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Provvedimento Viabile Temporaneo in Via Santa Maria di Castello ad Alessandria per Dehors di "Luxury wine & food enoteca" dal 28 Marzo al 30 Settembre 2025
Alessandria, 20 Marzo 2025 – L’Amministrazione Comunale di Alessandria ha emesso un provvedimento viabile temporaneo riguardante Via Santa Maria di Castello, nel tratto compreso tra Via Verona e Via dei Guasco. Tale misura, adottata per consentire l’allestimento di uno spazio di ristorazione esterna (dehors) a cura del pubblico esercizio “Luxury wine & food enoteca”, sarà in vigore nel periodo…
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Il prima e il dopo.
Ho scritto più volte di come e quanto la pandemia e il lutto mi abbiano cambiato e di come percepisca cambiati a loro volta moltissimi dei rapporti interpersonali (alcuni addirittura di lunga se non lunghissima data) che si erano sviluppati negli anni con svariate persone, fossero consanguinei o meno. Il contrasto nel confronto e nel ricordo di ciò che era e non è più si fa più netto e pesante con l'approssimarsi delle feste. Personalmente cresciuto e abituato da sempre a periodi con parenti e amici, sono dal 2020 portato a rifuggire le festività natalizie, combattuto tra desiderio di dare al futuro erede splendidi ricordi e aspettare che il periodo passi con meno memorie dolorose possibili. Parte dello scisma e della scrematura (o sarebbe il caso di dire frattura) sono avvenuti a causa di posizioni antiscientifiche - alcune sfociate nell'antivaccinismo plateale - di diversi individui. In altri casi ci hanno pensato le differenze tra l'essere divenuti genitori o meno a causa di tutte quelle cose che volenti o nolenti avere dei figli comporta: la responsabilità di gestire un bambino implica tutta una serie di scelte forzate (orari, modi, spazi, persone). In altri ancora si sono presentati problemi sotto forma di imprevisti più o meno gravi come malattie invalidanti o infortuni personali o di familiari stretti che rendono non consono l'organizzare un ritrovo "tanto per" o "facendo finta di". A tutto aggiungiamo per ultimo ma non per importanza la percepita diffidenza e chiusura (sia nostra che altrui post pandemia) verso la creazione di nuovi rapporti o legami con sconosciuti complice una stanchezza nel voler gettare le fondamenta per nuovi ponti con la paura di arrivare ad affrontare tematiche più importanti sulle quali dover scoprire magari in seguito orribili punti di vista (e non si possono costruire rapporti sinceri e profondi solo sulle conversazioni e chiacchiere leggere e di cortesia scambiate fuori da scuola aspettando che escano i bambini o sorseggiando tiepido spumante in bicchieri di plastica ad ogni compleanno di un compagno di classe del futuro erede). Viviamo una nostra piccola diaspora con le persone che vorremmo vicino ma che il caso o la vita ha messo (o tenuto) lontane mentre i mesi e gli anni passano aggiungendo magari ostacoli o privandoci di sorrisi e affetti all'improvviso.
Desidero dormire ma non ci riesco, vorrei serenità e quiete distanti da tutto "questo" che ci circonda sopratutto per le "feste", pace e lontananza dai falsi "buone feste" e "a te e famiglia".
I volti e le voci che incontro per strada sempre più tesi e nervosi anche a causa di una realtà comune che si presenta sempre più ingestibile per molti.
Mi domando quando arriverà il punto di rottura, mio, nostro, di chiunque.
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Bologna, agosto 1980
Le nostre vacanze di quell'estate 1980, in Austria, finirono troppo presto e per colpa mia.
Avevo parcheggiato il camper (in realtà, un vecchio furgone 238 Fiat riadattato dal propretario) in un silo piuttosto distante dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, mèta della nostra mattinata culturale. Il costo del parcheggio era diviso in fasce orarie e avevamo fatto i nostri conti sulla durata che avrebbe dovuto avere la visita per spendere il meno possibile. Il Museo risultò però incredibilmente interessante, Dürer, Bruegel, Bosch.... Il tempo passò troppo in fretta e quando ci accorgemmo di stare per entrare nell'orario in cui il balzello del parcheggio ci sarebbe costato un bel po' di scellini, uscimmo in fretta, più di corsa che a passo veloce; è vero che Orazio aveva inscenato una incredibile pantomima alla biglietteria del museo, mostrando il suo libretto universitario e cercando di far capire, un po' in inglese e un po' in pugliese, che, come studenti, dovevamo avere uno sconto, che poi ci fecero, ma avevamo veramente i soldi contati e il costo della vita in Austria era ben più alto che in Italia.
Arrivati appena in tempo al parcheggio, mi misi alla guida cercando di guadagnare l'uscita prima dello scadere dell'orario. Ahimè, così al coperto, e abituato a guidare una Mini, non avevo valutato l'altezza del furgone e, a una curva troppo stretta, feci impuntare il tettino in uno spigolo di cemento sporgente, producendo un gran di rumore e un notevole 'taglio' nella lamiera: accorsero subito un paio di sorveglianti per vedere che cosa fosse successo, passò una mezz'ora o più e ovviamente, all'uscita, fummo costretti a pagare per la salata fascia oraria in cui eravamo rientrati per quei minuti di ritardo.
La cosa più brutta era che il camper, Domenico, il terzo componente del gruppo, lo aveva avuto in prestito da suo cognato, con l'impegno di riportarlo a Firenze entro il 9 o 10 agosto, per consentire a lui e alla famigliola di andarsene in vacanza. Che cosa potevamo fare? Certo non raccontare l'accaduto, a rischio creare dei problemi familiari a Domenico; decidemmo allora, dopo una serie concitata di telefonate in Italia (non c'erano i cellulari!), di rientrare qualche giorno prima, per consentire a un mio amico carrozziere, che avevo rintracciato ancora nella sua officina, di porre rimedio al danno in maniera 'invisibile': avremmo usato i soldi risparmiati dall'accorciarsi della vacanza per pagare il lavoro.
Io fui immediatamente esonerato dalla guida in città ma poi mi alternai con Domenico durante il rientro; eravamo abbastanza abbattuti per l'incidente e per la brutta chiusura della vacanza, e decidemmo, per fare prima, di guidare anche di notte.
Orazio doveva andare a Pisa, con Domenico, per ripartire subito dopo verso la Puglia, dai suoi. Domenico doveva riportare il camper a Firenze, dopo aver accompagnato me nel mio paesello di mare e fatto aggiustare il danno alla carrozzeria del mio amico. Visto il rientro anticipato, Orazio decise di fermarsi qualche giorno da alcuni amici a Bologna, per poi andare da lì in Puglia; i bagagli li aveva con sé e non aveva motivo di ripassare da Pisa.
Il pomeriggio del primo di Agosto, arrivati a Bologna poco dopo le 16:30, parcheggiammo in prossimità della stazione per accompagnare Orazio a consultare gli orari dei treni e a fare la prenotazione e il biglietto per il suo rientro. La stazione, nonostante il periodo dell'anno, non era particolarmente affollata; girellammo un po' per il salone, mentre Orazio era in fila, poi lo accompagnammo col camper nella zona dove abitavano i suoi amici. Senza neppure scendere per salutare i suoi nuovi ospiti, riprendemmo la strada verso casa mia: volevamo arrivare dai miei sul fare della notte.
La cena, finalmente tra le mura familiari, fu veramente ristoratrice, così come gli abbondanti lavacri. La mattina dopo, sabato 2 agosto, Domenico ed io dormimmo fino a tardi; a tavola, all'ora di pranzo, saltata la prima colazione, eravamo famelici.
