#Alessandro Tassoni
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Portrait of the poet Alessandro Tassoni, c. 1630 by Simone Cantarini (1612-1648)
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L’autore de Il serpente è Luigi Malerba, pseudonimo di Luigi Bonardi, un pramşân bagulòun, che così a Reggio Emilia chiamiamo i parmigiani contafrottole. Loro ci chiamano tésti quêdri, ma questo per colpa di un infausto verso scritto da Alessandro Tassoni, autore del poema La secchia rapita ai bolognesi, detti pure felsinei, soooccc…!, dai suoi modenesi, che sarebbero i cosiddetti nusòun, coloro che hanno la testa rotonda, alla quale pare tengano particolarmente, perché è dura come una noce, così ameno ho letto in Fantastiche creature di Luciano Pantaleoni.
#leggere#libro#libri#libromania#book#books & libraries#citazione libro#bompiani#luigi malerba#il serpente#serpente
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Il serpente di Luigi Malerba: un quieto buco grigio?
L’autore de Il serpente è Luigi Malerba, pseudonimo di Luigi Bonardi, un pramşân bagulòun, che così a Reggio Emilia chiamiamo i parmigiani contafrottole. Il serpente di Luigi Malerba Loro ci chiamano tésti quêdri, ma questo per colpa di un infausto verso scritto da Alessandro Tassoni, autore del poema La secchia rapita ai bolognesi, detti pure felsinei, soooccc…!, dai suoi modenesi, che sarebbero…
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The bucket was stolen by those guys from Modena to mock Bologna for having lost a war some years prior. A writer from Modena, Alessandro Tassoni, composed a poem about it in 1624 “La Secchia Rapita (The stolen bucket)”. Despite the completely comical topic, like all the publications of the time, it had to pass the checks of the Inquisition before being published. The definitive version was published in the Republic of Venice in 1630, notoriously lax about everything that annoyed the Church.
Sometimes I see posts with medieval art and somebody demanding to know what was going on during the middle ages. I therefore present to you a list:
In 897, Pope Stephen VI had his predecessor’s body dug up and tried for heresy. The corpse was found guilty and thrown in the Tiber.
In 1122 or thereabouts, Heloise de Argenteuil named her son Astrolabe.
In 1141, Empress Matilda was besieged in a castle by her cousin Steve, and escaped by pretending to be dead and getting carted out with the corpses.
In 1314 King Edward II made soccer illegal. This was the same King Edward II whose wife Isabella had him killed by shoving a fireplace poker up his ass.
In 1325 some guys from Modena, Italy, stole the bucket from the well in neighbouring Bologna. The two cities fought a battle over it. Modena won, and still has the bucket on display in a museum.
In 1355 students at Oxford rioted because a pub served them sub-par beer.
In 1374 France and Belgium suffered an outbreak of ‘dancing plague’. The affected would dance until they died of heart attacks.
In 1379 a guy named Perrinot Muet was trampled to death by pigs. The pigs were tried for murder, found guilty, and hanged.
Between 1410 and 1419, there were three different guys in different parts of Europe all claiming to be Pope. They each excommunicated the other two and all their adherents.
In 1456, Pope Callixtus the Third excommunicated Halley’s Comet.
In conclusion, a lot went on during the middle ages.
#middle ages#modern history#Italy#Modena#Bologna#la secchia rapita#the stolen bucket#Alessandro Tassoni
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La Secchia Rapita - un poema a fumetti - parte 1
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La Secchia Rapita è un poema in ottave eroicomico scritto da Alessandro Tassoni (1565–1635). Pubblicato nel 1622, racconta del conflitto tra i Comuni di Bologna e Modena al tempo dell’Imperatore Federico II, prendendo ispirazione dalle battaglie di Zappolino e Fossalta dove a farne le spese, secondo la trazione, fu… una secchia!
Nel 1972 il fumettista e regista Pino Zac (alias Giuseppe Zaccaria 1930–1985), disegnò a fumetti la storia, lanciato poi come cartone animato e trasmesso su Gulp!, ovvero il programma dei “Fumetti in Tv” SuperGulp!
Tra il primo ottobre 2018 e il 30 aprile 2020 ho provato a ridisegnare la curiosa opera (il Primo Canto), un piccolo omaggio e un primo tentativo di dedicarmi a questo medium.
https://alessandrovinai.medium.com/la-secchia-rapita-un-poema-a-fumetti-e0f047148536
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Il Natale a Reggio Emilia
Culatello di Zibello con brioche salate integrali
Cappelletti in brodo
I bolliti: Cappone, Manzo, Lingua, Coda, Cotechino e “al pin”
Salsa verde e Salsa giardiniera
Coniglio arrosto
Patate al forno
I Caplett
I Reggiani sono molto fieri di questa minestra, la cui caratteristica principale sta nel ripieno che si differenzia da varianti provinciali o regionali. Anche all’interno della tradizione reggiana la ricetta varia leggermente a seconda della famiglia e della località (montagna, bassa reggiana e capoluogo), così come le dimensioni che tendono ad aumentare scendendo verso la bassa. Il cappelletto, appetitoso ed irresistibile, è perfetto con un buon brodo di carne.
Dietro il suo aspetto si cela una piccola malizia che lo rende seducente. Secondo una leggenda - che trae origine dai versi della “Secchia Rapita” di Alessandro Tassoni - Venere, Marte e Bacco, mentre girovagavano sulla terra, fecero sosta in una trattoria. Il mattino seguente il dio del Vino e quello della Guerra si alzarono molto presto per ammirare l’Alba mentre Venere, più dormigliona, rimase a letto. Quando la dea si destò, meravigliandosi di essere da sola e forse un poco affamata, chiamò il cuoco. Questi, vedendo quel magnifico corpo, rimase così sconcertato che si rinchiuse in cucina, deciso a riprodurre almeno un particolare della dea. Con fervore impastò la sfoglia, tagliò tanti quadratini, li farcì di carne e li richiuse arrotolandoli al dito. L‘ardore era ormai svanito ma “imitando di Venere il bellico, l'arte di fare il tortellino apprese”.
Ecco la ricetta del ripieno dei cappelletti che si tramanda a casa mia con le dosi di mia suocera, rezdora doc:
3hg di manzo (al cartlam) 1hg1/2 di maiale 1 salsiccia 1/2hg di mortadella Tutto macinato assieme due volte. ½ cipolla piccola 3 chiodi di garofano 1 pezzettino di cannella Sale qb A fine cottura: 1 pizzico di noce moscata 2 cucchiai di pan grattato 1 uovo A freddo: Una manciata di parmigiano grattugiato
Al brod
Ecco qualche consiglio per preparare il brodo di carne
Ingredienti:
800 gr di cappone o gallina (¼ di cappone o ½ gallina) 500 gr di muscolo di manzo da brodo (spalla, suora, cappello del prete) 300 gr di doppione (biancostato) di manzo 1 osso di manzo 100 gr gambo di sedano 200 gr carote lavate e non sbucciate 200 gr cipolla bianca sbucciata e tagliata a metà (o 100 gr di cipolla e 100 di porro) qualche gambo di prezzemolo (senza le foglie) 1 foglia di alloro 4-5 grani di pepe e 2 chiodi di garofano (conficcati nella cipolla) 5 o 6 litri di acqua, che dovrà coprire tutte le carni sale grosso *a seconda della quantità d’acqua la proporzione delle verdure è circa 20% sedano, 40% carota, 40% cipolla * indicativamente almeno un litro e mezzo di acqua ogni 500 gr di carne
Lavare tutte le carni sotto l’acqua corrente. Mettere tutti gli ingredienti in una pentola capiente molto alta e riempirla di acqua fredda fino a coprire tutte le carni. Lasciare riposare così per circa mezzora. Portare la pentola sul fuoco a fuoco medio e portare a bollore togliendo le impurità che si formeranno in superficie con la schiumarola. Abbassare la fiamma al minimo e far sobbollire per almeno tre-quattro ore sempre a fuoco bassissimo e con la pentola semicoperta, schiumando quando necessario. Mettere giusto un pizzico di sale. Togliere la carne dal brodo appena terminata la cottura in modo da non farlo intorpidire. Filtrare il brodo con un colino a maglia stretta. Aggiustare di sale. Far raffreddare il brodo per sgrassarlo completamente o in parte.
