungere fino a te. E cosi ho fatto, ho schiuso le mie ali di farfalla e mi sono posato su di te mio piccolo fiore. Da quel momento ho capito che quell'emozione non mi avrebbe più abbandonato. Mai più.
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CREATURA DI SABBIA – TAHAR BEN JELLOUN, in NonSoloProust
CREATURA DI SABBIA – TAHAR BEN JELLOUN
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Io non cerco di esprimere niente. Io sono la musica del Nulla. Non ho ‘messaggi’ da offrire agli uomini. La mia voce è la voce del silenzio. (...) per me la musicalità è tutto. È la vita che si avvolge su se stessa, si sfalda, precipita nel Nulla. Da dove vengono le cose? Dove vanno? Ecco il problema. L’uomo, questa ‘creatura di un giorno’ come diceva un antico poeta greco, è nient’altro che una ‘situazione’. Bisogna essere proprio degli incoscienti, o dei pazzi, o dei visigoti, per dire ‘io’.
Noi siamo i cadaveri di noi stessi.
Sono un poeta che ha voltato le spalle all’evento e che scrive le sue storie sulla sabbia. Mio fratello è Eraclito, il filosofo che diceva che l’universo è un fanciullo che gioca.
Il mio futuro è il mio passato.
Il mio sigillo è l’inattualità.
Carmelo Bene
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