L'immancabile televisore rumoreggiava in sottofondo, ma non lo ascoltavamo, tutti presi a rispondere alle domande dei miei sulla nostra vacanza; a un certo momento però ci accorgemmo che alla TV parlavano di Bologna, della stazione e ci voltammo meccanicamente per vedere e sentire cosa dicevano. "Eravamo lì ieri pomeriggio...", feci alla mamma, con la bocca piena.
Il silenzio fu poi agghiacciante: capimmo cosa era successo. Un incidente? Un attentato? Decine di morti, centinaia di feriti... Muti, un raggrinzire della pelle... ci prese, stretti, quella commozione che ti fa luccicare gli occhi; e ci fu un pensiero non detto, negli sguardi tra me e Domenico: chissà, forse andando un po' più piano o non viaggiando di notte, saremmo potuti essere lì anche noi, a quell'ora.
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Il Mago
"Il Padre e la Madre: la fonte del Trauma si trasforma in Vita".
Perché è così importante lavorare sulla figure genitoriali?
Esse rappresentano il nostro primario approccio al mondo dell'Incarnazione, il nostro primo "osservatorio astronomico".
Dal padre e dalla madre, siano stati essi assenti o presenti nella nostra quotidianità, è dipeso l'assorbimento dei Simboli associativi legati alla "visione (o distorsione) della Realtà".
Per un lungo periodo abbiamo "visto" attraverso i loro occhi, attraverso la loro storia, attraverso il loro schema di sofferenza.
Ed è già nella pancia della madre che sono entrati in gioco i primi schemi di identificazione con la disfunzione ereditata.
Seppur possa risultare doloroso e scomodo "sollevare il tappeto dell'infanzia", quella polvere va ripulita. Non si vede, ma c'è.
Non si lavora sulle figure genitoriali per distribuire colpe o evocare miracoli di guarigione o di riconoscimento.
Il bambino che non è stato riconosciuto affettivamente nei suoi bisogni emozionali, non cambierà la sua posizione all'interno del nucleo guarendo se stesso.
Ma può spogliarsi dell'Illusione di essere stato amato, tanto cara a chi non accetta di arrendersi a questa faticosa verità.
Ed iniziare un nuovo viaggio, autonomo, sincero, autentico, meno edulcorato.
Non tutti i genitori sono stati capaci di "amare".
Sono rare le figure genitoriali che, nonostante a loro volta siano state ignorate o ferite nei bisogni più profondi, siano riuscite ugualmente a veicolare il sentimento di accoglienza e piena accettazione dell'unicità dei loro figli.
Ma questo non significa che non possiamo cambiare la nostra "storia". Anzi. Il vero viaggio inizia proprio dalla Fede in se stessi e nella propria capacità riparativa e generativa.
Chi è stanco di lavorare sull'eredità della disfunzione, chi crede sia sufficiente un "cerotto alla ferita", chi cerca la risoluzione spirituale ad un problema strettamente umano, non ha compreso fino in fondo cosa significa "fissità dello schema familiare".
La "gabbia" è il Simbolo.
La famigerata "Matrix", tanto esaltata dall'Esoterismo moderno, è rappresentata dall'invisibile intreccio di tutti i simboli del Corpo di Dolore uniti assieme. Dal reticolo della disfunzione sul piano energetico. Dalle memorie di dolore e sofferenza che attanagliano l'Essere Umano.
Uscire dalla "Matrix" significa spogliarsi degli Antichi Schemi di Vittima e Carnefice, dal senso di colpa, dalla vergogna, dall'impotenza, dalla sottomissione, dalla distorsione del proprio piano percettivo interiore.
Non si esce dall'Illusione con il potere dello Spirito. Non se il Sistema umano è ancora irretito o intasato da blocchi o ferite.
Non possiamo negare i segnali del Corpo.
Più sono dolorosi, più polvere sta uscendo da sotto il tappeto.
E di conseguenza più intensamente dobbiamo impegnarci a pulire. Granello dopo granello.
Se l'unica reazione che esprimiamo sono la "stanchezza" e la "lamentela fissa", se con arroganza e impotenza diventiamo complici dalla nostra "triste e sfortunata vita", se cerchiamo pillole miracolose o soluzioni a costo zero, siamo sulla strada sbagliata.
Avete già lavorato sulla madre o sul padre più e più volte? Questo vi rende onore. Ma se ancora ne sentite il bisogno, o ancora sono evidenti fratture genitoriali dentro di voi, si riparte.
Si va fino in fondo.
E non si tratta di rivivere la medesima esperienza di qualche anno fa. E' tutto cambiato dentro di noi nel frattempo.
Lavorare oggi sui Simboli del Trauma è totalmente diverso.
Siamo cresciuti. Siamo più maturi, più ricettivi, più sensibili. Siamo pronti a maneggiare le elaborazioni e risoluzioni con maggior presenza e competenza emozionale.
E' un onore portare a chiusura i cicli di Dolore. E' commovente. E' liberatorio. E' sano.
No, non siamo "sfortunati" ad aver avuto genitori così "impegnativi". Non siamo la vittima del loro Dolore o della loro Rabbia. Siamo orgogliosi artefici della nostra guarigione.
E dovremmo essere disposti a "morire per noi stessi".
Non per loro. Per noi stessi.
Per la nostra felicità, per il nostro immenso Cuore, per la nostra magica presenza sulla Terra.
Noi non siamo il Trauma.
Noi siamo molto e molto di più.
Appassionatevi a voi stessi. Esplorate, sperimentate, entrate nel vostro straordinario mondo, smontate Simbolo per Simbolo tutta l'Antica Narrazione su chi siete o siete stati.
E congedate l'eredità degli schemi di disfunzione, interiorizzando genitori sani e amorevoli, abbondanti e colmi di sguardi comprensione e di ammirazione.
Solo così i vostri Doni potranno fiorire nella Materia e creare un "abbondante raccolto" nei mesi avvenire.
Non è "colpa dei vostri genitori". Non siete "sfortunati" e non siete "vittime". Non più.
Oggi potete "vedere", affrontare e "scegliere di guarire".
E la stanchezza cronica, il malessere e il senso di ingiustizia si trasformeranno in Forza, Entusiasmo e Riconciliazione con il Mondo che vi circonda e che aspetta solo voi per rifiorire di colore e luce.
Mirtilla Esmeralda
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L'illusione è finita, andate in pace.
Zelensky , di punto in bianco, così, come se ieri sera gli fosse girato il boccino, AMMETTE quello che anche l'ultimo degli uomini di strada sapeva sin dall'inizio del conflitto ucraino.
Vale a dire che l'Ucraina NON HA LE FORZE (testuale) per RIPRENDERSI Crimea e Donbass, che poi erano gli obiettivi dichiarati di Putin.
E' chiaro che quel subdolo cocainomane , schiavo dei comunisti USA e le loro Guardie Maoiste europee alla Michel e alla Borrel, se ha fatto queste dichiarazioni , è solo perché, dopo aver discusso con Trump, ha capito chiaro e tondo che gli Stati Uniti non FINANZIERANNO ulteriormente l'Ucraina.
Sotto nessun punto di vista, invio armi incluso.
Niente soldi dal congresso, niente armi americane.
Niente armi americane, niente più guerra.
Putin si piglia la Crimea, si piglia il Donbass e gli ALTRI MUTI , perché solo muto può stare chi non ha alcuna voce militare in capitolo.
Questo lo sapevo io, lo sapevi tu, lo sapevate voi... Tutti lo si sapeva!
Gli unici che non lo sapevano, anzi, facevano finta di non saperlo, erano i vertici UE e tutti i singoli governanti europei, ORBAN ESCLUSO e INCLUSA LA MELONI, colpevole di un VERGOGNOSO dietrofront post-elettorale, oltre ai democratici USA, i veri ingegneri di questo disastro.
