#26 gennaio 1867
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SABATO 18 FEBBRAIO 2023 - ♦️ SANTA GELTRUDE COMENSOLI♦️ Geltrude Comensoli, al secolo Caterina (Bienno, 18 gennaio 1847 – Bergamo, 18 febbraio 1903), è stata una religiosa italiana, proclamata santa nel 2009 da papa Benedetto XVI. Caterina Comensoli nacque a Bienno, in Val Camonica, allora sotto il Regno Lombardo-Veneto. Crebbe in una famiglia con dieci fratelli e sorelle, della quale sopravvissero solo tre femmine: Bartolomea, Cristina e, appunto, Caterina. Il padre Carlo era "fucinaro" presso l'industrie ferrose locali, la madre Anna Maria Milesi era sarta. Ricevette la prima Comunione precocemente a soli sei anni e nel 1867 entrò nella Compagnia di Sant'Angela Merici. Il 15 dicembre 1882 decise di fondare, con Francesco Spinelli, l'istituto delle Suore Adoratrici del Santissimo Sacramento (da cui ebbe origine anche quello delle Suore Sacramentine) e di prendere il nome di suor Geltrude. Il 1º novembre 1894 aprì una casa di suore a Castelnuovo Bocca d'Adda e negli stessi anni a Lavagna, in provincia di Lodi. Morì il 18 febbraio 1903 a Bergamo. Papa Giovanni Paolo II la beatificò il 1º ottobre 1989. Il 26 aprile 2009 fu canonizzata da papa Benedetto XVI durante una solenne celebrazione in Piazza San Pietro. La memoria liturgica ricorre il 18 febbraio. Da Il Santo del Giorno Tradizioni Barcellona Pozzo di Gotto - Sicilia ♦️ Sicilia Terra di Tradizioni #Tradizioni_Barcellona_Pozzo_di_Gotto_Sicilia #Sicilia_Terra_di_Tradizioni Rubrica #Santo_del_Giorno (presso Tradizioni Barcellona Pozzo di Gotto - Sicilia) https://www.instagram.com/p/CozSJEVo7Wf/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Eritrea 26 gennaio 1887, la battaglia di Dogali
Eritrea 26 gennaio 1887, la battaglia di Dogali
La mattina del 25 gennaio 1887, circa 25 mila abissini guidati da Ras etiope Alula Engida, generale abissino e signore di Asmara, attaccavamo il forte italiano nella città di Saati a poco meno di 30 km da Massauac. Ne seguì una dura battaglia durante la quale circa 700 soldati di cui 300 ascari, al comando del maggiore Boretti, con due soli cannoni resistettero eroicamente riuscendo, dopo quattro…
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#26 gennaio 1867#Dogali#Eritrea#Le guerre coloniali#Saati#tenente colonnello Tommaso De Cristoforis.
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Chi chiederebbe, oggi, a gran voce, di cambiare il finale di “Casa di bambola”? Nel giorno della sua morto, visita a Oslo nella casa dello scandaloso, “femminista” Henrik Ibsen
“Si prega di non discutere di Casa di bambola”. Questa curiosa postilla corredava i cartoncini d’invito ai ricevimenti delle buone famiglie scandinave, ci ricorda il filosofo napoletano Benedetto Croce. Ma cosa c’era di così tanto sconveniente nel parlare di Casa di bambola? Per rispondere a questa domanda, qualche tempo fa, mi sono fatta un giro nella casa di Henrik Ibsen, a Oslo (ai tempi del drammaturgo chiamata Christiania), precisamente all’Ibsen Museet (ovviamente in Henrik Ibsensgate, al numero 26), vicino al Palazzo Reale, qualche centinaio di metri dal Teatro Nazionale della capitale norvegese.
