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#Adriana Faranda
lifewithaview · 17 days
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Daniela Marra in Esterno notte (2022) I terroristi
Ep4
The days before the kidnapping of Aldo Moro and the period of his captivity from the point of view of the executors of everything, a central core of the Red Brigades.
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madonnaaaddolorata · 2 years
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sto per comprare un paio di stivali vintage che urlano Adriana Faranda
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Incontro tra Agnese Moro e Adriana Faranda a Roma
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tempi-dispari · 1 year
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Fil di Ferro: Torino fucina metallica
Contesto
Il 1979 è un anno denso di avvenimenti come lo sono pochi altri. Avvenimenti quasi tutti di pesante impatto globale e gravidi di conseguenze per il periodo a venire. Già il 1° gennaio, il riconoscimento della Cina comunista da parte degli Stati Uniti, lo scambio di ambasciatori tra Whashington e Pechino.
Cambia tutto tra le due sponde del Pacifico. Il 7 gennaio cade in Cambogia il regime di Pol Pot, uno dei più sanguinari della storia recente. Un poco più a Ovest, in Iran, il giorno 17 prende invece il potere un leader religioso rientrato da un lungo esilio a Parigi, Ruhollah Khomeini.
In Italia
In Italia il 1979 avviene l’assassinio del giornalista Mino Pecorelli, che ha voluto mettere il naso nei segreti di certe banche e della massoneria. L’incriminazione del governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e l’arresto del direttore generale Mario Sarcinelli per interesse privato in atti d’ufficio (accusa che poi cadrà).
Il delitto dell’avvocato Giorgio Ambrosoli liquidatore della banca di Michele Sindona. Arresto dei brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda coinvolti nel caso Moro. Morte in un incidente aereo a Forlì del re dei cereali Serafino Ferruzzi. La fine del sequestro di Fabrizio De André e Dori Ghezzi, rapiti in Sardegna quattro mesi prima.
Per ricordare un fatto che ha tenuto a lungo le prime pagine dei giornali e che avrà echi negli anni successivi si deve tornare al 7 aprile. Un magistrato di Padova, Pietro Calogero, lancia una grande offensiva giudiziaria contro Autonomia operaia.
Tra gli arrestati figurano docenti universitari, intellettuali, giornalisti. Spicca il nome del professor Antonio Negri, Toni Negri. Gli inquisiti sono centinaia.
Nel 13 marzo nasce lo Sme, Sistema monetario europeo, antenato della valuta unica di oggi. Margareth Thatcher si prepara alla elezione del suo primo parlamento.
In questo contesto nascono i Fil di ferro
Storia del gruppo
I Fil di ferro sono un gruppo heavy metal italiano, formatosi a Torino nel 1979 per iniziativa del bassista Bruno Gallo Balma e del batterista Michele De Rosa.
La band è considerata, insieme a Vanadium, Strana Officina, Death SS e Bulldozer, una delle prime ad aver portato la musica metal in Italia, nonché una delle più importanti dello stesso.
Michele De Rosa e Bruno Gallo hanno formato il gruppo con il chitarrista Danilo Ghiglieri e il cantante Leonardo Fiore. Nel 1986 (dopo un demo tape del 1984 e numerosi concerti che danno una certa notorietà al gruppo) esce il primo album, Hurricanes, pubblicato da Il Discotto Records. Questo album viene registrato con il nuovo cantante Sergio Zara e il nuovo chitarrista Claudio De Vecchi.
Il titolo Hurricanes proviene dal nome del gruppo biker di cui facevano parte sia Michele De Rosa sia Bruno Gallo. Il disco è stato registrato da Beppe Crovella (tastierista degli Arti e Mestieri).
Nel 1987 per l’etichetta dischi Noi, con la produzione esecutiva di Mariano Schiavolini (ex membro del gruppo rock progressivo Celeste), i Fil di ferro registrano il loro secondo album, omonimo, che vede l’entrata del nuovo chitarrista Miky Fiorito, autore di tutti i brani del disco, arrangiati con il resto del gruppo.
Le registrazioni vengono effettuate in Cornovaglia con Guy Bidmead, ingegnere del suono di Rod Stewart e Motörhead. I Fil di ferro tengono anche un concerto presso l’Hammersmith Apollo di Londra, trasmesso dalla televisione italiana su Italia 1 nel programma Rock a mezzanotte.
La performance viene registrata e inclusa nella compilation Italian rock invasion.
Nel 1991 Sergio Zara è uscito dai Fil di ferro, lasciando il posto alla voce femminile di Giordy (Elisabetta Di Giorgio), con la quale la band ha registrato la ballata Give me your hand e girato un video clip per il mercato russo.
Nel 1992 per l’etichetta Axis Records è uscito il terzo album, Rock Rock Rock che vede la partecipazione del chitarrista russo Victor Zinchuk e di Roberta Bacciolo delle Funky Lips in veste di ospiti. In esso è stato ripreso Give me your hand registrata precedentemente da Giordy come singolo.
L’album ha presentato caratteristiche più hard rock/blues rispetto ai primi due lavori e vede Miky Fiorito anche nel ruolo di cantante. Nello stesso anno si è verificata la fine della collaborazione, durata quasi un anno, con Giordy.
Nel 1997 è entrato nel gruppo Piero Leporale alla voce, mentre il 1998 è tempo dell’ingresso di Francesco Barbierato al basso.
Nel 2004 esce a distanza di dodici anni dal lavoro precedente il quarto album, It Will Be Passion. Il disco è un rifacimento di vecchi brani e nuovi inediti.
Nel 2008 il gruppo cambia ancora formazione: escono dalla formazione Fiorito, Leporale e Barbierato, sostituiti da Gianni Castellino al basso, Alex Verando alla chitarra e Phil Arancio alla voce. Nel 2009 entrano in formazione Gianluca “Yes” Uccheddu alla chitarra al posto di Alex e Elvis Taberna al posto di Phil Arancio.
Con questa nuova formazione il gruppo ha abbandonato l’hard rock blues del terzo e quarto album ritornando ad un più duro heavy metal di stampo Saxon/Judas Priest che ha caratterizzato la band nei primi due album.
Nel settembre del 2012 è uscito It’s Always time, album contenente il rifacimento di Hurricanes con la nuova formazione, tre inediti e dodici brani tratti dai dischi più significativi.
In occasione del festival Acciaio italiano 2015, tenutosi a Modena il 31 gennaio 2015, si è verificato il ritorno alla voce di Phil in sostituzione di Elvis Taberna, che ha dovuto abbandonare il gruppo per motivi di salute. Elvis è rimasto nel giro Fil di ferro con mansioni amministrative.
Dopo pochi mesi nuovo cambio di formazione riguardante la voce: entra Paola Goitre al posto di Phil, con la quale sono in programma vari lavori live e in studio.
A inizio 2017 ritorna in formazione il chitarrista Miky Fiorito, il quale si mette subito al lavoro per comporre le canzoni che faranno parte del sesto album del gruppo. I riff di chitarra questa volta hanno un piglio epico ed è a seguito di queste nuove sonorità che nasce l’idea del concept album intitolato Wolfblood, che narra della mitologia nordica del RagnaRock, anche per via dei testi a tema ideati da Paola Goitre. Il nuovo lavoro viene pubblicato a ottobre del 2019.
Discografia Hurricanes (1986) Fil di Ferro (1988) Rock Rock Rock (1992) It Will Be Passion (2004) It’s Always Time (2012)
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double-croche1 · 2 years
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[INTERVIEW CINÉ] MARCO BELLOCCHIO
L'illustre cinéaste italien Marco Bellocchio se lance pour la première fois dans le format mini-série avec ‘Esterno Notte’ qu’il a présenté dans la section Cannes Première du dernier Festival de Cannes. La série, désormais disponible sur arte.tv et en DVD et diffusée la semaine prochaine sur Arte, revient sur l’enlèvement du Président italien Aldo Moro en 1978 dans le contexte des “années de plomb”. Le réalisateur nous a parlé du traitement de ces événements historiques qui ont fortement marqué le peuple italien et la politique jusqu’à aujourd’hui. Vous aviez réalisé en 2003 le film ‘Buongiorno, Notte’ qui traitait déjà de l’enlèvement et l’assassinat d’Aldo Moro en 1978. Pourquoi ce choix de retourner à ce même événement dans votre série ‘Esterno Notte’ ? Marco : Je pensais que cette histoire d’Aldo Moro était finie. Quarante ans après sa mort [donc en 2018], il y a eu en Italie de grandes commémorations et plusieurs choses on ressurgi : livres, journaux, films, documentaires... Le fait de redécouvrir ces images, notamment la vie privée d’Aldo Moro avec sa famille et sa femme, a fait ressurgir en moi une vision plus large de cet événement. A travers ce côté privé, j’ai pensé découvrir des personnages qui n’existaient pas dans le film, comme Francesco Cossiga (1927-2010) qui est un personnage shakespearien hermétique [ministre de l’intérieur pendant le gouvernement Moro, il sera plus tard en 1985 élu Président de la République italienne], le pape Paul VI (1897-1978), la famille d’Aldo Moro et sa femme Eleonora Moro (1915-2010) qui est une personne assez méconnue. Notamment, la volonté d’Eleonora de sauver à tout prix son mari contre la Démocratie chrétienne et ses amis qui semblent l’abandonner m’a beaucoup intéressée. Il y a aussi les terroristes, en particulier le couple Valerio Morucci (né en 1949) et Adriana Faranda (née en 1950) qui a participé à l’assassinat mais qui n’était pas là dans la rue Montalcini à Rome  où était maintenu en détention Aldo Moro.
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Est-ce que votre série ‘Esterno Notte’ est plus proche d’une fiction que ‘Buongiorno, Notte’ ? Marco : Dans ‘Buongiorno, Notte’ il y avait beaucoup de documents qui étaient montrés, beaucoup d’images d’archives, parce que le film montrait la vie des brigadistes dans leur repère de la rue Montalcini. Tout ce qui était à l’extérieur passait par la télévision. On a mis toutes les images d’archives qu’on avait dans cette télévision. Alors que dans la série, il y en a beaucoup moins, on en voit seulement vers la fin. Dans ‘Buongiorno, Notte’ on a mis des images d’archives dans la fiction, alors que dans ‘Esterno Notte’ on a utilisé la fiction pour nous rapprocher de ce qui pouvait être des images d’archives. La série va des enjeux de l’Etat, presque de l’ordre mondial, et descend au plus intime de chaque personnage. Marco : Le cinéma, à travers des petits détails et des petites choses, peut communiquer des choses plus fortes. Autrement, on aurait pu écrire un traité politique ou un livre, mais cela est la tâche des historiens. J’ai fait cette série que j’ai réalisée comme un long film divisé en six épisodes.
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Qu’est-ce qui vous a motivé dans le choix du format série ? Marco : On a constaté qu'on n’avait pas le temps de synthétiser dans un film toute l’histoire. On avait besoin de plus de temps et d’épisodes. La direction a accepté de produire cela en série mais je dois reconnaître qu'on a été assez libres. Chaque épisode, hormis le dernier, se concentre sur un des personnages que avez cités : Aldo Moro, Francesco Cossiga, le pape Paul VI, les terroristes et Eleonora Moro. Comment avez-vous construit l’ordre de ces épisodes ? Marco : J’ai travaillé avec d’autres scénaristes. Tout le monde connaît l’histoire. On a pensé rester au présent dans les deux premiers épisodes. Puis du troisième au cinquième épisode, on a voulu faire un retour en arrière. Le dernier épisode revient au présent. C’est comme si l’histoire recommence via les personnages : le pape, les terroristes et la famille. C’est un choix de dramaturgie cinématographique plutôt qu’une marche linéaire chronologiquement. Cela appuie la tragédie ou la fatalité. Marco : Peut-être, oui !
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Il y a un personnage qui a peut-être vos faveurs ou tout du moins un traitement spécial, c’est Giulio Andreotti [Président du Conseil pendant le gouvernement Moro]. On voit le pape faire pénitence en portant une ceinture d’acier qui le fait saigner, alors que pour Giulio Andreotti la pénitence passe par le fait de ne pas manger de glace tant qu’Aldo Moro n’est pas libéré ! Marco : Cela est vrai, il l’a effectivement dit ! (Rires) Naturellement, dans une tragédie comme celle-là, le poids des mots du Président du conseil devient symbolique et métaphorique. En fait derrière cela, il dit à tous les partisans de la Démocratie chrétienne de faire des petits sacrifices. C’est un petit peu dérisoire, cela ne fait pas le poids, mais en quelque sorte ça nous parle de sa personnalité et c’est une anecdote tout de même importante dans l’histoire. En France aussi, vous avez eu affaire au catholicisme, moins que nous Italiens parce que vous avez eu la Révolution (1789). Ce qu’on nous apprenait, c’était qu’il fallait faire une petite bonne action chaque jour pour les autres pour conserver son propre état de grâce. Du moins, c’était ce qu’on nous apprenait à l’époque, maintenant je ne sais pas comment cela se passe, parce que l’Église a changé aussi. Pourquoi n’avez vous pas consacré d’épisode à Giulio Andreotti alors que vous en avez consacré un à Francesco Cossiga ? Marco : J’étais plus attiré par la popularité de Francesco Cossiga dans ce temps marqué pour lui par une extrême pression et de la folie. Cela est dit dans la confession de Francesco Cossiga dans la série : « Le pauvre, laissez-le tomber. Il est bipolaire, on ne peut rien lui reprocher. » Alors que Giulio Andreotti est plus lucide, il « veut faire le mal. » Et le mal, encore une fois, est un concept très religieux. Giulio Andreotti est très présent dans la série, mais il est très linéaire, donc moins intéressant. Francesco Cossiga présentait en quelque sorte une dramaturgie interne plus variable. On a pu lire que Giulio Andreotti aurait pu avoir pris part à l’enlèvement. Cela n’est pas montré dans la série. On voit Giulio Andreotti aller vomir dans les toilettes quand il apprend la nouvelle de l’enlèvement d’Aldo Moro. Qu’est-ce que vous en pensez ? Marco : Vous avez raison. C’est le seul moment où on voit Giulio Andreotti un peu différent. Cela fait référence à un événement qui n’est pas prouvé, mais certains journaux ont indiqué que Giulio Andreotti a été malade lorsqu’il a reçu la nouvelle de l’enlèvement d’Aldo Moro. On dit qu’il est parti aux toilettes et qu’il aurait vomi. Effectivement c’est son seul moment de contradiction par rapport à cette linéarité. Toute personne, même la plus méchante, a des moments de bonté. C’est quelque chose qui m’avait frappé, on a donc essayé de le représenter discrètement.