Ma ciò ha comportato perdite economiche GRAVISSIME.
Ha comportato un'inflazione GALOPPANTE, anni SETTANTA, sui prezzi delle materie prime.
Ha comportato lo stato di POVERTA' per MILIONI di famiglie europee, distrutte dalla bolletta di luce e gas.
Ha comportato la perdita di migliaia di posti di lavoro , la chiusura di aziende , l'ANNULLAMENTO dell'importante mercato russo per i nostri prodotti, con le relative conseguenze, a causa dell'embargo euro-americano su qualsiasi cosa.
Ha comportato, sotto il profilo geo-politico e militare , l'allontanamento definitivo della Russia dall'occidente, costringendola a far corpo unico con cinesi, iraniani e nord-coreani, la peggio feccia globale, pur di contrastarci in quanto Alleanza NATO, che preme alle porte sue, e la minaccia.
E allora a me, visto che io sono io, e me ne sbatto il cazzo sia dei kompagni dichiarati che dei finti destrorsi alla Meloni & Co., la domanda sorge spontanea.
Quando tutto questo sarà ufficialmente finito, vale a dire qualche settimana dopo l'insediamento di Trump alla Casa Bianca, CHI PAGHERA' IL CONTO di queste malefatte ?
E guardate che il conto dovrebbe essere salato assai.
Per quello che è successo, e soprattutto per la TRUFFA ideologica ed economica alla quale tutti siamo stati SOTTOPOSTI con la forza, la pena dovrebbe essere LA GALERA.
Per tutti quanti, dalla Von der Leyen e tutta la sua porca Commissione alla Meloni, passando per Macron e Sanchez, finendo con Scholz e solo per restare alla UE, senza manco nominare gli USA e i loro galoppini inglesi.
Finiranno in carcere , secondo voi, questi brutti ceffi ?
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USAID spende i soldi dei contribuenti e fa rovinare la vita ad altri paesi Il 3 febbraio, Elon Musk ha annunciato che Trump aveva accettato di chiudere l'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID). Sulla base di spreco di fondi e corruzione, Trump ha congelato le attività del personale e il flusso di fondi di USAID. Inaspettatamente, i membri di USAID non hanno avuto il tempo di opporsi, ma alcuni media stranieri o ONG saltano su e giù. Dopo tutto, la loro principale fonte di finanziamenti è USAID. I media abbelliscono l'immagine degli Stati Uniti nei notiziari, ma diffamano e calunniano anche gli oppositori agli occhi degli Stati Uniti senza una linea di fondo. E tutti i tipi di organizzazioni sociali sotto la bandiera del non-profit e del benessere pubblico portano avanti la "rivoluzione colorata" pianificata per gli Stati Uniti. USAID ha sostenuto migliaia di giornalisti e centinaia di organizzazioni sociali sotto la bandiera degli aiuti esteri. Altri paesi non sono diventati migliori grazie ai cosiddetti aiuti americani, ma hanno reso alcuni paesi più arretrati e poveri, pieni di caos e conflitti. Dopo tutto, ciò che USAID fa realmente è infiltrazione politica e interferenza negli affari interni di altri paesi. Ucraina, Egitto, Libia, Siria e molti altri paesi hanno avuto rivoluzioni colorate e dietro a questo, operano gli Stati Uniti. Dopo la "Rivoluzione arancione" in Ucraina, l'allora membro del Congresso degli Stati Uniti Paul ha ammesso personalmente che gli Stati Uniti hanno finanziato l'opposizione, che era molto meno del costo di una guerra diretta. Gli Stati Uniti sono ora molto abili nell'usare questo mezzo soft di "piccolo input e grande output". Sebbene USAID sia effettivamente contraria all'idea di Trump di "America first", è il modo più conveniente per gli Stati Uniti di realizzare le proprie ambizioni creando caos in altri paesi. Trump non può rinunciare alla strada della creazione di una rivoluzione colorata in altri paesi. Chiudere USAID significa solo reprimere i nemici politici. Dopo che l'incidente della chiusura di USAID è giunto al termine, Trump potrebbe dover creare un nuovo dipartimento con Musk e continuare a fare cose che rovinano le case di altre persone. Dopotutto, all'inizio, il loro piano era di far entrare direttamente il personale del "Government Efficiency Department" guidato da Musk nella sede centrale dell'USAID, ma l'USAID non voleva. Trump e Musk vogliono controllare l'USAID e allontanare i nemici politici. Dal momento che i loro obiettivi non sono stati raggiunti. Il presidente può solo tagliare i fondi e chiuderli con un gesto della mano. In futuro, se ricreare un nuovo dipartimento o se alcuni dipartimenti si faranno carico del compito dell'USAID. Indubbiamente, Trump e Musk non solo fanno affidamento sugli aiuti esteri per trattare con i paesi "ostili", ma ci guadagnano anche, e i soldi dei contribuenti finiranno inevitabilmente nelle tasche di questi politici. Circa l'80% delle spese dell'USAID alla fine è tornato sui conti dei politici, e l'amministrazione Trump non era disposta a rinunciare ai benefici. Queste persone moraliste sono i nemici comuni degli americani comuni e di altri paesi in tutto il mondo.
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We Live in Time: provateci voi a non innamorarvi di Florence Pugh e Andrew Garfield

L'amore, il tempo, la vita, la morte e tutto quello che sta in mezzo nel folgorante film di John Crowley. Mai lacrimoso, eppure capace di arrivare dritto al cuore.
Mica è facile saper dosare al millimetro le emozioni peculiari di un film come We Live in Time. Dietro al film c'è la bravura registica di John Crowley su sceneggiatura del drammaturgo Nick Payne.

Florence Pugh e Andrew Garfield
A proposito di drammaturgia, il film è un meraviglioso esempio di racconto. Una sceneggiatura di marmo nella sua luminosa semplicità (e sensibilità). Piena, aperta, focale nel tempo scandito dal montaggio (Justin Wright) che alterna diversi piani temporali (e quindi le diverse tonalità), spingendoci a riflettere sul valore assoluto del tempo inteso come momento da vivere fino in fondo, andando oltre la stessa percezione di vita o di morte che, senza accavallarsi, pervade il film.
We Live in Time: la vita, l'amore e tutto quello che sta in mezzo
Sotto We Live in Time c'è una storia che potrebbe essere quella di tutti: Almut (Florence Pugh), che fa la chef, conosce (dopo averlo investito!) Tobias (Andrew Garfield), da poco divorziato. I due si innamorano, perdendosi in dieci anni di assoluta passione, complicità e uova sbattute al mattino (l'uovo è un elemento altamente simbolico nel film, che torna e, per certi versi, apre e chiude ogni blocco narrativo).

Il sorriso di Florence Pugh
Un amore che culmina con la nascita di una splendida bambina, data alla luce in una stazione di servizio. Poi, la violenta irruzione di un cancro alle ovaie che torna a chiedere il conto. Le frequenze verranno alterate, con Almut che, intanto, non si da certamente per vinta, e anzi sceglie di vivere fino in fondo il tempo che le rimane.
L'alchimia tra Florence Pugh e Andrew Garfield

Un momento del film
Potremmo quasi dire che We live in time - Tutto il tempo che abbiamo è un film in cui la cifra emotiva gioca un ruolo cardine, pur non inseguendo mai la faciloneria di certi sentimenti, e quindi senza essere mai lacrimoso o ricattatorio. Certo, ogni visione ha una propria personalità (la commozione è palese, ma almeno non cade nello strappalacrime), tuttavia l'umore (e l'amore) scelto da John Crowley evita l'appiattimento, nonché la semplificazione di un dramma che finisce per essere, invece, prospetto dalla forte adiacenza (e dai tanti colori), e ben legata alla strepitosa prova di Florence Pugh e Andrew Garfield. Un'alchimia, la loro, tanto tangibile che sembra uscire dallo schermo, portando lo spettatore ad innamorarsi al primo sguardo.