Passeggiando per la città mi domando: oggi chi si scandalizzerebbe per Casa di bambola? Chi chiederebbe, a gran voce, di cambiarne il finale? Casa di bambola, Et dukkehjem, fece il suo sconvolgente e clamoroso ingresso nei teatri europei nel dicembre del 1879, Henrik Ibsen diventa Henrik Ibsen proprio a partire da Nora, la contestata protagonista di quest’opera, la giovane moglie di Torvald Helmer. Per salvare la vita e la salute del marito, la giovane moglie aveva contratto un prestito da uno strozzino, Krogstad, all’insaputa di Torvald. Il gesto d’amore della donna viene disprezzato, sacrificato sull’altare del conformismo borghese di cui il marito rappresenta la quintessenza. Nora, agli occhi di Torvald, se prima era una “allodola”, una “testolina vuota”, un “passerotto sventato”, ora è una moglie indegna. Quando poi il marito si decide a perdonare Nora, salvate le apparenze, è ormai troppo tardi: la moglie scopre, improvvisamente e irreparabilmente, di vivere nella finzione di una bambola che sta nella sua casa, come una marionetta. La ricerca d’identità la spinge ad allontanarsi dalla famiglia e dai suoi stessi figli, diventando agli occhi di tutti, una madre snaturata.
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Diremmo, forse, in parole povere, tradendo lo stesso Ibsen, una femminista. La trappola del perbenismo borghese non può essere svelata e messa in scena, la donna deve rimanere relegata alla tradizionale condizione di moglie e madre, angelo del focolare, nonostante un marito, Torvald, meschino e schiavo delle apparenze? La rappresentazione teatrale esce ben presto dal teatro per rivelarci una nordica società retrograda: Ibsen è costretto a cambiare il finale nella sua messa in scena tedesca, perché l’attrice che interpreta Nora si rifiuta di recitare la parte di una madre ritenuta snaturata. Ibsen dichiara, il 3 gennaio 1880: “Casa di bambola ha sollevato una fortissima reazione; le fazioni si fronteggiano bellicose; l’intera grossa tiratura del libro, 8.000 esemplari, è andata esaurita nel giro di due settimane e si sta già preparando una ristampa. Oggetto della contesa non è il valore estetico del dramma, ma il problema morale che pone. Che da molte parti sarebbe stato contestato lo sapevo in anticipo; se il pubblico nordico fosse stato tanto evoluto da non sollevare dissensi sul problema, sarebbe stato superfluo scrivere l’opera”.
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Ibsen, il fondatore del teatro moderno, nella sua casa di Oslo, scrive
Oslo è oggi una città estremamente accogliente, si vedono moltissimi giovani, tanti bambini e, girando a zonzo per lo spettacolare Parco Vigeland, non si può che riflettere sull’umanità, ammirando l’altissimo obelisco realizzato con un intreccio di corpi umani. Inoltre, non si può fare a meno di pensare che il dramma di Nora sia stato scritto ad Amalfi. In sella a una bicicletta, torno in centro e, non senza qualche esitazione, trovo l’Ibsen Museet, in un elegante palazzo bianco e rosso, l’appartamento di Ibsen al primo piano.
È novembre e l’appartamento è molto riscaldato. Henrik Ibsen era nato il 20 marzo 1828 a Skien ed è morto a Oslo (Christiania), il 23 maggio 1906. Pare che abbia vissuto qui gli ultimi undici anni della sua vita. Che cosa dicono di noi i nostri ultimi undici anni? Secondo me, sono un agile compendio della nostra vita e della nostra opera. Il modo di vivere si cristallizza in rituali, piccole manie, abitudini confortanti. Leggere e scrivere. Nonostante la paralisi degli ultimi anni. La storia del museo non è molto antica perché di fatto è nato nel 1990. Uno scrittore affermato deve curare sapientemente il proprio arredamento perché potrebbe diventare oggetto di culto postumo. Bisognerebbe astenersi dall’acquisto delle librerie Billy dell’Ikea? Oppure contattare un architetto per realizzare una casa che ci assomigli, alla Malaparte? Certamente se uno si chiama Heinrik Ibsen deve sapere che prima o poi la sua casa verrà fatta a pezzi e diventerà un museo ricomposto, un po’ ad Oslo, un po’ a Grimstad. “Dopo la morte di Suzannah Ibsen nel 1914, il figlio Sigurd Ibsen donò lo studio e la camera da letto del padre alla città di Kristiania, alla sala lettura del museo della contea di Skien e alla sala da pranzo di Grimstad, dove si trova la farmacia che Ibsen aveva lavorato era stato trasformato in un museo già nel 1909”. Tuttavia, visitare la casa museo è pur sempre visitare un sepolcro. Cercare il calco di un’esistenza. Dove vive solo la polvere e la notte c’è un silenzio sinistro.
