Tumgik
#Che poi i quadri mica sono belli per tutti
apropositodime · 1 year
Text
Tumblr media
- Come mi riconosci?
- sei quella bella come un quadro,con lo smalto nero.
[Lasciarsi un giorno a a Roma]
23 notes · View notes
fiorile-tatler · 7 years
Text
Gianluca Morozzi  per Di Tutto Resta un Poco  Chi sei Marika fragile Eccola qua la soluzione!, pensa Marika. Si catapulta fuori dai venticinque-trenta minuti di sonno che ultimamente le sono abituali, e la sua mente di colpo è lucida, le idee sono chiarissime. Dormire mezz’ora spesso regala soluzioni logiche a un problema complicato e in apparenza insormontabile.Il problema che l’ha tenuta sveglia nel letto con gli occhi sbarrati nel buio, mentre l’orologio segnava le tre di notte e poi le quattro di notte e poi le cinque, adesso è risolto.   La soluzione è: uccidere La Strega. Era così semplice, alla fine.     Marika si alza dal letto con un mezzo sorriso. Ora che sa come riprendersi Lauro, è molto più serena. Davvero. Perché si è tormentata per tutto quel tempo? Perché ha annullato tutti quei concerti, perché si è messa a dipingere quei quadri, perché ha perso il sonno fino quasi a diventare pazza? Bastava uccidere La Strega. Ci voleva tanto poco. Non che i suoi quadri non siano belli, pensa osservandoli dagli angoli bizzarri della casa in cui li ha appoggiati in modo precario. Quello con l’ometto col gufo gigante, il primo della sequenza del sesso orale in contesti quantomeno bizzarri, non è davvero bello? Certo che è bello. Quasi quanto quello in cui Paperino uscendo da una botola viene strangolato da Topolino. O quello dell’impiccagione con tucano meteoritico. O la crocifissione con fionda e orsacchiotti. Sono belli, davvero i suoi quadri. Cioè, le sembravano orribili fino alla sera precedente, quando il problema sembrava non trovare una soluzione, ma ora che la soluzione ce l’ha, tutto le pare luminoso e bello.   Marika fa colazione con un goccio di caffè e mezzo biscotto di farro -per uccidere La Strega le servirà tutta l’energia possibile- e poi va a informare Mimì della decisione appena presa. “Mimì, ho deciso. Uccido La Strega e mi riprendo Lauro. Era facile. Ciao ciao, vado a eliminarla e torno.” Mimì, come sempre, non dà alcuna risposta. Né dà segno di averla ascoltata.
I primi dubbi sorgono quando Marika mette piede in strada. Fuori, sul marciapiede, con la gente, le auto, gli autobus, il rumore, i clacson… Cavolo, sembrava un’idea così bella un attimo prima, al risveglio, in casa sua… era così logico, così ovvio… La Strega si era presa il suo –come chiamarlo?- fidanzato, e per riprendersi il fidanzato lei doveva uccidere La Strega. Matematico. Be’, ma ucciderla in che modo, prima di tutto? Marika s’incammina pensando a questo trascurabile particolare pratico. Mica può aspettarla fuori dalla palestra e strozzarla: Marika ha la muscolatura e la struttura fisica di una mozzarella, mentre La Strega sembra uno degli All Blacks. A parte la sesta misura di reggiseno, i capelli fucsia sparati in ogni direzione e quella bocca che da sola potrebbe risucchiare tutto il petrolio nel Golfo del Messico. Lo scontro fisico, basta guardarle, è inverosimile. Accoltellarla? Marika è uscita di casa senza neppure un’arma. E poi il sangue le fa schifo, la impressiona…. Oh, quanti problemi pratici. Sembrava un’idea così bella, al risveglio! Un chiodo! Ecco. Un chiodo abilmente collocato sotto una gomma del suo SUV. La gomma si buca, il SUV esce di strada, La Strega muore orribilmente tra le fiamme. Marika non si deve sporcare le mani né vedere la scena. Ecco, perfetto. Questo sembra un piano migliore. Con qualche piccola, piccolissima lacuna, d’accordo, ma ci sono venti minuti da fare a piedi per arrivare alla palestra. I dettagli verranno messi a punto strada facendo. Oh, era tutto così perfetto, prima che arrivasse La Strega! Lauro era così dolce, così comprensivo, così tenero… era così bello stare sul divano a darsi i bacini per tutta la notte… Certo, anche lui aveva le sue fissazioni, d’accordo. Per esempio, aveva la mania di fare domande assurde. Tipo, la centesima o duecentesima volta che Marika si era rifiutata di fare l’amore con lui, anzi, di togliersi qualunque capo di abbigliamento collocato sotto la cintola, Lauro l’aveva guardata incredulo e aveva detto “Ma senti, puoi dirmelo. Hai avuto dei traumi da piccola? Hai subito molestie?” Lei lo aveva guardato perplessa, aveva risposto “Molestie? Io? Ma quando mai!” Che strano tipo, Lauro. Del resto, scriveva libri di fantascienza. Marika aveva provato a leggerne uno ma non ci aveva capito niente, con tutte quelle storie di universi paralleli, raggi laser e –com’è che si chiamavano?-, ah, sì, doppelganger. Figurarsi. Doppelganger! Cosa diavolo è un doppelganger? E poi, quando Marika gli aveva confidato alcune delle sue fobie, tipo, il terrore dei pesci, Lauro aveva rilanciato. Aveva detto “Ha qualcosa a che vedere con, cioè…” “Cioè cosa?” “Con, voglio dire…” “Vuoi dire cosa?” “Con, ehm, la paura deee, uh, dell’organo sessuale maschile, o…” “Cosa c’entra un pesce con, be’, quella cosa lì?” “No, sai, a livello simbolico…” “Livello simbolico? Un pesce è un pesce. Rappresenta un pesce.” (Scrittori di fantascienza. Che gente.) “Comunque, se vuoi saperlo” aveva aggiunto lei “è stata colpa di mio cugino.” “Tuo cugino? Nel senso che, non so, uhm, te l’ha fatto vedere o…?” “Cos’è che mi ha fatto vedere?” “Niente. Vai avanti.” “Ascolta. Quando andavo a scuola mia mamma mi metteva sempre nella cartella una banana. Lei non voleva che mangiassi delle schifezze per merenda, e allora mi dava una banana. Be’, ti ho detto che vivevo in un paese di mare, no? Un giorno mio cugino mi aveva fatto uno scherzo, aveva rubato un pesce appena pescato e me l’aveva ficcato nella cartella. Così, quando avevo infilato la mano nella cartella, anziché la banana, avevo toccato quella cosa viscida. E avevo tirato fuori un orrendo pesce, boccheggiante, mezzo morto, che mi guardava con gli occhi sbarrati.” “Tutto qui?” “Tutto qui.” “E da allora hai il terrore dei pesci.” “Sì. E delle banane.” “E c’entra qualcosa col fatto che non vuoi che facciamo l’amore?” Lei si era rabbuiata, lo aveva guardato con aria di rimprovero, a braccia incrociate. “Ma guarda che sei proprio strano, Lauro. Cosa c’entra lo scherzo di mio cugino col fare o non fare l’amore?”       