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Les personnages sont globalement très angoissés. Il y a d’un côté les hallucinations : Aldo Moro qui porte la croix, Eleonora Moro qui s’enchaîne devant le siège du parti, Francesco Cossiga qui voit la carte de l’Italie ensanglantée. De l’autre côté des manifestations plus physiques : Giulio Andreotti qui va vomir aux toilettes comme évoqué, Francesco Cossiga qui a des plaques sur les mains, le brigadiste Valerio Morucci qui fait du somnambulisme. Comment avez-vous appréhendé ce traitement de l’angoisse des personnages ? Est-ce que pour vous c’est à cet endroit qu’il y a le plus de fiction dans la série ? Marco : Il y a des représentations différentes. Francesco Cossiga souffrait réellement de son angoisse. Les sévices du pape dont on parlait, c’était quelque chose de vrai mais il n’était sûrement pas plein de sang, cela on l’a exagéré. Puis quand il voit Aldo Moro porter la croix, c’est son imagination propre qui parle, celle du personnage. Il regarde le reportage à la télévision et sa pensée s’évade. Le rêve d’Adriana Faranda où elle voit un fleuve avec tous ces morts, elle en parle dans son livre ‘L’Année du tigre’ (1994). Elle dit qu’elle a rêvé cette descente tragique de tous les corps des hommes qui ont été tués. Disons qu’on a utilisé d’une manière pas systématique mais très libre tous les passages non réalistes qui répondaient sûrement à une angoisse générale. En Italie on avait vraiment créé cette centrale d’écoute auprès du site de la préfecture de police de Rome où arrivaient tous genres d’appels. Les gens disaient parfois des choses absurdes. Certains appelaient simplement pour parler de leurs problèmes personnels, comme pour une ligne d’écoute. Tout cela est normal parce que c’est l’imagination qui sort de la réalité, qui prend ses libertés. C’est vraiment un aperçu de l’Italie durant cette période. Il y a une stupeur de toute la société face à la violence et la noirceur de la crise, avec des petits hommes politiques écrasés dans des grandes pièces très sombres. Est-ce que cette violence est pour vous réaliste ou dramatisée pour la série ? Marco : On a commencé à travailler comme une enquête pour découvrir les différents éléments. Comme évoqué, on savait déjà pas mal de choses car j’avais fait le film ‘Buongiorno, Notte’ (2003) sur cette même histoire puis il y a eu plus récemment des livres, des films de fiction et des documentaires qui ont été faits. On est partis du réalisme mais après on s’est aperçu qu’il fallait pouvoir prendre des libertés. La base était ce qui s’est vraiment passé dans ces années-là. En complément, on a travaillé sur un peu de fiction parce que dans la réalité il y a des espaces non explorés et documentés et dans lesquels personne ne sait ce qui s’est vraiment passé ou ce que se sont dit les personnages. Alors il faut inventer.
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Il y a un jeu sur ce qui est réel et inventé. Vous ouvrez la série avec Aldo Moro dans son lit d’hôpital et vous y revenez vers la fin de la série. On l’entend évoquer son renoncement à la vie politique. C’est très fort, mais c’est inventé car Aldo Moro est en réalité déjà assassiné à ce moment-là. Est-ce que cela se repose sur un texte historique réel qu’il a écrit ? Marco : La vérité est qu’Aldo Moro a écrit ‘Mémorial’ (1978) pendant ses 55 jours de prison. Ce texte a été caché par les Brigades rouges. On l’a trouvé par hasard deux ou trois mois après sa mort. Dans ce texte, il écrit des choses qu’on a utilisées pour faire certains dialogues. La confession finale utilise aussi beaucoup d’expressions et de jugements faits envers cet homme politique mort. On a combiné tout cela. Mais il a réellement écrit la phrase suivante qu’il dit dans la série : « Je remercie les Brigades rouges de m’avoir épargné la vie. » Il y a sûrement eu un moment dans son emprisonnement où il a espéré être sauvé, c’est pourquoi il a écrit cette phrase. Les Brigades rouges lui avaient avaient probablement communiqué l’éventualité d’une mise en liberté ou d’une sorte de grâce. Après, l’espoir s’est envolé et il s’est résigné à mourir. Naturellement, on l’a utilisé dans l’architecture de la série, afin de partir d’une idée qui était complètement contraire à la vérité pour créer une attente. C’est une idée de cinéma, qui revient à la fin encore pour conclure avec la vraie fin qui est l’assassinat d’Aldo Moro. C’est un peu comme si vous faisiez venir le fantôme d’Aldo Moro qui vient condamner la Démocratie chrétienne. Marco : Certainement que les hommes de la Démocratie chrétienne, dont il fut l’un des fondateurs, n’ont pas eu le courage d’accepter les conditions des Brigades rouges parce que cela était inacceptable pour eux. Ils ont alors préféré choisir la folie. Ils se disaient : « Ce que dit Aldo Moro n’est pas ce qu’il pense. Il est fou, drogué, conditionné. Il n’a plus la liberté de reconnaître la vie et ses principes. Alors on ne peut pas accepter ce qu’il dit. »  Vous ne condamnez pas la Démocratie chrétienne ni aucun mouvement. C’est une conjonction de différents intérêts moraux et politiques qui viennent vers ce piège fatal pour Aldo Moro. Marco : Les historiens les plus importants ont parlé d'une chose que tout le monde connaît : la raison de l’Etat. Ils invoquent que c’est cela qui empêcha la libération d’Aldo Moro. Les Italiens n’auraient pu l’accepter. Ils n’auraient pas compris, surtout parce qu’au cours de l’attentat cinq policiers ont été tués de façon barbare. D’ailleurs c’était cet argument que Giulio Andreotti portait. Il disait : « Les gens ne comprendraient pas. Nous portons une responsabilité vis-à-vis des familles de ces hommes-là tués par les Brigades rouges. »
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Nous spectateurs français, non imprégnés de cette histoire italienne, sommes tout le temps aux côtés d’Aldo Moro. On le voit comme celui qui pourrait être le sauveur de l’Italie, capable de sortir la société de la crise, et qui va être tué et échouer. Aldo Moro est montré comme quelqu’un de très bienveillant et sacrifié par les autres. Il est presque une figure de Christ. Marco : Le pape le voit comme cela. Il faut dire aussi que Giulio Andreotti, tout le parti de la Démocratie chrétienne mais aussi le Parti communiste, sentaient qu’il avait une responsabilité vers la nation entière. Aldo Moro avait la délicatesse de sauver un équilibre très fragile entre les Américains et les Russes qui ne voulaient pas aller dans sa direction. Ce n’est pas un révolutionnaire mais un vrai réformiste qui voulait vraiment dédouaner le Parti communiste et ses nombreux électeurs. En Italie, le Parti communiste était le deuxième parti le plus important et ne pas le faire entrer dans la majorité, le laisser à l’extérieur du gouvernement, n’était pas concevable dans le cadre d’une Italie jusque là marquée par l’alternance. C’était une voix très démocratique parce qu’il avait compris que les communistes n’étaient absolument pas un risque pour l’ordre, tandis que les Américains pensaient encore qu'ils allaient faire une révolution. C’était un parti-pris noblement révisionniste et il le dit : « Les communistes ont un sens du respect de l’ordre, plus que le nôtre. Le Parti communiste respecte la discipline, plus que la Démocratie chrétienne. » En fait, la responsabilité qu’il portait ne concernait pas que le peuple italien. La Démocratie chrétienne voulait également défendre un certain ordre international. C’est cela qui a condamné Aldo Moro, considéré comme trop réformiste et novateur. Ce qui est assez étrange car Aldo Moro avait jusque là toujours été vu non pas comme un réactionnaire, mais plutôt au contraire comme un conservateur. Au fil du temps, il s’est révélé plutôt visionnaire et pour un vrai renouveau à gauche. Aldo Moro est un homme très cérébral qui attribuait un poids très fort à ses mots. Il a écrit une phrase terrible : « Mon sang retombera sur vous. » Quand on regarde l’histoire italienne après la mort d’Aldo Moro, les partis traditionnels vont petit à petit disparaître pour plusieurs raisons dans les années à venir. Est-ce que vous pensez que d’une certaine façon la prophétie d’Aldo Moro s’est réalisée ? Marco : Aldo Moro reste littéralement sans péché, impeccable même pendant la captivité, jusqu’à la fin. C’est une phrase très forte. Il a une attitude encore diplomatique envers les Brigades rouges. Il essaie de sauver l’Etat et lui-même. Tandis que quand il comprend que ses amis l’ont abandonné, il sent alors en lui une espèce de rage qui se démontre dans ce qu’il écrit comme cette phrase. Pour moi, c’est intéressant parce que c’est comme s’il découvre quelque chose qu’il ne pensait pas avoir en lui-même ou que personne ne connaissait de lui. Il dit dans sa confession finale : « Mais pourquoi dois-je mourir ? Pourquoi mes grands amis n’essaient pas de me sauver la vie ? Ce n’est pas un crime d’aimer la vie. » Chez un homme comme lui, c’est quelque chose qui étonne parce qu’on pensait qu’il aurait eu une position de martyr. Il meurt en serviteur de l’Etat. Il accepte de mourir, mais pour lui ce n’est pas quelque chose qu’il accepte tranquillement jusqu’à la fin. Ce qu’on a qualifié de faiblesse ou qu’on a dit être de la folie, c’est en fait son humanité. La femme d’Aldo Moro dit à Benigno Zaccagnini (1912-1989) [secrétaire du parti pendant le gouvernement Moro] : « Mais pourquoi vous dites qu’il est fou ? La Démocratie chrétienne c’est ça. C’est le compromis, le fait de trouver une solution. » Dans ce sens, la faiblesse du personnage d’Aldo Moro s’est révélée être une humanité, peut-être pas de proportion gigantesque, mais pour moi très appréciable. Est-ce que d’une certaine manière vous tendez avec cette série un miroir à l’Italie actuelle ? Marco : Ma seule expérience est que la série a été montrée en Italie il y a quelques mois [au cinéma en deux parties les 18 mai et 9 juin 2022, puis sur la Rai 1 du 14 au 17 novembre 2022 et même depuis le 17 décembre 2022 sur Netflix en Italie] et il y a eu un grand intérêt, que je ne suis néanmoins pas capable d’interpréter. La participation des uns et des autres est très différente. Les plus vieux ont vécu ces événements [en 1978, soit il y a environ quarante-cinq ans] dans leur jeunesse. Cette série leur apparaissait probablement comme un moyen de régler des comptes avec eux-mêmes et avec la politique. Pour les plus jeunes, on ne peut pas comprendre que la politique à ce moment-là avait un poids si lourd. On parlait de changement, de révolution, de haine des classes. Des choses qui sont assez incompréhensibles aujourd’hui. Les jeunes ont accueilli la série presque avec stupéfaction. Cette représentation a éveillé leur intérêt. Ils demandaient à leurs parents : « C’était vraiment ça l’Italie ? Vous étiez vraiment comme ça ? » Ils ne savent quasiment plus ce que sont la Démocratie chrétienne ou le Parti communiste, ça n’existe plus. Dans ce sens-là, les réactions ont été plutôt vives vis-à-vis de la série.