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La giovane e graziosa guida, che parla in uno strano inglese, ci racconta che l’impianto di riscaldamento è l’unico intervento che è stato fatto alla casa del drammaturgo. Per forza: in ogni stanza, vedo una stupenda stufa di maiolica. Chissà che impegno costante alimentare tutte quelle stufe, giornalmente. E quanta legna! Per il freddo della Norvegia meridionale, occorreva di sicuro un’accensione continua. Ibsen non si dimentica di mettere un po’ di tepore persino nel celebre dramma. Atto primo: “stanza accogliente e di buon gusto, ma senza lusso. Nel fondo, la porta di destra dà sull’ingresso, quella di sinistra sullo studio di Helmer. Tra le due porte un piano. Altra porta al centro della parete di sinistra, e, più in avanti, una finestra. Accanto alla finestra un tavolo rotondo, poltrone e un piccolo sofà. Sulla parete di destra, un po’ indietro, una porta, e sulla stessa parete, più verso il proscenio, una stufa di maiolica con davanti poltrone e una sedia a dondolo. Tra la stufa e la porta un tavolinetto. Alle pareti acqueforti. Scaffale con porcellane e altri soprammobili artistici, piccola libreria con volumi finemente rilegati. Tappeto. La stufa è accesa: è una giornata d’inverno. Si sente suonare e, poco dopo, aprire la porta di ingresso”. Le stufe ora sono spente. Il gruppo di visitatori non è molto nutrito, eppure è domenica, i passi che possiamo compiere sono molto piccoli, non possiamo calpestare il pavimento con piastrelle molto pregiate, oppure i tappeti che sembrano bisognosi della robusta passata di aspirapolvere, il living è recintato da regali cordami. L’arredo è ricco, sontuoso direi, il mobilio di legno, morbide tende a sipario alle finestre, il salottino di velluto verde, alle pareti oli su tela e acqueforti. Ibsen amava scrivere al tavolino sotto la finestra. Dalla finestra si guarda la strada, naturalmente.
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Pare che Ibsen avesse un caratteraccio, pungente e aspro, e persino in punto di morte alla cameriera avesse detto: “al contrario”, per contestare il fatto di sentirsi poco bene. La graziosa giovane guida non fa che parlare di Peer Gynt, un’opera del 1867, scritta dopo un viaggio tra Ischia e Sorrento. A Casa di bambola solo pochi, brevi, cenni. La visita è finita, della vita di Ibsen mi ricordo soprattutto le alterne vicende, il lavoro in una farmacia, il fatto che avesse una virilità accentuata sin da giovane e che indossava sempre un bel cappotto, un cappello a cilindro e i guanti. Dentro il cappello teneva sempre uno specchietto. Persino seduto allo scrittoio del suo studio è ritratto con il cappotto. Forse non è che facesse così caldo nella sua casa di Oslo. Al pianterreno della casa c’è il classico negozio di souvenir, vendono riproduzioni della sua penna d’oca. Le cartoline in esposizione lo ritraggono, in bianco e nero, con uno sguardo fiero e uno di biasimo, un’occhiata in tralice, la barba socratica in due bande, gli occhialini con le lenti ovali, con una sottile montatura. Mi sono comprata una piccola calamita tutta nera che ritrae Ibsen di profilo, la sua ombra inequivocabile, formata da cappello, cilindro e bastone, la morbida curva del suo ventre. Del fondatore del teatro moderno, resta l’ombra goffa, l’uomo ridotto a personaggio senza volto, da calamita, che oggi forse non scandalizza più. Si è finito, forse, per non discutere più di Casa di bambola.