Uomini, aveva pensato. Non capiscono proprio niente. Poverini. Marika gira a destra puntando dritto verso la palestra, ancora ben determinata a portare a termine la sua missione. Va bene, non ha un chiodo con sé, ma questi sono dettagli ancora secondari. L’importante è non incontrare cose brutte lungo il percorso. Cose brutte, bruttissime, tipo AAAAAAAAAAAAAH I PICCIONI! I passanti possono assistere a una scena abbastanza surreale. C’è questa ragazza che cammina rasente al muro, una ragazza che sarebbe anche carina se non pesasse, tipo, nove chili, e non fosse bianca come la calce e non avesse la faccia di una che ha dormito l’ultima volta quando ancora c’erano le lire, che d’improvviso caccia un urlo acutissimo fissando con orrore un innocuo piccione che le vola davanti senza aggredirla o disturbarla, del tutto indifferente alla sua esistenza. Un attimo dopo l’elfo dei boschi insonne è scappato via velocissimo con la testa tra le mani. Marika se ne sta appoggiata a un cartellone pubblicitario a riprendere il respiro, aggirata da tutti come una drogata. Guarda il cielo terrorizzata, come se il piccione dovesse piombare giù in picchiata per cavarle gli occhi. Ha il terrore dei piccioni ancor più di quanto ne abbia dei pesci. Poco a poco, sempre ansimando come un mantice, ricomincia a camminare. Ora, l’importante sarebbe proseguire il percorso senza incontrare qualcuna delle altre cose che le fanno paura. Tipo, un pescivendolo con la merce esposta. O un fruttivendolo con dei caschi di banane in bella vista. Oppure AAAAAAAAAAAAH UN UOMO PELOSO IN CANOTTIERA! L’uomo peloso in canottiera –un impiegato delle poste in ferie, impegnato a innaffiare le piante nel proprio giardino- può a quel punto assistere a un’altra scena surreale: uno scheletrino femmina che passa davanti al suddetto giardino, si blocca paralizzata davanti al suo cancello, guarda verso di lui, si tappa la bocca con una mano, cerca un angolo riparato con occhietti disperati, si butta tra due cassonetti dell’immondizia e, inequivocabilmente, vomita. Gesù, pensa l’impiegato delle poste continuando a innaffiare le piante, Poveri ragazzi, come vengon su strani. Marika si pulisce la bocca con il dorso della mano, si rialza tremante, si allontana un po’ debole dai cassonetti, e continua il suo percorso. Ormai ha perso il senso di quella pericolosissima camminata per la città –in casa, oh, come si sta bene in casa!, o a dipingere, oh, come si sta bene a dipingere!-, non ha più neppure bene in mente come procurarsi un chiodo, o cosa fare esattamente alle gomme della Strega. No, è difficile, troppo difficile uscire in città. Troppa folla. Troppe cose. Troppe orribili, orribili pesci. Troppe banane, troppi uomini pelosi in canottiera, troppi piccioni. Ora manca solo un AAAAAAH UN BARBONE CHE MI GUARDA!   Marika rientra in casa pochi minuti dopo, distrutta, ancor più pallida del solito. “Mimì” singhiozza “non ce l’ho fatta, non ho ammazzato La Strega, non ce l’ho fatta, c’è tanta roba brutta là fuori, ho visto un piccione, e un uomo peloso in canottiera, e un barbone, lo sai che io ho paura dei barboni, Mimì, come faccio ad ammazzare La Strega?, dimmi tu, Mimì…” Mimì non risponde e non fa segno di aver capito. Pochi cactus nani, in effetti, risponderebbero alla loro padrona o darebbero segno di aver capito. Mimì si comporta come tutti i cactus nani battezzati con un nome di donna: ascolta in silenzio, e serena vive la sua vita da cactus.
***
Eccola qua la soluzione!, pensa La Strega. Era così semplice. Come ho fatto a non arrivarci prima? Troppo lavoro, pochi integratori, e poi il mio cervello non funziona a dovere. Anche quello stronzo di Lauro che non risponde, lo sa benissimo che quel cazzo di iPhone deve tenerlo acceso - stronzo, stronzo, stronzo -, che poi se non risponde io ho paura che sia con la violinista anoressica che parla con le piante, cretina, nana, come faceva a pensare di poter stare col mio Lauro?, cosa ci trovava in lei quel cretino?, non gliela dava neanche, almeno, questo è quel che mi racconta lui, sarà vero o non sarà vero?, magari scopavano dalla mattina alla sera e lui a me racconta che non gliela dava neanche pitturata, cazzo, è vero, e io che ci ho creduto, e io che dicevo Oh, io te la do quanto e quando ti pare bello mio, non me ne frega un benenamato cazzo se devi finire il capitolo del tuo romanzetto, ciccio, sono in casa tua e noi adesso facciamo quel che si deve fare, ma ti pare?, hai ‘sto bel pezzo di femmina qui in casa tua e devi perdere tempo a scrivere le tue boiate? -  con rispetto parlando, eh -, quelle storie lì dei marziani che vanno sulla Luna o cose così, no, no, adesso si tromba, bello mio, non son mica come la violinista di ‘sto cazzo che non te la faceva vedere neanche disegnata, io te la faccio vedere e ti ci faccio una foto e te la appendo sul letto così quando sei da solo ti ricordi bene come son fatta, bello mio, e adesso invece mi viene il dubbio, cazzo, se non è vero che la nana non gliela dava?, ah, ma comunque ho avuto la genialata in questo momento, ah, che testa che hai, Sandra, era così facile, Lauro mi ha detto che la deficientina ha il terrore dei barboni, no?, e allora, quell’ubriacone che ho pagato stamattina per aggirarsi intorno a casa della nana e controllare se per caso andava da Lauro mentre io ero qua al lavoro, ecco, lo pago il triplo, gli dico di stare seduto dalla mattina alla sera davanti a casa della mentecatta, quella mette il naso fuori, vede che c’è un barbone, se ne torna subito in casa, sì, sì, certo, così son sicura che la cretina non se ne va dal mio Lauro, ma perché spegne il telefono quel demente?, va bene, mi ha detto Oh, Sandra, io devo lavorare, l’editore vuole il romanzo entro due giorni, io spengo tutto, mi chiudo in casa, devo pensare solo alle mie cazzo di astronavi e ai miei cazzo di marziani, va bene, non ha detto così, il cazzo di astronavi e i cazzo di marziani ce li ho messi io, comunque, cazzo, io son qua che lavoro, faccio un lavoro vero, questo è un centro fitness con i contromaroni e non azzardatevi a chiamarlo palestra e io sono una personal trainer con i contromaroni ma io sono anche una donna innamorata e gelosa, gliel’ho anche detto alla signora Boldrini prima di sbatterla a correre sul tapis roulant per farla star zitta, signora Boldrini, le ho detto, lei mi vede come la sua personal trainer tutto d’un pezzo ma io sono anche una donna gelosa e innamorata, e… Oddio. Ma da quanto tempo è sul tapis roulant, la signora Boldrini?
