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N.E. 02/2024 - "La religiosità spirituale nelle opere delle poete lucane: da Isabella Morra ad Anna Santoliquido", saggio di Francesca Amendola
L’opera di un poeta è fusione totale tra parole e immagine, che origina quello che Bachelard chiama retentissement, ossia la capacità della poesia di creare una sorta di “vicinanza” tra poeta e lettore, che mette in moto l’attività di comprensione e interpretazione. Petrarca scriveva che «la poesia, in quanto vera poesia, è sempre sacra scrittura» poiché nasce da una commistione tra ispirazione…
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Reggia di Caserta 🇮🇹 Una prospettiva del Bagno di Venere, l'ambiente più suggestivo e ricco di scorci pittoreschi che fa parte dei Giardini Inglesi della Reggia di Caserta. È denominato in questo modo per la presenza di una statua in marmo di Carrara (seconda foto), scolpita nel 1762, che ritrae la dea Venere nell'atto di uscire dall'acqua del piccolo lago, contornato da un bosco di allori, lecci ed esemplari monumentali si Taxus baccata. Un oasi di pace dove la Regina Maria Amalia di Sassonia e le cortigiane amavano passare io loro tempo in relax e in connessione con la natura. Caldamente consigliato perché si respira un'aria di tranquillità e serenità assoluta! . . 🇬🇧 Here a perspective of the Bagno di Venere, the most evocative environment rich in picturesque views that is part of the English Gardens of the Royal Palace of Caserta. It is named in this way due to the presence of a statue in Carrara marble (second photo), sculpted in 1762, which portrays the goddess Venere in the act of coming out of the water of the small lake, surrounded by a forest of laurels, holm oaks and specimens monumental is Taxus baccata. An oasis of peace where Queen Maria Amalia of Saxony and the courtesans loved to spend their time in relaxation and in connection with nature. Highly recommended because there is an air of absolute tranquility and serenity! . . #reggiadicaserta #caserta #giardiniinglesi #giardinibotanici #bagnodivenere #natura #campania #regina #reggia #visitcaserta #garden #naturreservat #nature_photo #naturelover #naturephotography #photos #allnatural #casertapalace #italy #italy_photolovers #visititalia #photograph #laterrazzafamilyholidays #casavacanze #vacationrental #sorrento #sorrentocoast #penisolasorrentina #laterrazzafamilyhouse #amalficoast (presso Reggia di Caserta) https://www.instagram.com/p/CH2m6BeJjPF/?igshid=1wix0r8m659q8
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Di luogo in luogo, ogni domenica il nostro autore ci accompagna a visitare le delizie borboniche: oggi è la volta della sontuosa e sfortunata Villa d’Elbeouf di Portici
di Lucio Sandon
Da una guida turistica del ‘700:
Granatello: ameno casale dipendente dal borgo di Portici, in riva al mare, poco più di tre miglia a scirocco da Napoli. Quivi stanno deliziosi casini di campagna, tra i quali uno fattovi edificare dal principe di Lorena, Emanuele d’Elbeuf, che in tale occasione scoprì la sepolta città d’Ercolana. Passeggiata incantevole, la quale può farsi in meno di due ore in vettura da Napoli: vi è un luogo amenissimo, quasi lingua di molo, ove si può passeggiare, o far colazione sul mare. Pochi passi discosto vi è un luogo detto le Mortelle, ove esiste un piccolo tratto di parterra naturale, nel quale uno può sdrajarsi a piacere, o farvi una ricreazione qualora si amino tali campestri delizie.
C’est au prince D’Elbeuf qu’on doit les premières fouilles qui conduisirent à la découverte d’Herculanum. Ce prince faisait bâtir une maison de plaisance sur le bord de la mer, à Portici. Instruit que des habitans de Resine, en voulant creuser un puits leurs frais, avaient trouvé quelques fragmens de beaux marbres; le prince, qui en cherchait pour faire faire du stuc, ordonna qu’on creusât ce même puits jusqu’à fleur d’eau. A peine avait on fouillé le terrain latéralement, qu’on trouva quelques belles statues, et plus loin un grand nombre de colonnes, quelques unes d’albâtre fleuri, mais la plupart de jaune antique, appartenant à un temple. Naples était alors sous la domination autrichienne; le viceroi forma des prétentions sur les statues; elles furent envoyées à Vienne, et données au prince Eugène de Savoie.
Al principe D’Elbeuf dobbiamo i primi scavi che hanno portato alla scoperta di Ercolano. Questo principe stava costruendo una casa per suo piacere sul bordo del mare, a Portici.
Avendo saputo che alcuni abitanti di Resina, volendo scavare un pozzo per i propri interessi, avevano trovato alcuni frammenti di bei marmi, il principe, che stava cercandone per fare lo stucco, ordinò di scavare fino a fior d’acqua. Dove il campo era stato scavato lateralmente vennero trovate delle belle statue, e inoltre un gran numero di colonne, alcune di alabastro fiorito, ma la maggior parte di color giallo antico, appartenente a un tempio. Napoli era all’epoca sotto il dominio austriaco. Il viceré D’Elboeuf fece delle pretese sulle statue, che furono mandate a Vienna e date al principe Eugenio di Savoia.
Emmanuel Maurice duca d’Elbeouf, Barone di Routot e di Quatremarre e principe di Lorena, vantava come progenitore addirittura l’imperatore Carlo V. Nel 1706 al servizio dell’imperatore d’Austria Giuseppe I, venne nominato luogotenente generale della cavalleria tedesca e inviato a Napoli come vicerè, ma questa condotta contrariò molto Luigi XIV, il quale lo fece processare per diserzione in contumacia, e condannare all’impiccagione in effigie.
Per nulla impressionato, nel 1711 il principe commissionò all’architetto Ferdinando Sanfelice che aveva appena terminato il duomo di Amalfi, la costruzione di una residenza privata sul bordo del mare di Portici: fu la prima e sicuramente la più sfarzosa delle centoventuno ville vesuviane del Miglio d’Oro.
La villa sorse immersa nella vegetazione che allora fioriva rigogliosa in quel luogo, “Tra il rosso splendente del magma del Vesuvio e l’azzurro rasserenante del cielo e del mare del più bel golfo del mondo“, mentre i giardini erano alimentati da un complesso acquedotto che attingeva le acque dai primi contrafforti degli Appennini.
