#è sempre carta bianca
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«Va’ crisci figghi…» (cit.)
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Mi manca...
Lo zoccolare fino in spiaggia con mia madre che mi diceva "cammina bene alza quei piedi"...pinoli per terra da schiacciare con i sassi...
l'odore della siepe di caprifoglio dalla pensione trieste al bagno emilio e quello dei giornali dell'edicola, misto a quello del mare e degli abbronzanti e della piadina...
la cuffietta bianca della piadinara...quella anziana, la prima ..che faceva le piade tirate a mattarello con il bordo frastagliato e il pezzetto di carta marroncina per portarle via ...
la luce bianca del mattino e la bassa marea con le righe della sabbia sotto i piedi, i buchini dei cannolicchi e schivare i granchi
fare capannella con il tettuccio del lettino e il telo, il caldo sulla pelle...l'odore dell'abbronzante e il libro con sabbia tra le pagine...
e aspettare le 11 che non arrivavano mai per il bagno... il freddo dell'acqua al primo tuffo o l'andare giù piano piano con tutta la pelle d'oca... i rumori attutiti quando si è sott'acqua.... il cretino di turno che ti slaccia il bikini...le spalle di mio padre per salirci a fare i tuffi...
correre sulla sabbia bollente saltellando tra un'ombra e l'altra... stendersi al sole senza fare la doccia e sentire la pelle tirare con il sale che brucia appena sulla pelle un po' scottata sulle spalle ...
il fastidio della sabbia tra le dita e lavarsi i piedi nel rubinetto sotto le docce aspettando con il costume in mano per sciacquare anche quello...il profumo dello shampoo e il rigagnolo di schiuma e acqua sulla sabbia...
il cemento rigato e rosso e bollente della banchina del porto con le barche che partivano da Milano Marittima per la gita a Rimini e la voglia di tuffarsi lì ma la mamma non voleva...e stare in equilibrio sul muretto tra la banchina e gli scogli ad aspettare gli schizzi delle onde,
il mare grosso i rari giorni che faceva temporale e a fare il bagno tuffandosi dentro le onde e ci si riempiva il costume di sabbia..
la pizza che faceva la sorella della vedova di Emilio alle cinque...e io le confondevo poi sempre quelle due...la Maria e l'Anna
Il rullo per tirare il campo da bocce e il barattolo bucato con il talco per fare le righe...e le premiazioni delle gare al pomeriggio e se le coppie erano miste io ero un po' gelosa se mio padre giocava con la mamma della cecilia perchè era così bella...
e guardarti da lontano mentre giocavi a calcio sporco di sabbia dappertutto e cominciare a scoprire quell'emozione nuova quell'attrazione mai provata... ecco cosa vuol dire innamorasi...il dondolo dell'Hotel Miramare dove per la prima volta ho capito che potevo anche godere del mio corpo...
I giardini del tennis con la terra rossa e la giostra e l'odore dei pini...
le tonde alla sera su e giù per viale Roma e baci infiniti sulle panchine, le feste al Giardino D'Estate con Gianni Togni che cantava Luna..e le puntate all'ippodromo di Cesena e le gite al Parco Naturale che mi sembrava così lontano...
Gli amici che poi non avresti rivisto più, quelli che rivedi solo lì...e quelli che sono ancora con me ......il primo primissimo bacio sul dondolo della casa in affitto ...
il rumore degli aerei con la pubblicità...la pizzeria da Duilio e il cinema Italia all'aperto ...le lacrime quando era ora di tornare e il grano nei campi era già mietuto e le arature portavano l'autunno...
Mi manca la felicità pura e spensierata di quel periodo quando ancora tutto poteva essere e ogni cosa era nuova e da scoprire ...e che non è stata mai più.