****
Eccola qua la soluzione, pensa Lauro. Era così semplice. Semplicissima. Arrivano in sogno le soluzioni, arrivano sempre in sogno. Uno si arrovella tanto, si maciulla le meningi su un problema, poi si fa un bel sonno, ed eccolo qua. Tutto risolto. Lauro si stiracchia sotto le lenzuola, soddisfatto. Aaah. Era così facile. Il Conte Cremisi è il clone difettoso del leader della Resistenza di Terra 32! Fatto. Si chiude perfettamente la trama, il romanzo fila, e si capisce perché la combattiva Darkena si è fatta ingannare così facilmente nel capitolo dieci. Ah, che bella la vita dello scrittore di fantascienza! Senza neppure un problema al mondo. “Lauro? Sei sveglio?” sbadiglia Claudine, nuda sotto le lenzuola. “Sì, tesoro, mio unico amore, passerotta mia. Sono talmente felice che ti preparo la colazione, guarda!” Lauro si alza in piedi. Accende lo stereo, diffondendo nell’appartamento una bizzarra versione lounge di Egg cream di Lou Reed. Controlla che l'iPhone bianco sia spento –sia mai che lo cerchino Marika o Sandra o la cameriera del pub-, che quello nero sia acceso –sia mai che lo chiami la sua agente, o l’editore, o un importante giornalista- e va a fare il caffè. Il clone difettoso del Conte Cremisi. Era così facile risolvere il problema. La vita non è meravigliosa?
1 note · View note
patti-campani · 7 years
Text
Marika Fragile di Gianluca Morozzi dedicato a DI TUTTO RESTA UN POCO - Dario Coletti e Luca Coser
Eccola qua la soluzione!, pensa Marika. Si catapulta fuori dai venticinque-trenta minuti di sonno che ultimamente le sono abituali, e la sua mente di colpo è lucida, le idee sono chiarissime. Dormire mezz’ora spesso regala soluzioni logiche a un problema complicato e in apparenza insormontabile.Il problema che l’ha tenuta sveglia nel letto con gli occhi sbarrati nel buio, mentre l’orologio segnava le tre di notte e poi le quattro di notte e poi le cinque, adesso è risolto.   La soluzione è: uccidere La Strega.
Era così semplice, alla fine.     Marika si alza dal letto con un mezzo sorriso. Ora che sa come riprendersi Lauro, è molto più serena. Davvero. Perché si è tormentata per tutto quel tempo? Perché ha annullato tutti quei concerti, perché si è messa a dipingere quei quadri, perché ha perso il sonno fino quasi a diventare pazza? Bastava uccidere La Strega. Ci voleva tanto poco. Non che i suoi quadri non siano belli, pensa osservandoli dagli angoli bizzarri della casa in cui li ha appoggiati in modo precario. Quello con l’ometto col gufo gigante, il primo della sequenza del sesso orale in contesti quantomeno bizzarri, non è davvero bello? Certo che è bello. Quasi quanto quello in cui Paperino uscendo da una botola viene strangolato da Topolino. O quello dell’impiccagione con tucano meteoritico. O la crocifissione con fionda e orsacchiotti. Sono belli, davvero i suoi quadri. Cioè, le sembravano orribili fino alla sera precedente, quando il problema sembrava non trovare una soluzione, ma ora che la soluzione ce l’ha, tutto le pare luminoso e bello.   Marika fa colazione con un goccio di caffè e mezzo biscotto di farro -per uccidere La Strega le servirà tutta l’energia possibile- e poi va a informare Mimì della decisione appena presa. “Mimì, ho deciso. Uccido La Strega e mi riprendo Lauro. Era facile. Ciao ciao, vado a eliminarla e torno.” Mimì, come sempre, non dà alcuna risposta. Né dà segno di averla ascoltata. I primi dubbi sorgono quando Marika mette piede in strada. Fuori, sul marciapiede, con la gente, le auto, gli autobus, il rumore, i clacson... Cavolo, sembrava un’idea così bella un attimo prima, al risveglio, in casa sua... era così logico, così ovvio... La Strega si era presa il suo –come chiamarlo?- fidanzato, e per riprendersi il fidanzato lei doveva uccidere La Strega. Matematico. Be’, ma ucciderla in che modo, prima di tutto? Marika s’incammina pensando a questo trascurabile particolare pratico. Mica può aspettarla fuori dalla palestra e strozzarla: Marika ha la muscolatura e la struttura fisica di una mozzarella, mentre La Strega sembra uno degli All Blacks. A parte la sesta misura di reggiseno, i capelli fucsia sparati in ogni direzione e quella bocca che da sola potrebbe risucchiare tutto il petrolio nel Golfo del Messico. Lo scontro fisico, basta guardarle, è inverosimile. Accoltellarla? Marika è uscita di casa senza neppure un’arma. E poi il sangue le fa schifo, la impressiona.... Oh, quanti problemi pratici. Sembrava un’idea così bella, al risveglio! Un chiodo! Ecco. Un chiodo abilmente collocato sotto una gomma del suo SUV. La gomma si buca, il SUV esce di strada, La Strega muore orribilmente tra le fiamme. Marika non si deve sporcare le mani né vedere la scena. Ecco, perfetto. Questo sembra un piano migliore. Con qualche piccola, piccolissima lacuna, d’accordo, ma ci sono venti minuti da fare a piedi per arrivare alla palestra. I dettagli verranno messi a punto strada facendo. Oh, era tutto così perfetto, prima che arrivasse La Strega! Lauro era così dolce, così comprensivo, così tenero... era così bello stare sul divano a darsi i bacini per tutta la notte... Certo, anche lui aveva le sue fissazioni, d’accordo. Per esempio, aveva la mania di fare domande assurde. Tipo, la centesima o duecentesima volta che Marika si era rifiutata di fare l’amore con lui, anzi, di togliersi qualunque capo di abbigliamento collocato sotto la cintola, Lauro l’aveva guardata incredulo e aveva detto “Ma senti, puoi dirmelo. Hai avuto dei traumi da piccola? Hai subito molestie?” Lei lo aveva guardato perplessa, aveva risposto “Molestie? Io? Ma quando mai!” Che strano tipo, Lauro. Del resto, scriveva libri di fantascienza. Marika aveva provato a leggerne uno ma non ci aveva capito niente, con tutte quelle storie di universi paralleli, raggi laser e –com’è che si chiamavano?