Sinceramente io non peso mai nè le carni nè le verdure nè l’acqua quindi usate il vostro istinto e non fissatevi sulla bilancia!
Al pin
Mia nonna, come ogni brava rezdora emiliana, a Natale era solita fare un brodo e un bollito molto ricchi. Usava un buon pezzo di manzo, la suora. Ricordo ancora il suo bel colore rosso vivo, la grana soda e i piccoli filetti di grasso bianco. Poi usava un cappone intero. Bolliva il tutto con carota, cipolla, sedano, porro e gambi di prezzemolo, nè troppo piano nè troppo forte per un tempo che mi pareva infinito, un’ebollizione lenta e mai discontinua perchè diceva che la discontinuità fermava lo sviluppo dei sapori. Tutta la casa profumava di brodo. Lo preparava il giorno prima, così la notte lo metteva sulla finestra e la mattina lo sgrassava.
A Natale riempiva il cappone con il ripieno, in dialetto al pin. Che in italiano veniva poi ritradotto “pino”. E’ un ripieno composto di uova, parmigiano grattugiato, pan grattato, prezzemolo, noce moscata e aglio. Lo impastava con le mani in una ciotola e poi farciva il cappone dalla parte posteriore e, dopo averlo ben pressato, lo cuciva con cura perchè il ripieno non uscisse durante la cottura. A cottura ultimata (nel brodo insieme al manzo) veniva poi sfilato, tagliato a fette e servito con le carni da bollito. Nel piatto del bollito non mancavano inoltre la testina, lo zampetto, la coda e la lingua di vitello, che però venivano cotti a parte.
Oggi mi piace ancora mangiare al pin. Piace tantissimo ai bambini. Ma è più semplice cuocerlo nel brodo come un polpettone. La ricetta non ha dosi precise e segue il gusto personale. Ogni nonna ha la sua ricetta e solitamente la custodisce gelosamente. L’importante è creare un composto molto compatto e adagiarlo delicatamente nel brodo appena ha raggiunto il bollore e cuocerlo per circa mezzora.
Al pin
40 gr burro 1 cucchiaio olio evo 1 spicchio di aglio 1 cipolla 1 cucchiaio di prezzemolo tritato 100 gr pane grattugiato 200 gr parmigiano grattugiato 2 uova 1 pizzico di sale 1 pizzico di noce moscata
Tritare la cipolla e l’aglio e rosolare dolcemente con l’olio e il burro, aggiungere il prezzemolo e infine il pane grattugiato, sempre a fuoco lento e mescolando per una decina di minuti. Far raffreddare e aggiungere le uova e il parmigiano, aggiustare di sale e noce moscata. Compattare il composto, avvolgerlo stretto nella pellicola e farlo riposare in frigo. Cuocere immerso nel brodo bollente e servire con le altre carni lesse.
Selsa veirda
Lavare ed asciugare le foglie di un bel mazzo di prezzemolo fresco scartando tutti i gambi. Frullare le foglie insieme a 2 acciughe (vi prego dimenticatevi per sempre la pasta di acciughe), 2 cucchiai di pan grattato, ½ spicchio di aglio, ½ scalogno, 1 cucchiaino di capperi (sempre solo dissalati), 1 goccio di aceto bianco. Frullare il tutto emulsionando con olio evo. Aggiustare se necessario di sale. Mescolare bene aggiungendo un uovo sodo schiacciato con una forchetta.
Un piccolo segreto. La salsa verde è buona se preparata con qualche ora di anticipo. Quando lo fate tenete da parte un pò di prezzemolo che andrete a tritare e aggiungere all’ultimo minuto.
Selsa cota
Tagliare a cubetti 2 peperoni, 1 finocchio, 1 cipolla, 2 carote, 1 costa di sedano e qualche pezzetto di cavolfiore. Portare a bollore 1,5 lt di acqua con 750 ml di aceto bianco e 750 ml di vino bianco, 30 gr di zucchero, 30 gr di sale grosso, qualche grano di pepe, alcune bacche di ginepro e due foglie di alloro. Cuocere le verdure iniziando da quelle che richiedono una cottura più lunga e aggiungendo man mano le altre. Dovranno rimanere croccanti. Versare la salsa bollente in vasi sterili e capovolgerli. Al momento dell’uso aggiustare se necessario di sale e aceto, aggiungere olio evo ed eventualmente un uovo sodo tritato.
Cunìn a ròst
Tagliare il coniglio in pezzi e preparare una concia tritando aglio, rosmarino, salvia, alloro, sale grosso e mescolare con un cucchiaio di olio, uno di aceto bianco e un cucchiaino di aceto balsamico. Mettere il coniglio in un contenitore ermetico con questa concia, distribuendola bene e massaggiando la carne con le mani. Lasciare riposare almeno una notte in frigo. Rosolare quindi il coniglio con olio e burro poi sfumarlo con un bicchiere di vino bianco secco. Continuare la cottura sul fuoco basso col coperchio per almeno un’ora. Seguire la cottura e girare i pezzi ogni tanto, se serve aggiungere un mestolo di brodo. A cottura ultimata togliere i pezzi di coniglio dal tegame e filtrare il fondo. In un pentolino fare un roux con 50 gr di burro e un cucchiaio di farina, aggiungere la panna, il succo di mezzo limone e il fondo filtrato, mescolare per ottenere una salsina con cui accompagnare il coniglio arrosto.