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L’acteur Fabrizio Gifuni interprète Aldo Moro de façon saisissante dans son attitude et ses paroles. Sa ressemblance physique est d’ailleurs également frappante. Marco : Fabrizio Gifuni est en effet vraiment Moro. Il le connaît très bien, de manière beaucoup plus approfondie que moi, parce qu’il a aussi monté un spectacle sur les mémoires de prison ‘Mémorial’ (1978) d’Aldo Moro et sur ses lettres. [La pièce est titrée ‘Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro’ qui se traduirait par : ‘Avec votre silence moqueur. Étude sur les lettres d'emprisonnement et sur le mémorial d'Aldo Moro’, plus d’infos par ici] On s’est approché de ce personnage via ces ressemblances qu’on a utilisées après dans la fiction. On connaît votre engagement aux côtés des communistes italiens dans les années 70. Comment avez-vous personnellement traversé cette période-là ? Marco : J’étais dans un parti maoïste qui était contre le terrorisme, mais on parle de 1968 [son premier film ‘Les Poings dans les poches’ sorti en 1965 était très politiquement engagé]. Mon expérience directement politique s’est finie peu après. Je suis sorti de cela. Je suis resté à gauche, j’ai suivi la politique d’un peu plus loin à travers d’autres expériences. En 1978, j’ai suivi l’enlèvement et l’assassinat comme tout autre citoyen. J’avais du mal à croire qu’un petit groupe de terroristes ait eu la capacité de faire une action de tuer ces policiers et enlever Aldo Moro qui était le Président de la Démocratie chrétienne. Voir la faiblesse de l’Etat italien qui n’était pas capable de défendre le Président, qui sous-évaluait la force de ce groupe terroriste. Pendant les 55 jours de détention, il s’est créé un mouvement toujours plus nombreux à travers tous les partis indépendamment de leurs différences pour sauver la vie d’Aldo Moro. Je pensais franchement qu'il serait libéré, peut-être pour une tradition italienne qui serait moins cruelle. Je ne trouvais pas possible qu’ils ne soient pas capables de trouver une solution. Yasser Arafat (1929-2004) était passé par là aussi. [Les Brigades rouges visaient à atteindre une reconnaissance similaire à celle obtenue en 1974 par l'Organisation de Libération de la Palestine (OLP) de Yasser Arafat comme mouvement insurrectionnel.] Oui j’ai ressenti une douleur, mais qui n’était pas immédiate. C’est un peu comme les tragédies familiales. On les élabore et c’est au fil du temps qu’on comprend la profondeur de la blessure. La tragédie de l’affaire Moro, c’est avec le temps qu’on l’a comprise. Cette phrase que vous avez citée tout à l’heure est très importante : « Mon sang retombera sur vous. » C’est à partir de ce moment là qu’on pourrait dire que commence une lente destruction du système politique italien de l’époque. Les partis de l’époque ont disparu. La mort d'Aldo Moro a laissé en Italie une trace très profonde. Après on peut utiliser différentes expressions, comme “une blessure qui ne s’est pas cicatrisée”. Il me vient à l’esprit une phrase que dit Aldo Moro à Francesco Cossiga en latin : « Gutta cavat lapidem. » C’est-à-dire : « Une goutte peut briser une pierre. » C’est cette pierre qui s’est brisée avec la mort d’Aldo Moro. Je ne fais ce lien que maintenant. Dans la série on a du mettre une légende parce que personne ne connaît plus le latin. Bien sûr, pour qu’une goutte brise une pierre, il faut plus de temps mais petit à petit il y a beaucoup de traumatismes qui ont fait surface et qui prennent origine dans la mort d’Aldo Moro. Crédits photo de couverture : Anna Carmelingo ‘Esterno Notte’, mini-série de 6 épisodes, est maintenant disponible sur arte.tv et en DVD et sera diffusée sur Arte les 15 et 16 mars. Elle est hautement recommandée ! A&B
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lamilanomagazine · 2 years
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ESTERNO NOTTE - la serie evento di Marco Bellocchio arriva su Rai 1
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ESTERNO NOTTE - la serie evento di Marco Bellocchio arriva su Rai 1. Da Cannes, ai cinema, la nuova opera di Marco Bellocchio Esterno Notte si prepara ad approdare in Rai, esattamente il 14, 15 e 17 Novembre in prima serata. La serie è dedicata al rapimento di Aldo Moro, interpretato dal bravissimo Fabrizio Gifuni, nel cast sono presenti anche Margherita Buy (Eleonora), Toni Servillo nei panni d Papa Paolo V, Fausto Russo Alesi (Francesco Cossiga), Gabriel Montesi (Valerio Morucci), Daniela Marra (Adriana Faranda). Trama di Esterno Notte La narrazione si incentra sui tragici giorni del rapimento di Aldo Moro, visti attraverso gli occhi dei personaggi che si sono sentiti coinvolti, travolti e vittime della tragedia. Fondatore, insieme ad altri colleghi, della Democrazia Cristiana, Aldo Moro diviene Presidente del Consiglio nel 1963 formando per la prima volta un governo socialista. Durante la sua carriera politica ha ricoperto il ruolo di Ministro della Giustizia, della Pubblica Istruzione e più volte di Ministro degli Esteri. Viene rapito nel 1978 dalle Brigate Rosse e assassinato dopo 55 giorni, esattamente il 9 Maggio. L’uccisione viene considerata un vero e proprio attacco al cuore dello Stato. Il suo cadavere verrà abbandonato in un’automobile nel centro di Roma. Marco Bellocchio, dopo il suo lungometraggio “Buongiorno, notte” (2003), anch’esso incentrato sul rapimento del politico, propone un punto di vista innovativo, intimo ed introspettivo. E’ stato in grado di trasformare il piombo in oro, rivisitando un trauma nazionale, grazie ad un’opera memorabile e magistrale. Come viene definito da Le Monde “un dramma shakespeariano in sei atti”, nel quale, i giorni di prigionia vissuti da Aldo Moro, vengono rielaborati e restituiti, dalla serie, come una luttuosa Via Crucis. Il regista afferma: “Ho voluto farne una serie per raccontare l’Esterno di quei 55 giorni italiani, stando però quasi sempre fuori dalla prigione tranne che alla fine, fino al momento del tragico epilogo. Il titolo è il riferimento al fatto che, stavolta, i protagonisti sono gli uomini e le donne che agirono fuori dalla prigione, presi in causa dal sequestro”. Sceneggiatura e produzione Scritta da Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino e diretta da Marco Bellocchio. Esterno Notte è una serie Rai prodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment Pictures, società del gruppo Fremantle, con Simone Gattoni per Kavac Film, in collaborazione con Rai Fiction.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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f4sc1nat0r · 6 years
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raucci · 7 years
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Grandi e piccoli cinismi sui tragici fatti di via Fani
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superfuji · 3 years
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Il vuoto sotto il governo Draghi
di Marco Damilano
Partiti, sindacati, associazioni sembrano muti e inerti. E l’impegno dal basso di volontari, amministratori, imprenditori e insegnanti non basta a risvegliare una società anestetizzata
07 SETTEMBRE 2021
Scorro su Telegram i messaggi della chat Basta dittatura, faccio un viaggio virtuale tra fotomontaggi del dottor Matteo Bassetti appeso per i piedi come il Duce in piazzale Loreto, ancora lui tra i colleghi sui banchi di Norimberga, gli indirizzi di giornalisti, i numeri di telefono, le minacce, gli insulti, i proclami («Manca solo la nostra vittoria per concludere»). Supero il disgusto e la voglia di ripetere ancora quanto è stato detto in questi giorni, che si tratta di pochi ideologizzati, come si fa come quando allo stadio ci sono gli scontri tra i tifosi, che i No Vax sono una bolla mediatica alimentata anche dal solo parlarne.
Non si può ignorare l’orrore perché da quella bolla è uscita l’aggressione fisica e verbale contro il videomaker di Repubblica e di Gedi Francesco Giovannetti e Antonella Alba di Raiwes 24, senza considerare le intimidazioni quotidiane che stanno piovendo in queste ultime settimane. Ma soprattutto perché i No Vax rappresentano, a parti capovolte, lo stato del dibattito pubblico italiano, la qualità dei contenuti e degli argomenti, misurano la temperatura della democrazia italiana, come succede quando un virus aggredisce un corpo indebolito e privo di anticorpi.
L’Italia è un corpo che ha saputo reagire alla sfida della pandemia, come dimostra l’impressionante più 17,3 per cento del Pil nel secondo trimestre del 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020. E la campagna di vaccinazione ha funzionato, nonostante lentezze, ritardi, contraddizioni. Nei cinema, nei bar, nei ristoranti e ora sui mezzi pubblici e nelle scuole il controllo del green pass è un adempimento che viene eseguito in maniera ordinata, il certificato fa parte della vita di ogni giorno per milioni di italiani.
Non dei vaccini ci parlano i No Vax, dunque, ma di un vuoto nella società. È come se tra il presidente del Consiglio Mario Draghi, il dominus politico incontrastato di questa stagione, e le piazze che raggruppano i soliti fascistoidi in cerca di visibilità, non ci sia nulla: non i partiti, non i sindacati, né altre associazioni, nessun corpo intermedio. Al di là della contabilità sul numero dei manifestanti e delle personalità coinvolte, è una dialettica pericolosa per la democrazia, che invece si nutre di partecipazione, confronto, critica, conflitto a viso aperto, non mascherato e non tra cripto-militanti.
Non è una novità per la storia italiana. Una prima stagione di governi di unità nazionale, nel cuore del cinquantennio della Prima Repubblica, tra il 1976 e il 1979, con il monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti, sostenuto anche dal Pci di Enrico Berlinguer, coincise con il picco della violenza politica: non solo il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, ma anche gli scontri in piazza, il terrorismo rosso e nero. La caccia ai giornalisti, dalla gambizzazione nel 1977 di Indro Montanelli a Milano, del vice-direttore del Secolo XIX Vittorio Bruno a Genova e a Roma del primo direttore della storia del Tg1 Emilio Rossi, un cattolico che andava in redazione in autobus, era appena sceso e stava leggendo “Massa e potere” di Pietro Ingrao quando Adriana Faranda gli sparò fracassandogli le due gambe per il resto della vita, mi è capitato tante volte di incontrarlo in seguito, ancora sull’autobus, saliva a fatica con il bastone, quasi si scusava di creare disturbo agli altri passeggeri. Fino ad arrivare all’omicidio a Torino del vice-direttore della Stampa Carlo Casalegno, e di Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera, ucciso nel 1980 sotto la sua abitazione a Milano da un gruppo di borghesi che giocavano con la rivoluzione. Faccio questo elenco solo per dire cosa dovrebbe smuovere nella memoria profonda del Paese la notizia di un gruppo che incita a pedinare i giornalisti e andarli a cercare sotto casa pubblicando i loro indirizzi.
In quella stagione i partiti erano ancora radicati, combatterono una battaglia per fare da diga alla violenza, pagando un prezzo di sangue (l’operaio iscritto al Pci Guido Rossa, sulla sua storia è in uscita la biografia di Sergio Luzzatto “Giù in mezzo agli uomini” per i nuovi Struzzi di Einaudi curati da Ernesto Franco) e elettorale: il Pci perse un milione e mezzo di voti. E reggeva il dibattito sui giornali, tra gli intellettuali, sui luoghi di lavoro, nelle università, in mezzo al popolo.
La seconda stagione di unità nazionale, il governo di Mario Monti nel 2011-2012, appoggiato da tutti i partiti ma senza ministri politici come sono invece oggi quelli presenti nel governo Draghi (forse perché in quel caso c’era da tagliare risorse e in questo da distribuire), scatenò una reazione democratica. La nascita di un partito, il Movimento 5 Stelle, che all’inizio del governo tecnico aveva zero consensi e che alle elezioni del 2013 conquistò otto milioni di voti, diventando il partito più votato d’Italia e la presenza stabile nella politica italiana che è oggi. I partiti si erano indeboliti e vennero giù nei consensi, il dibattito civile era stato sostituito dalla rete e dai talk televisivi, la personalizzazione della politica era al punto più alto, dopo venti anni di berlusconismo. Il vuoto avanzava, si immaginava che fosse colmato dai leader e dall’anti-politica, che invece era destinata ad allargare il vuoto.
Oggi la nuova unità nazionale consegna un panorama polarizzato. Da una parte Draghi, il suo governo, la sua leadership, l’esercizio del potere, la prospettiva di inserire l’Italia nel riassetto internazionale che sta accompagnando lo scossone mondiale dell’Afghanistan, venti anni dopo l’attentato dell’11 settembre. Dall’altra, una platea di esclusi, di non rappresentati, infiammati poi dai professionisti della piazza, il solito pugno di «vecchi generali e giovani neo-fascisti», come li definiva Pier Paolo Pasolini già nel 1974. In mezzo, il vuoto.
Non è il nulla, naturalmente, il sincero impegno che tanti candidati e candidate stanno mettendo nei comuni che vanno al voto tra un mese, il 3 ottobre. O chi affolla le feste dell’Unità, i festival di politica come quello di Mestre che riprende la settimana prossima, dedicato alle donne, gli appuntamenti culturali su e giù per la penisola. Non sono il nulla gli amministratori, i sindacalisti, i preti, gli insegnanti, l’associazionismo e il volontariato di chi accoglie anche in queste ore i profughi afghani. Sono coloro che fanno da manutenzione alla società italiana, insieme agli imprenditori che non fuggono dalla responsabilità, che colgono questa stagione come un’occasione di crescita e non di depredamento.
Ma la società italiana riparte dopo un’estate segnata da assessore pistoleri e candidati sindaci che girano armati in ospedale, si ritrova ancora anestetizzata, addormentata, come dopo una lunga operazione, quando il corpo fatica a rimettersi in piedi. Anche il dibattito politico è schiacciato tra due polarità: l’inevitabilità delle soluzioni offerte dal governo Draghi, lo stato di necessità che costringe tutti a non superare il limite, a rischiare di sbagliare per eccesso di difetto, come suggeriva Marco Follini una settimana fa sull’Espresso, e la violenza di chi si sente fuori dal circuito degli inclusi e prova a rompere l’assedio della maggioranza, oggi sui vaccini e sul green pass, domani chissà.
Spezzare una dialettica schiacciata su Draghi e i No Vax signfica riprendere iniziativa, identità, progetto e, perché no, fantasia, immaginazione, la sfera della politica che è libertà. In vista delle prossime scadenze nel calendario istituzionale: le elezioni amministrative, la scelta del nuovo Capo dello Stato. E in vista di un conflitto sociale che riprenderà, che ha bisogno di rigore, di serietà, di rappresentanza vera e non delle pessime caricature di questi giorni. Per uscire dalla bolla di sfiducia e di furore verso quanto sembra arrivare dall’alto, che riassume la bassa qualità del nostro dibattito pubblico. E uscire dall’anestesia, che può far comodo nell’immediato governo dell’emergenza ma che nel profondo abbandona nel sonno la democrazia.