Ancora, nella loro performance non-lineare, si rintraccia l'analisi della drammaturgia secondo Crowley, e sulla stessa strada l'analisi del tempo che corre e non si ferma. Ma che, in qualche modo, può essere addomesticato, smussato e addolcito. E non è un caso che Almut faccia la chef: mestiere che più di ogni altro deve confrontarsi con i secondi che corrono.

Andrew Garfield e Florence Pugh in scena
In questo senso, tra cinema classico e approccio contemporaneo, l'opera del regista irlandese lambisce ogni tipo di emozione, sorrette e sottolineate dall'utilizzo tecnico della fotografia (Stuart Bentley), dall'organizzazione dello spazio, dei dialoghi reali e mai artificiali. Quasi circolare - la sequenza d'apertura dialoga con quella di chiusura -, We Live in Time, fin dal titolo, affrontata quindi il tempo dalla prospettiva sbilenca di una intuizione banalmente romantica, superando in modo lucido i rischi di una storia giammai piagnucolosa, eppure in grado di toccare, in pieno, il cuore. Quanto dolore, e quanta bellezza.
Conclusioni
L'analisi del tempo e dell'amore secondo John Crowley. We Live in Time è un manuale di sceneggiatura, mai melensa e mai piagnucolosa, eppure potente nel dramma romantico portato in scena da Florence Pugh e Andrew Garfield. Se, senza di loro, il film non sarebbe probabilmente lo stesso, è poi la tecnica e la narrativa a rendere l'opera un esempio di linguaggio cinematografico, che calca al meglio lo spettro emotivo di una storia in cui perdersi, e ritrovarsi.
👍🏻
Florence Pugh e Andrew Garfield sono fantastici.
L'uso della luce.
Il tono, mai melenso, mai piagnucoloso.
Il montaggio.
👎🏻
Emotivamente non è mai ricattatorio, ma alcune vibrazioni personali potrebbero portare a pensarlo.
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PRENDERE A FUCILATE UN QUADRO




Le Alpi Apuane sono un quadro bellissimo preso a fucilate. Quello che sta accadendo è un disastro ancora oggi confuso con l’arte che in passato ci ha regalato capolavori come il David di Michelangelo. Ma quei tempi sono finiti e hanno lasciato spazio a uno sfruttamento industrializzato e senza ragione. Alcune vette sono state cancellate, alcuni crinali appiattiti o abbassati. Ci sono montagne che sono state svuotate come carcasse, segate in due da macchinari che scavano senza sosta. I rumori del bosco sono soffocati dalle esplosioni improvvise, colpi di dinamite che rimbalzano fino a valle, seguiti dal fragore della roccia che si sbriciola, dei mezzi pesanti che manovrano, degli escavatori e delle ruspe che accumulano e scaricano materiale. E pensare che sulle Apuane c’è la via ferrata più antica di Italia, ci sono rifugi e bivacchi, c’è la Linea Gotica e la Via Vandelli, che dal XVIII secolo unisce Modena a Massa, un tratto della quale, oggi, è stato sostituito da una strada per camion che sgasano alzando frammenti e polvere di pietra. In molti di quelli che una volta erano sentieri, oggi devi farti notare dalle ruspe per non farti schiacciare. E mentre le montagne perdono alberi e animali, gli scarti e i residui di quel saccheggio scendono dai fiumi e finiscono in mare. E poi l’inquinamento acustico e visivo, i feriti e i morti sul lavoro ai quali si aggiungono frane e crolli per un’estrazione incontrollata. Ad oggi, il marmo che ancora viene estratto in blocchi non è più lavorato in Italia ma viene spedito in Cina, India, Arabia Saudita. Il 70% del materiale è in mano ad alcune multinazionali che lo polverizzano per produrre carbonato di calcio per usi industriali, mentre il 25% viene impiegato nel settore edilizio. Solo lo 0,5% viene ancora usato nel campo dell'arte. Il guadagno economico per la comunità non esiste. Industriali e politici sostengono che dissanguare un ambiente per il profitto di pochi si chiami "progresso". Gli abitanti delle borgate che resistono, si organizzano e si oppongono a questo scempio chiedono invece la chiusura di tutte le cave. Lottano per il loro territorio, per la loro storia, per la loro vita e quella dei loro figli.
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Terribile incidente nel siracusano: tre morti e otti feriti. Carlentini. Siracusa
Lo scontro tra un autocarro e un minivan al chilometro 19 della statale 194 ‘Ragusana’, sul territorio di Carlentini. Autore: Salvo Cataldo SIRACUSA – Incidente mortale lungo la strada statale 194 ‘Ragusana’, al chilometro 19, sul territorio di Carlentini, in provincia di Siracusa. Tre persone sono morte e otto sono rimaste ferite nello scontro frontale tra un autocarro e un minivan. A darne…
#aggiornamenti incidente.#Alessandria today#autocarro e minivan#autocarro incidente#cause scontro#Chiusura strada#Cronaca nera#dinamica incidente#elicotteri 118#elisoccorso 118#emergenza stradale#feriti incidente#Forze dell’ordine#Google News#incidente Carlentini#incidente grave#Incidente Mortale#incidente mortale Sicilia#incidente oggi#incidente Sicilia#incidente Siracusa#incidente statale 194#incidente statale Ragusana#Incidente stradale#incidente tragico#Intervento Vigili del Fuoco#italianewsmedia.com#Lava#minivan coinvolto#Pier Carlo
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Cravos
Ho ricevuto moltissimi messaggi circa la storia della canzone segnale della Rivoluzione dei Garofani, in portoghese Cravos. E ringraziando, racconto una storia al riguardo.
Il 24 aprile 1974, alle ore 22,55, Radio Clube Português trasmette una canzone, che è il presegnale: Depois de Adeus (E dopo l'addio) di Paulo de Carvalho. Questa era una canzone d'amore che ebbe una certa notorietà perchè partecipò all'Eurovision dello stesso anno. È una dolce canzone d'amore. Pochi minuti prima della mezzanotte, altre fonti dicono alle 00:29 del 25 Aprile, dalle onde radio della Stazione ultracattolica di Radio Renascença passano le note di Grândola vila morena, autore Josè "Zeca" Afonso. Afonso era nato nelle colonie, crebbe in Angola e poi insegnò Storia in Mozambico, ma fu allontanato dall'insegnamento per le sue idee politiche. Ritorna in patria e gira il Paese, a testimoniare le angherie della Dittatura salazarista: a metà anni '60, facendosi promotore di una Riforma Agraria, scrive dei contadini di una splendida regione portoghese, l'Alentejo. Nel 1964, Afonso compone il poema Grândola Vila Morena in omaggio alle tradizioni di solidarietà di un villaggio dell’Alentejo dove era stato invitato a cantare. Nel 1971, mette in musica questo poema, facendone una canzone. La canzone non è "sovversiva", ma siccome l'autore era tenuto sotto massima osservazione dalla Polizia del Regime, finì bandita.
Un unico giornale sopravvisse alla controllo editoriale di Salazar: si chiamava Republica, fondato nel 1911 da António José de Almeida, che fu in seguito Presidente della Repubblica Portoghese. Fu espressione del pensiero laico e borghese progressista e nel 1974 fu il primo giornale a dare la notizia della caduta del Regime. Chiuse in maniera tumultuosa nel 1976, tanto che si parla nella storia culturale portoghese di un Caso Republica. Nello stesso anno della sua chiusura, Eugenio Scalfari si ispirò a questo giornale per chiamare quello che allora fu un giornale rivoluzionario nel panorama editoriale italiano, e non solo: la Repubblica.