Questo acquedotto, detto Reale, passava a monte di San Giorgio a Cremano ed è indicato in una incisione del 1793 del geografo ufficiale del regno, il veneto Giovanni Antonio Rizzi Zannoni. Per costruire il palazzo di oltre quattromila metri quadri coperti fu necessario livellare il piano scosceso formato dalle lave delle eruzioni vesuviane del 1631 e 1633. Scavando fossati e accumulando scorie e terreno, si formò una grande piattaforma ove sorsero l’edificio e un esteso bosco, piantumato di specie rare, provenienti anche da paesi lontani.
Lo storico dell’epoca Diego Rapolla così descrive la villa:
Le stanze erano alte e sfogate, i loggiati stupendamente magnifici, i vani amplissimi e le porte simili a quelli dei castelli. Le suppellettili erano fastosissime e la copia dei marmi, dei bronzi e delle armature era così profusa che non esiste in tutto il contorno in sulla spiaggia un palazzo principesco (e ve n’erano parecchi) che con esso potesse in ricchezza e in delizia e lusso rivaleggiare. La villa mostra due simmetrici portali in marmo e piperno ai quali si accede da una trionfale scalea a doppia rampa, collegata ad una terrazza panoramica sul golfo di Napoli e le isole.
I frati Alcantariti del vicino convento di san Pasquale, avevano ordinato di ricavare un pozzo per l’acqua nel proprio giardino, e durante i lavori di scavo era stato trovato un edificio di marmo. Di questo ritrovamento venne a conoscenza il duca d’Elboeuf, il quale acquistò il pozzo con il terreno, e per circa nove mesi intraprese una personale campagna di scavo attraverso cunicoli, asportando statue, marmi di rivestimento, colonne, iscrizioni e bronzi.
Quanto siano stati dannosi questi scavi e quale depauperamento abbiano arrecato al patrimonio archeologico, ognuno può ben immaginare. Il principe aveva individuato in questo luogo, per lui di conquista, il punto di ingresso a una miniera dalla quale poter estrarre la preziosa merce. Molte delle opere d’arte sottratte da Ercolano presero la strada di Vienna, direttamente a casa del cugino carnale di D’Elboeuf, Eugenio di Savoia.
Le prime a partire furono tre statue in marmo, la Grande Ercolanese e le due Piccole Ercolanesi. Morto Eugenio di Savoia, le tre statue vennero trasportate presso la corte di Augusto III di Sassonia, re di Polonia e padre di Maria Amalia, la consorte di Carlo di Borbone, e ora sono custodite nell’Albertinum Museum di Dresda.
Ma fu questo come un barlume del giorno che cominciò a spuntare il 1711, quando il Principe d’Elbeuf saputo che nello scavarsi un pozzo sopra Ercolano si erano rinvenuti alcuni frammenti di marmo, ordinò che si continuasse quello scavo sotto la direzione dell’architetto Giuseppe Stendardo, il quale discoprì un tempio rotondo periptero sostenuto esternamente da 24 colonne di alabastro fiorito, e nell’interno della cella da altrettante colonne dello stesso marmo tutto ornato di statue, fra le quali una di Ercole, e l’altra creduta di Cleopatra, le quali statue furono dal Principe d’Elbeuf mandate in Vienna a presentarne il Principe Eugenio di Savoia. E questi scavi con tanta felicità cominciati, furono interrotti, nè prima ripresi del 12 novembre 1738, per ordine del re Carlo III, che dallo stesso punto partiti da dove sotto il Principe d’Elbeuf eransi cominciati incontraronsi nel teatro d’Ercolano, nel foro ed in tanti altri pubblici e privati edifizii. E dobbiamo al grande animo di quel Monarca, tanto alle belle arti magnifico, l’aver aperto sì luminosa strada ai suoi Augusti Successori onde mostrare al mondo in queste città dissotterrate il più bello copioso e rilevante spettacolo che vantar possa l’Archeologia.
(Da Real Museo Borbonico – Antonio Niccolini – 1831)
Nel 1713, il principe si innamorò di Marie Therese Stramboni figlia unica di Jean Vincent Stramboni, e la sposò senza chiedere il permesso al suo re. Di questo il sovrano fu molto irritato tanto che l’imperatore richiamò immediatamente a Vienna l’incauto principe, mentre la sposa venne spedita in convento.
Il 9 luglio 1716 la villa venne ceduta da D’Elboeuf per 11.000 ducati a Don Giacinto Falletti Arcadi, marchese di Bossia e duca di Cannalonga. Nel 1742 gli eredi del Falletti vendettero la villa a re Carlo di Borbone, unitamente a 177 busti di marmo e un gran numero di colonne, statue e marmi antichi provenienti dagli scavi di Ercolano.
La residenza doveva servire come dipendenza marittima del vicino Palazzo Reale: in sostanza era la capanna sulla spiaggia della villa al mare. I Borbone arricchirono il palazzo con lussuose sale da pranzo, alcove, e vari saloni per le feste e i banchetti.
Il giardino venne riunito con il bosco delle Delizie, la grande riserva di caccia del Palazzo Reale di Portici: per accedere direttamente a Villa d’Elboeuf, venne costruito un viale, che dalla reggia attraversava tutto il parco.
Il re aveva acquistato la villa sia per stupire illustri ospiti con le sue meraviglie, che per potersi divertire nella pesca, e infatti ancora fino a pochi anni fa, si potevano ancora vedere sulla spiaggia dei canali che convogliavano le acque marine per alimentare piccole peschiere scavate nella lava vesuviana: le Regie Peschiere del Granatello
«Quivi rinchiusi, i pesci d’ogni forma e colore, tutti vaghi e sorprendenti, molto più squisiti in questo mare di Portici nel quale alimentansi pesci di così delicato sapore da esser detti per antonomasia “pesci del Granatello”.» Nel 1744 venne realizzato anche il porto del Granatello.
Al lato opposto delle peschiere resistono alle ingiurie del tempo e degli uomini, i resti dei cosiddetti Bagni della Regina, unico esemplare di architettura balneare stile impero, eredità del Decennio francese: una costruzione a due piani a forma di ferro di cavallo che accoglie un porticciolo. Venne fatta aggiungere alla villa nel 1813 per volontà di Carolina Bonaparte, moglie di Gioacchino Murat, durante il periodo della sua reggenza, e consiste in una serie di cabine disposte radialmente, affacciate su una balconata e contornate da un alto muro. Qui le donne della corte potevano prendere i bagni di mare al riparo di sguardi indiscreti.