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corallorosso · 3 years
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LE STRAGI IM-PUNITE Ricorre tra pochi giorni, il 43° Anniversario della morte di ALDO MORO, ucciso dalle BR ed il cui corpo fu fatto ritrovare in una macchina parcheggiata in Via Caetani a Roma. Due mesi prima era stato catturato dai Brigatisti che, a sangue freddo, sterminarono la sua scorta : ORESTE LEONARDI DOMENICO RICCI RAFFAELE IOZZINO GIULIO RIVERA FRANCESCO ZIZZI Nel corso degli anni, furono arrestati e processati, quasi tutti i Brigatisti responsabili della strage. Condannati e Liberati......Come vivono oggi ? Nei confronti dei brigatisti coinvolti direttamente nella vicenda furono emessi i seguenti giudizi: Rita Algranati: ultima a essere catturata fra i terroristi coinvolti nel caso Moro, a Il Cairo nel 2004, sta scontando l'ergastolo. Fu la «staffetta» del commando brigatista in via Fani. Maurizio Iannelli: catturato nel 1980 e condannato a due ergastoli. In libertà vigilata dal 2003 è attualmente il regista di vari programmi Rai (Amore criminale, Sopravvissute) Barbara Balzerani: catturata nel 1985 e condannata all'ergastolo. In libertà vigilata dal 2006. In via Fani presidiava mitra alla mano a bordo di un'auto l'incrocio con via Stresa e durante il sequestro occupava la base di via Gradoli 96 nella quale conviveva con Mario Moretti. Franco Bonisoli: catturato nella base di via Monte Nevoso 8 a Milano il 1º ottobre 1978, è stato condannato all'ergastolo e oggi è in semilibertà. In via Fani sparò sulla scorta di Moro e alla conclusione del sequestro portò nel covo di Milano il memoriale e le lettere dello statista ritrovate in una prima tranche contestualmente al suo arresto e in una seconda tranche l'8 ottobre 1990. Anna Laura Braghetti: arrestata nel 1980, condannata all'ergastolo, è in libertà condizionale dal 2002. Durante il sequestro non era ancora in clandestinità: era l'intestataria e l'inquilina «ufficiale», insieme con Germano Maccari, dell'appartamento di via Montalcini a Roma, tuttora l'unica prigione accertata di Moro. Alessio Casimirri: fuggito in Nicaragua, dove gestisce un ristorante, è l'unico a non essere mai stato arrestato né per il caso Moro né per altri reati. In via Fani presidiava con Alvaro Lojacono la parte alta della strada. Raimondo Etro: catturato solo nel 1996, è stato condannato a 24 anni e 6 mesi, poi ridotti a 20 e 6 mesi. Non era presente in via Fani, ma fu il custode delle armi usate nella strage. Adriana Faranda: arrestata nel 1979, è tornata in libertà nel 1994 dopo essersi dissociata dalla lotta armata. Non è stata accertata in sede giudiziaria la sua presenza in via Fani. Fu, assieme a Valerio Morucci, la «postina» del sequestro Moro. Raffaele Fiore: catturato nel 1979 e condannato all'ergastolo, è in libertà condizionale dal 1997. In via Fani ha sparato sulla scorta di Moro, anche se il suo mitra si è inceppato quasi subito. Prospero Gallinari: già latitante (durante il sequestro Moro) per il sequestro del giudice Mario Sossi, è successivamente catturato nel 1979. Dal 1994 al 2007 ha ottenuto la sospensione della pena per motivi di salute, ottenendo gli arresti domiciliari. È deceduto il 14 gennaio 2013. In via Fani ha sparato sulla scorta di Moro e durante il sequestro era rifugiato nel covo brigatista di via Montalcini, unica prigione di Moro accertata in sede giudiziaria. Alvaro Lojacono: fuggito in Svizzera non ha mai scontato un solo giorno di prigione né per il caso Moro né per l'omicidio dello studente Miki Mantakas ma soltanto per reati legati a traffici d'armi da e per la Svizzera, che non ha mai concesso la sua estradizione in Italia. In via Fani presidiava con Alessio Casimirri la parte alta della strada e con lui era sull'auto che bloccò da dietro la colonna di auto con a bordo Moro e la sua scorta, subito prima della strage. Germano Maccari: arrestato solo nel 1993, rimesso in libertà per decorrenza dei termini e poi riarrestato dopo aver ammesso il suo coinvolgimento nel sequestro, viene condannato a 30 anni, poi ridotti a 23, nell'ultimo processo celebrato sul caso Moro. È morto per aneurisma cerebrale nel carcere di Rebibbia il 25 agosto 2001. Insieme con Anna Laura Braghetti era l'inquilino «ufficiale» dell'appartamento di via Montalcini, unica prigione di Moro finora accertata, sotto il falso nome di «ingegner Luigi Altobelli». Mario Moretti: catturato nel 1981 e condannato a 6 ergastoli. Dal 1994 è in semilibertà e lavora da oltre 14 anni per la Regione Lombardia. Capo della colonna romana delle Brigate Rosse, Oltre a dirigere l'intera operazione e a effettuare sopralluoghi poco prima dell'agguato, in via Fani era alla guida dell'auto che bloccò il convoglio di Moro e della scorta avviando l'imboscata. Nonostante alcune testimonianze oculari, non è stato accertato in sede giudiziaria che abbia sparato. Durante il sequestro occupava con Barbara Balzerani il covo di via Gradoli 96 e si recava quotidianamente a interrogare Moro nel luogo della sua detenzione e periodicamente a Firenze e Rapallo per riunioni con il comitato esecutivo dell'organizzazione terroristica. Tempo dopo il processo, confessò anche di essere stato l'esecutore materiale dell'omicidio di Moro. Valerio Morucci: arrestato nel 1979 venne condannato a 30 anni dopo essersi dissociato dalla lotta armata. Rilasciato nel 1994, si occupa di informatica. In via Fani sparò sulla scorta di Moro e durante il sequestro fu il "postino" delle Brigate Rosse insieme con la sua compagna Adriana Faranda, oltre a effettuare quasi tutte le telefonate legate al sequestro, compresa l'ultima in cui comunicò a Franco Tritto l'ubicazione del corpo di Aldo Moro. Bruno Seghetti: catturato nel 1980 e condannato all'ergastolo, è ammesso al lavoro esterno nell'aprile del 1995. Ottiene la semilibertà nel 1999 che però gli viene revocata in seguito ad alcune irregolarità. È tuttora detenuto, e lavora per la cooperativa 32 dicembre di Prospero Gallinari. In via Fani era alla guida dell'auto con la quale Moro venne portato via dopo l'agguato. Sottolineo solo che per molti di loro, seppur condannati all'ergastolo, le porte del carcere si sono spalancate qualche anno dopo il massacro in virtù della loro "dissociazione" postuma. Penso che la "redenzione" (fine ultimo della pena inflitta) NON dovrebbe mai cancellare il crimine e la conseguente responsabilità. Appartiene eventualmente ad un presunto dio il perdono. Io sono solo un Uomo. Che non dimentica e non perdona. Claudio Khaled Ser
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sciscianonotizie · 6 years
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Sant’Agata dei Goti, “Attraverso i conflitti: un’esperienza di giustizia riparativa”. Incontro con Agnese Moro e Adriana Faranda http://dlvr.it/QnbTSz
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paoloferrario · 7 years
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Cultura delle sinistre comuniste e istituzioni: Via Fani, la bella vita dei brigatisti rossi mai pentiti (Mario Moretti; Valerio Morucci; Raffaele Fiore; Franco Bonisoli; Adriana Faranda; ...): spiagge, ristoranti e libertà - in Secolo d'Italia, 16 marzo 2018
Cultura delle sinistre comuniste e istituzioni: Via Fani, la bella vita dei brigatisti rossi mai pentiti (Mario Moretti; Valerio Morucci; Raffaele Fiore; Franco Bonisoli; Adriana Faranda; …): spiagge, ristoranti e libertà – in Secolo d’Italia, 16 marzo 2018
VAI A Secolo d’Italia, 16 marzo 2018
Via Fani, la bella vita dei brigatisti rossi mai pentiti: spiagge, ristoranti e libertà – Secolo d’Italia
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Agnese Moro e Adriana Faranda, colloquio su carcere e giustizia
Adriana Faranda e Agnese Moro hanno aperto il primo degli incontri organizzati dalla Pastorale carceraria della diocesi di Roma. La figlia di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate rosse, e una delle componenti del gruppo che lo ha rapito, tenuto in prigonia per 55 giorni e poi ucciso, si incontrano dal 2009 nell’ambito di un percorso di giustizia riparativa.     “La giustizia riparativa secondo me è…
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uominiedonneblog · 6 years
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Francesca Fagnani fidanzata di Enrico Mentana :"Con lui non sono una belva"
Francesca Fagnani fidanzata di Enrico Mentana :”Con lui non sono una belva”
Annamaria Bernardini De Pace, Alessandra Mussolini, ma anche la brigatista Adriana Faranda e “Lady Camorra” Cristina Pinto. Donne che, nel bene o nel male, hanno lasciato il segno nella storia del nostro Paese. Sono alcune delle figure femminili che la giornalista Francesca Fagnani racconta in Belve, il suo nuovo programma Tv in onda da mercoledì 14 marzo sul canale Nove di Discovery Italia.
«Con…
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pangeanews · 6 years
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“Qui venivano molti politici a fare sesso con i travoni, lo sa?”. Reportage dai luoghi del ‘caso Moro’: via Fani, via Gradoli, via Montalcini, via Caetani
È il 9 agosto 2013. Famiglia Cristiana ha appena criticato la scelta di istituire una nuova Commissione d’inchiesta sul caso Moro. Forse sarebbe meglio indirizzare risorse ed energie per esplorare quello che è davvero rimasto senza risposte, come la strage dell’Italicus, la strage di piazza della Loggia, il delitto Pecorelli e il golpe Borghese, suggerisce il periodico cattolico. Per fortuna la replica del parlamentare del Partito Democratico Beppe Fioroni è stata immediata e anche durissima: “Famiglia Cristiana conosce la verità? Allora ce la racconti tutta. È vero o non è vero che la sede nella quale Aldo Moro è stato tenuto prigioniero era sorvegliata dai servizi segreti italiani e non solo? È vero o non è vero che la mattina dell’8 maggio 1978 dal ministero degli Interni è partita una telefonata che ha bloccato l’irruzione dei reparti speciali del generale Dalla Chiesa nel covo in cui era Moro? È vero o non è vero che durante la prigionia Moro è stato confortato da un sacerdote? È vero o non è vero che la P2 agì pesantemente perché lo Stato non trattasse? Risponde al vero la notizia che alcuni magistrati hanno operato con ritardo rispetto a vicende particolari del caso Moro? Quale il ruolo della Cia, del Kgb, del Mossad? Come mai in un mondo nel quale si sa sempre tutto, l’azione eversiva dei brigatisti non ha avuto risonanza alcuna e in 55 giorni nessuno ha mai individuato il covo nel quale Moro era prigioniero? Lago della Duchessa da un lato e via Montalcini dall’altro sono elementi sui quali i lati oscuri sono tanti, ancora. Come mai i brigatisti non sono ancora in grado di spiegare sufficientemente quello che è successo in via Fani, dove forse il maresciallo Oreste Leonardi si trovò di fronte persone che conosceva e che sparavano contro lui? Perché solo in occasione del rapimento Moro, lo Stato non ha trattato? Davvero si ritiene che non sia utile continuare a cercare la risposta a questi interrogativi?”
A sostegno dell’iniziativa del parlamentare è intervenuta Maria Fida Moro. “Non è tutto chiaro per niente. Magari lo fosse. Chi ha vissuto sulla propria pelle queste vicende si è reso conto che forse non esistono diverse trame nelle vicende recenti del nostro Paese, ma un’unica trama destabilizzante. Per cui indagare su Pecorelli è la stessa cosa che indagare sui buchi del caso Moro e da qualunque bandolo prendi la matassa arrivi sempre allo stesso risultato. Appunto, che proprio niente è chiaro”.
*
“Via Fani, grazie”, dico al tassista, un omone con pochi capelli in testa, dritti, e una camicia extra large fuori dai pantaloni rossicci. “Prego?”. “Via Fani”. “Una via che fa venire i brividi, lo sa?”. “Lo so, lo so. Proprio per questo voglio andarci”. “È un poliziotto?”. “No, sono uno scrittore”. “Ah, ecco. Se uno può, di solito evita di passare in via Fani. Mi tolga la curiosità. Cosa pensa di trovare quasi quarant’anni dopo il fattaccio? Lo sa che hanno azzittito tutti, ma proprio tutti quelli che sapevano qualcosa?”. “Beh, sto studiando il caso”. “Il caso… ma quando mai diranno la verità?”. “Lei dice?”. “Dico, dico. Dia retta a me, fa comodo a tutti prendere per il culo gli italiani. Siamo fatti così. Ci piace il melodramma, fingiamo, fingiamo, anche quando ci si ammazza. È tutto un guazzabuglio questa storia di Moro. Passeranno altri cento anni prima che la merda venga a galla”.
*
La targa in un riquadro di marmo, con una vetrina di protezione, nomina in sequenza Oreste Leonardi, Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. “In questo luogo alle 9.05 del 16 marzo 1978 cinque uomini fedeli allo Stato e alla democrazia sono stati uccisi con fredda ferocia mentre adempivano al loro dovere. Il Comune di Roma pose il 9 maggio 1979. S.P.Q.R.”. Sotto compare la foto dei cinque in piccoli fotogrammi in bianco e nero.