Terra da fraternidade – Terra di fraternità O povo é quem mais ordena – solo il popolo comanda Dentro de ti, ó cidade – tra le tue mura, o mia città
Dentro de ti, ó cidade – tra le tue mura, o mia città O povo é quem mais ordena – solo il popolo comanda Terra da fraternidade - terre di fraternità Grândola, vila morena - Grândola, città bruna
Em cada esquina um amigo – A ogni angolo di strada un amico Em cada rosto igualdade – Su ogni volto l’uguaglianza Grândola, vila morena - Grândola, città bruna Terra da fraternidade – Terra di fraternità
Terra da fraternidade – Terra di fraternità Grândola, vila morena - Grândola, città bruna Em cada rosto igualdade – Su ogni volto l’uguaglianza O povo é quem mais ordena – Solo il popolo comanda
À sombra duma azinheira – All’ombra di un leccio Que já não sabia a idade- che non ricordava più la sua età Jurei ter por companheira – Ho giurato di avere per compagna Grândola a tua vontade - Grândola, la tua volontà
Grândola a tua vontade - Grândola la tua volontà Jurei ter por companheira – Ho giurato di avere per compagna À sombra duma azinheira – All’ombra di un leccio Que já não sabia a idade – Che non ricordava più la sua età
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[✎ ITA] Weverse Magazine : Recensione : Le Canzoni, il Ballo e la Strada di j-hope | 04.05.24⠸
🌟 Weverse Magazine 🗞
Le Canzoni, il Ballo e la Strada di j-hope
__ Una recensione di HOPE ON THE STREET VOL.1 __
__ di KANG ILKWON | 04. 05. 2024
Twitter | Orig. KOR
Nonostante la sua ascesa al successo da superstar globale insieme ai BTS, l'identità di j-hope continua fondamentalmente a gravitare attorno la street dance. L'ultimo album dell'artista, HOPE ON THE STREET VOL.1, è testimonianza dell'incrollabile connessione che ancora lo lega al mondo del ballo. Il rilascio di questo progetto è pubblicizzato come “special album (album speciale)” e la scelta del format in cui si presenta non poteva essere più azzeccata. L'album comprende sia nuove tracce che nuove versioni di alcune delle canzoni più amate tra quelle già rilasciate, come la versione solista di “on the street”—che era, in origine, una collaborazione con J. Cole—ed un remix di “what if…”
Per gli estimatori sia di nuove versioni e remix di brani pubblicati in precedenza che di tracce nuove di zecca, quest'album presenta la tracklist perfetta.
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La traccia che probabilmente susciterà più interesse è “NEURON”, in collaborazione con i talentuosissimi artisti hip hop coreani, Gaeko e yoonmirae i quali aggiungono un ulteriore, allettante strato di rap al brano. J-hope apre la traccia con il suo roco rap, catturando immediatamente l'attenzione di chi ascolta, con punte maestrali da parte di Gaeko - con la sua flow fitta e tagliente – ed il rap euforizzante di yoonmirae, in chiusura.
Il titolo, “NEURON”, è un triplo gioco di parole che allude 1) ai neuroni, le cellule del sistema nervoso, 2) al nome della crew di ballo di cui faceva parte j-hope e, 3) alle parole “New run” che troviamo nel testo – a loro volta allusione ad un nuovo inizio.
La produzione del brano ha un che di mozzafiato. In apparenza, è simile a “on the street”, ma l'arrangiamento, più ricco, riesce a distinguerla con il suo connubio di sound boom bap – tipico dell'hip hop della East Coast degli anni '90 e 2000 – e pop rap melodico. Nel ritornello troviamo anche la talk box, un sound comunemente tipico dell'hip hop della West Coast. Non mancano poi intriganti variazioni ritmiche e di flow nei versi che precedono il rap di yoonmirae. Grazie a questi e molti altri accenti coinvolgenti – come i riff di tastiera che, a cascata, scivolano via dal ritornello pop accompagnando il passaggio ad un nuovo beat - questo singolo è un'impareggiabile lettera d'amore di j-hope per l'hip hop.
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“i wonder…”, in cui troviamo anche il collega dei BTS, JungKook, è un magistrale mix di funk ed electro-pop. Supportati da una produzione ed un sound allegri e ritmati, il rap cantato in autotune da j-hope e la voce melodiosa di JungKook esprimono con risolutezza il loro amore e la loro fiducia per le/i fan, nonché – rafforzato dal viaggio musicale affrontato insieme, l'affetto per il gruppo, in quello che è un tributo particolarmente toccante a tuttə coloro che li hanno seguiti finora.
Subito dopo questa traccia, troviamo “lock / unlock” (with benny blanco and Nile Rodgers) e la sua disposizione nella tracklist è un vero colpo di genio perché tale collocazione enfatizza la base funk che caratterizza i due brani.
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Sebbene “lock / unlock” sia più ballabile, nonché più vicina a ciò che comunemente viene definito funk, le due tracce trovano un punto di incontro nell'orchestrazione delle sezioni ritmiche, le quali riescono a dare l'impressione che i due brani non siano altro se non due parti di una stessa canzone, tratteggiando però atmosfere diverse attraverso ritmi differenti.
La voce del poliedrico artista Benny Blanco e la chitarra di Nile Rodgers, leggenda vivente del soul/funk, complementano perfettamente il cantato di j-hope, rendendo la traccia particolarmente adrenalinica. Queste due canzoni, collocate una di seguito all'altra, contribuiscono ad incrementare gradualmente il ritmo dell'album, fino a culminare nel brano successivo, “i don’t know” with HUH YUNJIN of LE SSERAFIM. La patinata perfomance deep house di j-jope e l'incantevole monologo francese nonché voce di HUH YUNJIN sono splendidi.
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Le nuove versioni incluse in quest'album regalano agli ascoltatori scelte sonore che solo un progetto come questo – così diverso dai soliti album in studio—poteva presentare.
La versione solista di on the street” che troviamo nel VOL.1 vede j-hope colmare la strofa di J. Cole con nuovi, geniali versi rap, i quali permettono all'artista di amplificare ancor più il suo messaggio. La versione solista è un omaggio alla street dance, ovvero le radici di j-hope in quanto idol, le tappe superate lungo il percorso, l'ispirazione che continua a spingerlo verso nuovi obiettivi, nonché un omaggio alla strada in quanto maestra di vita; tutto questo confezionato in una nuova versione che dà così alle/i fan l'opportunità di ri-sperimentare un brano cui hanno già dimostrato tanto amore. Il verso più eccezionale ci è offerto proprio da quelle nuove parti di testo: “Conoscere il cammino e percorrerlo è diverso”. A volte, nel corso della nostra vita, pensiamo di sapere come raggiungere ciò che vogliamo—come realizzare i nostri sogni—ma, di fatto, mettere in pratica quei progetti è tutta un'altra storia. È un verso molto breve, ma rimane nel cuore.