Dopo oltre due secoli di splendore, la prima e la più sfarzosa delle ville vesuviane è andata in rovina: ai Savoia le case sul mare non interessavano.
La villa venne messa all’asta e acquistata dalla famiglia Bruno. Poi, dopo essere stata divisa in diecine di appartamenti, subì in breve sequenza, diversi vandalismi, ristrutturazioni folli, terremoti, occupazioni abusive, l’impianto di un ristorante anch’esso abusivo ma con il nome del nobile francese, crolli e apparizioni di fantasmi, che ne decretarono il rovinoso declino e l’abbandono.
La realizzazione della prima linea ferroviaria italiana sul retro del palazzo nel 1839, ha probabilmente la responsabilità dell’inizio del declino, culminato con il crollo nel 2014 di una parte dell’edificio sui binari, dove attualmente viaggiano moltissimi convogli ogni giorno.
Qualche tempo dopo, la villa è stata acquistata da una cordata di imprenditori privati. I nuovi proprietari dovranno garantire un restauro totale dello stabile, in coordinamento coi tecnici della Soprintendenza.
Al Genio del Luogo ed alle Ninfe abitatrici dell’amena spiaggia!
Per poter ritirarsi e vivere giorni lieti e tranquilli ed a prender vero diletto sia dagli onesti riposi sia dagli studi in compagnia degli amici, Emmanuele Maurizio di Lorena Duca di Elboeuf, fatto spianare il suolo e piantarvi alberi e condurvi acque potabili, questo quieto recesso si preparò.
Lungi ne ite, o cure moleste della rumorosa città.
(Epigrafe murata all’inizio del 1700 sulla facciata del palazzo D’Elboeuf, ora scomparsa)
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Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio.
Notevole è il suo penultimo romanzo, “La Macchina Anatomica”, Graus Editore, un thriller ambientato a Portici, vincitore di “Viaggio Libero” 2019. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario veterinario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal suo ultimo romanzo “Cuore di ragno”, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto “Cuori sui generis” 2019.
Sempre nel 2019, il racconto “Nome e Cognome: Ponzio Pilato” ha meritatola Segnalazione Speciale della Giuria nella sezione Racconti storici al Premio Letterario Nazionale Città di Ascoli Piceno, mentre il racconto “Cuore di ragno” ha ricevuto la Menzione di Merito nella sezione Racconto breve al Premio Letterario Internazionale Voci – Città di Roma. Inoltre, il racconto “Interrogazione di Storia” è risultato vincitore per la Sezione Narrativa/Autori al Premio Letizia Isaia 2109.
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Il Sito Reale di Portici: Villa d”Elbeouf Di luogo in luogo, ogni domenica il nostro autore ci accompagna a visitare le delizie borboniche: oggi è la volta della sontuosa e sfortunata Villa d’Elbeouf di Portici…
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Tra Napoli e Nardò. La guglia dell'Immacolata
Napoli chiama, Nardò risponde![1]
di Giovanni De Cupertinis
Napoli – La guglia dell’Immacolata, che domina la piazza del Gesù Nuovo, è uno dei più affascinanti e intriganti monumenti della città. Quella dell’Immacolata è l’ultima delle guglie di Napoli ad esser stata innalzata, la più ardita da un punto di vista architettonico. Si pone fra l’effimera architettura delle macchine di festa di legno e stucco, che il popolo innalzava ed incendiava con i fuochi d’artificio nelle piazze, e l’arredo urbano, inteso come elemento architettonico-scultoreo, per ornare gli spazi urbani, e deve la sua realizzazione all’impegno di un gesuita, padre Francesco Pepe.
Il tutto ebbe inizio quando il re Carlo III di Borbone propose al padre Francesco Pepe, che sovente riceveva le confessioni, di realizzare un’edicola nella piazza antistante,affinché i passanti potessero venerare la Vergine Immacolata, a cui era molto devoto, anche dall’esterno del tempio[2].
Il gesuita prendendo spunto dal desiderio del sovrano propose allo stesso di realizzare al centro della piazza una magnifica guglia con alla sommità un’immagine dell’Immacolata, sul tipo di quelle che qualche tempo prima erano state già realizzate in onore di San Domenico e di di San Gennaro.
Napoli, Piazza del Gesù
Per la progettazione della guglia fu organizzato un vero e proprio concorso pubblico ed i modelli dei vari progetti furono esposti nel Palazzo Reale, affinchè il sovrano potesse sceglierne uno. Alla chiamata di padre Pepe parteciparono in tanti: dall’ Astarita al Gioffredo, da di Fiore al de Rossi. Fu preferito il disegno dell’architetto Giuseppe Genoino o Genovino[3], il quale concepì una “macchina” molto più ricca, fortemente ispirata ai carri del Battaglino, senza trascurare la collocazione alla base della stessa delle statue della famiglia reale. Infatti il progetto originario prevedeva la realizzazione, alla base della guglia, delle statue del Re Carlo e della Regina Amalia, che non si riuscì mai a completare[4].
Da subito il Pepe avviò una raccolta di offerte per erigere la monumentale guglia dell’Immacolata, nella piazza antistante la chiesa. Il re voleva offrire i 100.000 ducati necessari per la realizzazione dell’opera, ma padre Pepe riuscì a convincere il sovrano a limitare la sua offerta alla sola esenzione delle tributi relativi al materiale occorrente la sua costruzione, preferendo che la guglia fosse realizzata con le sole offerte del popolo[5].
La prima pietra fu posta dal marchese di Arienzo Lelio Carafa l’8 febbraio del 1746[6]; la direzione dei lavori venne affidata a Giuseppe di Fiore, coadiuvato dal gesuita Filippo D’Amato persona di fiducia del Pepe[7]. L’obelisco fu eretto da di Fiore in un tempo brevissimo, ma non per questo l’opera si rivelò semplice. Il cantiere incontrò più volte degli ostacoli, prima durante gli scavi, dove si era dovuto provvedere alla deviazione di un corso d’acqua sotterraneo, dopo per le proteste del duca Diego Pignatelli di Monteleone, il quale, temeva che l’alta guglia potesse crollare sul suo palazzo in caso di terremoti[8].