-, ah, sì, doppelganger. Figurarsi. Doppelganger! Cosa diavolo è un doppelganger? E poi, quando Marika gli aveva confidato alcune delle sue fobie, tipo, il terrore dei pesci, Lauro aveva rilanciato. Aveva detto “Ha qualcosa a che vedere con, cioè...” “Cioè cosa?” “Con, voglio dire...” “Vuoi dire cosa?” “Con, ehm, la paura deee, uh, dell’organo sessuale maschile, o...” “Cosa c’entra un pesce con, be’, quella cosa lì?” “No, sai, a livello simbolico...” “Livello simbolico? Un pesce è un pesce. Rappresenta un pesce.” (Scrittori di fantascienza. Che gente.) “Comunque, se vuoi saperlo” aveva aggiunto lei “è stata colpa di mio cugino.” “Tuo cugino? Nel senso che, non so, uhm, te l’ha fatto vedere o...?” “Cos’è che mi ha fatto vedere?” “Niente. Vai avanti.” “Ascolta. Quando andavo a scuola mia mamma mi metteva sempre nella cartella una banana. Lei non voleva che mangiassi delle schifezze per merenda, e allora mi dava una banana. Be’, ti ho detto che vivevo in un paese di mare, no? Un giorno mio cugino mi aveva fatto uno scherzo, aveva rubato un pesce appena pescato e me l’aveva ficcato nella cartella. Così, quando avevo infilato la mano nella cartella, anziché la banana, avevo toccato quella cosa viscida. E avevo tirato fuori un orrendo pesce, boccheggiante, mezzo morto, che mi guardava con gli occhi sbarrati.” “Tutto qui?” “Tutto qui.” “E da allora hai il terrore dei pesci.” “Sì. E delle banane.” “E c’entra qualcosa col fatto che non vuoi che facciamo l’amore?” Lei si era rabbuiata, lo aveva guardato con aria di rimprovero, a braccia incrociate. “Ma guarda che sei proprio strano, Lauro. Cosa c’entra lo scherzo di mio cugino col fare o non fare l’amore?”       Uomini, aveva pensato. Non capiscono proprio niente. Poverini. Marika gira a destra puntando dritto verso la palestra, ancora ben determinata a portare a termine la sua missione. Va bene, non ha un chiodo con sé, ma questi sono dettagli ancora secondari. L’importante è non incontrare cose brutte lungo il percorso. Cose brutte, bruttissime, tipo AAAAAAAAAAAAAH I PICCIONI! I passanti possono assistere a una scena abbastanza surreale. C’è questa ragazza che cammina rasente al muro, una ragazza che sarebbe anche carina se non pesasse, tipo, nove chili, e non fosse bianca come la calce e non avesse la faccia di una che ha dormito l’ultima volta quando ancora c’erano le lire, che d’improvviso caccia un urlo acutissimo fissando con orrore un innocuo piccione che le vola davanti senza aggredirla o disturbarla, del tutto indifferente alla sua esistenza. Un attimo dopo l’elfo dei boschi insonne è scappato via velocissimo con la testa tra le mani. Marika se ne sta appoggiata a un cartellone pubblicitario a riprendere il respiro, aggirata da tutti come una drogata. Guarda il cielo terrorizzata, come se il piccione dovesse piombare giù in picchiata per cavarle gli occhi. Ha il terrore dei piccioni ancor più di quanto ne abbia dei pesci. Poco a poco, sempre ansimando come un mantice, ricomincia a camminare. Ora, l’importante sarebbe proseguire il percorso senza incontrare qualcuna delle altre cose che le fanno paura. Tipo, un pescivendolo con la merce esposta. O un fruttivendolo con dei caschi di banane in bella vista. Oppure AAAAAAAAAAAAH UN UOMO PELOSO IN CANOTTIERA! L’uomo peloso in canottiera –un impiegato delle poste in ferie, impegnato a innaffiare le piante nel proprio giardino- può a quel punto assistere a un’altra scena surreale: uno scheletrino femmina che passa davanti al suddetto giardino, si blocca paralizzata davanti al suo cancello, guarda verso di lui, si tappa la bocca con una mano, cerca un angolo riparato con occhietti disperati, si butta tra due cassonetti dell’immondizia e, inequivocabilmente, vomita. Gesù, pensa l’impiegato delle poste continuando a innaffiare le piante, Poveri ragazzi, come vengon su strani. Marika si pulisce la bocca con il dorso della mano, si rialza tremante, si allontana un po’ debole dai cassonetti, e continua il suo percorso. Ormai ha perso il senso di quella pericolosissima camminata per la città –in casa, oh, come si sta bene in casa!, o a dipingere, oh, come si sta bene a dipingere!-, non ha più neppure bene in mente come procurarsi un chiodo, o cosa fare esattamente alle gomme della Strega. No, è difficile, troppo difficile uscire in città. Troppa folla. Troppe cose. Troppe orribili, orribili pesci. Troppe banane, troppi uomini pelosi in canottiera, troppi piccioni. Ora manca solo un AAAAAAH UN BARBONE CHE MI GUARDA!   Marika rientra in casa pochi minuti dopo, distrutta, ancor più pallida del solito. “Mimì” singhiozza “non ce l’ho fatta, non ho ammazzato La Strega, non ce l’ho fatta, c’è tanta roba brutta là fuori, ho visto un piccione, e un uomo peloso in canottiera, e un barbone, lo sai che io ho paura dei barboni, Mimì, come faccio ad ammazzare La Strega?, dimmi tu, Mimì...” Mimì non risponde e non fa segno di aver capito. Pochi cactus nani, in effetti, risponderebbero alla loro padrona o darebbero segno di aver capito. Mimì si comporta come tutti i cactus nani battezzati con un nome di donna: ascolta in silenzio, e serena vive la sua vita da cactus.