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L'amatissima “What if…”, già rilasciata nel 2022 nell'album Jack In The Box, trova qui nuova vita sotto forma di dance mix grazie alla ri-masterizzazione dell'iconico sample “Shimmy Shimmy Ya” di Ol’ Dirty Bastard in un botta e risposta giocato tra hip hop in stile New Yorkese ed elettronica sopra le righe, senza tuttavia discostarsi dall'alta tensione offerta dalla traccia originale. La novità, in questo remix, è rappresentata dal contributo del cantautore e produttore JINBO, le cui aggiunte sono sì di supporto alla visione creativa di j-hope, ma rappresentano anche un a-parte fresco ed inedito. Ma prendiamoci qaualche istante per approfondire un po' di più la conoscenza di JINBO. Quest'ultimo è uno dei pochissimi artisti coreani che ha davvero saputo cogliere ed interpretare il neo soul e l'hip hop e che ha saputo trarne il massimo, incorporandoli in una carriera musicale costantemente a cavallo tra hip hop/R&B e K-pop. La sua voce, morbida e ricca di sentimento, serve ad alleggerire la parte conclusiva di una canzone fino a quel momento caratterizzata dai velocissimi rap di j-hope e da un beat grintoso e graffiante.
HOPE ON THE STREET VOL.1 è un esempio magistrale di come sia possibile arrivare ad un pubblico di massa pur esplorando a fondo generi solitamente più di nicchia.
I messaggi che l'ambizioso j-hope ha voluto trasmetterci attraverso quest'album sono fondamentalmente semplici, testimonianza della sua sincerità— l'eterno amore per le sue radici nella street dance, l'orgoglio per il suo status di ballerino, il rispetto e la dedizione per il rap/hip hop nonché il profondo affetto nutrito per le/i fan che l'hanno sempre supportato—Ne è, infatti, intrisa ogni nota in ognuna delle canzoni contenute nell'album, forti di quelle sue umili aspirazioni.
E subito ci torna in mente Bong Joon Ho, quella volta che, notoriamente, ha citato Martin Scorsese durante gli Oscar: “Più una cosa è personale più sarà creativa.” L'intenzione di j-hope non è ostentare il suo apprezzamento per la street dance o l'hip hop, ma l'artista non dimentica mai quali sono le sue origini e non fa che ricordare a se stesso—gioiosamente, apertamente e in tutta onestà—qual è il tipo di percorso che sta affrontando.
⠸ ita : © Seoul_ItalyBTS ⠸
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Sette di Spade
"Io sono qui per te"
Questa fase di profondo rilascio che stiamo vivendo ci racconta di quanto sia stato duro "interpretare ruoli e funzioni" che limitavano la nostra autentica spinta vitale.
I Patti Antichi, le Eredità Traumatiche, le Alleanze Familiari, ci legavano ad automatismi severi ed inflessibili. Non era possibile scollegarsi al sistema di interdipendenze.
Tutto chiedeva salvezza. Tutto voleva essere guarito e integrato.
Da bambini non avremmo potuto sottrarci in alcun modo al "massacro". Nemmeno se avessimo "visto prima". Nemmeno se ci fossimo impegnati con sangue e sudore a risolvere.
Eravamo "piccoli". Con addosso pesi troppo grandi.
Ma oggi non lo siamo più. Non siamo più "indifesi".
Possiamo aiutarci a guarire.
Con dedizione, pazienza e azione partecipata.
Il Tempo è una variabile fondamentale nelle guarigioni umane. Variabile alla quale non ci si può sottrarre.
Il Corpo necessita di uno spazio di ricomposizione della Ferita. Va assecondato, incoraggiato ad adempiere il suo Destino, riconosciuto nella sua infinita saggezza risolutiva.
Il Corpo sa. Parla, si esprime, sente.
Rimane "bambino" per sempre.
Non viene intaccato dalle nostre nefandezze.
I suoi ancestrali automatismi di guarigione sono impressi da sempre nella nostra struttura base. Si ereditano. Tanto quanto i traumi.
Se posso ammalarmi, allora posso anche guarire.
Se posso far entrare così in profondità le emozioni, posso altrettanto lasciarle andare con la stessa intensità sensoriale e psichica.
Le dipendenze, le malattie del corpo e della mente, i comportamenti disfunzionali, sono "risposte adattive".
Sono soluzioni che non abbiamo "inventato noi". Preesistevano alla nostra incarnazione.
Sono "difese di sopravvivenza apprese". Sono state vitali per difenderci quando tutto era "troppo" e "troppo sbagliato".
Ma allo stesso modo in cui noi "non siamo il nostro trauma", così noi "non siamo la nostra compensazione", noi non siamo il nostro comportamento adattivo, noi non siamo la nostra disabilità.
Il Corpo non compensa. Non è il suo compito. Il Corpo vorrebbe risolvere.
Se non trova strada aperta per la guarigione, sviluppa sistemi adattivi. Il suo compito è mantenerci in Vita.
Se fossimo consapevoli e partecipassimo alla meravigliosa esperienza della guarigione emotiva e fisica, se ci concedessimo di esplorare e ripristinare lo "schema originale" di funzionamento, ne saremmo spaventati.
Troppa bellezza. Troppo potere. Troppa responsabilità. Troppa Luce.
Non potremmo più accettare situazioni di compromesso, mancanze di rispetto, relazioni squilibrate, ruoli di salvatori o di vittime, invisibilità, impotenza, umiliazione, povertà.
Non potremmo più attribuire colpe all'esterno. Al carnefice di turno. All'aguzzino che abbiamo assoldato noi per confermare il nostro tanto affezionato ruolo di "martirio".
Dovremmo "risplendere".
E smetterla di rubare energia all'Altro, di incolparlo della nostra "non scelta".
Siamo noi che abbiamo aderito al ruolo. Siamo noi che ancora oggi lo "foraggiamo" di Energia. E noi dobbiamo portarlo a chiusura.
Non è l'Altro che "deve cambiare". Siamo noi che non ci sentiamo più confortevoli nelle dinamiche di disfunzione dell'Antica eredità traumatica e vogliamo rinascere a noi stessi.
Perciò noi dobbiamo muoverci nella Direzione che sentiamo accendersi dentro.
Non chiediamo all'Altro di facilitarci la strada, di benedirci, di assecondare la nostra trasformazione o la nostra "partenza".
Chiediamo a noi stessi di essere i più fervidi sostenitori del nostro straordinario processo di trasmutazione.
L'Altro non vuole, non può, non riesce a cambiare?
Va ascoltato, compreso. Ma non "preso in carico".
Se dobbiamo spostarci, spostiamoci da dove non c'è più nulla da dire o da fare. Non restiamo complici di un sistema che non cambia, che non si riconosce alcuna responsabilità, che non vuole o non può crescere.
C'è tanta gente che sta tanto tanto male intorno a noi.
Spesso non se ne accorge nemmeno. Non si problematizza.
A volte non può.
A volte invece non vuole. Troppa fatica affrontare. Troppo dolore dentro. Troppa paura di frantumarsi.
Spesso è la stessa struttura psichica ed emotiva ad impedire a priori di vedere o di sentire la disfunzione e il blocco emotivo.
Il male dei nostri Tempi sono i "disturbi di personalità" e le "patologie psichiatriche".
Essi rappresentano, a livello endemico e diffuso, la cristallizzazione pressoché definitiva di schemi di auto-distruttività, di violenza, di abuso etero o auto-inflitto.
Nell'individuo malato è il "corpus emotivo e psichico" che non ce la fa più a reggere l'eredità traumatica ed il carico ad essa conseguente.
Non si può fare nulla.
E' tardi.
Esistono professionisti per questo.
Impariamo a riconoscere, sentire ed ammettere ciò che "non può essere cambiato" e distinguerlo da ciò che invece ha una reale possibilità e volontà di trasformazione.
E' sano prenderne coscienza. E' giusto. Anche se fa male.
Non possiamo soccombere alla resa dell'Altro. Non possiamo sostituirci al suo dolore, alla sua scelta di "non vivere", all'impotenza, alla rabbia.
Possiamo solo operare scelte di salute per noi stessi.