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Modena tra Guelfi e Ghibellini
Nel 1152, l’elezione di Federico I di Hohenstaufen, detto Barbarossa, a imperatore portò al potere un sovrano energico e deciso a far rispettare la sua legittima autorità sui comuni italiani (richiese, ad esempio, di essere lui a nominare i consoli). Nel corso delle sue spedizioni in Italia distrusse Asti (1154), Crema (1160) e, infine, Milano (1162), la più potente delle città avverse all’imperatore. Sottomise anche Roma, ma fu costretto a battere in ritirata per via di un’epidemia che decimò l’esercito imperiale. Con l’imperatore in Germania, i comuni si riorganizzarono nella Lega Lombarda (dicembre 1167) e lo sconfissero nella celebre battaglia di Legnano (29 maggio 1176). Si arrivò, così, alla tregua siglata con la Pace di Venezia (1177) e alla Pace di Costanza, dove si riconobbe la libera elezione dei consoli e l’autonomia comunale. Privi di un comune nemico, le città italiane ritornarono alle loro lotte tra fazioni, fino all’arrivo di un altro imperatore, Federico II, nipote del Barbarossa e Re del Regno di Sicilia. Incoronato nel 1215, ottenne l’appoggio di città come Pavia e Cremona e di signori feudali come Ezzelino da Romano, minacciando nuovamente i comuni, che di conseguenza riesumarono la Lega Lombarda (1226). Si arrivò alla guerra e Federico II riuscì ad avere la meglio a Cortenuova (1237), ma il valore delle sue vittorie fu minato dalle ribellioni in Germania, che lo costrinsero a distogliere l’attenzione dall’Itali, e dal Papa Innocenzo IV, che sosteneva i comuni nella loro lotta antimperiale, arrivando persino a scomunicare Federico II. Fu in questi anni che comparvero, nel contesto fiorentino, i termini “guelfo” e “ghibellino”, rispettivamente nel 1239 e nel 1242 negli anonimi Annales. Se ne ebbe, poi, notizia in una lettera dei Capitani fiorentini della “… pars guelforum …” (1248); nella cronaca fiorentina del 1248, compresa nel Chronicon de mundi aetatibus del notaio piacentino Giovanni Codagnello (Johannes Caputagni); in una lettera di Federico II (1248), in un registro di delibere di S. Gimignano (1248) ed in due lettere papali (1248 e 1250).
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Le origini dei nomi risalgono alla lotta per la corona imperiale dopo la morte dell’imperatore Enrico V (1125) tra le casate bavaresi e sassoni dei Welfen (pronuncia “velfen”, da cui la parola guelfo) con quella sveva degli Hohenstaufen, signori del castello di Waiblingen (anticamente Wibeling, da cui la parola ghibellino). Successivamente, dato che la casata sveva acquistò la corona imperiale e, con Federico I Hohenstaufen, cercò di consolidare il proprio potere nel Regno d’Italia, in questo ambito politico la lotta passò a designare chi appoggiava l’impero (Ghibellini) e chi lo contrastava in appoggio al papato (Guelfi).
Tra la fine del XII secolo e la metà del XIII, in quasi tutti i Comuni di formarono due partiti che, pur recependo le originarie contese dinastiche germaniche, le modellarono sulla realtà italiana e municipale. Ora in Italia, poiché il Papa parteggiava per le casate guelfe, questa parte divenne il partito del Papa; del pari i ghibellini, persa la contraria coloritura dinastica, divennero il partito imperiale. Né tanto bastò, perché la complessa articolazione delle fazioni interne ai Comuni finì per generare in ciascuna città formazioni politiche i sottordine, spesso legate a consorterie plurifamiliari e clientelari.
“Si pensi alle acerbe contese tra fazioni nominalmente guelfe (le prime) e ghibelline (le seconde): a Firenze (1216) tra Fifanti e Uberti e tra Buomdelmonti ed Amidei; a Pisa fra Pergolini e Raspanti; a Genova (1241) fra Raspini e Mascherati; a Modena tra Anginoni e Fregnanesi detti Gualandelli (1188) e, poi, fra Aigoni (o Aginoni) e Grasolfi; a Bologna fra Geremei e Lambertazzi e tra Scacchesci e Maltraversi; ad Arezzo fra Parte Verde e Secchi; a Verona tra Capuleti e Montecchi.”[1]
S’instaurarono situazioni complicate, dove le nominali appartenenze guelfe e ghibelline non riescono da sole a spiegare lotte che hanno nelle faide familiari la loro matrice preponderante; il tutto aggravato dalle catene clientelari che accompagnavano ogni famiglia notabile, in cui le famiglie erano divise tra obbedienze ad una parte rispetto all’altra. Infine, nello stesso partito vi erano interminabili faide e repentini cambi di schieramento, seguiti da lunghi esili e bande di fuoriusciti (uno per tutti Dante Alighieri).
“Questi, poi, scacciati dalle loro città, cercavano in altre accoglienza e supporto per vendicarsi in armi della parte avversa. Si noti che la pluralità di gruppi e di interessi fu una costante dell’inurbamento, anche fuori d’Italia. Ora, però, mentre nelle città estere la tendenza prevalente fu la collaborazione fra i vari gruppi, nei comuni italiani lo scenario dominante fu una generalizzata conflittualità"[2]
La guerra proseguì sanguinosa fino alla sconfitta degli imperiali a Fossalta, vicino Modena, dove il figlio di Federico II, Enzo, fu preso prigioniero dai bolognesi (1249). La sua prigionia a vita diede il nome ad uno dei più famosi edifici cittadini, il Palazzo Re Enzo. La morte l’anno successivo di Federico II e la sconfitta dei suoi eredi nelle battaglie di Benevento (1266) e Tagliacozzo (1268) causò la perdita della corona imperiale e la dissoluzione successiva del partito ghibellino.
La stessa parte guelfa subì una profonda spaccatura. I guelfi si divisero in Neri, filo-papali, e Bianchi, moderati filo-imperiali. Storica in Firenze la lotta infinita e crudelissima che oppose le famiglie dei Donati, guelfi neri, e dei Cerchi, guelfi bianchi. Per il vero, tale sviluppo partitico non aveva quasi più legame con le iniziali fazioni dinastiche: i comuni erano in una guerra civile perenne, totalmente slegata dallo scontro Papato-Impero che aveva caratterizzato il Medioevo fino ad allora, mostrando la loro perdita di prestigio e di potere e la loro fine quali potenze sovra-nazionali.
Ciò non impedì agli Italiani di darsi battaglia sotto tali insegne per molto tempo.
È questo il caso di Modena e Bologna, con i primi da sempre ghibellini e i secondi filopapali. In un contesto di scontri per il possesso di alcuni castelli fortificati lungo il confine (Bazzano, Savigno, Monteveglio e Zappolino), i Bolognesi, guidati da Malatestino Malatesta, si spinsero nei territori di Passerino Bonacolsi, signore di Modena e Mantova, saccheggiandoli e scatenando la reazione dei modenesi, che conquistarono il castello di Monteveglio. Nella località nota come Ziribega, il 15 novembre 1325 si affrontarono il più numeroso esercito bolognese (35 mila/25 mila fanti e circa 2500 cavalieri) e il meglio addestrato esercito modenese, che poteva, però, contare su meno di 10 mila soldati di cui meno di 3 mila cavalieri. In aggiunta, Malatestino era giovane e inesperto e il capitano del popolo di Bologna, Fulcieri da Calboli, era accusato di essere un codardo, mentre l’esercito modenese era comandato da Rinaldo d’Este, comandante in capo dell’esercito ferrarese e dell’armata ghibellina, dal succitato Bonaccolsi, comandante esperto e spietato, da Azzone Visconti, figlio di Galeazzo Visconti, signore di Milano, a capo della cavalleria, coadiuvato dai ghibellini bolognesi Ettore da Panico e Muzzarello da Cuzzano, sanguinario signore dell’alta valle del Samoggia. Quest’ultimo conosceva perfettamente i luoghi dello scontro e questo fu decisivo per le sorti della battaglia.