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ho un'età che mi permette di assistere alla forma adulta di chi ho visto essere bambino e questo vuol dire che questa fase per me è passata, ma riesco a prenderne coscienza soltanto attraverso l'evoluzione di altri perché io mi sento sempre la stessa, neanche un centimetro spirituale in più. ancora più straziante è guardare invecchiare le giovani figure adulte che hanno costellato la mia infanzia o adolescenza. zia si è fatta la tinta bianca ai capelli, li ha sempre avuti scuri, soltanto dodici mesi fa era mora. in un anno li ha schiariti sempre di più fino al bianco. dice che è stanca di fare la tinta ogni mese, lascerà che i suoi bianchi naturali crescano confondendosi con il nuovo colore. e poi forse non metterà più lo smalto e neppure il trucco il sabato sera. la vecchiaia quindi è l'abbandono del superfluo? o è l'abbandono di sè stessi? la tinta è davvero così superficiale oppure è un atto di resistenza? forse non sempre, forse qualche volta. questi movimenti viscidi del tempo che striscia lungo i pilastri solidi della mia esistenza mi mettono a disagio. probabilmente perché li sento anche addosso. probabilmente perché senza accorgermene sono diventata un pilastro della mia stessa vita anche io. probabilmente perché mi sento violata, impotente, non come uno stupro, è una violenza diversa, una violenza dolce, subdola, ingannevole, inesorabile. forse sono in ritardo, forse è troppo tardi per tante cose, forse gli altri sono in anticipo, forse si sentono in ritardo anche loro. da giovane la mia bisnonna aveva sempre uno zigomo gonfio, o un occhio nero, o una frattura da qualche parte. poi suo marito è morto e lei ha iniziato a mettere il rossetto, i gioielli e il profumo. io ero bambina, molto bambina, la ricordo come una delle donne anziane più eleganti che io abbia mai visto. è morta sulla soglia dei cent'anni con le labbra rosse, non è mai stata in ritardo. credo che la resistenza si manifesti sempre di rosso. vorrei passare lo stesso colore sulle mie labbra, per firmare queste parole con un bacio stampato sul foglio, ma il tempo della carta è passato
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L’avevano fermata, le avevano detto che il suo velo era fuori posto, che doveva sistemarlo meglio, che coprisse come si deve. Uno sguardo di ammonizione, una regola ripetuta, e un comando che pesava come catene invisibili.
Ma invece di abbassare lo sguardo, di tirare quel velo come le avevano detto, si toglie il velo. Poi la giacca, la camicia. Strato dopo strato, libera la pelle, si scrolla di dosso le catene.
Nel cuore pulsante di Teheran, nel cortile dell’università, rimane in biancheria intima, ma rivestita di un coraggio e una dignità che superano ogni stoffa.
Gli sguardi si accalcano su di lei: alcuni pesanti, di giudizio; altri increduli, come se stessero respirando libertà per la prima volta. Lei è una nota stonata in un coro di silenzi, un punto esclamativo in un libro di regole immutabili.
La terra sotto i suoi piedi è sempre la stessa, ma il cielo sembra abbassarsi per accoglierla. Si domanda se il vento senta il peso di tutte le parole che non si sono mai osate.
Gli occhi degli altri si posano come pietre sul suo corpo, mentre le voci si sussurrano contro di lei, tempeste di giudizi. Ma nel suo silenzio c’è un grido che sfida il mondo.
Arrivano per spegnere la sua fiamma, ricoperti di divise che trasudano conformità. La afferrano con forza, la trascinano via, mentre lei resta muta, forte come una roccia. La portano in un luogo dove sperano di spezzarla, di soffocare quel fuoco indomabile. La trasferiscono in un ospedale psichiatrico, dove tentano di etichettare come “follia” il suo desiderio di libertà. Ma non capiscono che le idee non si possono ammanettare, né chiudere in una stanza bianca.
Donna. Libera. Rivoluzione che cammina a piedi nudi sul selciato della storia.
Il suo corpo è un manifesto, la sua pelle è inchiostro vivo, e oggi ha scritto una nuova pagina di libertà.
Nel dipartimento rimane il suo ricordo, un’ombra luminosa, un’equazione irrisolta sul muro. Perché spogliarsi dei simboli imposti è l’unico modo per rivestirsi di infinito.
PS: La ragazza si chiama AhouDaryaei, studia letteratura francese all’Università di Oloom Tahghighat, in Iran.
Un’eroina di cui avevamo bisogno!