Linda Terziroli
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Santa Maria di Gesù Crocifisso (OCD), Vergine
25 agosto
Santi
Mariam Baouardy nacque ad Abellin in Galilea il 5 gennaio 1846, da genitori molto poveri ma altrettanto onesti e pii cristiani greco-cattolici. Rimasta orfana di entrambi i genitori a soli tre anni di età insieme al fratello Paolo, venne affidata ad uno zio paterno, che alcuni anni dopo si trasferì ad Alessandria d'Egitto. Non ricevette alcuna istruzione scolastica: era analfabeta. A tredici anni, per il desiderio di appartenere solo a Dio, rifiuta con fortezza il matrimonio che, secondo le consuetudini orientali, le aveva preparato lo zio. Seguirono alcuni anni durante i quali lavora come domestica ad Alessandria, Gerusalemme, Beirut e Marsiglia.
Qui all'inizio della Quaresima del 1865, entrò dalle Suore della Compassione, ma ammalatasi dovette lasciare dopo due mesi. Fu poi accolta nell'Istituto delle Suore di San Giuseppe dell'Apparizione, ma dopo due anni di postulandato ne fu dimessa, essendo stata giudicata più adatta per la vita claustrale. Fu così che il 14 giugno 1867 arrivò al Carmelo di Pau.
Il 21 agosto 1870, ancora novizia, partì per l'India per la fondazione di un Carmelo a Mangalore. Il 21 novembre 1871 fece la sua professione religiosa. Un anno dopo fu rimandata a Pau, da dove partì con altre religiose nell'agosto 1875 per Betlemme, per la fondazione del primo Carmelo in terra di Palestina. Morì il 26 agosto 1878 a Betlemme a causa di una cancrena contratta in seguito ad una frattura prodotta da una caduta. Fu beatificata da Giovanni Paolo II il 13 novembre 1983. è stata canonizzata da papa Francesco a Roma il 17 maggio 2015. Nel calendario della Chiesa universale è ricordata il 26 agosto, mentre in quello dell’Ordine Carmelitano la sua memoria liturgica cade il 25 agosto. La sua tomba, meta di pellegrinaggio da parte di cristiani e musulmani, si trova nella chiesa del Carmelo di Betlemme.
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La Scala di Milano presenta, fino al 12 febbraio, il Don Carlo di Verdi nella versione in cinque atti. Un’opera magniloquente, complessa, che prende vita sul prestigioso palcoscenico scaligero, sotta la direzione del verdiano Myung-Whun Chung e con la regia dei Peter Stein. Una rappresentazione coraggiosa e perfettamente riuscita.
La storia delle rappresentazioni del Don Carlo di Giuseppe Verdi è complessa, ricca di interventi diretti ed indiretti, di interferenze e di ripensamenti. Ispirata dal lavoro di Friedrich Schiller, Don Carlos, Infant von Spanien, l’opera viene inizialmente presentata nella sua forma in cinque atti l’11 marzo 1867 all’Opéra di Parigi. Qualche mese dopo avvenne il debutto, al Teatro Comunale di Bologna, della versione italiana, sempre in cinque atti. Ma fin da quell’anno iniziarono i tagli e le modifiche all’opera, autorizzati, inizialmente, dallo stesso Verdi per far sì che l’opera acquisisse leggerezza ed efficacia. Nel 1884 la Scala presenta una versione in quattro atti concepita dallo stesso Verdi, ottenuta dalla versione originale francese attraverso l’espunzione dell’atto iniziale e dei ballabili. È proprio questa versione che si diffuse più rapidamente ed è ancora quella che oggi viene rappresentata con più frequenza.