Dopo alcune scaramucce la battaglia fu aperta solo nel pomeriggio dalla carica di Azzone Visconti, che colpì il centro dello schieramento bolognese presso i Prati di Saletto, il quale si ritrovò presto intralciato dal suo stesso numero in un terreno così difficoltoso. Nelle sue file di diffuse il panico e, approfittando del buio, i bolognesi si diedero alla fuga, lasciando sul campo circa 3000 morti. I vincitori li incalzarono fin sotto le mura di Bologna, schernendo i difensori con palii e giostre, ma ben sapendo di non avere le forze per assediarla. Si accontentarono di distruggere i castelli lungo la strada per Bologna e di “rapire” una secchia di legno, ancora oggi custodita nella Torre Ghirlandina e resa famosa dal poema eroicomico di Alessandro Tassoni, pubblicato nel 1624. Senza di esso la vicenda sarebbe stata probabilmente dimenticata, poiché la battaglia non portò a nessun cambiamento di fondo negli equilibri politici della regione.
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Vittorio Trenti
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
Bibliografia V. Lenzi, La battaglia di Zappolino e la secchia rapita, Il Fiorino 2001 F. Menant, L’Italia dei comuni, Viella 2011 A. S. Scaramella, Le Guerre tra Guelfi e Ghibellini, Chillemi 2015 [1] e [2] http://zweilawyer.com/2017/10/16/guelfi-e-ghibellini/
#lookingforpiteco#pitechi#cultura piteca#storia#history#guelfi e ghibellini#secchia rapita#Vittorio Trenti#CAI Modena#Cimone
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2007 … Italian Premiere in Roma with Dario & Asia Argento October 23/2007 Asia Argento & Dario Argento ... ... attends the 'La Terza Madre/Mother of Tears/The Third Mother/Mother Of Tears' premiere during Day 6 of the 2nd Rome Film Festival .. in Rome, Italy Festa del Cinema di Roma La Terza Madre Also Known As (AKA) Argentina (DVD title) La madre de las lágrimas Bulgaria (Bulgarian title) Майката н�� сълзите Brazil O Retorno da Maldição - A Mãe das Lágrimas Spain La madre del mal Finland Mother of Tears France Mother of Tears - La troisième mère Greece (DVD title) I mitera ton lygmon Hungary Könnyek anyja Italy (literal English title) The Third Mother Japan サスペリア・テルザ 最後の魔女/Sasuperia Teruza saigo no majo Japan (English title) (short title) Suspiria Terza Poland Matka lez Portugal Mãe das Lágrimas: A Terceira Mãe Serbia Majka suza Russia Мать слёз Taiwan Mu nai yi bo wu guan USA (working title) Exhumed USA Mother of Tears World-wide (English title) Mother Of Tears World-wide (English title) Mother of Tears: The Third Mother
Directed by Dario Argento
Music by Claudio Simonetti
Writing Credits Jace Anderson Dario Argento Walter Fasano Adam Gierasch Simona Simonetti
Filming Dates 30 October 2006 - January 2007
Release Dates Canada 6 September 2007 (Toronto International Film Festival) Italy 24 October 2007 (Rome Film Festival) Italy 31 October 2007 France 27 January 2008 (Gerardmer Film Festival) Russia 21 February 2008 (DVD premiere) Belgium 4 April 2008 (Brussels International Festival of Fantasy Films) Netherlands 11 April 2008 (Amsterdam Fantastic Film Festival) Turkey 18 April 2008 (Istanbul Film Festival) USA 25 April 2008 (San Francisco International Film Festival) UK 27 April 2008 (Dead by Dawn Horror Film Festival) UK 28 April 2008 (DVD premiere) USA 23 May 2008 (Seattle International Film Festival) Taiwan 6 June 2008 USA 6 June 2008 (limited) Brazil 11 June 2008 (DVD premiere) Canada 15 July 2008 (Fantasia Film Festival) France 16 September 2008 (DVD premiere) Greece 14 October 2008 (DVD premiere) Poland 30 October 2008 (DVD premiere) Argentina 13 November 2008 (DVD premiere) Netherlands 27 January 2009 (DVD premiere) Japan 28 February 2009 (Yubari International Fantastic Film Festival) Japan 25 April 2009 (Tokyo) Philippines 17 June 2009 Finland 7 October 2009 (DVD premiere) Hungary 21 October 2009 (DVD premiere) Mexico 10 February 2010
technical specifications Runtime 1 hr 42 min (102 min) (unrated) (USA) 1 hr 38 min (98 min) (Toronto International) (Canada) 1 hr 30 min (90 min) (DVD) (Argentina)
Filming Locations Terni, Umbria, Italy
Cinecittà Studios, Cinecittà, Rome, Lazio, Italy
Rome, Lazio, Italy
Turin, Piedmont, Italy
Cast Asia Argento… Sarah Mandy Cristian Solimeno… Detective Enzo Marchi Valéria Cavalli … Marta Colussi Philippe Leroy … Guglielmo De Witt Daria Nicolodi … Elisa Mandy Coralina Cataldi-Tassoni… Giselle Mares Udo Kier … Father Johannes Adam James… Michael Pierce Moran Atias… Mater Lachrymarum Robert Madison… Detective Lissoni Jun Ichikawa… Katerina Tommaso Banfi… Father Milesi Paolo Stella… Julian Clive Riche … Man in Overcoat Massimo Sarchielli… The Hobo Barbara Mautino… Valeria Gisella Marengo… Catacomb Witch #1 Marica Coco… Catacomb Witch #2 Diego Bottiglieri… Indian Franco Leo… Monsignor Brusca Silvia Rubino… Elga Claudio Fadda… Demon #1 Roberto Donati… Demon #2 Gianni Gatta… Demon #3 Luca Pescatore… Paul Pierce Alessandro Zeme… Luigi Antonio Pescatore… Plainclothes Detective Stefano Fregni… Taxi Driver Simonetta Solder… Young Mother James Kelly Caldwell… TV Announcer Simone Sitta… Witch Guide Daniela Fazzolari … Witch Alessandra Magrini… Witch Camilla Gallo… Witch Maria Biondini … Witch Federica Botto… Witch Serena Brusa… Witch Eleonora Marcucci… Witch Eleonora Misiti… Witch Rebecca Perlati… Witch Ivana Zimbaro … Witch Araba Dell'Utri… Witch
#la terza madre#le tre madri#dario argento#darioargento#asia argento#asiaargento#daria nicolodi#movie premiere#film premiere#the third mother#mother of tears#giallo fever#giallofever#gialloallitaliana#giallo films#giallo#giallo allitaliana#giallo all’italiana#horror film#italian horror#horrormovie#horror