Via Fani, e dietro via della Camilluccia, come disse Paolo Frajese, concitatamente, confondendo via Fani con via Stresa, quella tragica mattina. La targa compare da una cornice di pietre incastonate, sotto il sole, nel lato destro dove qualcuno sparò, stando a quanto raccolto dalle testimonianze. Ma chi sparò? E sul lato sinistro, chi c’era? In quanti erano davanti al bar Olivetti, dove ora si trova il ristorante “La Camilluccia”, nascosti dietro le siepi e con le pistole mitragliatrici? Si conoscevano tra loro, o la divisa da aviatori era solo un mezzo per evitare che i malviventi si sparassero involontariamente? Le palazzine si assomigliano, in via Fani. Sono blocchi rettangolari, appuntiti, che sporgono. Mi fermo in mezzo alla strada, davanti alle strisce pedonali e allo stop, la cui vernice è consumata. Allargo le braccia e mi passa un brivido sulla schiena. Non passano automobili, né altri veicoli. Il caldo è insopportabile, si suda. Il tempo si è arrestato, all’incrocio tra via Fani e via Stresa, come se la morte fosse riproposta infinite volte tanto da assuefare. Due pini alti davanti agli occhi sorreggono la tensione di questo cielo azzurrato e limpidissimo. Ma se l’orizzonte franasse a terra, si sentirebbe odore di catrame, di fuoco, di carne bruciata. Via Fani è un insieme indistinguibile di appartamenti, condomini, interni. L’afa, non temperata dal vento di Roma, fa pensare che tutto sia impenetrabile anche se si suonasse, a caso, uno dei campanelli. La strada è come tante altre, le stesse case assomigliano ad altre di ogni quartiere di Roma. Faccio un primo passo e mi porto sul lato sinistro. La visuale non cambia. Mi sento compresso in una via stretta, piccola. Un uomo dice che al ristorante fanno dei ravioli di pesce squisiti. Ma è un attimo fuggevole, già consumato, che non rimarrà. Chi passa mi guarda con imbarazzo, tace e abbassa la testa sospettosamente. È gente che si è messa d’accordo, potrei pensare, mentre il silenzio diventa sibilante, con la luce che colpisce di sbieco, se volto le spalle verso il lato destro che attraverso altre due volte. La luce è pietrificata, mentre mi scorrono di lato le ombre di chi passa a piedi. Potrei avere alle spalle uomini o donne, bambini. L’edera del lato destro è rigogliosa. È un’edera nuova, che allora non c’era, presumo. Qui anche le ombre hanno un gesto di ritrazione, davanti all’incrocio. Due ragazzi si dileguano in fretta. Sicuramente non sapranno chi è stato Aldo Moro. Sono in una via tra le più tristemente note d’Italia, tra le vie più misteriose al mondo, dove si è svolto un passaggio fondamentale della Guerra Fredda e dove hanno agito più servizi segreti. Ma è anonima via Fani, una via di provincia o di una metropoli, leggermente in salita. Una via fantasmatica abitata da gente qualunque in un rione qualunque e in un quartiere qualunque. Le piante sono sottili e non riconosco che l’albero della felicità, come lo chiamano dalle mie parti, che produce fiori violacei e pendenti.
Entro nel ristorante. Mi sono informato, prima della partenza. La filosofia culinaria del ristorante “La Camilluccia” sta nel puntare tutto sulla qualità del pescato e in un servizio veloce, impeccabile. La carta dei vini è ricercata. L’ambiente rimane intimo ed elegante. Un ampio giardino circonda il locale. Alberto Melis, il proprietario, mi guarda con aria serena e il sorriso largo, come mi conoscesse da sempre. “È venuto per fotografare il luogo della strage? La stavo osservando. Ha un taccuino e una penna in mano. È un reporter, vero?”. “Sì, complimenti”. “Sono sardo, ho intuito. Cosa le posso offrire?”. “Una coca cola, grazie”. “Qui nessuno viene per Aldo Moro o per la strage, per quei poveretti morti ammazzati dai colpi dei brigatisti. Ma se qualcuno lo fa lo riconosco al volo. È smarrito, dopo un po’ non sa più dove girare lo sguardo”. “Lei che cosa ne pensa di quello che è successo?”. “Io non penso niente, lavoro. Ma ho rispetto di Moro e di quegli agenti. Se vuole le offro un piatto. Cuciniamo cose buone, dicono. Le deve provare, non se ne pentirà”. “No, grazie, devo andare, ho fretta”. “Non faccia i complimenti”. “Devo prendere ancora degli appunti”. “Dopo tutti questi anni? Qui non è più come quella volta, mi creda. Qui sì e no che sanno riconoscere la targa sulla pietra”. “Dice?”. “Eh, sì, ahimè. Si dimentica ciò che si vuole, in Italia. Ma forse anche in Germania, in Inghilterra, in America. Ovunque. Ogni mondo è paese. Non si dice così?”.
I balconi sono denti sporgenti, le palazzine uomini fermi, giganti mummificati. Un gatto bianco salta dietro una ringhiera e sparisce. Cavalco l’aria e questa strada mi sembra inadatta alla strage. I cortili sono lingue di terra, quadrati pezzati dove riprendere fiato: piccole insenature tra tante costruzioni spesse, granitiche. La luce fa di queste case un riverbero dorato, bronzeo. Schegge di sole si posano ovunque, specie sui terrazzi, se visti dalla strada. Riprendo a pensare che il cielo potrebbe offuscarsi, diventare del colore del metallo, cadere in mille pezzi, decomporsi come in un quadro di Alberto Burri dove coesistono muffe e catrami, colori ad olio, smalti sintetici, catrame e pietra pomice, petrolio. La via rimarrebbe una tela tinta di rosso e di nero incollata a dei sacchi di iuta pieni di rammenti e cuciture, di oggetti usati e logorati, residui solidi dell’esistenza non solo umana, ma cosmica.
*
Quanti erano a sparare? Quanti si trovavano nel luogo dell’imboscata? Chi guidava la moto Honda? Chi ha sparato? La notte del 15 marzo Moretti non dormì. Rimase in via Gradoli con Barbara Balzerani. Morucci e Bonisoli erano in via Chiabrera insieme ad Adriana Faranda, Gallinari dormì con Anna Laura Braghetti in via Montalcini. Moretti, alle 8.45, passò davanti alla casa di Moro dove vide le auto della scorta. Morucci, Fiore, Gallinari e Bonisoli ricordano che nelle prime ore della mattina indossarono maglioni scuri a girocollo, giubbotti antiproiettile e impermeabili azzurri a doppio petto su cui erano stati cuciti i fregi dell’Alitalia, sotto i quali nascosero i mitra. E gli altri? Davvero Leonardi non si preoccupò perché nel lato sinistro della strada vide uomini che riconobbe? Chi tese veramente l’agguato? Chi, oltre ai brigatisti capeggiati da Moretti? Fiore aprì la portiera posteriore sinistra della Fiat 130 ed estrasse l’onorevole Moro dall’auto che non oppose resistenza. Fiore, uomo di robusta costituzione fisica, lo afferrò per un braccio e lo trascinò in direzione della Fiat 132 blu con alla guida Seghetti. Fece entrare Moro nell’autovettura e lo fece sdraiare, nascosto da una coperta, sui sedili posteriori, mentre Moretti si pose nel sedile anteriore destro. Morucci prese due delle cinque borse di Moro dalla Fiat 130 e si diresse alla Fiat 128 blu ferma nella parte bassa di via Fani dove erano posizionati Balzerani sui sedili posteriori e Bonisoli sul posto del passeggero. Le due borse, secondo i brigatisti, contenevano medicinali e tesi di laurea. Ma non tutte le versioni fornite coincidono in pieno. Anzi, tutta la ricostruzione della fuga è piena di punti oscuri, tanto da poter essere messa seriamente in discussione. Niente convince.
Nel febbraio 1978 almeno sette servizi segreti di rango internazionale erano operativi in Italia: Cia, Kgb, Mossad, Sdece, Stasi, Ssvpvk, Bis, nonché gli omologhi italiani ufficiali e paralleli, Sismi, Sisde, Gladio. Le ultime dichiarazioni dell’onorevole Giovanni Galloni, rilasciate martedì 5 luglio 2005 a “Rai News24” sembrano confermare l’ipotesi di una collaborazione tra le Brigate Rosse e i servizi segreti stranieri. Galloni, vice segretario della Democrazia Cristiana all’epoca del sequestro Moro ha riferito: “Moro mi disse che sapeva per certo che i servizi segreti sia americani sia israeliani avevano degli infiltrati all’interno delle Brigate Rosse. Però non erano stati avvertiti di questo”.
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“Chiamo il taxi?”. In un batter baleno arriva un’Audi bianca e salgo. “Dove la vi porto?”. “Via Gradoli 96, grazie”. Stavolta il conducente non apre bocca. È giovane, non sa nulla. Gli chiedo se tifa per la Roma o per la Lazio. “Sono romanista. Ma… non sarà mica laziale?”. “Sì, purtroppo per lei”. “La farei scendere, se potessi. Ci avete fregato la Coppa Italia, ci sfottete. Chi vi sopporta più? Oddio, un laziale nel mio taxi. Dovrò disinfettarlo, quando se ne va. Una volta ho portato all’aeroporto di Fiumicino Marcelo Salas, il cileno, ma qui dentro c’è salita pure Ilary, la moglie del pupone nostro”.
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Via Gradoli, vista dalla mappa, sembra avere la dinamica di un ferro di cavallo. Si torna da dove si parte, lungo una stradina circolare con un unico ingresso e con la stessa uscita sul lato opposto. Via Gradoli, dalla Cassia, è una pista di quelle costruite per le automobiline, se dovessi disegnarla. Qui ci hanno abitato clandestini, esponenti della malavita, uomini dei servizi segreti, dei carabinieri, transessuali, assassinati. La base di via Gradoli era il quartier generale di Mario Moretti e Barbara Balzerani: via Gradoli 96, interno 11 della scala A, al secondo piano. Dietro si avvista un campo da tennis coperto dai pini sempreverdi. Ecco un altro luogo del tutto anonimo, se non fosse per i numerosi segreti che nasconde. Lucia Mokbel era l’inquilina della porta accanto, nei giorni del sequestro Moro, dove viveva con Gianni Diana, impiegato da un commercialista amministratore di immobili in cui figuravano anche società in dotazione ai servizi segreti. Gli stessi servizi segreti che avevano in via Gradoli appartamenti intestati a società di copertura. La Mokbel, durante il primo processo Moro, raccontò la storia di un bigliettino, poi sparito, in cui annotò di aver sentito il ticchettio di una trasmissione in alfabeto Morse che proveniva dall’appartamento adiacente. Lo consegnò agli agenti di polizia che il 18 marzo erano andati a bussare a molte porte del condominio. La missiva era indirizzata al commissario Elio Cioppa, che poi risultò iscritto alla P2. In un’operazione di controllo furono identificati numerosi inquilini. L’interno 11 fu uno degli appartamenti in cui gli inquirenti suonarono il campanello, ma non rispose nessuno. Una signora che abitava nello stesso piano disse che lì viveva una persona distinta, forse un rappresentante, che usciva la mattina e tornava la sera tardi. Il secondo episodio risale al 2 aprile 1978, con la seduta spiritica dove era presente Romano Prodi, nella campagna bolognese a Zappolino, durante la quale alcuni amici, facendo muovere un piattino sulle lettere dell’alfabeto, videro comparire le parole: Gradoli, Viterbo, 6, 11. Venne messo a soqquadro il paese di Gradoli in provincia di Viterbo senza trovare tracce. Nessuno perquisì via Gradoli, che fu indicata dalla moglie di Moro dopo aver consultato le Pagine Gialle. Ultimo capitolo, il 18 aprile. Il covo venne scoperto dai vigili del fuoco che intervennero su richiesta dell’inquilino sottostante per una perdita d’acqua che filtrava attraverso il soffitto. Era stata lasciata aperta la pistola della doccia, che allagò il bagno del covo dei brigatisti. Si trattò di una scoperta pilotata, evidentemente. La televisione riprese le stanze, le immagini delle pistole, dei mitra, dell’esplosivo, dei bossoli, dei volantini, delle divise dell’Alitalia simili a quelle indossate nella strage di via Fani.
Via Gradoli tornò ad occupare la cronaca con il caso Pietro Marrazzo e ancora nel giugno 2013. Poco dopo pranzo un cadavere fu ritrovato in un appartamento. Il corpo apparteneva ad un uomo olandese. La porta d’ingresso era aperta. Sul corpo, supino vicino al letto, non c’erano segni evidenti di violenza. L’uomo di origine belga, è risultato in cura al Sert per problemi di alcolismo. I giornali hanno segnalato anche una protesta dei residenti per una discarica abusiva.
Una bava di vento sale lungo i piani di via Gradoli 96. Il portone è accostato e non c’è un portinaio. Una via dannata e una palazzina fredda, di quattro piani con le finestre chiare come occhi sbarrati. Tutto ciò che vedo è essenziale, senza aggiunta, senza orpelli. Una forza concentrica assorbe come in un Triangolo delle Bermuda. E se ci fosse stata la prigione di Moro, qui al civico 96? In questa via c’era anche un’altra base dei brigatisti, probabilmente al civico 92.
Sergio Flamigni sostiene che la base di via Gradoli era nota ad una vasta cerchia di militanti e che le Brigate Rosse preparavano il sequestro Moro nella via dove i servizi segreti avevano alcuni uffici. Una decisione apparentemente assurda. Nella stessa via, sia prima del 1978 che dopo, furono presenti numerosi appartamenti utilizzati da agenti. Si scoprirà che anche il deputato democristiano Benito Cazora, nei suoi contatti avuti con esponenti della malavita calabrese, nel tentativo di scovare la prigione di Moro, era stato avvertito che via Gradoli era una zona calda. Lo stesso Mino Pecorelli, nel 1977, un anno prima del sequestro di Moro, avrebbe scritto una cartolina all’indirizzo del covo.
Ma chi può parlare, ancora una volta? Chi sa? Chi abita qui, in questi appartamenti così quieti? Quanta gente è stata silenziata? Quanti documenti sono stati nascosti, occultati, stracciati? Quali indagini non sono state fatte a dovere per un’intromissione volontaria, per un’intermediazione imposta, per una salvaguardia di uomini di alto livello che sapevano e avallavano l’azione di Moretti, bene al riparo da ogni possibile intralcio?
Giancarlo De Cataldo, su la Repubblica del 27 novembre 2009, ha scritto: “Torno in via Gradoli, la morbosa curiosità solo in parte soddisfatta. E malgrado chi ci vive e lavora alla luce del sole, crocevia di inquietudini, emblema di una storia ambigua e irrisolta. Oggi come trent’anni fa. Il primo pensiero è che un uomo pubblico, se decide di andarsi a cacciare in una situazione scabrosa, non sceglie una strada come questa. La pendenza rende difficoltosa la manovra di parcheggio. Una tonnara: quando entri, per uscire, devi rifare, per forza, il cammino all’inverso. A via Gradoli devi proprio volerci venire, insomma. Ma anche un capo terrorista, uno che deve vivere costantemente in allerta, uno che rischia ogni minuto la pelle perché ha dichiarato guerra al cuore dello Stato, anche uno così, prima di impiantare un covo in un posto simile, ci pensa su due volte. Perché sarà anche vero, come pure è stato detto, che lo Stato non ha cuore, ma braccia, armi, informatori, confidenti e infiltrati, quelli non sono mancati mai. Perciò i covi, prima o poi, qualcuno finisce sempre per scoprirli. Meravigliosa coincidenza, dunque, se questa strada nella periferia settentrionale di Roma, uno squarcio sinuoso diviso fra avanzi di campagna e l’incalzare inarrestabile del cemento, fu, nel 1978, teatro di uno dei più inquietanti (e, ça va sans dire, irrisolti) misteri del caso Moro? Via Gradoli 96 è ancora oggi una palazzina ordinata, sul lato sinistro per chi discenda la via”.