***
Eccola qua la soluzione!, pensa La Strega. Era così semplice. Come ho fatto a non arrivarci prima? Troppo lavoro, pochi integratori, e poi il mio cervello non funziona a dovere. Anche quello stronzo di Lauro che non risponde, lo sa benissimo che quel cazzo di iPhone deve tenerlo acceso - stronzo, stronzo, stronzo -, che poi se non risponde io ho paura che sia con la violinista anoressica che parla con le piante, cretina, nana, come faceva a pensare di poter stare col mio Lauro?, cosa ci trovava in lei quel cretino?, non gliela dava neanche, almeno, questo è quel che mi racconta lui, sarà vero o non sarà vero?, magari scopavano dalla mattina alla sera e lui a me racconta che non gliela dava neanche pitturata, cazzo, è vero, e io che ci ho creduto, e io che dicevo Oh, io te la do quanto e quando ti pare bello mio, non me ne frega un benenamato cazzo se devi finire il capitolo del tuo romanzetto, ciccio, sono in casa tua e noi adesso facciamo quel che si deve fare, ma ti pare?, hai ‘sto bel pezzo di femmina qui in casa tua e devi perdere tempo a scrivere le tue boiate? -  con rispetto parlando, eh -, quelle storie lì dei marziani che vanno sulla Luna o cose così, no, no, adesso si tromba, bello mio, non son mica come la violinista di ‘sto cazzo che non te la faceva vedere neanche disegnata, io te la faccio vedere e ti ci faccio una foto e te la appendo sul letto così quando sei da solo ti ricordi bene come son fatta, bello mio, e adesso invece mi viene il dubbio, cazzo, se non è vero che la nana non gliela dava?, ah, ma comunque ho avuto la genialata in questo momento, ah, che testa che hai, Sandra, era così facile, Lauro mi ha detto che la deficientina ha il terrore dei barboni, no?, e allora, quell’ubriacone che ho pagato stamattina per aggirarsi intorno a casa della nana e controllare se per caso andava da Lauro mentre io ero qua al lavoro, ecco, lo pago il triplo, gli dico di stare seduto dalla mattina alla sera davanti a casa della mentecatta, quella mette il naso fuori, vede che c’è un barbone, se ne torna subito in casa, sì, sì, certo, così son sicura che la cretina non se ne va dal mio Lauro, ma perché spegne il telefono quel demente?, va bene, mi ha detto Oh, Sandra, io devo lavorare, l’editore vuole il romanzo entro due giorni, io spengo tutto, mi chiudo in casa, devo pensare solo alle mie cazzo di astronavi e ai miei cazzo di marziani, va bene, non ha detto così, il cazzo di astronavi e i cazzo di marziani ce li ho messi io, comunque, cazzo, io son qua che lavoro, faccio un lavoro vero, questo è un centro fitness con i contromaroni e non azzardatevi a chiamarlo palestra e io sono una personal trainer con i contromaroni ma io sono anche una donna innamorata e gelosa, gliel’ho anche detto alla signora Boldrini prima di sbatterla a correre sul tapis roulant per farla star zitta, signora Boldrini, le ho detto, lei mi vede come la sua personal trainer tutto d’un pezzo ma io sono anche una donna gelosa e innamorata, e... Oddio. Ma da quanto tempo è sul tapis roulant, la signora Boldrini?
****
  Eccola qua la soluzione, pensa Lauro. Era così semplice. Semplicissima. Arrivano in sogno le soluzioni, arrivano sempre in sogno. Uno si arrovella tanto, si maciulla le meningi su un problema, poi si fa un bel sonno, ed eccolo qua. Tutto risolto. Lauro si stiracchia sotto le lenzuola, soddisfatto. Aaah. Era così facile. Il Conte Cremisi è il clone difettoso del leader della Resistenza di Terra 32! Fatto. Si chiude perfettamente la trama, il romanzo fila, e si capisce perché la combattiva Darkena si è fatta ingannare così facilmente nel capitolo dieci. Ah, che bella la vita dello scrittore di fantascienza! Senza neppure un problema al mondo. “Lauro? Sei sveglio?” sbadiglia Claudine, nuda sotto le lenzuola. “Sì, tesoro, mio unico amore, passerotta mia. Sono talmente felice che ti preparo la colazione, guarda!” Lauro si alza in piedi. Accende lo stereo, diffondendo nell’appartamento una bizzarra versione lounge di Egg cream di Lou Reed. Controlla che l'iPhone bianco sia spento –sia mai che lo cerchino Marika o Sandra o la cameriera del pub-, che quello nero sia acceso –sia mai che lo chiami la sua agente, o l’editore, o un importante giornalista- e va a fare il caffè. Il clone difettoso del Conte Cremisi. Era così facile risolvere il problema. La vita non è meravigliosa?
1 note · View note
pesce-fuordacqua · 7 years
Text
Open window
Mi trovo in Aula Magna. Di nuovo. Curioso come ai tempi del Liceo fosse la mia aula preferita, sinonimo di insegnanti assenti, assemblee straordinarie o qualsiasi altro evento che impedisse il consueto svolgimento delle lezioni e rompesse la monotonia di quelle giornate scolastiche tutte ugualmente e intollerabilmente grigie. Ora, invece, la sua sola vista mi fa venire la nausea. Le sedie blu, quelle comode con lo schienale morbido e il banchetto pieghevole attaccato, sono disordinatamente addossate le une alle altre nel disastroso tentativo di creare quanti più posti a sedere possibile, ostruendo il passaggio – ‘Proprio come una volta’, mi vien da pensare; l’intonaco delle pareti, quello giallo vomito che si stacca al solo sfiorarlo con le dita, sembra non sia stato ritinteggiato dai tempi della IV ginnasio. E quelle tende rosse, pesanti e polverose – forse mai lavate – continuano ad adornare le finestre vicino al palco, in un vano tentativo di dare un tocco di classe ed eleganza all’ambiente circostante. Poco importa che ci sia la muffa alle pareti e gli studenti inciampino sugli angoli sporgenti delle mattonelle anteguerra, quasi tutte staccate dal pavimento e non ancora sostituite. Noto, proprio in quel momento, un ragazzo: uno di quelli che fanno perdere la testa a studentesse grandi e piccine. Insomma, uno in stile F. Procede sicuro tra la fila di sedie, come se l’intera scuola gli appartenesse, per poi inciampare in maniera molto poco mascolina in una mattonella particolarmente sporgente e sorreggersi alle spalle di una ragazza per evitare di cadere come un sacco di patate, tirandole i capelli nel processo. Cerco di nascondere la mia risata che, traditrice, sguscia fuori come un grugnito e mi fa guadagnare lo sguardo interrogatorio di chi è seduto al mio fianco, nonché quello imbarazzato del belloccio in questione. Sollevo le spalle e gli faccio un cenno con le mani, divertita, come a dire ‘È capitato a tutti prima di te.’ E quello, conscio che nessun’altro si sia accorto della sua piccola défaillance, mi guarda altezzoso prima di tornare al proprio posto, più impettito di prima. Tipico. ‘Imbranato e pieno di sé come il suo collega più vecchio’. Penso, questa volta sghignazzando deliberatamente, ché il ricordo di tutti gli scivoloni del mio vecchio compagno di classe è troppo esilarante per impedire una sana risata. Che muore sulle labbra, inevitabilmente, non appena prendo nuovamente coscienza del posto in cui mi trovo. Della muffa alle pareti, della porta vetusta che scricchiola pericolosamente quando viene aperta e rischia di crollare addosso a qualche malcapitato da un momento all’altro, e della voce nasale della Vicepreside che annuncia il motivo della nostra presenza. ‘Orripilante’. Penso, col suo stesso tono di voce e arricciando il naso in segno di disgusto proprio come lei suole fare. E mi chiedo perché io sia qui, seduta sul palco s’uno dei posti d’onore come gli ospiti importanti che la scuola soleva invitare per le conferenze. Ricordo ancora quelle di Beppe Severgnini e del Dottor Braina, che all’epoca avevo ascoltato attentamente e mi avevano ispirato tanto, ma che adesso hanno meno valore del calzino bucato e scolorito che ho dovuto buttare l’altro giorno, nonostante fosse trai miei preferiti. Osservo i miei compagni di classe, uno per uno. Belli, tutti, negli abiti calzanti a pennello adatti all’occasione; sorridenti e raggianti mentre scherzano tra loro e si abbracciano dopo anni di separazione e distanza. Non sono cambiati di una virgola, almeno ai miei occhi, ma hanno addosso lo sguardo trionfante di chi ha vissuto senza remore la propria giovinezza, realizzandone quasi tutti i desideri. Penso, di nuovo e quasi con fierezza, ‘Siete belli. Tutti.’