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Dal mio recente shooting per @tassoni_shop se siete sul Lago di Garda o a Brescia non vi pentirete ad andare a bere qualcosa di alcolico o no da Alessandro! 😉 La qualità dei suoi cocktail è strabiliante veramente curatissimi e di altissimo livello..in base alla vostra scelta potete trovare profumi, fiori 🌹direttamente sul #cocktail Strepitoso 🤩🍸 qui abbiamo un drink 🍹 a base di Pescamara 🍑 con Curcuma salvia lime zucchero pepe molto fresco e estivo!! 📷 Schema Luce - Luce di taglio molto diffuso - assistente @silvy9o #tassoni #fashion #portrait #girl #lake #sunset #photo #photography #vitadafotografo #light #portraitphotography #speedlight #nikonphotography #nikonitalia #nikon #picoftheday #photography #photo #likeforlikes #likeforfollow #volgobrescia #volgolombardia #volgoitalia #gardainvacanza #aframetoremember #italian_portraits #visititaly #visitbrescia #yallersitalia #lakegarda #ig_ritratti (presso Tassoni Shop & Drink) https://www.instagram.com/p/ByqDJQooTUC/?igshid=1ge6tkvdhoz3u
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"Il mondo? dove?" di Lamberto Pignotti
“Il mondo? dove?” di Lamberto Pignotti
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La Galleria Clivio è lieta di presentare la mostra “Il mondo? dove?” di Lamberto Pignotti. A distanza di un anno dalla precedente personale, la Galleria rende omaggio ad uno dei pionieri e maestro indiscusso della Poesia Visiva, recente vincitore del Premio Bernard Heidsieck “Extra!” del Centre Pompidou, Parigi, e del Premio Alessandro Tassoni “Honoris causa”, Modena. Nella sede di Milano saranno…
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LA SECCHIA RAPITA
E’ il titolo di un poema eroicomico di Alessandro Tassoni nel quale si narra di un episodio storico avvenuto nel XIV secolo. I modenesi rubarono una secchia di legno ai bolognesi e ciò fu causa di una guerra tra le 2 città. Il Tassoni approfitta naturalmente della sua penna per condannare le guerre intestine italiane. Per la cronaca, la guerra la vinsero i modenesi che avevano perpetuato il…
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ASCOLI PUCENO – Appuntamento domenica 20 gennaio (alle ore 18,00 presso la libreria Rinascita di Ascoli Piceno, in piazza Roma 7) con il romanzo La rampicante di Davide Grittani(LiberAria Editrice, Bari 2018; Pagg. 222; Prezzo di copertina 16,50 euro; Collana Meduse) che alcune indiscrezioni del mondo editoriale dànno tra i canditati al Premio Strega 2019 (https://www.illibraio.it/premio-strega-2019-voci-sui-candidati-948207/). Dialogano con l’autore Lucia Marinangeli, presidente AIDO – Marche, Paolo Cappelli presidente AIDO – Ascoli Piceno ed Eleonora Tassoni, libreria Rinascita – Ascoli Piceno.
Un libro che sta emozionando e contagiando i lettori, grazie a una storia molto complessa ma anche molto affascinante.Completamente ambientata nelle Marche, dal Fermano al Maceratese, dalla regione che con straordinaria dignità ha reagito a tutto ciò che le è successo negli ultimi anni, a cominciare dal sisma del 2016. Una storia realmente accaduta (agli inizi degli anni Novanta) che Davide Grittani ha ricostruito recuperando fatti e misteri, mescolando con cura una trama d’altri tempi a personaggi e circostanze dei nostri giorni.
Ognuno di noi si trascina una sua “controstoria” dell’11 settembre, non di ciò che successe quel giorno ma di ciò che stava facendo in quel momento. In un piccolo paese che porta il nome del mare ma s’aggrappa alle colline, l’11 settembre 2001 un adolescente scopre di non essere ciò che credeva. Comincia una scivolosa rincorsa alla verità, un viaggio miserabile e commovente durante cui è costretto a misurarsi con ipocrisie, inganni, generosità, necessità e vendette.
Nella calma imperturbabile di Sant’Elpidio a Mare ribolle il sangue di un ragazzo: un ragazzo che decide di ribellarsi alle logiche del branco, mentre una bambina sente voci nella sua testa e dispensa una strana saggezza, e mentre un padre impone rispetto comprando i destini di chi lo circonda. La rampicanteracconta la piccola e maestosa epopea di Riccardo Graziosi, la sua avventura umana dall’età di 15 ai 30 anni.
Una trama fitta, tirata dalla prima all’ultima pagina, giocata sull’incapacità degli uomini di rendersi conto del privilegio che gli è stato concesso dalla vita, sull’importanza del dono (ammesso che uno appia riconoscerlo) e sulla perversa casualità della fortuna.
Una tragedia pop e shakespeariana che parte da lontano e arriva fino alle Marche dell’ultimo terremoto (2016), una storia spietata e romantica che indaga le nostre coscienze, come dice Dacia Maraini a proposito de La rampicante, fino a chiederci se «ci siamo meritati tutto ciò che abbiamo avuto?» Davide Grittani affronta alcuni dei temi più cari alla letteratura universale, come la relazione tra padre e figlio, il rapporto dell’uomo con la giustizia e con il denaro – e quindi essenzialmente con la verità – passando per la stringente attualità di argomenti come l’adozione e il disagio infantile, fino all’atto estremo, solenne e irreversibile della donazione d’organi.
Furio Colombo descrivendo La rampicante sostiene che il romanzo «è come un documentario, narrato però con impetuosa espressività letteraria. Incalzano i fatti, le sequenza di eventi, la durezza delle parole e dei sentimenti, che hanno una brutale vitalità rara nella fiction».
Il continuo incalzare dei fatti e l’agilità coinvolgente con cui la storia procede, riportando paradossalmente tutto al punto di partenza, suggellano il titolo del libro: La rampicante. Riccardo trascorrerà la vita a implorare comprensione e meditare vendetta, inciampando continuamente nei rami dell’edera: simbolo del destino che non scende a patti, che non accetta compromessi.
Adesso questo romanzo, che sta girando l’Italia con numerose presentazioni allestite e in corso di allestimento, è tra i papabili a una candidatura al Premio Strega 2019, cioè la competizione letteraria ed editoriale più importante dell’Italia e tra le più importanti d’Europa. Fa un certo effetto, saper chw alla base di questa esperienza ci siano una storia e un’ambientazione che sono state calate totalmente all’interno delle Marche, di un territorio che attraverso queste pagine racconta del fascino straordinariamente misterioso di un popolo così nascosto, così essenziale. «Una storia coraggiosa e importante, ambientata nelle Marche che nessuno conosce bene quanto il silenzio e la dignità».