La Scala decide di presentare la versione in cinque atti alla quale Verdi lavorò negli anni Ottanta, successivamente alla rappresentazione del 1884. La scelta coraggiosa di presentare questa versione completa dell’opera, che mancava da quarant’anni, e cioè da quella versione diretta da Claudio Abbado con la regia di Luca Ronconi presentata l’11 dicembre 1977, è una scelta vincente che ridona a questo capolavoro verdiano tutto il suo splendore ed il suo respiro.
Il Don Carlo si sviluppa su tre grandi conflitti che rappresentano i tre grandi assi sui quali si sviluppa la storia: quello del contrasto tra padre e figlio, tra Filippo II e Carlo, quello delle due diverse concezioni politiche del monarca assoluto Filippo e del liberale Rodrigo e quello del drammatico confronto tra Stato e Chiesa. Queste tematiche complesse si concretizzano in una composizione in grado di lavorare il materiale psicologico con grande finezza, lavorando ogni singolo personaggio per incastonarlo in un’opera grandiosa e tormentata. La rappresentazione del Don Carlo alla quale abbiamo assistito alla Scala, ci ha colpito per l’enorme rispetto del dettato verdiano e per l’interpretazione ineccepibile e autentica degli attori. Francesco Meli ha proposto un’interpretazione del Don Carlo lancinante, mosso dai moti patriottistici (spronati da Rodrigo, uno straordinario Simone Piazzola la cui presenza scenica è a dir poco grandiosa), dall’amore e dalla vendetta personale, lavorando un personaggio complesso con grande amore lirico. Krassimira Stoyanova è una Elisabetta di Valois impeccabile, personaggio chiave combattuto tra ragion di Stato e sentimento personale, spesso accompagnata da un’elegantissima Beatrice Uria-Monzon nel ruolo della terribile principessa Eboli, elemento che incide e fa sanguinare un’opera dove i conflitti sono già molteplici. Il ruolo del monarca assoluto Filippo II è stato impersonato da Michele Pertusi (chiamato all’ultimo minuto per sostituire Ferruccio Furlanetto) elegante e terribile basso che fa di Filippo un perfetto personaggio verdiano. La direzione dell’orchestra è stata assicurata dal M° Myung-Whun Chung, che ritorna a dirigere un’opera di Verdi dopo aver accolto un grande successo con la rappresentazione del Simon Boccanegra alla Fenice. La regia di Peter Stein è quella già presentata a Salisburgo nel 2013: una regia che si attiene al dettato verdiano con immenso rispetto e che concepisce, insieme al creatore delle scene Ferdinand Woegerbauer, luoghi grandiosi che evitano il rischio dell’eccesso e che, al contrario, propongono una efficacia proprio grazie ad una semplificazione aderente al tormento sublime dell’opera verdiana.