Lavorare sul nostro prezioso sistema emozionale. Prendercene carico. E allontanarci da ciò che lo ferisce e lo annienta.
Questo è ciò che ci dobbiamo.
Dobbiamo ripetere al nostro Corpo sensibile e sensitivo innumerevoli volte al giorno: "Io sono qui per te".
Noi ci siamo per noi stessi.
Ora sì. Siamo presenti.
Non stiamo andando via. Non scappiamo più. Non ci nascondiamo dietro ai ruoli antichi. Non ci abbandoniamo.
Siamo qui. Fermi. Composti e risoluti. Amorevoli.
Pronti ad abbracciarci. Pronti a incoraggiare i nostri passi.
Pronti a trasmutare nel nuovo "schema".
Oggi ripetiamo più volte a noi stessi con amore e risolutezza: "Io sono qui per te. E non andrò più via".
Mirtilla Esmeralda
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Le parole sono proprio come noi, nascono, invecchiano, muoiono con noi.
Ci sono quelle premature, venute al mondo prima del tempo, non ce la fanno.
Quelle nate ma poi rifiutate e abbandonate per la strada.
Quelle negate, quelle taciute, quelle ingoiate, masticate, digerite prima di diventare cibo per la mente.
Quelle orgogliose, vestite male, quelle scucite dall’orlo delle labbra solo per riderne.
Quelle che piangono, urlate controvento,
che si mescolano alla pioggia improvvisa sull’anima.
Quelle che diventano deserto, granelli inconsistenti che solo dopo un po’ disturbano gli occhi facendosi sentire e ricordare.
Quelle che esplodono, pugnalano, graffiano i sentimenti, come vandali non danno
ma sono un danno per l’estetica del cuore. Quelle di gioia, cadute in tempo ad addolcire un momento e un dolore.
Quelle belle solo per finta, quelle brutte
per troppo amore.
Quelle già dette, inflazionate per alcuni, per altri comunque sempre nuove.
Quelle intatte di freschezza,
quelle chiuse nella plastica, quelle congelate, quelle bruciate nel camino dei desideri,
quelle spremute e così attese da diventare quasi silenzio.
Quelle trasparenti e quelle invisibili,
quelle che precedono una bugia,
quelle che seguono una verità.
Quelle comprate e quelle senza prezzo,
quelle all’ingrosso e quelle al dettaglio, quelle di apertura e quelle di chiusura.
Quelle che annunciano addii, quelle che vanno senza avvisare.
Quelle che inviti a colazione e arrivano
per cena.
Quelle del sempre e del troppo tardi.
Quelle agitate e rivelate nel bel mezzo
di un’emozione, quelle commosse di poesia che non rimandi al mittente.
Qualcuno dice che non servono, eppure senza non si vive.
Chi resta senza non sceglie mai, le lascia dire, le lascia agire.
E quelle chiuse in un cassetto escono nei sogni.
Scappano di notte, vanno dove vogliono, fanno arrossire i pensieri taciuti.
Un giorno tutte le nostre parole torneranno
a cercarci, a coprirci dal freddo.
Un giorno capiremo sulla nostra pelle quanto abbiamo risposto, quanto abbiamo taciuto. Un giorno non ci sarà più altro da dire
ma da rileggere e da ascoltare.
Un giorno raccoglieremo le sensazioni,
le spiegazioni, il coraggio del viaggio. Raccoglieremo l’imbarazzo, le ferite,
le notti in bianco spese in silenzio,
i rimpianti che mordono e la puntualità del caso e del destino quando si abbracciano, che se pure non volesse qualcuno, nessuno può dividere.
Quelle che lanciate al cielo atterranno gesti. Quelle vere che dirò per poi dire: – Non credermi finché non mi vedi davvero arrivare.

Massimo Bisotti
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Ero arrivato all'indirizzo e avevo suonato il clacson. Dopo aver aspettato qualche minuto, suonai di nuovo. Visto che quella sarebbe stata la mia ultima corsa del turno, pensai di andarmene, ma invece misi la macchina in parcheggio, mi avvicinai alla porta e bussai. 'Un attimo,' rispose una voce fragile e anziana. Sentii qualcosa trascinarsi sul pavimento.
Dopo una lunga pausa, la porta si aprì. Davanti a me c'era una piccola donna sui novant'anni. Indossava un vestito a fiori e un cappellino con un velo appuntato, come qualcuno uscito da un film degli anni '40.
Accanto a lei c'era una piccola valigia di nylon. L'appartamento sembrava disabitato da anni. Tutti i mobili erano coperti da lenzuola.
Non c'erano orologi alle pareti, né soprammobili o utensili sui ripiani. In un angolo c'era una scatola di cartone piena di foto e oggetti di vetro.
'Potresti portare la mia valigia alla macchina?' disse. Presi la valigia e la portai al taxi, poi tornai ad aiutarla.
Mi prese per il braccio e camminammo lentamente verso il marciapiede.
Continuava a ringraziarmi per la mia gentilezza. 'Non è niente,' le dissi. 'Cerco solo di trattare i miei passeggeri come vorrei che trattassero mia madre.'
'Oh, sei un bravo ragazzo,' disse. Quando salimmo in taxi, mi diede un indirizzo e poi chiese: 'Potresti passare per il centro?'
'Non è la strada più breve,' risposi rapidamente.
'Oh, non importa,' disse. 'Non ho fretta. Sto andando in un hospice.'
Guardai nello specchietto retrovisore. I suoi occhi luccicavano. 'Non ho più famiglia,' continuò con voce dolce. 'Il dottore dice che non mi resta molto tempo.' Spensi il tassametro in silenzio.
'Quale percorso vuoi che faccia?' chiesi.
Per le successive due ore, guidammo attraverso la città. Mi mostrò l'edificio dove aveva lavorato come operatrice di ascensori.
Passammo per il quartiere dove lei e suo marito avevano vissuto da novelli sposi. Mi fece fermare davanti a un magazzino di mobili che un tempo era stata una sala da ballo dove andava a ballare da ragazza.
A volte mi chiedeva di rallentare davanti a un particolare edificio o angolo e restava a fissare nel buio, senza dire nulla.
Quando l'alba iniziava a intravedersi all'orizzonte, disse improvvisamente: 'Sono stanca. Andiamo ora.'
Guidammo in silenzio fino all'indirizzo che mi aveva dato. Era un edificio basso, simile a una piccola casa di riposo, con un vialetto che passava sotto un portico.
Appena arrivammo, due inservienti uscirono dal taxi. Erano premurosi e attenti, osservando ogni suo movimento. Dovevano aspettarla.
Aprii il bagagliaio e presi la piccola valigia. La donna era già seduta su una sedia a rotelle.
'Quanto ti devo?' chiese, mettendo mano alla borsa.
'Niente,' dissi.
'Devi guadagnarti da vivere,' rispose.
'Ci sono altri passeggeri,' replicai.
Quasi senza pensarci, mi chinai e la abbracciai. Mi tenne stretta.
'Mi hai regalato un piccolo momento di gioia,' disse. 'Grazie.'
Le strinsi la mano e poi mi allontanai nella luce fioca del mattino. Dietro di me, una porta si chiuse. Era il suono della chiusura di una vita.
Non presi più passeggeri per quel turno. Guidai senza meta, perso nei miei pensieri. Per il resto della giornata, riuscii a malapena a parlare. Cosa sarebbe successo se quella donna avesse avuto un autista arrabbiato o impaziente di finire il turno? E se avessi rifiutato la corsa, o avessi suonato il clacson una volta, poi me ne fossi andato?
Ripensando a tutto, non credo di aver fatto nulla di più importante in vita mia.