Ora che i rancori sono stati appianati e le asce da guerra seppellite, si comportano come una famiglia; come quella classe unita a cui, chi con più voglia di altri, si è sempre cercati di arrivare. Perciò non posso fare a meno di chiedermi, nuovamente, cosa ci faccio io qui, che non mi son mai saputa adeguare e mi son – più o meno volontariamente – preclusa l’occasione di farne parte. Anche i miei vestiti lo confermano: Alice è inadeguata. Sempre. Con i jeans sgualciti e strappati e una camicia rossa a quadri legata in vita, le vecchie Converse ai piedi e i capelli arruffati, sembro più l’immagine di un’adolescente in piena crisi esistenziale piuttosto che una giovane adulta indipendente che ha avviato con successo la propria carriera universitaria ed è pronta ad affrontare il mondo del lavoro una volta aver terminato. ‘Beh’, rifletto, ‘suppongo avessero bisogno anche dell’intervento di una poraccia per rendere la cosa più credibile. Magari in questo modo troveranno veramente la motivazione giusta per impegnarsi all’Università.’ E mi metto a ridacchiare di nuovo, di soppiatto, come se fosse la cosa più comica del mondo nonostante non ci sia niente da ridere e non ci fosse neanche l’ombra di una battuta – in certi momenti reagisco così, giusto per impedire a qualche lacrimuccia di scappare e tradire il mio vero stato d’animo.
Tocca a me parlare, dopo vari interventi, e io quel microfono non voglio proprio prenderlo tra le mani. Non ho niente da dire, davvero, così lo fisso con sguardo truce sperando che possa volatilizzarsi o che, quantomeno, la mano che lo porge lo allontani dalla mia vista. Con la coda dell’occhio vedo le professoresse di italiano e inglese che mi squadrano speranzose, attribuendo il mio comportamento alla consueta timidezza. Così, d’improvviso, col solo ausilio di quella visione, una vecchia fiamma polemica si riaccende e, prima ancora che possa pentirmi del gesto, afferro il microfono. ‘Ok’, inizio, ‘siete voi ad averlo chiesto, perciò non mi prendo nessuna responsabilità per eventuali delusioni e/o indignazione.’ Ridacchiano quasi imbarazzati, pensando che sia una battuta, ed è quasi sadico il piacere che provo davanti alla consapevolezza di deludere le aspettative dei professori che speravano fossi un fiore tardivo, o davanti alla soddisfazione di chi ha voluto vedermi fallire. Soprattutto ora che ai vecchi antagonisti pare che se ne siano aggiunti di nuovi. ‘Al contrario di questi bei signori qui, la mia esperienza universitaria è stata tutt’altro che piacevole.’ Che inizio magistrale. Immagino che alcuni di loro non se lo sarebbero mai aspettato. – Sono ironica, ovviamente. In fondo le notizie corrono in fretta. ‘Ho provato a studiare Giurisprudenza e, nonostante avessi capito fin da subito di non esservi portata, ho cercato di andare caparbiamente avanti, senza rinunciare.  Qualora ve lo steste chiedendo, questa non è una favola e la premessa non è un invito a non arrendervi mai. Anzi, tutt’altro. Vi spiego. Giurisprudenza sarà pure la scelta più banale del mondo, ma non è un corso di studi per studenti senza palle – se i professori mi concedono il francesismo. Bisogna essere dotati di una buona dose di carisma e perseveranza, nonché di capacità oratorie non indifferenti. Tutte cose che, ovviamente, io non posseggo, soprattutto per quanto riguarda l’ultima caratteristica. E se vi state chiedendo, da geni qual siete, per quale assurdo motivo stia snocciolando questa vasta gamma di parole visto quanto detto prima, non è altro perché questa è una lettera frutto della mia immaginazione e io sono un leoncino da tastiera.’
‘Sapete, a perseguire un sogno impossibile si perde la testa. Motivo per cui alla fine ho dovuto rivolgermi ad uno psicologo. – No, non guardatemi con quegli sguardi orripilanti. La nostra cara collega qui presente studia psicologia e mi è sembrato di notare che steste tutti applaudendo entusiasticamente durante e dopo il suo intervento. Non fate gli ipocriti, dai. Dicevo, ho dovuto rivolgermi ad uno psicologo. E sapete perché? Perché nel vago ed inutile tentativo di assomigliare alle fantastiche persone alle mie spalle – si, applaudite, se lo meritano – ho perso di vista me stessa e ancora non mi son saputa ritrovare. Vedete, futuri diplomati, la vita non è una favola – come vi ho già detto. C’è chi vince e c’è chi perde; chi riesce ad arrivare in cima e chi deve accontentarsi della base perché non riuscirebbe mai ad affrontare la scalata; c’è chi è destinato a spiccare tra la folla e chi, invece, si confonde con essa nonostante aspiri ad essere un luminosissimo faro. Capite dove voglio arrivare? Ci sono i vincenti e ci sono i perdenti, per farla breve, e io sapevo chi essere già dai tempi del Liceo. Lo sapevo quando dovevo sollevare la voce al punto di urlare per farmi ascoltare dal resto della classe; quando ero costretta a fare autoironia sui miei difetti nella convinzione che, se ne avessi parlato e scherzato io per prima, non lo avrebbero fatto gli altri; quando balbettavo durante le interrogazioni nonostante sapessi gli argomenti a menadito; quando, durante le conversazioni in lingua riguardanti gli aggettivi qualificativi, se ne sarebbero potuti trovare miriadi di positivi per i mie compagni di classe ma neanche uno per me; quando alla Festa dei Cento Giorni – per quanto banale possa sembrare – sono stata l’unica persona a non ricevere un complimento, perché non importa quanto bello possa essere il tuo vestito, o i capelli, o – nel caso delle ragazze – il trucco: si è sempre invisibili. Quando sai di essere l’ultima scelta, allora sai anche che non potrai mai trionfare. E potreste non essere d’accordo con me; potreste dissentire quanto volete e affermare che le mie siano solo parole di una persona frustrata – qual sono, mica lo nego -, ma chi è destinato ad avere successo si nota fin da subito. È una questione di atteggiamento e lo sapete benissimo anche voi. Bella presenza, carisma e sicurezza di sé sono le caratteristiche che ti fanno andare avanti, e se si ha la sfortuna di non averle innate allora bisogna imparare ad affilarsi gli artigli, ché in un mondo come questo non c’è spazio per la gentilezza e la sensibilità d’animo. Quelle vengono dopo, ma non sono necessarie.