Comunque tutto si risolse nel migliore dei modi ed i lavori proseguirono speditamente. Già nel febbraio del 1748 la struttura era conclusa e si iniziò a mettere mano all’apparato scultoreo, dapprima realizzato a stucco e successivamente in marmo, fatta eccezione per la statua della Vergine Immacolata, da realizzare in rame dorato.
A svolgere il lavoro furono chiamati due grandi artisti come Matteo Bottigliero e Francesco Pagano, che realizzeranno nel primo ordine, proprio sopra il basamento, le statue di sant’Ignazio di Loyola, san Francesco Saverio, san Francesco Borgia e san Francesco Regis. Nei quattro bassorilievi posti più in alto sono raffigurati i quattro episodi fondamentali della vita della Vergine Maria: la Natività, l’Annunciazione, la Purificazione e la Coronazione della Vergine. Poco più in alto due medaglioni raffiguranti S. Luigi Gonzaga e S. Stanislao Kostka.
L’apparato scultoreo in marmo fu completato sul finire del 1753 e un anno più tardi, a conclusione di tutti i lavori, fu posizionata sulla sommità della guglia la statua dell’Immacolata, in rame dorato.
La guglia fu inaugurata nel dicembre del 1754, con festeggiamenti che durarono tre giorni, dal 6 all’8 con lo sparo di fuochi d’artificio, musica e un continuo suono di campane e con tanti lumi accesi per tre sere sui balconi e finestre della città[9].
Ogni anno la città di Napoli rende omaggio alla Vergine Maria con l’offerta di un fascio di rose alla statua posta sulla sommità della guglia di piazza del Gesù. E’ un rituale consolidato che si ripete ogni 8 dicembre, giorno in cui la Chiesa celebra appunto l’Immacolata Concezione.
Nardò – Collocata in posizione baricentrica nella centralissima piazza Salandra, la guglia dell’Immacolata fu eretta nel 1749[10], con il concorso del popolo neritino, come testimonianza di fede e ringraziamento per Io scampato pericolo dal terribile terremoto del 1743, che causò gravissimi danni all’abitato di Nardò[11].
L’opera è realizzata interamente in carparo, fatta eccezione per le quattro statue in pietra leccese collocate all’altezza del primo ordine, raffiguranti S. Anna, S. Gioacchino, S. Giuseppe con bambino e S. Giovanni Battista[12].
Nardo – la Guglia dell’Immacolata
In cima svetta la splendida statua della Vergine Immacolata, realizzata in marmo bianco poggiante su un globo in bardiglio, opera dallo scultore napoletano Matteo Bottigliero che negli stessi anni lavorava insieme a Francesco Pagano alla decorazione marmorea della guglia dell’Immacolata di Napoli[13].
Che il disegno della guglia dell’Immacolata non sia opera di un semplice scalpellino o del lavoro scrupoloso di un mastro muratore qualunque lo si deduce da una attenta analisi stilistica e da un’accurata lettura dell’impianto planimetrico. Quel che stupisce è soprattutto la sapiente concatenazione di forme ed elementi posizionati ad intervalli regolari, che scandiscono l’armoniosamente i cinque ordini della guglia.
Ad oggi non conosciamo il nome dell’architetto, ma senza dubbio la guglia neritina ha i suoi riferimenti nell’obelisco di san Gennaro eretto nel 1660 da Cosimo Fanzago, nel largo antistante la porta laterale del duomo di Napoli, e soprattutto in quello dell’Immacolata che si stava realizzando negli stessi anni (1746-1754) a Piazza del Gesù Nuovo. La storia della guglia neritina mostra forti analogie ed in qualche modo collegata a quella napoletana.
Fu anch’essa realizzata con le oblazioni del popolo su iniziativa dell’abate Francesco Antonio Giulio che ne commissionò l’opera. Ma a differenza di quella napoletana, la documentazione archivistica riguardo la sua costruzione manca totalmente. Anche le poche notizie in nostro possesso pongono molti dubbi circa la loro attendibilità. Partiamo proprio dalla data del monumento che fino a qualche anno fa era ritenuto, dalla maggior parte degli studiosi, anche sulla scorta di un resoconto scritto del vescovo Luigi Vetta riguardante i festeggiamenti celebrati a Nardò l’8 dicembre 1854[14], di epoca successiva alla guglia napoletana.
Ad allontanare ogni possibilità di individuare una data certa per il monumento fu Francesco Castrignano, che nel 1930 nella sua storia di Nardò̀, senza citare alcuna fonte, scrisse che la guglia era stata eretta nel 1769 sotto il vescovato di Marco Aurelio Petruccelli, su iniziativa dell’abate Francesco Antonio Giulio, come ringraziamento per lo scampato pericolo dal terremoto del 1743[15].
Da quel momento il 1769 sarà indicato erroneamente come anno di costruzione della guglia da tutti gli studiosi che si interesseranno dell’argomento[16]. Come accennato prima, l’autore della guglia è ancora ignoto. Tutte le attribuzioni fatte dai vari studiosi non sono supportate da alcuna analisi o prova documentale.
Partiamo proprio da quella che vuole realizzata dal Giovan Bernardino Genoino, architetto gallipolino, autore della cattedrale di S. Agata, la cui morte però è attestata tra il 1653-55, e quindi subito da scartare visto che per ovvie ragioni anagrafiche non poteva essere l’autore della nostra[17]. Quello che colpisce un questa attribuzione è che a nessun studioso sia venuto in mente di evidenziare la singolare omonimia tra architetto gallipolino e Giuseppe Genoino, autore della guglia napoletana. In assenza di documenti, vista la contemporaneità delle due opere alla luce della nuova datazione, sarebbe stato più credibile immaginarlo anche autore della guglia neritina.
Altro elemento poco chiaro nella vicenda della guglia neritina è proprio l’identità del committente, che a quanto ci riferisce il Castrignanò fu l’abate Francesco Antonio Giulio[18]. Cercando nella storia della diocesi neritina scritta dal Mazzarella dell’ abate Francesco Antonio Giulio non v’è alcuna traccia, di contro ritroviamo l’omonimo l’abate Pasquale Giulio, assai più noto, che fu vicario capitolare del vescovo A. Sanfelice ( 1708-1736) e di quello successivo F. Carafa (1736-1754)[19].