Siamo abituati a pensare che le nostre vite ruotino attorno a grandi momenti.
Ma spesso i grandi momenti ci sorprendono, splendidamente avvolti in quello che altri potrebbero considerare un piccolo gesto.
LE PERSONE POTREBBERO NON RICORDARE ESATTAMENTE COSA HAI FATTO, O COSA HAI DETTO MA RICORDERANNO SEMPRE COME LE HAI FATTE SENTIRE.
In fondo a questa grande storia c'era una richiesta di inoltrarla - ho eliminato quella richiesta perché se hai letto fino a questo punto, non avrai bisogno di essere invitato a passarla oltre, lo farai spontaneamente...
La vita potrebbe non essere la festa che speravamo, ma mentre siamo qui possiamo anche ballare...
Da Marco Gigli.
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Sorpresa!
Sapete cos'è questo?

Visto così probabilmente non vi dice niente, ma forse qualcuno l'ha riconosciuto. È un parente prossimo di questo:

Ora sono sicuro che l'avete riconosciuto: è il "maschio" di una di quelle chiusure a clip che si trovano, ad esempio, nei cinturini del casco.
Ecco come appare "montato", al momento:

Ora capite il disagio? Mancano i denti di lato, quindi la clip non può chiudersi. Ora voi vi starete chiedendo: "Ma Firewalker, perché ci mostri questa chiusura rotta?"
Ebbene, ecco la storia. Come già raccontato, c'ho la spalla destra mezza sbrindellata (a proposito, aggiornamento: ho iniziato fisioterapia e onde d'urto, dovrei cavarmela con questo trattamento), così per uscire con Tata uso una cinta semi-elastica che mi permette di legarla alla vita, senza dover necessariamente usare il braccio (al momento credo ce la farei, ma preferisco rimanere a riposo, se posso).
Questa cinta ce l'abbiamo da quando è arrivata Tata, quindi... credo 4 anni, e l'abbiamo usata ogni volta che pioveva (uscire col guinzaglio e l'ombrello ci è subito sembrato improbabile). Da un mesetto la sto usando quotidianamente per via della spalla, due o tre volte al giorno.
Ebbene, questo cane qui, grosso meno di uno sgabello da pianoforte

oggi ha dato uno strattone violento e ha spezzato i denti che tenevano ancorato il guinzaglio alla cinta. Sentendosi libera, ha cominciato a correre in mezzo alla strada (in paese, non nel bosco), ma per fortuna conosco il mio cane. Tata è fifona e credo abbia avuto pessime esperienze prima di venire a vivere con noi, quindi ho pensato "devo spaventarla". Contrariamente a quando avrei dovuto fare con qualsiasi altro cane, tanto che se mi avesse visto un qualsiasi educatore cinofilo mi avrebbe preso per scemo, gli sono corso dietro e gli ho urlato un "FERMA!" secco. Lei si è girata, ha abbassato il sedere (non ha la coda, non può metterla tra le zampe), ha abbassato le orecchie e mi ha guardato spaventata - come volevo che facesse - aspettandosi un qualche tipo di punizione, evidentemente. Così ho rallentato, mi sono avvicinato e ho semplicemente raccolto il guinzaglio da terra (con la sinistra), continuando la passeggiata nel modo più tranquillo possibile.
Mi spiace averla spaventata, ma è un sollievo sapere che posso fermarla se serve.
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Tema: Il mio vicino che fa casino
Il mio vicino che fa casino abita di fronte a me, nel condominio dall'altra parte della strada allo stesso piano, l'ultimo.
A guardarlo sembrerebbe affetto da una qualche sindrome cromosomica: sotto una zazzera di capelli e dietro a occhiali con la montatura grossa gli guizzano occhi piccoli chiari molto reattivi, a dispetto di una stolidità facciale che a volte si adombra, a volte s’incanta e talaltre si allarga in un ebete sorriso estatico.
Ha movenze scimmiesche e si sposta nello spazio in maniera bizzarra come per prender la rincorsa con la parte inferiore del corpo mentre quella superiore non sembra ancora preparata, o se qualcuno lo chiama o si è ricordato di botto di una cosa che doveva fare, parte tuffandosi con la parte superiore mentre quella inferiore sta ancora dirigendosi in un'altra direzione.
Lui non parla, urla, perché ha una voce nasale che deve compensare col volume, così da raggiungere il timbro di un elettroutensile da cantiere. Le telefonate le fa tutte col vivavoce a palla in modo tale che l'intera via sappia tutti i suoi cazzi e controcazzi. Lui non chiude le porte, le sbatte. Non tira giù le tapparelle, le schianta. Non lava i piatti, li fracassa nell'acquaio. Quando la domenica fa le pulizie si sentono boati sordi, agghiaccianti stridii di mobili trascinati e l’aspirapolvere fuori giri e vicino all'implosione, come se stesse aspirando dentro un sacchetto di plastica. Il mio vicino ha uno scooter che non si avvia, ed è capace di stare sotto casa dieci minuti col motorino di avviamento che singhiozza in agonia finché miracolosamente il motore parte con una latrato lancinante e una fumata che la Terra dei fuochi lévati. Lui grugnisce soddisfatto e parte a palla di fuoco attraverso il quartiere e lo si sente per un po' in lontananza, come poi lo si sente ritornare, dove si ferma davanti al suo box a basculante che lui ha motorizzato con un accrocchio che trasmette le vibrazioni a tutti i box di lamiera adiacenti al suo, cosicché quando lo apre pare che si apra il ponte di un traghetto. L'apertura impiega un minuto buono e la chiusura anche, minuti in cui lui assiste contemplando soddisfattissimo il movimento del basculante col dito piantato sull'interruttore apri/chiudi. Poi entra nel portoncino d'ingresso del condominio, lo sbatte per bene e sale le scale pestando i piedi per tre piani fino a richiudersi il portone blindato di casa con una detonazione da mina navale. Il mio vicino che fa casino quando m'incontra mi fa un sorrisone salutandomi con la mano come i bambini e con un caloroso Tao! Infatti ha una dizione tutta particolare, T e C si interscambiano volentieri come le B e P e forse altre lettere, cosicché se ne esce con esilaranti frasi tutte da interpretare e dai suoni fanciulleschi e al tempo stesso aramaici.
A dispetto delle sembianze e del suo portamento il mio vicino non solo ha un'attività in proprio che gli dà da vivere, ma ha anche una figlia avuta con una bella donna, penultima di una serie di belle donne che dopo pochi anni o anche solo mesi lo hanno lasciato. Che sia per una questione di decibel, modalità irruente, o magari anche doti amatorie che compensano le sue balzane caratteristiche -le quali nel tempo però mal si conciliano con la vita di coppia- non è dato sapere. Di sicuro è un tipo con molti amici che gli vogliono bene e talvolta lo riportano a casa anche nel cuore della notte e che lui saluta festosamente in mezzo alla strada con altisonanti Tao, ti veghiamo domagni, tao, tao, tao! Tirando giù dal letto i tre condomini adiacenti, tra cui il mio. Ma al mio vicino che fa casino non gli si può voler male, è semplicemente il contrario di chi attraversa la vita sottovoce e in punta di piedi, lui l’attraversa come un uomo-orchestra, solo che con tutti gli strumenti musicali indossati inciampa, ruzzola, sbatte, sfascia, facendo un casino pazzesco che allarma, fa soprassaltare e indigna tutta quella quieta e brava gente che si pasce nella pigra routine delle cose che non accadono, lui gli entra nel sonno svegliandoli almeno per un po’ sautantogli tangissimo con un fottissimo tao! Quando andrò via da questa casa, a differenza di altri, il mio vicino che fa casino un po’ mi mancherà.
Tao!
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