Spettacolo visto giovedì 26 gennaio 2017
Lo spettacolo va in scena: Teatro alla Scala Via Filodrammatici, 2 – Milano fino a domenica 12 febbraio 2017 orari: mercoledi’ e sabato 18.30, domenica 14.30
Il Teatro alla Scala presenta Don Carlo di Giuseppe Verdi dramma lirico in cinque atti libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle traduzione italiana di Achille De Lauzières e Angelo Zanardini direttore dell’orchestra Myung-Whun Chung regia Peter Stein coro e Orchestra del Teatro alla Scala scene Ferdinand Woegerbauer costumi Anna Maria Heinreich luci Joachim Barth
Elisabetta di Valois Krassimira Stoyanova La principessa Eboli Ekaterina Semenchuk, Beatrice Uria-Monzon (22 Gennaio) Don Carlo Francesco Meli Rodrigo Simone Piazzola Filippo II Ferruccio Furlanetto, Michele Pertusi (26 Gennaio), Ildar Abdrazakov (29 Gennaio) Il Grande Inquisitore Eric Halfvarson (17, 22, 26, 29 Gennaio, 1, 4 e 12 Febbraio)Un frate Martin Summer Voce dal cielo Céline Mellon Sei deputati fiamminghi Gustavo Castillo, Rocco Cavalluzzi, Dongho Kim, Victor Sporyshev, Chen Lingjie, Paolo Ingrasciotta, Conte di Lerma/Un araldo reale Azer Zada Tebaldo Theresa Zisser
produzione del Festival di Salisburgo
durata 5 ore e 10 inclusi intervalli
http://www.teatroallascala.org
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Don Carlo La Scala di Milano presenta, fino al 12 febbraio, il Don Carlo di Verdi nella versione in cinque atti.
#Anna Maria Heinreich#Beatrice Uria-Monzon#Ekaterina Semenchuk#Ferdinand Woegerbauer#Ferruccio Furlanetto#Francesco Meli#Ildar Abdrazakov#Joachim Barth#Krassimira Stoyanova#Michele Pertusi#Myung-Whun Chung#Peter Stein#Simone Piazzola
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“Restai a guardarlo per ore”: Pierre Bonnard a Londra, tra interiorità, siepe leopardiana e Adamo ed Eva in cortile
Pierre Bonnard vent’anni dopo. E a Londra, che tanta parte ha nel miscuglio delle mie heimat, si ripete l’incanto della visione. Era il 1998 quando la Tate Britain dedicò al pittore francese una personale che fu subito evento. La Tate Britain era la ‘vecchia Tate’, a Pimlico (dal nome della fermata della Tube), quella che per noi “ragazzi” degli anni Novanta era, nella Londra ancora senza lo skyline degli odierni grattacieli, una delle attrazioni del cuore. Fu una scoperta, Bonnard. E forse l’andare tra le stanze che oggi alla Tate Modern, a Bankside, tornano a dare spazio al pittore francese amato da Matisse, detestato da Picasso, è anche un viaggio alla ricerca del tempo perduto. E ritrovato. La vaghezza dei ricordi della prima volta si insinua nei circuiti della mente, nelle sensazioni che riemergono, ma vaporose e rarefatte.
Pierre Bonnard – The Colour of Memory ha inaugurato lo scorso 23 gennaio (è visitabile fino al 6 maggio) in quel tempio dell’arte moderna e contemporanea che è diventata la Tate Modern. Una bocca spalancata di balena, una cattedrale la cui soglia devi immancabilmente varcare ad ogni visita alla capitale del Regno, così solenne con il suo cupo color mattone che ricorda il rigore delle basiliche medievali di fronte al biancore di Saint Paul’s Church, dall’altra parte del fiume e del Millennium Bridge.
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Una fotografia di Marthe, musa e moglie di Bonnard
La mostra copre la fase più matura dell’esperienza pittorica di Bonnard (1867-1947): quattro decadi, dal 1912, quando inizia ad affermarsi con il suo stile unico, fino alla morte avvenuta nel 1947. Con l’intento, spiegano gli organizzatori, di “mostrare come l’artista abbia costruito i suoi vibranti paesaggi e intime scene domestiche dalla memoria”. È vero, come la critica aveva già rilevato in occasione della precedente mostra, che la pittura di Bonnard non andava molto al di là dei confini del proprio giardino, delle proprie mura di casa, “ciò nonostante non era meno poetica per via di questa restrizione. Era piuttosto visionaria”. Come un limite, una siepe leopardiana, gli interni di casa attraverso il gesto pittorico dell’artista spalancano le porte – e spesso porte e finestre sono sfondo se non addirittura protagoniste, in primo piano, nelle tele di Bonnard – di un universo-mondo che origina dalla sua interiorità, percezione, immaginazione.