Sapete cosa succede alle persone sensibili che falliscono e non riescono a raggiungere i propri obbiettivi? Succede che per loro il Mondo diventa un pesante fardello da portare sulle spalle; un po’ come Atlante, costretto a sorreggere la volta del Cielo in eterno, ma privi della sua forza, ché noi non siamo Dei o semidei ma semplici esseri umani; e, in quanto tali, sapete benissimo cosa succede quando un essere umano inizia a percepire il mondo come un posto ostile, brutto e cattivo. Vedete quella finestra aperta? Ci si butta, e non di certo per volare.  Perciò, ragazzi, imparate chi siete.
E ora fate un applauso ai miei compagni di classe alle mie spalle, che ce l’hanno fatta.’ Mi rivolgo a loro, ora. Con un pizzico di invidia, ma tanta sincerità: ‘Non avevo dubbi che sareste saliti sul podio.’
Non so come sia stato accolto il mio discorso; se sia stato percepito come un tentativo di attirare l’attenzione o se ciò che volevo comunicare sia veramente arrivato agli ascoltatori. Non sono mai stata brava con le parole, perciò ho spesso paura di sbagliare e dell’impatto che esse possano avere. Non questa volta, però, considerato che ho preferito astrarmi dal reale ed evitare di avere a che fare sia con le reazioni scatenate dal mio discorso, sia con le parole di quelli successivi. Ho continuato a guardare dalla finestra aperta, mentre una brezza piacevole mi solleticava il viso, continuando a pensare che sono solamente un semplice essere umano che vede il mondo come un posto brutto e cattivo e che da quella finestra ci si vorrebbe buttare, ma vorrei farlo per volare.
9 notes · View notes
pangeanews · 6 years
Text
Le grandi fiere del libro e i guru della letteratura nostrana se ne fregano degli editori veri. Per fortuna c’è Elba Book: l’ultima isola per gli indipendenti, l’ultima spiaggia per i lettori
Di solito nell’isola deserta ci si porta un libro, basta quello, per vivere felici. Qui, invece, c’è un’isola al servizio della letteratura, un rifugio, forse, l’ultima riserva dell’editoria indipendente, l’enclave del bello e dell’insolito. Voglio dire. La letteratura, per sua natura, è una festa ma non è ‘festivaliera’. Il salone del libro torinese – tornato a essere un supermarket dell’ovvio – o il tempo libero passato tra i libri a Milano, sono utili a far sentire lo scrittore uno scrittore, sono l’alcova del suo ego, siamo d’accordo, la nostra illimitata pazienza è prona alla compassione. Ma, sostanzialmente, i saloni torinesi e i salotti milanesi sono l’emblema della tracotanza dei grandi gruppi editoriali – con stand transatlantici, perché vince chi paga di più mica chi è più intelligente e intrigante, ovvio – a discapito del lettore, che strapazzato dalla folla annaffia la bile di noia – alzi la mano chi trova un libro nei vari salumifici dell’editoria… quando poi ti intrufoli, per ristoro bibliografico, negli stand del Libraccio scopri che i libri usati lì, specie di tartufi, costano il triplo di quelli nuovi di pacca, già inutili anche se intonsi. Non cambia molto se frequentate la sagra romana, quella per cui stampare più libri renderebbe tutti più liberi (magari: l’eccesso librario, al contrario, sta producendo una regressione estetica, alfabetica, grottesca, non conta il più, generico attributo matematico, ma il cosa, il senso di cosa stai stampando), che ha fatto della piccola e media editoria una griffe, enogastronomica anch’essa (per cui, redditizia). In tutti i casi (Roma, Milano, Torino) la folla, il chiasso, il festival non permettono, biologicamente, al lettore la lettura (che chiede compostezza, attenzione, lucidità nella scelta) e al vagabondo il godimento. Cionondimeno, la massa fa gola al mercante, per questo i salumifici del libro e i salumai-editori preferiscono mettervi le fette di salame sugli occhi, non guardare ciò che stampo compra e basta, ti basti. Per questo, l’Elba Book Festival, che si fa a Rio nell’Elba, cioè in un borgo ricco di storia conficcato in un’isola fulgida di bellezza, è una specie di toccasana e di rifugio dalle banalità editoriali, l’epopea dall’editoria intesa come sogno e non come denaro (per altro, con 650 euro l’editore – cioè, due persone – ha lo stand e pernotta nell’isola per una settimana, a Torino costa mille euro soltanto lo stand di 8 metri quadrati e non puoi neppure dormirci dentro, idem a Roma dove i ‘piccoli&medi’ pagano di più, follia romana, da 1.080 euro per uno stand da 6 metri quadri a 4.560 euro per chi se lo può permettere da 24 metri quadri, e neanche lì puoi campeggiare con gli amici in coro). Al festival isolano “dell’editoria indipendente” – che, si spera, fa libri grandi e autarchici, e poi, sperabilmente, soldi – partecipano editori come Exòrma e L’Orma, Quodlibet e Noctua e Neo e A2mani. Mollare tutto e andare sull’isola, in questo caso, è un gesto editorialmente nobile. Il festival (il programma lo trovate squadernato qui) comincia martedì 17 luglio, e tra le tante cose (compreso, uno spettacolo di Giuseppe Cederna e un incontro con Sigfrido Ranucci e Giovanni Tizian), c’è proprio una ‘tavola rotonda’ che mette a confronto Piccoli e grandi festival del libro. Mancano, al confronto, però, i grandi festival, i rappresentanti delle macellerie del libro di Torino e di Milano. “Abbiamo invitato alla tavola rotonda del 19 luglio anche i direttori artistici del Salone del libro di Torino e di Tempo di libri, ma purtroppo per impegni già presi in precedenza, non potranno partecipare al nostro tavolo di discussione”, mi dice Marco Belli, ideatore e factotum del festival. Ovviamente, mi vien da dire. Ovvio, a questo punto, che Ebla Book Festival sia un atto ‘politico’. In direzione contraria all’ideologia editoriale dominante.
Intanto. Come nasce l’idea del festival sull’isola per l’editoria indipendente? Cosa vi anima, cosa vi stimola a farlo?