Alla luce di ciò, non è difficile immaginare che quello di datazione non sia stato l’unico errore commesso dal Castrignanò, e che fu l’abate Pasquale Giulio ad occuparsi di raccogliere le oblazioni dei fedeli e commissionare l’opera.
La retrodatazione di circa vent’anni della guglia neritina rispetto all’anno 1769, ci riporta inoltre a considerare con maggiore insistenza che l’idea di realizzare una guglia dedicata all’Immacolata, collocata nella piazza principale della città, risale agli anni del vescovo Sanfelice.
La riprova può essere data dalla presenza nel Corpus sanfeliciano, conservato presso il Museo di Capodimonte, di un disegno preliminare per la guglia dedicata all’Immacolata[20]. Non è da escludere quindi, che già prima del terremoto del 1743 sia maturata nell’animo del vescovo l’idea di realizzare nel cuore della città un’opera analoga a quella eretta nel 1731 a Bitonto, come ringraziamento per lo scampato pericolo del terremoto[21]. È quindi probabile che il vescovo diede incarico al fratello architetto per realizzare una guglia da elevarsi nella piazza principale della città, dopo aver completato la piazza su cui ancora oggi affacciano il duomo, l’episcopio e il seminario[22].
Il disegno di Capodimonte evidenzia una struttura con sviluppo verticale che presenta nella parte alta elementi architettonici riconducibili alla guglia di S. Domenico del Fanzago, ma a differenza di quest’ultima è sorretta da un alto basamento di forma ottagonale, recante un evidente stemma vescovile, ai cui lati si distinguono due statue non riconoscibili.
In cima una statua della Vergine poggiata su una sfera di marmo, sorretta a da un grande capitello corinzio, raccordato al resto della guglia tramite quattro eleganti volute tipicamente sanfeliciane. Il progetto immaginato dal Sanfelice non fu realizzato, presumibilmente per la sopraggiunta morte del vescovo nel gennaio 1736, ma il disegno appena descritto, anche se espressione di un primo momento progettuale, contiene tutti gli elementi di quella che da li a qualche anno più tardi fu eretta e inaugurata da un altro vescovo napoletano, monsignor Francesco Carafa. Ultimati i lavori della guglia, nel settembre del 1749 giunse da Napoli la statua di marmo dell’Immacolata da collocare in cima all’obelisco realizzata da Matteo Bottigliero.
Fu ricevuta dal vescovo davanti ad una delle porte della città, benedetta e condotta “in trionfo” per le principali strade cittadine, presenti anche tutte le autorità civili e religiose. Giunti nella pubblica piazza completamente illuminata a festa la statua fu posta vicino alla guglia ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie. La festa durò fino a notte fonda allietata da musiche con continuo sparo di mortaretti e fuochi d’artificio[23]. Non conosciamo il momento in cui la statua fu effettivamente collocata in cima alla “colonna”, ma possiamo immaginare che avvenne nei giorni seguenti.
Ed è così che il popolo neritino, che da sempre ha creduto che la sua guglia dell’Immacolata collocata al centro della piazza principale fosse di molto posteriore a quella napoletana, si ritrova, come una piacevole sorpresa, completata ben cinque anni prima.
Anche la città di Nardò, ogni 8 dicembre, rende omaggio alla Vergine Immacolata ponendo ai piedi della statua posta sulla sommità della guglia un omaggio floreale.
Napoli chiama, Nardò risponde! J
Note
[1] Il titolo è un libero adattamento della celebre frase di Luigi Necco giornalista sportivo napoletano.
[2] Il re Carlo III e la regina Amalia Walburga di Sassonia si recarono nella chiesa del Gesù per ammirare la statua d’argento dell’Immacolata fatta realizzare da padre Pepe. In quell’occasione il re avvicinatosi al gesuita gli disse: «Padre Pepe, Maria Santissima Immacolata non deve solamente stare a vista dei fedeli, chiusa in chiesa, ma [deve stare] ancor all’aperto e al pubblico», cit. M. Volpe, I Gesuiti nel Napoletano, Napoli 1915, p. 28.
[3] “…subito diede a farne i disegni, che furono fatti da molti Architetti, cioè da D. Mario Gioffredo da D. Giuseppe Astarita, da D. Giustino Lombardo da D. Ignazio de Blasio da D. Giuseppe Genuino da D. Giuseppe di Fiore Napoletani, e da D. Domenico de Rossi Fiorentino. Se ne fecero ancora dei modelli in piccolo, uno dal Rossi, un altro dal Fiore, ed il terzo dal Fumo, e tutti si presentarono al Re acciocchè scegliesse Egli quello, che più gli piacea e su in fatti scelto per l’appunto quello che presentemente sì vede disegno di D. Giuseppe Genuino; di cui si ha pure una stampa incisa dal Gaultier in due fogli di carta reale”, cfr. P. D’Onofri, Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III Monarca delle Spagne e delle Indie. Nella stamperia di Pietro Perger Napoli, 1791 p. 225-226;
Carlo Celano, Delle notizie del bello, dell’ antico, e del curioso della città di Napoli. Quarta Edizione, Giornata Terza, Napoli 1792, p. 35.
[4] L’incisione della guglia dell’Immacolata con le statue dei regnanti, è presente nel volume di Carlo Celano, Delle notizie del bello, dell’ antico, e del curioso della città di Napoli. Quarta Edizione, Giornata Terza, Napoli 1792, p. 35.
[5] Alta 130 palmi, la guglia costò 80 mila ducati, mentre la statua, con il suo ricco piedistallo di marmi, costò 20 mila ducati. Per entrambe ci furono spontanee oblazioni. Al re Carlo III, che voleva dare il suo contributo, il gesuita disse che avrebbe fatto un torto alla Madonna; comunque, accettò la franchigia del ferro, della calce e dei marmi e 600 ducati per la cancellata. M. Volpe, I Gesuiti nel Napoletano, Napoli 1914, vol. 2., p. 36; P. Degli Onofri, Elogio estemporaneo, cit. p. 229.