Ci sono in mostra, ad intervallare la galleria di dipinti provenienti da vari musei e collezioni private, alcuni scatti fotografici: piccoli riquadri che ritraggono istanti di vita privata della coppia Bonnard/Marthe de Méligny: lei, la donna di due anni più giovane, incontrata all’età di 26 anni e sposata trent’anni dopo (nel 1925), è il “modello” dei celebri nudi, spesso ambientati in bagno o vasche da bagno. Ma la fotografia, così come il modello reale, non sono che un punto di partenza da cui allontanarsi. “Non permetto a me stesso di essere assorbito dall’oggetto che ho davanti – aveva affermato l’artista in una intervista del 1947 per la rivista Verve – Dipingo solo nel mio studio, faccio tutto nel mio studio. Alla fine, emerge un conflitto tra l’idea iniziale, che è buona – l’idea del pittore, e il mondo variabile dell’oggetto, del motivo che ha provocato la prima ispirazione”.
Così, anche il partire dalla fotografia non è che esercizio, metodo, che aiuta a discostarsi dal più convenzionale dipingere da modelli in posa. Le fotografie in esposizione alla Tate sono scatti che il pittore e Marthe fecero l’uno all’altra in giardino: novelli Adamo ed Eva, rilassati nella disinvoltura dei corpi, cristallizzati in inquadrature in un bianco e nero già “pittorico”, colti nei loro momenti edenici.
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Pierre Bonnard, “Nudo accovacciato nella vasca”, 1918
Nudo accovacciato nella vasca (1918) è tra i pochi dipinti a replicare una posa fotografica. Dipingere la memoria è piuttosto per Bonnard un esercizio di dissoluzione. Partire dall’esperienza reale, dalla fotografia anche, per allontanarsene. Sprofondare nell’interiorità per ricreare un paesaggio più vero, complesso e intimo, della sua rappresentazione “fotografica”. La scrittura/pittura diventa un secondo tempo, un rivissuto nelle stanze dell’anima. Perdere, lasciare andare, l’istante, per riafferrarlo nella rarefazione delle immagini ricreate. L’interiorità, in Bonnard, crea servendosi del colore. Delle tonalità che cambiano.
Il controluce ridà vita al trance de vie già inghiottito dai binari del tempo nel primo dipinto in esposizione: Nudo in controluce (1919-20), da una collezione privata. Il calco dell’emozione resta e rinasce. Prende, nel colore, una forma.
La tavolozza cambia, si trasforma con il passare del tempo, delle stagioni. E il dipingere prende sempre più la strada dell’astrazione. Nudo in un interno (1935), con l’immagine riflessa da uno specchio, la silhouette di donna solo intravista dallo spigolo della porta, è un incrocio di linee e spazi di colore orizzontali e verticali. Azzurri, blu, gialli, arancioni, rosa, si mescolano qui e altrove (Nudo alla finestra, Nudo in bagno, Sala da pranzo in campagna, Atelier au mimosa…) in una combinatoria sinfonica, densa, esplosiva.
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“Ogni immagine incarna un modo di vedere. Anche la fotografia” mi ricorda il John Berger di Ways of Seeing. Un dialogo tra Bonnard e Henry Cartier-Bresson – che ritrasse l’amico nel suo studio nella casa nel sud della Francia – è chiarificatore. “Non so quanto tempo io sia rimasto seduto di fronte a Bonnard – ha ricordato il celebre fotografo in una intervista del 1988 – Ore. Ad un certo punto ho scattato, al che lui ha alzato la testa e mi ha chiesto: ‘Perché hai scelto quel particolare momento?’ Gli chiesi: ‘Perché hai usato il giallo qui, in questo dipinto?’. Mi sorrise. Non disse nulla. Non avevamo bisogno di darci spiegazioni”.
Annamaria Gradara
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