Una via orfana della politica, del futuro. Una via degradata, che continua ad essere teatro di una logica mortifera, senza discontinuità, anche se è sorto un comitato che difende l’onorabilità dei residenti. Una via che ha una vocazione niente affatto trasformativa. Un giallo che include desideri e paure e li incanala da quel maledetto 1978. Il segreto è peggiore del male esibito, perché i suoi attori non sono identificabili, sfuggono, si travestono, si confondono. E’ un mondo chiuso, opaco, quello che rimane.
Scendo le scale di via Gradoli 96 A interno 11, secondo piano e sono in strada. Il tassista mi aspetta, fuma una sigaretta e canticchia. La sua radio gracchia. Un’inquilina scende la via con in mano un sacco dell’immondizia. È magrissima, ha i capelli disadorni, le ciabatte ai piedi. Via Gradoli mi spinge fuori, mi espelle. Qui gli abitanti potrebbero avere una forma di scaramanzia, chissà quali credenze, per rifuggire all’irresistibile male, alle nefandezze commesse in tutti questi anni. C’è un horror vacui, intorno. Una grande pausa tra questi complessi edilizi, dove si può credere davvero di essere spiati come facevano in quei giorni del sequestro. Il male ha sempre una visione contraffatta. Ma in via Gradoli non ci sarà alcuna commemorazione, alcuna cerimonia. Non è come in via Fani, dove la morte è per sempre segnata nella targa, impressa nelle foto della scorta. Qui non c’è ammissione di colpa, solo un intreccio fatale, nient’altro. Nessuna vergogna. Via Gradoli è un luogo comune, nel vero senso della parola. Una metafora del mondo, per cui non esiste solo ciò che si vede.
“Che si è messo a fare, il guardone?”, mi chiede il tassista. “No, scrivo. Qui c’è stato un covo dei brigatisti che hanno sequestrato Aldo Moro”. “Qui venivano molti politici a fare sesso con i travoni, lo sa? Festini a base di coca e scopate a go a go”. “E adesso?”. “Il giro si è arrestato, dopo che è morta Brenda. Se la ricorda con quelle tettone finte? L’hanno fatta fuori perché non parlasse. Abitava non lontano da qui. Tra pusher e clienti di alto bordo va a finire che ci fanno una sit-com. Marrazzo ci ha rimesso la carriera per le siliconate di via Gradoli. Carriera, si fa per dire. I politici lo fanno tutti, anche nei bassifondi. Lui è stato solo sfortunato. Comunque hanno sequestrato e sgombrato una trentina di appartamenti abitati abusivamente, senza i requisiti igienici. I trans pagavano tutti 400 euro d’affitto al mese”.
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L’appartamento di Via Montalcini 8: il covo, lo sgabuzzino, la prigionia, le lettere, il memoriale, l’uccisione. Si trova nel quartiere della Magliana Nuova, ed è una via isolata, spettrale. Le case occupano solo un lato della strada davanti un terreno incolto, pieno di sterpaglie. Un ennesimo luogo anonimo e una palazzina stile anni Settanta. La sede della detenzione era conosciuta dagli inquirenti? Fu acquistata nel 1977 da Anna Laura Braghetti con il denaro proveniente dal sequestro di Pietro Costa. Durante il sequestro Moro, nell’appartamento viveva lei, l’insospettabile ragazza, con il suo finto marito, l’ingegnere Luigi Altobelli, che era Germano Maccari, esperto di armi, latitante, che rimase per tutti i giorni del rapimento chiuso in casa e funse da carceriere. Mario Moretti, che viveva in prevalenza in via Gradoli insieme a Barbara Balzerani, si recava quasi tutti i giorni in via Montalcini per interrogare l’ostaggio ed elaborare la gestione del sequestro.
Il fratello di Aldo Moro, Carlo Alfredo, magistrato, ha sempre sostenuto che la prigione non sarebbe stata quella di via Montalcini, perché l’ambiente era molto ristretto. Una lunga privazione d’aria e un ventilatore di fortuna non potevano garantire il necessario filtraggio dell’aria. Il corpo fu trovato in buone condizioni fisiche, soprattutto il tono muscolare degli arti inferiori, che lasciò supporre che Moro avesse camminato e che quindi non rimase immobile per due mesi. Gli esame autoptici lasciarono aperti molti dubbi sul luogo in cui fu detenuto. Inoltre il corpo si presentava curato nell’igiene personale, quando sappiamo che Moro si lavava solo con una bacinella d’acqua. I periti che esaminarono il cadavere videro che era abbronzato, tanto da restarne sbigottiti. Furono rilevate delle tracce di acqua di mare sul colletto della camicia. La relazione geologica sui sedimenti, sui frammenti e sui resti erbacei trovati sui vestiti e sulla macchina che trasportò il cadavere, fecero pensare ad una detenzione sul litorale laziale tra Focene Nord e Marina di Palidoro.
Il giudice Ferdinando Imposimato, come già riportato, ha ricevuto delle confidenze da Giovanni Ladu, un brigadiere della Guardia di Finanza in servizio a Novara, che nel 1978 era militare di leva nel corpo dei bersaglieri e fu testimone della decisione che condannò a morte Moro. Imposimato ha conosciuto Ladu nel 2008. Il brigadiere, in un memoriale, sostiene di essere stato, con altri militari di allora, in via Montalcini, così da poter sorvegliare costantemente l’appartamento-prigione in cui era tenuto lo statista. Un appostamento cominciato il 24 aprile 1978 e conclusosi a sorpresa l’8 maggio, proprio alla vigilia dell’assassinio. Ladu ha riferito ad Imposimato di aver avuto la consegna del silenzio e il vincolo al segreto. Per questo sarebbe rimasto zitto tutto questo tempo. Ma ora si è deciso a vuotare il sacco. Ecco come viene raccontata la vicenda che si sta cercando di far passare sotto traccia. La squadra alla quale apparteneva Ladu prese possesso di un appartamento in via Montalcini ubicato a poche decine di metri dalla casa dove, dissero gli ufficiali che coordinavano l’operazione, era tenuto prigioniero un uomo. Il nome di Moro non venne fatto, ma tutti capirono. Si diede luogo ad un controllo visivo 24 ore su 24, all’installazione di microtelecamere nascoste nei lampioni, alla verifica giornaliera della spazzatura depositata nei cassonetti. Per mimetizzarsi i militari indossavano tute dell’Enel o del servizio di nettezza urbana. Ladu fu anche inviato con altri ad accertarsi del funzionamento dell’impianto delle telecamere all’interno della palazzina dove era detenuto Moro. Nell’appartamento sopra la prigione erano stati sistemati dei microfoni che captavano le conversazioni tra Moretti e il detenuto. La cosa che stupì Ladu, era che il personale addetto a queste intercettazioni parlava per lo più lingue straniere. La missione prevedeva la liberazione del presidente della Democrazia Cristiana. Fu predisposto un piano di evacuazione per gli abitanti della palazzina e nei pressi di via Montalcini era stata montata una grande tenda con un’infermeria, qualora ci fossero stati dei feriti. L’8 maggio era tutto pronto per l’irruzione, ma incredibilmente fu comunicato di abbandonare la missione. Qualcuno telefonò direttamente dal ministero dell’Interno e il generale Dalla Chiesa desistette dal piano d’azione per liberare Moro, nonostante alcune iniziali resistenze. A Ladu e agli altri fu imposta la massima riservatezza. Niente doveva trapelare all’esterno, per nessuna ragione.
Grazie alle informative dei vertici di Gladio, Andreotti e Cossiga, secondo Imposimato, sapevano del carcere di via Montalcini 8, ma anche degli sviluppi della prigionia di Moro da uomini guidati dal colonnello Pietro Musumeci e dal  generale Gianadelio Maletti. Maletti impartiva ordini per il  controllo, la videoripresa e la registrazione della prigionia. Andreotti e Cossiga  cominciarono a dare  un contributo attivo all’operazione Moro consentendo  la diffusione del  falso comunicato. Sostennero che quel comunicato era vero e che proveniva dalle Brigate Rosse. Lo Stato voleva dimostrare che aveva sotto controllo le basi più importanti delle Brigate Rosse e che si era permesso anche di non arrestare Mario Moretti.
In un’intervista pubblicata il 2 luglio 2013 su www.rainews24.it, a cura di Pierluigi Mele, Ferdinando Imposimato dichiara: “La questione che Gladio era implicato nell’affare Moro è pacifica, perché coloro che hanno fatto le rivelazioni erano tutti dei gladiatori, cioè Antonino Arconte era un gladiatore, Puddu era un gladiatore ufficiale dell’esercito. Quindi ci sono testimoni diretti, protagonisti. Queste persone hanno dichiarato di aver fatto delle missioni sotto la prigione. Hanno fatto delle dichiarazioni precise, concordanti, sono venuti a conoscenza della prigione fino a 4-5 giorni dopo la cattura di Aldo Moro. La struttura di Gladio aveva degli infiltrati nelle Brigate Rosse, un certo Franco per esempio. Però questa è una cosa sotto investigazione, a me interessa che alcuni gladiatori sapevano della prigione e che c’erano degli infiltrati nelle Brigate Rosse, poi le altre cose saranno accertate dalla magistratura romana. C’è una concordanza di dichiarazioni che viene da testimonianze rese, in via informale, sia da Giovanni Ladu sia da Oscar Puddu, sia da un carabiniere. Questi tre hanno detto che l’ordine di interrompere l’operazione militare di intervento nella prigione è venuto dal ministero dell’Interno, cioè da Cossiga, che avrebbe bloccato l’intervento per la liberazione di Aldo Moro”.
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Quanti appartamenti furono utilizzati per il sequestro? Moro fu ucciso nel garage di via Montalcini o da qualche altra parte? A che ora gli spararono? Chi gli sparò? Lo fecero accomodare dentro la Renault 4 dopo averlo trasportato in una cesta scendendo le scale. Gli dissero di coprirsi con una coperta aggiungendo che avevano intenzione di liberarlo. Dopo che Moro fu coperto, gli spararono dieci cartucce uccidendolo. Ma questa è la versione ufficiale alla quale in pochi credono. Moretti è stato sempre lacunoso, mentre il racconto di Maccari è pieno di incertezze. Secondo Flamigni la conclusione del sequestro e l’uccisione ebbero come scenario il Ghetto ebraico, dove Moro fu tenuto prigioniero alcuni giorni. Da via Montalcini a via Caetani il tragitto sarebbe stato troppo lungo.
Scrive Flamigni: “Maccari e la Braghetti hanno sostenuto che l’uccisione di Moro sarebbe avvenuta al mattino presto, intorno alle 6-6.30; invece la perizia colloca l’orario della morte tre ore dopo, fra le 9 e le 10. Maccari ha sostenuto che appena compiuta l’esecuzione, la Renault rossa uscì dal garage di via Montalcini e si diresse verso via Caetani (distante 7-8 chilometri) senza compiere alcuna fermata intermedia; ma la telefonata di Morucci al professor Francesco Tritto per comunicare che il corpo di Moro si trovava in via Caetani era stata fatta alle 12.13, e Morucci ha affermato di aver telefonato subito dopo che il cadavere di Moro era stato abbandonato in via Caetani”.
Ha scritto Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera il 5 maggio 2008: “Concluso il sequestro, la prigione del popolo fu smantellata e l’appartamento di via Montalcini tornò quella di prima. Ma nonostante gli sforzi di cancellare ogni traccia, a terra rimase il segno della parete che per 55 giorni aveva nascosto l’ostaggio che lo Stato non era riuscito a liberare. Un anno più tardi la Braghetti, nel sospetto di essere seguita dalla polizia, abbandonò la casa dove aveva continuato ad abitare dopo il delitto Moro. Firmò una delega a vendere alla zia Gabriella, e sparì dalla circolazione fino al suo arresto, nel maggio 1980. Nell’ottobre 1979, la famiglia del signor Nicasio, che aveva acquistato l’attico di via Montalcini, comprò anche l’appartamento al piano terra, per sistemarci la suocera. Pagarono 50 milioni, come ricorda Nicasio, perché la zia della Braghetti disse che aveva avuto disposizione di non fare sconti. Le Brigate Rosse recuperarono così i soldi spesi, senza che i nuovi proprietari sapessero nulla di Moro né dei terroristi. La casa era in buone condizioni, perfino la carta da parati rimase la stessa. E la striscia sul parquet, che cominciava a scolorire, fu coperta dall’arredamento della stanza da letto di nonna Assuntina, che ci abitò tranquilla finché un giorno del 1984 le indagini di polizia e magistratura non accertarono che in quella casa era stato tenuto prigioniero Aldo Moro. E quel segno ancora ben visibile sul pavimento fece da riscontro alle conclusioni degli investigatori. Nonna Assuntina si trasferì per qualche tempo da un altro figlio, ma poi tornò e continuò la vita di sempre nell’appartamento che fu la prigione di Moro. Rifiutando di far entrare i giornalisti che suonavano di continuo al suo campanello e i registi dei film venuti per i sopralluoghi. Nonna Assuntina è morta nel 2007. L’appartamento è rimasto vuoto e ora ha deciso di andarci ad abitare la nipote più giovane, Daniela, che nel 1978 era una bambina di sei anni”.