[6] “Già nel 1976 Teodoro Fittipaldi traeva dal numero 10 di Avvisi dell’8 febbraio 1746 il giorno in cui veniva posta la prima pietra della guglia dell’immacolata, costruita di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo di Napoli su iniziativa di padre Francesco Pepe, i cui lavori vennero solennemente iniziati il 1 febbraio di quell’anno; l’interessante documento correggeva così la data erronea del 7 dicembre 1747 dovuta ad un refuso di Pietro degli Onofri che aveva, fino ad allora, rappresentato l’unica fonte per la datazione dell’avvenimento” Cit. U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, “Il Delfino e la mezza luna, Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, maggio 2013 p. 90.
[7] Per padre Pepe era fondamentale che un controllo quotidiano sul cantiere gli venisse garantito da persona di sua provata fiducia sia sul piano professionale che personale: e la figura di fra Filippo d’Amato rispondeva perfettamente a queste esigenze. Fu infatti il gesuita marmoraro che organizzò il cantiere, «approntò tutto, scelse gli operai…» e ogni settimana si presentava al padre Pepe per avere il denaro per pagare le spese. Sta in Gaia Salvatori, Corrado Menzione, Le guglie di Napoli: storia e restauro, Napoli 1985, p. 82.
[8] P. D’Onofri, Elogio estemporaneo, cit. p. 226.
[9] U. di Furia, La statua dell’Immacolata sulla guglia e nella chiesa del Gesù Nuovo in “Napoli Nobilissima”, sesta serie, vol. II, ff. V–VI, settembre–dicembre 2011, p. 234.
[10] L’interessantissimo documento ritrovato dal di Furia corregge definitivamente la datazione della guglia di Nardò, che passa dal 1769 al 1749, anticipando di venti anni la sua costruzione. Cfr. U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, in Il delfino e la mezzaluna, anno II, n. 1, 2013, p. 89-96.
[11] G. De Cupertinis, Architetti e maestranze del XVIII sec.: il caso di Nardò e di altri centri minori del Salento, in L’arte di fabbricare e i fabbricatori – Donato Giancarlo De Pascalis, 2001, pp. 59-63.
[12] Una delle statue presenti sulla guglia è sempre stata erroneamente attribuita a S. Domenico (F. Castrignanò 1930), ma è evidente che si tratta di S. Gioacchino, marito di S. Anna e padre di Maria.
[13] U. di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, cit. p. 91.
[14] Il Vetta affermava che in quei giorni “Nella piazza principale faceva vaghissima mostra la guglia, che, innalzata molti anni prima, ad imitazione di quella eretta nel largo della trinità maggiore di Napoli, appariva con un bel disegno illuminata, per gran numero di lumi che splendevano in vetri colorati”, cit. E. Mazzarella, Le sede vescovile di Nardò, Galatina 1972, p. 306.
[15] F. Castrignanò, La storia di Nardò esposta succintamente, Galatina 1930, p. 118.
[16]L’errore può essere dovuto ad un refuso da parte di Francesco Castrignano, che indicò come anno di costruzione il 1769 invece di 1749.
[17] Nel saggio l’autore scrive: “Mi è stato detto in Nardò̀ che esso è opera dell’architetto Giovan Bernardino Genoino di Gallipoli, autore dell’insigne cattedrale di sant’Agata in Gallipoli stessa; ma non ho trovato in documenti scritti una conferma a questa notizia”. Cfr. G. Palumbo, Guglie di stile barocco nella penisola salentina, in Arte Cristiana, vol. XL, n. 1, gennaio 1953, pp. 18–21.
[18] F. Castrignanò, cit., p. 118.
[19] Ab. Pasquale Giulio, dottore nelle due leggi, licenziato in s. Teologia, nacque a Nardò da famiglia patrizia è compì gli studi nel seminario vescovile. Nel 1722 ricevette dal vescovo Sanfelice alcuni benefici ecclesiastici, e nel 1726 fu nominato canonico della Cattedrale. Resasi vacante la sede vescovile il 1° gennaio del 1736, nonostante fosse tra i più giovani canonici, fu eletto vicario capitolare. Il vescovo successivo Carafa, verso la fine del 1747, lo nomino arcidiacono della cattedrale. Dopo la morte del vescovo fu rieletto per la seconda volta vicario capitolare e nel 1754 indisse la sua prima visita pastorale. Sta in E. Mazzarella, cit., pp. 275-276, 269.
[20] Nel Corpus dei disegni sanfeliciani presso Capodimonte è presente il disegno per una guglia tradizionalmente attribuita come guglia di S. Gennaro, ma è evidente che si tratta di una guglia dedicata all’Immacolata; cfr. G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice architetto a Nardò, in Antonio e Ferdinando Sanfelice: il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento, a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Lecce 2003, pp. 61–76.
[21] Epigrafe nel monumento dell’Immacolata a Bitonto in memoria del terremoto del 20 marzo 1731, in G. Pasculli, “La storia di Bitonto”, vol.1, pp.308-309; S. Milillo, La Chiesa e le chiese di Bitonto: chiese di Puglia, Ed. Centro ricerche di storia e arte, 2001, p. 6. Il terremoto del 20 marzo del 1731 interessò la Capitanata e il suo centro amministrativo principale, Foggia, che nella realtà del Regno di Napoli rappresentavano un polo di grande importanza per gli equilibri finanziari, economici e politici dello Stato.
[22] G. De Cupertinis, Il rapporto progetto-cantiere negli edifici neritini di Ferdinando Sanfelice, Atti del convegno “Un vescovo, una città” Antonio Sanfelice e Nardò (1708-1736), Feb 2012, pp. 102-122; G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice e il restauro della Cattedrale di Nardò, in Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò, a cura di Daniela De Lorenzis, Marcello Gaballo, Paolo Giuri, Galatina, 2014, pp 165-166; G. De Cupertinis, Ferdinando Sanfelice architetto a Nardò, cit. pp. 68-75.