Hanno detto de “La rampicante”
«La donazione degli organi resta il più misterioso e affascinante metodo per tornare a nascere. Sono davvero pochi i romanzi che se ne sono occupati senza scadere nella banalità, quello di Davide Grittani lo fa addirittura con una discreta dose di cinismo. Nelle mani del lettore, alla fine del libro, resta l’interrogativo che forse sta alla base di tutte le coscienze: ci siamo meritati tutto ciò che abbiamo avuto?». Dacia Maraini
«Scritta in una lingua delicata, questa è la storia di come un tormento finisca per diventare una rivelazione. L’autore riporta la vita nelle terre scosse dal terremoto, e lo fa con la necessaria crudeltà della letteratura. Un libro molto denso, pieno di personaggi che si mostrano e nascondono continuamente come dentro scatole cinesi. Un omaggio alla poesia delle Marche, alla forza d’animo dei marchigiani». Wanda Marasco
«La ampicante è come un documentario, narrato però con impetuosa espressività letteraria. Incalzano i fatti, le sequenze di eventi, la durezza delle parole e dei sentimenti, che hanno una brutale vitalità rara nella fiction. Di questo romanzo di Grittani si può dire che la narrazione, risoluta e tenace, supera l’invenzione. Non consola, fa luce». Furio Colombo
«Un romanzo che incanta alla pagina, emoziona e coinvolge come poche altre storie. Grittani riesce a rapire la coscienza del lettore, che poi è la principale missione degli scrittori. La scrittura, visiva ed agile, appare dotata di una rara intensità». Roberto Pazzi
«La rampicante racconta di un Paese di cui non ci vergogniamo mai abbastanza, dei delitti e delle pene che ogni giorno si consumano nelle pieghe della nostra provincia. Scritto con una voce raffinata e cinica, il romanzo di Grittani parla di usura, amore, morte ma anche di trapianti e speranze. Parla delle Marche, terre magiche e misteriose in cui nulla sembra avvenire per caso. Nemmeno il terremoto, che scuote la vita dei personaggi ma che soprattutto scuoterà la coscienza dei lettori». Andrea Purgatori
«Un viaggio all’interno di una terra che non si risparmia, che lesina le parole avvolgendosi in un silenzio senza redenzione; un’esperienza narrativa che forse va al di là delle possibilità umane di comprensione, offrendo al lettore uno spunto di riflessione necessario seppur crudele; un percorso ad ostacoli che si muove tra la donazione degli organi, il ricordo ancora vivo del terremoto e la percezione della solitudine a cui tutti gli uomini – buoni o cattivi – sono destinati. Un appello alla vita che, come l’edera, resiste e persevera. Tutto questo è La rampicante di Davide Grittani». Giulia Ciarapica
«La capacità di riconoscere e aggrapparsi alla bellezza appartiene alle anime tormentate, come quelle di Riccardo ed Edera, protagonisti di un romanzo potente che intreccia ombra e luce, vita e morte, segreti e rivelazioni, sconfitte e rinascite. Questo continuo gioco di opposti, presente anche nell’esistenza di ognuno di noi, è narrato benissimo da Grittani che, con scrittura solida e mai compiaciuta, compone paesaggi umani nei quali sostare. Sullo sfondo le Marche, metafora di mondi interiori che tremano dal di dentro, eppure in grado di ricominciare». Paola Cereda
Davide Grittani (Foggia, 1970) è giornalista e scrittore. Dal 2006 al 2016 ha curato la prima mostra internazionale della letteratura italiana tradotta all’estero Written in Italy, che ha raccolto ed esposto (in 16 Paesi di tutti i Continenti) una biblioteca di oltre 3200 traduzioni in rappresentanza di 800 autori italiani dal 200 ad oggi, 56 lingue e 24 alfabeti: per Written in Italy si è aggiudicato il Premio Maria Grazia Cutuli 2010.
Ha pubblicato il romanzoRondò. Storia d’amore, tarocchi e vino (Transeuropa 1998, allora diretta da Massimo Canalini) e E invece io (Biblioteca del Vascello 2016, Torino) presentato in concorso al Premio Strega 2017. Della sua scrittura e delle sue attività si sono occupati a vario titolo Alessandro Piva, Giorgio Barberi Squarotti, Giampaolo Rugarli, Dacia Maraini, Ettore Mo, Corrado Augias, Marcello Sorgi, Wanda Marasco, Andrea Purgatori, Massimo Canalini, Fabio Geda, Roberto Pazzi, Stefano Petrocchi, Mario Sansone e Furio Colombo. La rampicante (LiberAria Editrice 2018, Bari) è il suo terzo romanzo.
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Una foto desde el balcon de casa (en Corso Alessandro Tassoni)
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La Secchia Rapita - un poema a fumetti - parte 3
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La Secchia Rapita è un poema in ottave eroicomico scritto da Alessandro Tassoni (1565–1635). Pubblicato nel 1622, racconta del conflitto tra i Comuni di Bologna e Modena al tempo dell’Imperatore Federico II, prendendo ispirazione dalle battaglie di Zappolino e Fossalta dove a farne le spese, secondo la trazione, fu… una secchia!
Nel 1972 il fumettista e regista Pino Zac (alias Giuseppe Zaccaria 1930–1985), disegnò a fumetti la storia, lanciato poi come cartone animato e trasmesso su Gulp!, ovvero il programma dei “Fumetti in Tv” SuperGulp!
Tra il primo ottobre 2018 e il 30 aprile 2020 ho provato a ridisegnare la curiosa opera (il Primo Canto), un piccolo omaggio e un primo tentativo di dedicarmi a questo medium.
https://alessandrovinai.medium.com/la-secchia-rapita-un-poema-a-fumetti-e0f047148536
#fumetto#fumetti#comics#poema#poem#disegno#modena#bologna#tassoni#pino_zac#secchiarapita#graziemarteeena
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/19/mattarella-la-cagnetta-mesagne-larcivescovo-brindisi/
Mattarella, la cagnetta di Mesagne, e l'arcivescovo di Brindisi
di Armando Polito
Può sembrare stravagante o poco serio dedicare un post ad un animale associato ad un alto prelato e qualcuno arriverà perfino a pensare ad una qualche velata allusione alla più alta carica dello Stato, ingannato da una superficiale considerazione della punteggiatura del titolo, in cui le due virgole che racchiudono la locuzione cagnetta di Mesagne attribuiscono alla stessa, in base alle regole grammaticali ancora, nonostante la Buona sacuola …, in vigore, una valenza inequivocabilmente appositiva. Va da sé che l’assenza di virgola dopo Mesagne avrebbe, al contrario, convalidato un’allusione che in altri tempi mi avrebbe forse procurato l’accusa di vilipendio … La genesi di quanto sto per dire è assolutamente casuale, vale a dire legata occasionalmente ad uno studio, che sarà oggetto di un prossimo post, su Gianfrancesco Maia Materdona, un poeta mesagnese del XVII secolo.
L’unica sua biografia è quella lasciataci da Ortensio De Leo (1712-1791), datata 1770, custodita nella Biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale De Leo” a Brindisi (ms. D/14).