Il covo è un luogo di struggimento e anche un fatto paradossale. È connesso ad un evento esterno di enorme rilevanza storica ed è abitato da gente comune. Una dicotomia che impressiona. Il covo è connesso ad una storia eversiva, brutale, ma anche affettiva, di disperazione. Si sviluppa un susseguirsi incessante di episodi intrecciati in una summa, ma la storia che conta, per dirla con James Joyce, è l’incubo dal quale cercare di risvegliarsi. L’asservimento alla storia, alla grande storia, ha prodotto lamento e disperazione, un campo senza confini, una simbologia sulle viltà e le piccolezze umane. L’avventura passa attraverso la costruzione di vicende che si cristallizzano in una tragedia e in una farsa. Quel garage da dove sono passati i brigatisti è un punto di non ritorno. Non riesco a fissarlo. Oggi è chiuso da una serranda elettrica. È una bocca serrata.
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Riapro il quaderno degli appunti e rileggo velocemente ciò che ho scritto. Via Fani, via Gradoli, via Montalcini. La storia, a scuola, non mi ha mai affascinato, a pensarci bene. Solo gli archetipi dell’esistenza incarnano un’immagine completa di vita. Una concezione grandiosa dell’esistenza è come l’ha programmata Dante. Fa i conti con illuminazioni liriche, con gesti e situazioni dolorose, che sacralizzano ogni esistenza dopo la morte. Non so se esista una congruenza logica e metafisica in ogni storia, ma certamente l’uomo non può smettere di cercarla, proprio come in una tavola dantesca.
L’uomo contemporaneo non può che essere angosciato. La sua evoluzione coincide con un modello perfetto, con un edonismo sfrenato. Di fronte alla morte l’uomo è nudo. Lo è di fronte alla nascita, alla malattia, al dolore, alla perdita. Ha bisogno di anestetizzare il male per pensare ad una salvezza, per illudersi di scamparla dall’inevitabile che gli ricade addosso. L’assillo dell’uomo del Duemila è paradossale: cioè annullare la morte. Ma nonostante le sue conquiste scientifiche, è ancora “finito”.
Ha ragione Maria Fida Moro: bisognerebbe togliere il padre da quella Renault 4 e riportarlo al centro della storia politica del Paese. Oltre il passato, c’è ciò che Marc Augé definirebbe la messa in intrigo, fuori dall’ideologia del presente, per un futuro come tempo della coniugazione. Cambiare quando è necessario in aderenza alla coscienza democratica. Presagire il cambiamento per flessibilità e coerenza. Essere, nella società italiana, diceva Aldo Moro, significava che le cose da fare fossero necessarie perché alternative. La politica non come pura convenienza, ma come omaggio alla verità.
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La mattina successiva.
“Via Caetani”. “Numero?”. “All’imbocco della via”. Il terzo tassista, il giorno dopo, è un marocchino che parla bene l’italiano. Non sa nulla della storia del nostro Paese, né tanto meno del luogo del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro.
Via Michelangelo Caetani è una strada molto frequentata, in cui è difficile trovare un parcheggio. Il corpo di Moro, quando è stato estratto dagli artificieri, era ripiegato e irrigidito. Indossava lo stesso abito scuro che aveva il giorno del rapimento, con la camicia bianca a righine e la cravatta ben annodata. Alcune testimonianze affermano che la macchina sia stata portata in via Caetani nelle prime ore del mattino, tra le 7 e le 8, e lasciata fino a quando gli assassini hanno ritenuto opportuno avvertire la famiglia dello statista. Altre testimonianze, invece, affermano di aver visto la Renault parcheggiata soltanto intorno alle 12.30 e non prima. Secondo le ultime rivelazioni il corpo di Aldo Moro sarebbe stato ritrovato, il 9 maggio 1978 in via Caetani, con circa un’ora di anticipo sulla telefonata con cui Valerio Morucci, alle 12.13, avvisò il professor Francesco Tritto dell’avvenuta esecuzione. L’allora artificiere Vito Antonio Raso, ora sostiene di essere arrivato in via Caetani molto prima, in seguito ad una segnalazione anonima che denunciava la presenza di una macchina forse esplosiva, e di aver scoperto prima delle 12 il cadavere di Moro. Anche il Ministro degli Interni Francesco Cossiga sarebbe arrivato prima dell’orario ufficiale, intorno alle 14, e addirittura prima della scoperta del corpo, insieme al capo della Digos Domenico Spinella e al Colonnello dei carabinieri Antonio Cornacchia. Il fascicolo, affidato al pubblico ministero Luca Palamara, è connesso a quello aperto recentemente sulla base di un esposto di Ferdinando Imposimato per il quale la morte poteva essere evitata. Il nuovo procedimento è stato avviato d’ufficio ed ha preso spunto da notizie diffuse a proposito della versione dei due ex antisabotatori. L’attività istruttoria mira a verificare se quanto riportato in alcune recenti ricerche sul caso Moro contenga elementi utili per fare luce sulla vicenda. E tra queste c’è una meticolosa ricerca dei giornalisti Manlio Castronuovo e Paolo Cucchiarelli riferita al mistero sull’orario in cui effettivamente lo Stato seppe della morte di Moro.
Questo è un comunicato stampa diffuso da Vito Antonio Raso: “Ho raccontato la mia esperienza di anti-sabotatore in un libro per far capire anche agli altri cosa vuol dire uscire al mattino con l’obiettivo di salvare la vita di gente innocente. E, questo, negli anni Settanta, quando i residui bellici inesplosi erano ancora numerosissimi e gli attentati politici riempivano le pagine dei giornali. Ho partecipato con attenzione al lavoro di approfondimento di Castronuovo e Cucchiarelli fornendo loro ogni informazione in mio possesso per trovare riscontri al fatto che il mio intervento di artificiere fu richiesto sicuramente prima delle 11 del mattino. Ho dedicato del tempo, fatto ricerche e sacrificato la mia famiglia come è già capitato in passato quando si trattava di questioni di lavoro importanti. Perché quando ho saputo che i conti degli orari non tornavano, ho pensato fosse giusto dare il mio contributo. In questi giorni ho sentito di tutto. Che ero stato pagato, e passi. Che ho mentito, e passi pure questo. Che l’ho fatto per smania di protagonismo. E va bene, ho le spalle larghe. Ma di fronte al comportamento disgustoso di alcuni giornalisti che hanno perseguitato me e la mia famiglia, con quell’arroganza e quella maleducazione dalle quali ho sempre mantenuto le distanze in tutta la mia vita, a queste condizioni io non ci sto. Non esiste un personaggio Vito Raso, esiste ciò che ho detto. È scritto lì, nero su bianco. Io sono stato un uomo dello Stato e lo sarò fino a quando il signore mi darà vita. E non voglio fare di tutta l’erba un fascio perché, ne sono sicuro, anche nella categoria dei giornalisti ci sono persone capaci ed educate, come mi hanno dimostrato in questi giorni. È per questo che intendo comunicare il mio silenzio stampa immediato non avendo altro da aggiungere rispetto a quanto fin qui scritto. Naturalmente resto a disposizione delle autorità competenti con le quali ho sempre collaborato nel mio lavoro e alle quali darò tutto il supporto che mi potrà essere richiesto. Nulla toglie che tornerà il sereno e potremmo ricominciare a parlarne con la massima serietà e serenità. Insomma chi ricorda quella poesia che dopo la tempesta torna il sereno e anche le galline fecero festa? Grazie comunque a tutti. Vito Raso”.
Controbatte l’ex generale Antonio Cornacchia che quando gli dissero di andare in via Caetani erano le 13.20. La voce via radio era del colonnello Gerardo Di Donno, che comandava la sala operativa. Cornacchia era in piazza Ippolito Nievo e non sapeva dove fosse via Caetani. Ci pensò il suo autista, Di Francesco. Quando arrivò, non c’era nessuno. Vide la Renault rossa parcheggiata e bloccò la strada chiedendo a Di Donno due auto di rinforzo che piazzò all’angolo con via delle Botteghe Oscure e in fondo, verso via dei Funari. La Renault era chiusa. Da fuori non si vedeva niente. Disse agli artificieri di tirar fuori dalla sua auto un piede di porco con il quale aprì il portabagagli della Renault. Nel 1978 Cornacchia comandava il nucleo investigativo dei carabinieri. Secondo i due artificieri che oggi sostengono di essere giunti in via Caetani un’ora prima della telefonata con cui il brigatista Valerio Morucci comunicava l’avvenuta esecuzione e il luogo in cui la famiglia avrebbe trovato il suo corpo, Cornacchia arrivò con Francesco Cossiga e col capo dell’ufficio politico Domenico Spinella.
Giovanni Circhetta, il maresciallo capo che era il superiore diretto di Vito Raso, conferma invece la versione del suo sottoposto ed aggiunge che qualcuno aprì quell’auto prima del loro intervento e che in macchina c’erano due lettere delle quali non ha mai trovato alcun riferimento nei verbali di sequestro. Erano le 11 del mattino. Circhetta si fece accompagnare dal sergente Andrea Casertano, in modo da avere qualche braccia in più che, in simili situazioni, si sarebbe rivelata sicuramente utile. Oltre a Rasso c’erano alcuni poliziotti in borghese, un commissario che aveva uno spiccato accento sardo e l’alto ufficiale dei carabinieri Antonio Cornacchia. C’era anche qualche curioso, ma Cornacchia non sa dire se fossero semplici passanti o agenti dell’antiterrorismo che osservavano la scena. La zona era stata parzialmente delimitata. Circhetta si puntellò nel bordo del bagagliaio per sporgersi verso l’interno della macchina ed avere la certezza che non ci fossero ordigni. Sui sedili posteriori c’erano degli oggetti. Vide distintamente una busta da lettera chiusa il cui contenuto era poco spesso e lasciava intendere che fossero pochi fogli piegati similmente a come si fa per spedire una lettera. Non vi erano segni distintivi, né scritte. Circhetta notò anche un assegno bancario. Una versione che è oggi corroborata dalla testimonianza di Claudio Signorile, ex parlamentare e ex Ministro dei Trasporti del governo Craxi, che quella mattina era con Cossiga.
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La quarta via anonima: stretta, corta, angusta. Qui non batte mai il sole. La strada è composta di piccoli sampietrini. Le grate coprono le finestre degli edifici. Prima di andare in Senato, il 9 maggio 2013, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha deposto una corona di fiori davanti alla targa che ricorda il sacrificio di Aldo Moro. Il capo dello Stato si è soffermato qualche minuto in raccoglimento. Dopo la cerimonia si è intrattenuto a colloquio con il presidente del Senato Pietro Grasso, la presidente della Camera Laura Boldrini e il premier Enrico Letta, anche loro in via Caetani, insieme al presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e al sindaco di Roma Gianni Alemanno. Le parole, secondo Napolitano, sono oggi pericolose come lo sono state in passato. Il ricordo del sacrificio delle vittime del terrorismo ci ha dato un’occasione per apprendere che la violenza va combattuta, fermata, scongiurata prima che si tramuti in eversione. Dieci anni prima il presidente Carlo Azeglio Ciampi depose corone in via Fani e in via Caetani. La figura dello statista assassinato dalle Brigate Rosse venne ricordata dal presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, da Giuliano Vassalli e da Leopoldo Elia. Alla cerimonia parteciparono numerosi esponenti del governo, parlamentari e antichi compagni di strada di Aldo Moro. In sala arrivarono anche i famigliari degli agenti della scorta che furono uccisi in via Fani. Nel 1998 fu celebrata una messa nella cappella del Quirinale. Un anniversario che il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro commemorò al fianco della moglie e dei familiari di Moro. I dirigenti del Partito Popolare con in testa Rosa Russo Jervolino, parteciparono ad una funzione celebrata da monsignor Achille Silvestrini. Nel 1988 toccò a Francesco Cossiga. Sul terrorismo, ammise, mentirono tutti, perché fu la ragione di Stato che impose di criminalizzare i brigatisti, di bollarli come criminali comuni. Eppure si sapeva che incarnavano un fatto politico che infettava la società. Per Cossiga non si potevano imbastire analisi, discussioni. Ammise anche di essere stato un semplificatore, suggerendo ad Andreotti che le lettere di Moro non erano moralmente autentiche. Cossiga disse di aver corrisposto in modo ingeneroso alla generosità di Moro. Dovendo scegliere tra la tutela degli interessi dello Stato e della democrazia, e la linea della fermezza e la vita di Aldo Moro, ha scelto la prima avendo la certezza che avrebbe significato la morte del suo collega. Cossiga è morto consapevole dell’altissimo prezzo umano che ha fatto pagare ad un uomo e a una famiglia innocenti, assumendosi la responsabilità dell’operato del ministero dell’Interno che conosceva e approvò. Il suo giudizio su Moro è netto: è stato un grande intellettuale, un grande politico, un grande cristiano, un grande servitore dello Stato e del popolo.
La targa di via Caetani è scura, come il volto di Moro in un rilievo sul muro di sinistra. Ai lati due finestre con le grate che assomigliano ad una prigionia, fatalmente. Guardo e riguardo la via, le auto parcheggiate, i motorini, la targa. È ora di chiamare un taxi e di tornare a casa.
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Un capitolo a parte meriterebbe la scoperta del memoriale avvenuta in via Monte Nevoso 8 a Milano e che riguarda i documenti redatti da Aldo Moro. Furono rinvenuti in due occasioni, nel 1978 e nel 1990. Vennero inizialmente presi in consegna dalla Digos, per essere poi consegnati e pubblicati dalla Commissione Stragi solo nel 2001. I testi sono elaborati in prima persona, con Moro come scrivente, e diffusi in forma dattiloscritta presumibilmente da Firenze, secondo alcuni dal covo di via Barbieri, o in un appartamento vicino il carcere di Sollicciano. Un primo ritrovamento avvenne il 1° ottobre 1978. Si tratta, appunto, di pagine dattiloscritte, che potrebbero essere state manipolate o censurate. Alcune pagine manoscritte vennero invece ritrovate in un’intercapedine della stessa casa, il 9 ottobre 1990, durante dei lavori eseguiti da un muratore napoletano. Erano dentro un vano creato con un pannello di gesso. Fu rinvenuta una cartelletta di cartone color marrone, sigillata da un nastro adesivo e al cui interno erano contenuti più di quattrocento fogli fotocopiati degli originali del memoriale. Dopo la redazione del dattiloscritto i documenti originali, i nastri magnetici e i documenti scritti vennero ritenuti distrutti, stando alle versioni fornite dai brigatisti. Il 22 marzo 2001 la Commissione stragi decise la pubblicazione integrale del materiale. Alcuni aspetti erano già stati resi noti durante il sequestro dell’archivio del generale Demetrio Cogliandro, ex capo del Sismi, la vigilia di Natale del 1995.