[23] L’intera vicenda è tratta da Avvisi, n°42, Napoli 16 settembre 1749, pubblicata integralmente da U. di Furia in Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò, cit. p. 91-92, e che qui riproponiamo: “…Dalla città di Nardò siamo ragguagliati, qualmente erettosi nella Piazza principale di quella un nobile, e magnifico obelisco, in onore della ss. Vergine Immacolata di pure limosine spontaneamente offerte, e non richieste; giunse ivi ultimamente da questa capitale una statua di marmo finissimo di palmi nove della stessa gran Vergine Immacolata, di eccellente scoltura, da mettersi nella cima di detto obelisco. Ricevuta processionalmente in una delle porte della città da Mons. Vescovo D. Francesco Carafa, e da lui Pontificalmente vestito ancor benedetta fu condotta in trionfo per le principali strade riccamente adobbate, seguita dal capitolo, Mansionarj, e clero; coll’intervento ancora degli ordini regolari, di tutto il Magistrato, Nobiltà, e Popolo innumerevole tra le pubbliche acclamazioni, e continovi viva di giubilo, tra le armoniche melodie di ben concertati istrumenti, e tra un continuo sparo di mortaretti, e fuochi artificiali; e giunti nella pubblica Piazza fu depositata la statua vicino all’obelisco, ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie si proseguirono le Feste di sparo, ed illuminazioni fino alle molte ore della Notte. Detta statua è stata scolpita da D. Matteo Bottigliero scultore Napolitano”.
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I luoghi del cuore, il censimento 2020 del FAI | Fondo Ambiente Italiano: sosteniamo tutti insiem ela canditatura della Reggia di Portici
di Stanislao Scognamiglio e Tonia Ferraro
La Reggia di Portici fu costruita per volere da Carlo di Borbone. Tradizione orale vuole che, sorpresi da una tempesta furono costretti a cercare riparo. Approdati fortunosamente nei pressi di Villa d’Elbeouf, il re Carlo e la regina Maria Amalia furono rapiti dalla bellezza dei luoghi. Ammaliati dalla natura di quest’angolo del Golfo, decisero di costruirvi una residenza estiva.
Il sovrano quindi acquistò diverse aree verdi e alcune ville, come quelle del conte di Palena, del marchese Mascabruno e del principe di Santobuono, per impiantarvi la sua residenza immersa in un ampio parco.
La direzione dei lavori fu affidata dapprima all’ingegnere militare Medrano, poi all’architetto romano Canevari.
Per affrescare le sale furono chiamati pittori tra i quali Giuseppe Bonito.
La costruzione della Real Villa terminò nel 1742.
Molte famiglie aristocratiche, incoraggiate del re, acquistarono terreni o fecero costruire ville nei dintorni della reggia, creando quel caratteristico fenomeno architettonico, oggi noto come Ville Vesuviane, divenuto patrimonio dell’UNESCO.
Parte del Palazzo Reale, successivamente, divenne sede del Museo Ercolanense, voluto da re Carlo per raccogliere i reperti portati alla luce nel corso degli scavi dell’antica città di Herculaneum, sepolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
Grazie alla Reggia e al Museo, Portici divenne una delle mete predilette del Grand Tour.
La Reggia presenta una facciata con ampie terrazze e balaustre ed è costituita da una parte inferiore che affaccia su una zona caratterizzata da lunghi viali che portano al mare – in effetti un giardino all’inglese – e da frutteti, e da una superiore, con il bosco soprano, una volta riserva di caccia.
Di grande interesse, parti integranti del complesso reali delizie di Portici, sono:
la cappella palatina del 1749, che prese il posto del vecchio teatrino di corte, con il maestoso trono su cui poggia la statua dell’Immacolata; l’altare, sorretto da due colonne di marmo rosso provenienti dalla scena del teatro antico di Herculaneum; l’organo a canne suonato dal giovane Wolfgang Amadeus Mozart.
l’Area della Pallacorda, destinata al gioco del pallone: un’antica forma sportiva, simile alla pelota spagnola.
Le due facciate principali, divise dal cortile del palazzo, attraversato da un tratto dell’antica strada delle Calabrie, la Strada Statale 18, l’odierna via dell’Università.
il Galoppatoio Reale, primo cavalcatoio coperto al mondo, fatto edificare da Ferdinando IV di Borbone, intorno al 1742, sotto la direzione dell’ingegnere camerale Tommaso Saluzzi. Pochi sanno che è stato ad essere costruito.
il parco superiore, dal 1872, ospita l’Orto Botanico
Attualmente il Complesso Monumentale della Reggia di Portici è salvaguardato dall’Ateneo Federico II e dal Dipartimento di Agraria, cui è stata affidata dal Demanio in concessione perpetua. Proprio queste prestigiose istituzioni con la loro presenza hanno preservato nei secoli l’integrità del complesso borbonico.
Al fine di valorizzare la Reggia di Portici, è nato un comitato spontaneo di cittadini, libero e senza connotazioni politiche/partitiche, per sostenere la candidatura del sito borbonico nel censimento della campagna nazionale del Fai | Fondo Ambiente Italiano I luoghi del cuore.
Il Comitato è formato da
Francesco Carignani
Roberto De Rosa
Tonia Ferraro
Cesare Formisano
Luigi Imperato
Salvatore Imperato
Nunzia Pasqua
Lucio Sandon
Stanislao Scognamiglio
Maria Rosaria Varone
Invitiamo tutti i porticesi a votare la Reggia di Portici: è il nostro Luogo del cuore!
Votare è facilissimo: basta andare sul sito https://www.fondoambiente.it/il-fai/grandi-campagne/i-luoghi-del-cuore/ e cercare Reggia di Portici. Per dare il voto bisogna prima, naturalmente, registrarsi e con un semplice clic il gioco è fatto.
Grazie a tutti!
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La Reggia di Portici è il nostro luogo del nostro cuore I luoghi del cuore, il censimento 2020 del FAI | Fondo Ambiente Italiano: sosteniamo tutti insiem ela canditatura della Reggia di Portici…
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“Liala, compagna d’ali e d’insolenze”. L’amore perduto di una grande scrittrice
A San Valentino non puoi non rimpiangere Liala. I suoi libri che sussurrano l’amore, le sue pagine che hanno fatto sognare milioni di innamorate. La gita è al sepolcro, nel piccolo cimiterino di Velate, ai piedi del Sacro Monte, sulla collina prealpina di Varese. Spiamo la sua tomba infilando gli sguardi tra le alte inferriate del cancello. È chiuso, ormai. È sera. Ma la sua tomba si riconosce, elegante, laggiù a sinistra, squadrata e semplice come le lettere cristalline del suo nome sul marmo chiaro. Ma da scrittrice le sue tenere ossa sono altrove, e sono di carta, i manoscritti di una vita. È racchiuso tutto in una stanza il suo corpo di lettere, due macchine da scrivere, tanti libri elegantemente disposti sugli scaffali e un compagno di stanza: Piero Chiara. Chissà se le aggrada. Non è di certo un aviatore.