Nel 2014 nasce l’idea di un festival dell’editoria indipendente a Rio nell’Elba. A un paio di chilometri dal bellissimo borgo della zona nord-est dell’isola, il fotografo Hans Georg Berger aveva trovato nel 1977 l’eremo di fondazione medievale dedicato a Santa Caterina infestato dalle erbacce. Dopo la ristrutturazione Berger fondò, come ebbe modo di scrivere Michel Foucault, un falansterio, un presidio della cultura in una delle più belle isole italiane. Elba Book, festival del libro indipendente, si colloca nei pressi dell’eremo dove soggiornarono, alcuni tra i più importanti intellettuali e artisti della cultura mondiale della seconda metà del ’900 in una sorta di “ostaggio creativo” (Nan Goldin, Norberto Bobbio, Roberto Gabetti, Amaro Isola, Riccardo Francovich, Hervè Guibert, Michel Foucault e tanti altri). Elba Book Festival sta proseguendo la medesima ricerca tentando di dare voce alla scena editoriale indipendente italiana che rappresenta un importante volano economico per il piccolo comune di Rio, che fin dagli anni Ottanta, dopo la chiusura delle sue storiche miniere di ferro, ha deciso di investire con coraggio su un turismo lento, sostenibile e culturale. L’obiettivo è di mettere assieme piccoli e medi editori al fine di condividere le varie esperienze sul mercato cartaceo e digitale per mettere a punto nuove strategie di joint venture, cooperazione, nuovi metodi di distribuzione, nuove proposte politiche per la tutela degli editori indipendenti. La manifestazione vuole mettere al centro della propria politica culturale la promozione della lettura attraverso l’implementazione di una rete tra “tutti i soggetti attivi nel mondo del libro” (biblioteche, librerie, editori, associazioni culturali, associazioni professionali, associazioni di volontariato).
…cioè, continuo con la domanda precedente, cosa manca all’editoria italiana, in fondo? Cioè (e spalanco subito la questione): che idea hai dell’editoria italiana, oggi, maciullata (o benedetta) dai grandi gruppi editoriali? E della letteratura? Cosa ti piace leggere?
 Trovo che nel giardino coltivato dall’editoria indipendente stiano sbocciando tra i più belli e interessanti libri del panorama italiano (le edizioni sono spesso più curate e originali di quelle dei grandi gruppi editoriali). L’editoria indipendente italiana di qualità dovrebbe trovare una politica comune riguardo, per esempio, strategie alternative di distribuzione. Leggo un po’ di tutto, da Novella 2000 a Hegel. Sono uno scrittore di libri gialli, quindi leggo spesso letteratura di questo genere.
 Ho visto che dedicate uno spazio a Gianmaria Testa, cantautore ‘altro’, autarchico, indipendente. Mi chiedo. Come costruite il programma del festival?
Ogni anno lo costruiamo attorno a un concetto cardine. Per l’edizione 2018 abbiamo scelto come immagine del festival la radice, che fa parte di quella costellazione di simboli su cui si fonda la nostra manifestazione; ripartire dal proprio territorio, dagli elementi archetipici che lo contraddistinguono, che lo rendono diverso da tutti gli altri luoghi per ritrovare quell’energia autentica che apre nuove prospettive di crescita culturale. Gli incontri ruoteranno attorno al concetto di rigenerazione. Rigenerazione dell’uomo, dei materiali, dei luoghi, ma soprattutto rigenerazione civile (tema caro al compianto Gianmaria Testa).
 Senti ma… fuori dai denti: ti piace il Salone del Libro torinese? E quello milanese? Da quello che vedo, i guru dei ‘salotti’ letterari italiani non ci sono nel vostro programma…
Abbiamo invitato alla tavola rotonda “Piccoli e grandi festival del libro” del 19 luglio anche i direttori artistici del Salone del libro di Torino e di Tempo di libri, ma purtroppo per impegni già presi in precedenza, non potranno partecipare al nostro tavolo di discussione.  Credo che quest’anno la piccola editoria indipendente sia stata molto penalizzata a Torino dopo il ritorno dei grandi gruppi editoriali. L’Associazione Elba Book Festival ha intrapreso in questi ultimi quattro anni una ricerca politica che ha l’obiettivo di rilanciare un territorio alla periferia dell’Impero ricco di tradizione e insieme valorizzare un’editoria che forse ha sempre più bisogno di piccole manifestazioni (non grandi kermesse) fortemente radicate nei luoghi, nei comuni, per ritrovare una dimensione del libro meno mercificata e più umana.
Che cosa significa, precisamente, ‘editoria indipendente’? Intendo, le grandi case editrici da chi dipendono, da cosa? Nessuno, in fondo, piglia soldi pubblici per stampare libri.
Vorrei risponderti citando la “Dichiarazione internazionale degli editori indipendenti, per la tutela e la promozione della bibliodiversità” firmata a Parigi nel  2007. “Un editore indipendente concepisce la sua politica editoriale in assoluta libertà, in modo autonomo e sovrano: non esprime l’ideologia di un partito, di un’istituzione, di un gruppo mediatico o di un’azienda. Anche la costituzione del capitale dell’editore e l’identità degli azionisti sono una prova d’indipendenza. La finanziarizzazione del settore editoriale — acquisto di case editrici da parte di imprenditori senza alcun legame con l’editoria e realizzazione di una politica di elevata redditività — comporta una perdita d’indipendenza e, molto spesso, un cambiamento della linea editoriale. L’editore indipendente, grazie alla sua libertà di espressione, è protagonista della bibliodiversità. Ma, al di là degli elementi di definizione, che pure costituiscono il fondamento dell’autonomia, è possibile valutare in maniera più precisa il livello d’indipendenza di una casa editrice attraverso i criteri quantitativi, ma anche qualitativi, che rispondono a queste domande: chi possiede le strutture? qual è il peso della ricerca del profitto nella politica editoriale? come e con quanta coerenza si realizza il catalogo? in che modo l’editore entra in relazione con il lettore?”. Questa è un po’ la sintesi della filosofia di Elba Book Festival e degli editori che vi partecipano.
Il sogno realizzato. La cosa più bella che hai fatto all’Elba Book? Il sogno irrealizzabile (forse). Chi vorresti portare al festival?
Essere riusciti in questi anni a mettere insieme imprenditoria illuminata, realtà culturali elbane e non, scuola e le energie nascoste del territorio riese; infatti Elba Book è festival del territorio (non un format) che ha creato in questi anni gemellaggi importanti (una radice che mette in comunicazione luoghi diversi): la Fiera del Libro di Iglesias, il Premio letterario “Città di Siena”, la Città di Isaura-Associazione per la gioia della lettura e l’Associazione L’Elba del Vicino con sede a Rio Marina, una nuova e importante collaborazione che vuole celebrare la ritrovata unione amministrativa tra i due comuni del versante nord-est dell’isola. Insomma una rete tra festival, premi o qualunque falansterio della cultura indipendente che tenta di rigenerare tra la gente la voglia di leggere a scuola, a casa propria o per strada. Proprio non saprei, forse mi piacerebbe portare al festival sempre più giovani elbani; perché quando saremo troppo vecchi per organizzarlo avremo bisogno di una vivace retroguardia che prenderà il nostro posto.
  L'articolo Le grandi fiere del libro e i guru della letteratura nostrana se ne fregano degli editori veri. Per fortuna c’è Elba Book: l’ultima isola per gli indipendenti, l’ultima spiaggia per i lettori proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2JbyYAj
0 notes