Rimase inedita fino al 1974, quando venne pubblicata da Wanda De Nunzio-Schilardi in Annali della facoltà di Magistero dekk’Università di Bari, v. XIII. Qui riproduco, trascrivo e commento direttamente dal manoscritto originale la parte che ci interessa,
da carta 10r
Si recò finalmente in Mesagne, e quivi nell’anno 1633 provò il dispiacere di essergli morta la sua Cagnolina Bolognese, tutta biancha,
carta 10v
biancha, e a lui molto cara, che fe sepelire entro il pariete di un suo giardino di delizie fuori le Mura, al presente detto dell’Impalata posseduto da quel Marchese con i seguenti versi fatti incidere in una bianca lapide, ma per la maggior parte corrosi dal tempo: CANA CANIS CANO. TEGOR HOC SUB MARMORE NOMEN/MATTARELLA MIHI. FELSINA ME GENUIT./LUSTRUM, ET DIMIDIUM VIXI FIDISSIMA CUSTOS./OBLONGO, ET CRISPO VELLERE DIVES ERAM./PARVULA BLANDA FUI. ITALIAM TRANSVECTA PER ORBEM./ET NUMQUA1 DOMINO DISSOCIATA MEO./HIC TUMULUM LACRIMIS DICAT. QUO, DEPRECOR, IBIS/FAC TANTI MEMORES, HOSPES, AMORIS OPUS./FRANCISCUS MAIA MATERDONA HERUS/POSUIT IDIB(US) IULII/MDCXXXIII
Interrompo la trascrizione qui per tradurre l’epigrafe che è in distici elegiaci: Parlo (io) bianca cagnolina. Sono sepolta sotto questo marmo. mi chiamo Mattarella. Sono nata a Bologna. Ho vissuto fedelissima custode per cinque anni e mezzo. Ero dotata di un pelo lungo e riccio. Sono stata piccolina e affettuosa. Portata per l’Italia e per il mondo, mai mi sono separata dal mio padrone. Egli tra le lacrime mi dedica la tomba. Viandante, ti prego, Dovunque andrai, ti prego, fà che tu ricordi questa testimonianza di tanto amore. Il padrone Francesco Maia Materdona pose il 15 luglio 1633. Faccio notare, perché, cone vedremo fra pochissimo, costituisce la pietra dello scandalo, il gioco di parole, espediente privilegiato della letteratura barocca, CANA (aggettivo femminile singolare=bianca), CANO (prima persona singolare dell’indicativo presente di canere= io canto) e CANIS (sostantivo maschile o femminile, qui femminile=cagnetta).
Riprendo la trascrizione.
Ciò che poi circa la fine del medesimo secolo diede motivo di giusto sdegno allo zelantissimo Arcivescovo di Brindisi Francesco Ramirez Domenicano, il quale essendosi abbattuto nella suddetta iscrizione, ed avendone letto il primo verso domandò que’ suoi Diocesani, qual significato avesse; ed essendo stato informato, che era il sepolcro di un cane, esclamò in sua lingua spagnola: Cuerno, Cuerno, Cuerno, insultando con allusiva derisione il Cana canis cano. Ma simili trasporti di passione debbono esser condonati alla fantasia di un Poeta, giacché si legge, che il gran Petrarca ebbe ancora una gran
da carta 11r
gran passione verso di un suo Gatto, che indi morto fù fatto inbalzamare, e così tuttora esiste in una stanza in Arquà villa del Padovano, ove sono le memorie dell’istesso Poeta con i seguenti versi: Etruscus gemino vates exarsit amore./Maximus ignis ego, Laura secundus erat./Quid rides? Divinae illi si gratia formae,/me dignum eximio fecit amore fides./Si numeros, geniumque sacris dedit illa libellis,/causa ego ne saevis muribus esca forent.
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Arcebam sacro vivens a limine mures,/ne Domini exitio scripta deserta darent./Incutio trepidis eadem defuncta pavorem/et viget exanimi in corpore prisca fides. L’epigrafe per il gatto del Petrarca fu composta in distici elegiaci dal canonico Antonio Quarenghi (1547-1633) ma il testo trascritto nel manoscritto contiene alcuni errori, come mostra quello che ho trascritto dal monumento in basso riprodotto.
Etruscus gemino vates exarsit amore./Maximus ignis ego; Laura secundus erat./Quid rides? Divinae illam si gratia formae/me dignam eximio fecit amante fides./Si numeros geniumque sacris dedit illa libellis,/causa ego ne sævis muribus esca forent.
Arcebam sacro vivens à limine mures,/ne domini exitio scripta diserta forent./Incutio trepidis eadem defuncta pavorem/et viget exanimi in corpore prisca fides.
(Il poeta toscano arse di un duplice amore. Il fuoco più grande ero io, Laura il secondo. Che ridi? Se la grazia di una divina bellezza rese lei degna di un esimio amante, me la fedeltà. Se lei ispirò agli scritti ritmi e inventiva io fui il motivo per cui non diventassero cibo per i crudeli topi.
Da viva tenevo lontani i topi dalla sacra soglia perché gli scritti del padrone non fossero abbandonati alla rovina. Io stessa da morta incuto paura a loro ansiosi e l’antica fedeltà è viva nel corpo esanime).
Oggi sono proprio soddisfatto, perché son riuscito a rievocare due poeti in modo non convenzionale, cioè mettendo in campo non le loro poetiche o avventati confronti o, peggio ancora, improbabili classifiche, ma il comune amore per gli animali, che, poi, è anche il mio. L’amore per la verità, però, e ancor più la voglia di compensare certe crudeli ingiustizie del destino mi obbligano ad informare il lettore che il tumulo della gatta di Arquà in realtà è una realizzazione dovuta agli inizi del XVII secolo a Girolamo Gabrielli, nuovo proprietario dell’immobile, quando questo era già diventato una specie di museo meta di visitatori. Il Petrarca non ci ha lasciato nessun pensiero riguardante i gatti, ma tutto probabilmente è nato da un affresco di autore anonimo del XIV secolo (dunque coevo al grande poeta) visibile nella Sala dei Giganti della Reggia Carrarese a Padova, ove l’animale acciambellato a destra è stato identificato come un gatto, anche se a me sembra, col muso così allungato, più un cane (dettaglio ingrandito).
E pure la poesia ebbe la sua parte di responsabilità nel consacrare quasi definitivamente quello che per me è un autentico equivoco ispirato da intenti, quelli del Gabrielli, che con locuzione moderna non avrei difficoltà a definire pubblicità ingannevole. La sua parte di responsabilità, poi, ha Alessandro Tassoni ne La Secchia rapita (prima pubblicazione a Parigi nel 1622), VIII, 33, vv. 5-8: Dove giace colui, nelle cui carte/l’alma fronda del Sol lieta verdeggia;/e dove la sua Gatta in secca spoglia/guarda dai topi ancor la dotta soglia. Va detto, però che proprio un comtemporaneo del Tassoni fa riferimento al tema non senza irriverente ironia: Francesco Driuzzo in una canzone inserita in La casa ed il sepolcro del Petrarca in Arquà, Gattei, Venezia, 1827, p. 67 così poetava: S’ei cantò di un’alma bella/le fattezze e i pregi rari,/perché mai nemica stella/sol vi fa di Laura avari/e mostrate contraffatta/questa secca e sozza gatta?/Colei che dal Troian fu in Ilio tratta,/cambiossi in una vil secchia di legno,/e qui per Laura traformossi in gatta./Perché alcun non pensi male/io vo’ dir che questa gatta/fu quel ciuccio d’animale,/che la parte aveva fatta/di cambiarsi in bella donna:/ma vestita poi di gonna,/visto un topo, l’addentò,/ed in gatta ritornò. E a distanza di più di un secolo Gaetano Rossi con un sonetto inserito in Lagrime in morte di un gatto, s. n., s. l., 1741, p. 92: Vago, e bello non men, che destro, e forte/gatto fra quanti mai formar Natura/seppe; già un tempo mio diletto, e cura,/or mio cordoglio, or vittima di morte./Poiché sì volle la mia cruda sorte,/gli occhi da quel pianeta, ov’hai sicura/sede, ov’hai premio de la tua bravura,/volgi al mio pianto, e a le ,ie guance smorte;/o a quella almeno di messer Petrarca/gatta, ch’ei pianse al Mondo unica e sola,/lieto t’accoppia, e manda in giù la razza./Morranno intanto in mezzo de la piazza/gli assassini appiccati per la gola,/e a te porrem grande Epitafio, ed Arca.