*
Il Fondo Liala è a Villa Mirabello, dove era già custodito il Fondo Chiara, dall’estate del 2014, grazie al lavoro paziente e lungimirante di una curatrice d’eccezione: Serena Contini. “Ci si dimentica, in un paese cosi complesso e cosi ricco dal punto di vista dei beni culturali come l’Italia, dell’importanza della tutela. A volte ci si preoccupa di più della valorizzazione dei dipinti che delle carte” spiega la conservatrice: “perché senza tutela non è possibile fare le operazioni a seguire, come lo studio e la valorizzazione, questo vale per gli archivi letterari ma anche per tutti gli altri, è tautologico”. Una donazione importante per la città in cui ha vissuto la scrittrice: “il fatto che le figlie di Liala, Primavera e Serenella, abbiano deciso di donare al Comune di Varese l’archivio della propria madre è nato da un rapporto umano e di fiducia, ne sono stata molto contenta. Se non ci fosse stata questa donazione, c’era il rischio che l’archivio andasse disperso. Primavera ha dedicato la sua vita alla mamma, era la sua segretaria”. Una fila elegante di libri di Liala, tutta la sua produzione con una rilegatura blu, come lei stessa ha voluto.
*
Cattura l’attenzione il bel ritratto di Liala da giovane, sedicenne e fulva, accanto alla finestra dell’archivio che si apre su Varese e i suoi Giardini Estensi, e una cornice liberty e dorata che custodisce lo sguardo affascinante della scrittrice a cui d’Annunzio regalò un’ala nel nome: Amalia Liana Negretti Odescalchi, sposata con il marchese Pompeo Cambiasi ufficiale di marina, con diciassette anni più di lei. La famosa dedica di Gabriele d’Annunzio alla giovane scrittrice è custodita qui, la scrittura unica e svolazzante del vate che le cambiò il nome: “a Liala, compagna d’ali e d’insolenze”. Signorsì, pubblicato da Mondadori nel 1931 è stato il suo primo best seller, il suo primo romanzo che ha inaugurato una lunga e prolifica stagione di scrittrice, nata dal suo tragico amore per l’aviatore Centurione Scotto. Si trova al comando del suo idrovolante, durante un allenamento per la coppa Schneider, quando, improvvisamente, perde il controllo e precipita nelle quiete acque del lago di Varese. La morte acerba lascia una ferita immedicabile nel cuore di Liala, che ne trae una linfa infinita per i suoi romanzi. Anche Italo Balbo, nella foto accanto al d’Annunzio, dedica alla scrittrice fino ad allora “ignota di Signorsì con molta deferenza” un segno di riconoscimento, perché come spiega la curatrice Contini: “questo romanzo di ambientazione aviatoria colpisce quegli uomini che all’aviazione avevano donato il loro cuore e quindi colpisce Italo Balbo che si interessa a quest’opera e d’Annunzio che dà il nome alla scrittrice. Per d’Annunzio Liana deve avere un’ala nel nome: Liala”.
*
Curiose le lettere custodite in archivio delle tante lettrici di Liala che imposero il nome della scrittrice alle proprie figlie, come questa: “Cara Liala ti scrivo per dirti che ho imposto il tuo nome a mia figlia”. Vittorio Centurione Scotto era il grande amore perduto di Liala, di cui non sono rimaste tracce tangibili: “ha bruciato tutte le lettere e tutto ciò che era personale” svela la curatrice, e la grande fonte di dolore diventa scrittura, una scrittura catartica: “il rapporto di Liala con l’ambiente circostante è profondamente influenzato dalla memoria del suo vissuto. Persino il lago di Varese non esiste in lei se non in funzione dei suoi ricordi, principalmente legati all’amato aviatore genovese, precipitato con il suo velivolo il 21 settembre 1926”. Liala non era a Varese quando morì il suo aviatore, ricorda Contini, si trovava a Moneglia, nella casa di suo marito, il marchese Cambiasi, e, proprio in quegli attimi in cui il suo amato precipitava nel lago, per quegli strani giochi del destino, lei stava per cadere in un burrone, durante una passeggiata.
*
Molte e molte volte nella sua lunga vita, Liala ripercorrerà, lungo il lago di Varese, a Calcinate, la strada che ancora oggi porta il nome del suo grande amore, come ricorda in Diario vagabondo: “Infilo la strada che preferisco. Percorro la provinciale, taglio Gavirate, esco sulla tangenziale bellissima che corre alta sul lago. Lascio questa strada dove inizia un’altra strada, ma piccola, fra giardini e ville, stretta così che forse due macchine passano a fatica: è la strada che porta sulla targa il nome del mio Amore. È una delle strade di allora, quando non c’erano queste ampie, imponenti strade che fanno filare le vetture a grande velocità”. Sono i Dieci chilometri di pensieri – titola così il brano di questa autobiografia letteraria – quei cinque di andata e di ritorno che separano casa e strada: “La mia macchina va piano, sulla strada provinciale saettano le vetture. Io sono arrivata all’uscita: la stradina che porta “quel” nome è finita dopo aver fatto curve e linee alte sul lago. Guardo alla targa: ve ne è una all’inizio e una alla fine della strada. Leggo bene il nome, il cognome e il vocabolo: AVIATORE. Il cuore è fermo. L’anima non è triste. Non sono mai riuscita a capire cosa sia quel sentimento che provo leggendo quelle targhe con “quel” nome. Mi pare di non capire perché “quel” nome sia là, bianco su targa blu. Esco dalla stradina, infilo la strada provinciale: vedo su la strada che sta di fronte alla sua un altro nome: Dal Molin. Poi Agello. Poi Ferrarin… Si sono ritrovati qui tutti i bellissimi eroi di un’epoca remota e valorosa: forse di notte, da una targa all’altra, passano sussurri; si parla di acrobazie, magari. Erano tutti acrobati perfetti”.
Linda Terziroli
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