Nel sito www.federalismi.it in un’intervista di Federica Fabrizzi del 10 giugno 2008 allo storico Miguel Gotor, che si è occupato a lungo del memoriale e dei suoi originali mai ritrovati, è riferito: “Non credo che sia stato distrutto come raccontato dai brigatisti e non ho idea che fine possa aver fatto. La mancanza degli originali degli scritti di Moro (le lettere non distribuite, il memoriale, i documenti riservati contenuti in una delle due borse, le carte che eventualmente possono essere entrate in prigione dall’esterno attraverso un canale di ritorno che il prigioniero era certo di avere instaurato) è un dato di fatto che caratterizza l’intera vicenda. Non conoscendo gli originali, naturalmente, non sono in grado di dirle quali notizie riservate potessero contenere. Degli scritti di Moro abbiamo solo dattiloscritti e fotocopie di manoscritti che non sappiamo in che misura siano completi. Tuttavia, due dati sono certi in base alla lettura dei comunicati: anzitutto, i brigatisti minacciarono più volte di divulgare alla pubblica opinione le rivelazioni di Moro e non l’hanno mai fatto né durante, né dopo la morte dell’uomo politico. Inoltre, sin dal primo comunicato, l’operazione ha un inconfondibile carattere spionistico-informativo, in cui le dichiarazioni del prigioniero e il conseguente ricatto politico hanno un ruolo centrale. Le novità scaturite dall’analisi testuale di queste lettere sono numerose. Mi limito a ricordarne alcune: anzitutto ci sono delle missive tagliate e fatte oggetto di una manipolazione censoria che le ha rese di difficile comprensione. In secondo luogo, sostengo con argomenti a mio giudizio plausibili che le lettere effettivamente recapitate durante il sequestro furono almeno 36 e non 28 come ritenuto sinora; inoltre, credo di essere riuscito a ricostruire il laborioso meccanismo di composizione di molte missive, il rapporto cioè che intercorreva tra la scrittura di Moro, la dattiloscrittura dei brigatisti e l’ultima stesura da parte del prigioniero dopo che il dattiloscritto aveva passato il vaglio del comitato esecutivo. Infine, ho dato molta importanza alla raffinata strategia di recapito adottata dai brigatisti che fu parte integrante della loro azione terroristica a livello propagandistico ed è stata spesso sottovalutata nella sua portata destabilizzante: in alcuni casi i rapitori imposero la divulgazione delle missive affidandole ai giornali e alle agenzie di stampa; in altri, lasciarono facoltà ai destinatari di decidere se mantenere il testo riservato oppure renderlo pubblico”.
Nel libro Il memoriale della Repubblica, Gotor annota: “È pur vero che sulla scomparsa degli originali di Moro e sulle autentiche ragioni che indussero i brigatisti a non distribuirli durante e dopo il sequestro, è calata una spessa coltre di silenzio poiché si è verificata una imbarazzante quanto drammatica eterogenesi dei fini tra il governo, i brigatisti rossi, i partiti politici, i familiari e gli amici di Moro: un’eterogenesi così facilmente prevedibile nel suo meccanismo formativo e autobloccante da indurre a pensare che gli originali degli scritti di Moro, nella loro versione integrale, non siamo rimasti in mano italiana”.
Riportiamo un capitolo scritto da Moro dal titolo L’emergenza Italia, il più illuminato, razionale, lucido scritto, che guarda al futuro nel tempo della coniugazione, del compromesso, della flessibilità, e che riassume un pensiero costante maturato prima della prigionia: “Innanzitutto io tengo, davanti a tante irrispettose insinuazioni, affermare che non sono fatto oggetto di alcuna coercizione personale, sono in pieno possesso delle mie facoltà intellettuali e volitive e che quel che dico, discutibile quanto si voglia, esprime il mio pensiero. Certo non posso dimenticare di essere qui a causa di un’azione di guerra, da venti giorni, nel corso dei quali ho vissuto, com’è immaginabile e inevitabile, in circostanze eccezionali. Ma non solo sono stato debitamente assistito, ma ho potuto lavorare e farmi le mie convinzioni lucidamente. Non si potrà dire pertanto domani che io in fondo trovavo giuste ed avallavo le posizioni delle forze politiche, a cominciare da quelle della Democrazia Cristiana, ma si dovrà dire invece che le consideravo disumane, pericolose, politicamente improduttive. Il mio vivo stupore è stato di non trovare eco alcuna di queste complesse valutazioni nei dibattiti parlamentari, ma di coglierli grigi e privi di vibrazioni umane come non mai. Può essere che un Paese come l’Italia, ricco di sentimenti, capace di cogliere la sofferenza in tutte le sue forme per istinto indotto all’equità, sia stato così duro, spietato, miope, monocorde in questa circostanza. È come se un’ondata di terrore, un rifiuto del ragionamento abbiano percorso e paralizzato il Paese e reso monotono un Parlamento, altre volte ricco di vibrazioni umane. Questa è l’amara constatazione nella quale si trova il segno di un impoverimento della nostra vita democratica, come se essa dovesse combattere con le armi e solo con le armi per la sua salvezza. E poi? I contenuti di cui si discute con profonde differenze di metodo e di impostazione, ma che pure esistono e non possono essere annullati? In precedenti messaggi, non coartato, ma facendo anzi riferimento ad idee precedentemente espresse, ho accennato all’eventualità di scambio di prigionieri politici. Non l’ho fatto solo perché anch’io mi trovavo tra essi, ostaggio come quelli cui alle Fosse Ardeatine non fu concesso di salvare la vita. L’ho fatto, certo anche pensando a me, ma sinceramente a prescindere da me, per ragioni generali di umanità, perché così si pratica in molti paesi civili, perché vale ben poco affermare un astratto principio di legalità e poi sacrificare vite umane innocenti, perché la stessa sicurezza dello Stato guadagna da un minimo di distensione, come quando gruppi irriducibilmente ostili si disperdono fuori del territorio nazionale, sia pure acquisendo un po’ di respiro che è loro altrimenti precluso. Mi si dimostri a che giovano le tensioni e le vittime come quelle dei vari processi di Torino, quando, con minor dispendio di vite umane e con il riconoscimento di ragioni di equità, i prigionieri potevano essere dispersi fuori del territorio nazionale e resi praticamente innocui. Così invece essi concorrono ad alimentare una guerra che è, si voglia o no, una guerra, non riconducibile ad un’operazione di polizia, non riportabile a comune delinquenza, ma espressione di una sfida essenzialmente politica, per ragioni di fondo che una visione riduttiva delle cose non gioverebbe a cogliere. Proprio perché il fenomeno è così complesso bisognerebbe rifletterci su molto e dare tempo al tempo, per pervenire ad una decisione accettabile ed efficace. Desidero ricordare la grande emozione che circondò, in modo ricorrente, le manifestazioni del terrorismo in Alto Adige. Fenomeno, a suo modo, durissimo e ben difficile da contenere. Ebbene in quel caso, non senza molte incertezze, fu trovata una formula politica che permise di placare gradualmente il fenomeno, soddisfacendo esigenze che, si dimostrò, andavano soddisfatte. Non sarò certo così superficiale da equiparare meccanicamente due fenomeni che hanno sì affinità, ma anche rilevanti diversità. Bisognerebbe andare perciò al fondo delle cose. Ma resta il fatto che una fretta semplificatoria ed irrigidente non portò a nessun risultato, come accadde invece con una politica più cauta, di tempi più lunghi, non priva, anche in prospettiva, di provvedimenti di clemenza, capace di ricondurre dalla sua rozza scorza di fatto terroristico, alla più complessa essenza di fenomeno politico”.
Sincero e implacabile, Moro connota eventi che durante la prigionia non possono essere taciuti, nel dialogo con se stesso e con i brigatisti. La raccolta degli scritti merita un’analisi approfondita. È onesta, schietta, guarda al mondo travalicando la propria posizione a difesa della fatalità che prende corpo dal male della cronaca, dalla degenerazione politica italiana e straniera. La storia recente, a volte, riversa sdegno, si fa condizione delle colpe personali e restituisce la drammaticità nei ritmi sincopati di episodi negativi, in un angoscioso processo di annullamento del bene comune. Il dire si prolunga in un corto circuito di frasi nell’implacabile incedere della parola-verità. Questa parola non va, però, verso un compimento e una definizione, bensì denuda solo lo sguardo critico e registra fatti. La testimonianza di Aldo Moro si staglia in un verbale che connota azioni, in una progressione dilaniante, in un attrito che segna un’epoca, che vuole opporsi ad un metodo. Ma la stessa parola non è mai sfibrata e incontenibile, non è mai destrutturata di un significativo orizzonte tematico e di un respiro proprio. Il quadro d’insieme, tiene. La discorsività e l’elegante presa conducono ad un margine estremo di fatti e anche ad una condizione riflessiva, in un’esperienza collusa di uomini di potere. Moro non si lascia catturare dalla convinzione di approdare al senso negato come obiettivo primo ed ultimo. Piuttosto seleziona eventi e li rende sensibili ad una comprensione evidente, ad una disposizione logica. Questi eventi appaiono decisamente frustranti, per chi li subisce. Il battito sotterraneo della parola mantiene una cadenza descrittiva e individua fermamente uno schema nella verità malata della politica. Non figura mai la desoggetivazione, ma un io e un noi che sono aspetti trainanti, decisivi del memoriale. Affiora la necessità di comunicare, di conversare, di ritagliare una conoscenza consapevole. Si nota un senso di percezione fisico, oltre che una convergenza tra fatto e uomo, tra fatto e politica. Certamente la risposta di Moro rimane ancora quella di chi si pone contro ogni tipo di mercificazione della società e quindi di chi tenta di suscitare uno sgomento contro ogni forma di conservazione e di conformismo. Ci sono continue dimostrazioni di come la versione narrata viri verso la lacerazione della realtà, eppure mai in una presa aggressiva. Il linguaggio penetra incessantemente le cose orientandole. Le frasi sono tanto nette quanto cristalline. Il fatto è enunciato per quello che è, così il dramma della politica e di chi rappresenta le istituzioni. La rappresaglia umana fa intendere come i valori siano capovolti, come la materia superi lo spirito, come un senso di disgregazione possa annullare ogni intenzione pacifica. L’autenticità delle parole di Moro segna il richiamo ad un senso di responsabilità che sembra irrimediabilmente perduto. La realtà macerata è quella dell’esperienza concretizzata in un accecamento. Parla l’io che tenta di avvicinare i propri simili e di porre le domande fondamentali della vita. La disamina dello statista è inconfondibile nella concentrazione dei fatti, e la lingua appare sempre più disossata nei sentimenti, nella dialettica, nella protesta civile. Tutto lievita in una indefettibile certezza, in un sistema di riferimenti, in un allineamento contro le storture della democrazia. L’identificazione formale e sostanziale è sempre precipua, di pagina in pagina. Non manca l’accenno al futuro, all’avvenire, al dopo, ad un concreto, concretissimo auspicio.
Nel capitolo Congedo dalla Dc, Moro scrive: “Chi ha non cede quello che ha, non desidera farne parte agli altri. In effetti si corrode il circuito dell’innovazione democratica sia nel Paese per la lunga e invariata gestione del potere pur nel mutare delle alleanze, sia nel partito dove gruppi di potere ora si scontrano ora si sorreggono a vicenda e traggono motivo di singolare durevolezza dalla gestione del potere fine a se stesso. Frattanto matura l’esigenza d’integrazione, necessaria per costituire uno Stato solido, e dai partiti si attendono cose che essi non sono in grado di dare né nella forma della primitiva e più semplice organizzazione, né in quella piuttosto sclerotizzata che abbiamo innanzi descritta. Da qui la spinta a costruire un nuovo tipo di partito: un partito sensibile a spunti culturali, tecnocratico, piuttosto indifferente sul piano ideologico, nutrito di concrete esperienze internazionali. Questo nuovo tipo di organizzazione dovrebbe essere in grado di assolvere le funzioni per le quali oggi i partiti, e segnatamente quello della Democrazia Cristiana, mostrano di essere incapaci. Da qui tutto il gran parlare, e un po’ anche fare, in vista dell’indispensabile rinnovamento della Democrazia Cristiana. Essa dovrebbe essere: partito aperto nelle strutture interne senza chiusure egoistiche e d’interessi di gruppi, arbitri del potere questi ultimi e tesi a detenerlo in qualsiasi forma il più a lungo possibile; partito aperto verso gruppi sociali aderenti o anche solo simpatizzanti; maggior peso attribuito agli eletti nelle assemblee rappresentative di vario livello; arricchimento ed approfondimento dei rapporti internazionali in società fortemente integrate al di là del livello puramente nazionale”.
Alessandro Moscè
(continua)
L'articolo “Qui venivano molti politici a fare sesso con i travoni, lo sa?”. Reportage dai luoghi del ‘caso Moro’: via Fani, via Gradoli, via Montalcini, via Caetani proviene da Pangea.
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Bergamo Festival Fare la Pace 2018
Bergamo Festival Fare la Pace 2018
“Riconciliazione. Ricucire strappi e riannodare fili nella società dei conflitti” è il tema della nuova edizione di Bergamo Festival Fare la Pace che si svolgerà dal 3 al 13 maggio 2018.
Il Festival propone ogni anno una riflessione ispirata alle questioni più attuali e scottanti del dibattito civile. Nel 2018 la parola chiave portata dal Festival all’attenzione generale è “riconciliazione”,…
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