Il pericolo, però, che la favoletta della gatta di Petrarca continui a rinnovarsi è sempre in agguato, se si pensa che Detlef Bluhm autore tedesco nato nel 1954, per così dire, monotematico2, in Il gatto che arrestava i malviventi e altre storie, Corbaccio, Milano, 2015, si spinge ad inventare l’esistenza di una lettera scritta dal Petrarca al Boccaccio una settimana prima di morire, nella quale descrive con dovizia di particolari come la fantomatica gatta sia entrata nella sua vita e vi sia rimasta.
A questo punto il lettore si chiederà se a qualcuno non sarà venuto in mente di darle un nome. Eccolo servito. In Mario Scaffidi Abbate, La gatta. Anatomia di un amore, Meligrana, Tropea, 2014, si leggono a p. 9 questa battute: – E se la chiamassimo Sofonisba?-. -Sofonisba?!-. – Perché no? La gatta del Petrarca si chiamava così, l’abbiamo pure vista, non ti ricordi? -. – Sì, seicento anni fa! -. – Np, non più di dieci, o quindici, ad Arquà, nell’ultima casa del Poeta. Imbalsamata -.
Lucidamente ed amaramente, però, già nel 1846 Niccolò Tommaseo in Ricordi sui colli euganei, s. n. s. l., p. 15 scriveva: La tavola di Giotto che ornò la casa del Petrarca, è perita la signoria Carrarese: ma consoliamoci; la gatta del Petrarca non ha abbandonato il suo posto. E molti di coloro che visitano Arquà non per amore del dolce tuo canto, o Poeta, o dell’ameno soggiorno, ma lo visitano perch’altri l’ha visitato; guarderanno più attentamente alla gatta che ai colli, più alla gatta che ai due terzetti del- l’Alfieri, che sono de’ meglio temprati e più antichi versi ch’abbia la moderna poesia; più alla gatta che al nome di Giorgio Bjron, che senza titolo né altra parola sta confuso fra tanti, e dice più d’ogni lode.
Per fortuna, aggiungo io, restano, finché la Terra ruoterà e la nostra razza sopravviverà, pur nel rischio dell’oblio, le opere e, al di là delle invenzioni, le fonti. E nel chiudere, ripromettendomi a breve, come ho anticipato, di parlare della cospicua produzione del letterato mesagnese, mi piace, consapevole di autoincludermi in un certo senso nel novero dei superficiali stigmatizzati dal Tommaseo, ricordare che qualcosa resta della tomba di Mattarella in quella che fu contrada Impalata a Mesagne, oggi via Maia Materdona, cioè proprio l’epigrafe, murata dopo il civico 32 all’incrocio con Via Solferino.
Sarò grato a chiunque invierà un’immagine sostitutiva più leggibile. Nel frattempo, rubando alla stessa epigrafe immagine e parole finali, invito il viandante che si trovi a passare su quella via a captare con un po’ di fantasia il disappunto che ancora vi aleggia dell’arciprete Ramirez col suo Cuerno, cuerno, cuerno!, interiezione consona ad un prelato non per il significato letterale dello spagnolo cuerno, che corrisponde al nostro corno, quanto per quello traslato corrispondente al nostro diavolo. E per facilitargli il compito, dopo aver ricordato che Francesco Ramirez (1648-1715) da Toledo fu arcivescovo di Brindisi dal 1689 al 1697 e di Agrigento dal 1697 fino alla morte e che nella città siciliana fondò il Collegio dei SS. Agostino e Tommaso, riproduco di seguito i due monumenti che ivi gli furono dedicati, uno lapideo, posto nell’ingresso, nel 1722 e uno ligneo, nell’aula di sacra teologia, nel 1726, opera del maestro agrigentino Onofrio Vicari, recante in cima il suo ritratto ad olio.
D(EO)O(PTIMO) M(AXIMO)
iLLUSTR(ISSIM)US ET REVER(ENDISSIM)US D(OMI)NUS S(ACRAE) T(HEOLOGIAE) M(AGISTER) FRA D(OMINUS) FRANCISCUS RAMIREZ/EX ILLUS(TRISSI)MO PRAEDICATORUM ORDINE ARCHIEPISCOPUS BRUNDUSINUS/EPISCOPUS AGRIGENTINUS DOCTRINA ET ELOQUENTIA EXIMIUS INSIGNE HOC/COLLEGIUM SUB SS. AUGUSTINI ET THOMAE AUSPICIIS FUNDAVIT, EREXIT, DOTA/VIT IN EOQ(UE) PUBLICAS CATHEDRAS MATUTINAM SS. CANONUM ET VE/SPERTINAM THEOLOGIAE MORALIS INSTITUIT. ACERRIMUS IMMU/NITATIS ECCLESISTICAE PROPUGNATOR OBIIT ROMAE ANNO DOMINI/MDCCXV AETATIS SUAE 67. COLLEGIUM BENEFACTORI SUO/MONUMENTUM HOC POSUIT DEPUTATIS R(EGIIS) REVER(ENDISSIM)IS DD/ U(TRUSQUE) I(URIS) D(OCTORE) CAN(NONICO) D(OMINO) SALVATORE MARCHESE U(TRIUSQUE) I(URIS) D(OCTORE) ET S(ACRAE) T(HEOLOGIAE) P(ROFESSORE)/CAN(ONICO) D(OMINO) GASPARE SALERNO ET CAN(ONICO) D(OMINO) LAURENTIO/PITACCIOLO/ANNO D(OMI)NI 1722
(A Dio Ottimo Massimo. L’illustrissimo e reverendissimo signore maestro di sacra teologia Fra Don Franceso Ramirez dell’illustrissimo ordine dei predicatori, arcivescovo di Brindisi, vescovo di Agrigento, esimio per dottrina ed eloquenza, fondò eresse e dotò questo insigne collegio sotto gli auspici dei santi Agostino e Tommaso ed in esso istituì pubbliche cattedre, la mattutina dei sacri canoni, la serale di teologia morale. Acerrimo difensore dell’immunità ecclesiastica, morì a Roma nell’anno del Signore 1715 all’età di 67 anni. Il collegio al suo benefattore pose questo monumento essendo deputati regii i reverendissimi Signori canonico Don Salvatore Marchese dottore in entrambi i diritti, canonico Don Gaspare Salerno dottore di entrambi i diritti e professore di sacra teologia e canonico Don Lorenzo Pitacciolo nell’anno del Signore 1722).
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1 Errore per numquam.
2 Basta considerare gli altri titoli pubblicati in traduzione italiana sempre da Corbaccio: Impronte di gatto, Corbaccio (2004); La gatta che amava le acciughe, Corbaccio (2007); Tutto quello che vorreste sapere sui gatti (2014); Gatti di lungo corso (2017); I gatti e le loro donne (2017).
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