Fonte: Simone Carta, scrittore ❤️
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LA CONFESSIONE DI UNA PADRONA
(C'è del sesso, ma è propedeutico per il racconto)
La Confessione
“Deve essere qui” Disse Tindara avvicinandosi ad una porta del lungo corridoio dalle pareti spoglie pieno, su di un lato, di sedie vuote e sull’altro di porte chiuse su cui un foglio di carta attaccato con il nastro adesivo indicava chi esercitava in quella stanza qualche branchia della professione medica. Quello che stava guardando Tindara diceva “Dottoressa Manuela Barillà – psicologa” Apri la porta ma la stanza era buia, per cui richiuse la porta e si girò a guardare le sedie. “Veni cà Giusy, Sittamuni” Disse alla ragazza che la seguiva docile e con una faccia rassegnata. Si accomodarono sulle sedie. Ti passò una mano sui capelli accarezzando la ciocca bianca che le partiva sulla sinistra della fronte e che si allargava sui capelli mossi ingrigendosi sempre di più fino a scurirsi quando i capelli arrivavano sul collo raccogliendosi in lunghe onde. Osservò Giusy. La ragazza si era lasciata andare sulla sedia stanca e preoccupata, concentrata a guardare il pavimento. Teneva le mani nelle tasche del soprabito rosso come i suoi capelli, quasi a non voler toccare nulla di quell’ospedale che la impauriva. Aveva una lunga ruga che correva lungo la sua fronte larga e gli occhi passavano dall’esser tristi al diventare ora preoccupati ora decisi e determinati, un mutare che rivelava il ribollire dei suoi pensieri. Tindara prese il telefono ed aprì la galleria delle immagini. Fece scorrere le foto velocemente arrivando a quelle dell’anno precedente e ne scelse una che si allargò sullo schermo. Nella penombra di una stanza, una raggio di sole giallognolo illuminava il corpo di un ragazzo seminudo disteso su un lettino. Il ragazzo aveva gli occhi chiusi, i capelli sparsi disordinatamente sul cuscino bianco, il suo volto era coperto da una barba di qualche giorno. Il suo corpo sudato, era disteso tra le lenzuola del letto e quasi risplendeva nella penombra. Aveva gli arti muscolosi e le vene ben marcate di chi li usava ogni giorno per lavorare che quasi contrastavano il suo volto da bambino. Tindara lo guardò senza che il suo volto mostrasse la minima espressione e facendo attenzione che Giusy non vedesse cosa stava osservando. Faceva così ogni volta che aveva bisogno di coraggio, o quando si sentiva triste per qualcosa di spiacevole che era successo. Quel corpo la faceva sentire più forte, più viva, come se nessuno in quel momento potesse contrastarla per dirle di no.
Sentì dei passi e si voltò a guardare da dove loro due erano venute. Vide arrivare una donna bassa quanto lo era lei, con un camice bianco aperto che svolazzava nel suo camminare velocemente, mostrando il suo maglioncino di kashmire ed il costoso jeans firmato. Portava degli occhiali firmati forse più spessi dei suoi, appoggiati su un volto tondo coperto di un esagerato fondotinta. “buongiorno – fece velocemente la nuova venuta, senza neanche osservarle come se fosse presa a sanare tutti i mali del mondo e non avesse tempo per essere educata e considerare chi la stava aspettando – scusate il ritardo” Aggiunse in modo automatico, quindi le guardò entrambe e poi con la faccia seria chiese in modo freddo e antipatico “Signorina Giusy, ma perché è venuta? Ho invitato solo la signora Tindara” “Ho chiesto io a Giusy di venire. È in ansia per Bastiano e ho pensato che sentire la nostra discussione l’avrebbe aiutata a capire come aiutare il suo fidanzato” “Allora, signore, precisiamo, qui sono io che devo pensare al il signor Bastiano e con chi parlare e quando – fece seccata con un piglio da prima della classe - poi c’è la privacy” “Ma è Giusy che dovrà vivere con lui per tutto il resto della sua vita. Ha più diritto di tutti a capire. Se c’è chi soffre per chi ama, nascondersi nella privacy è una ipocrisia” “certe cose è meglio che restino tra le persone a cui riguardano” Fece enigmatica la dottoressa guardando fissa Tindara “Bastiano non parla molto ma sa giudicare le persone. Di donne ne ha conosciuto. Se ha scelto Giusy per la sua vita, vuol dire che la ritiene una persona che sa capire e giudicare con la sua testa. Poi non vede che si sta tormentando per sapere cosa fare? Non possiamo lasciarla nel dubbio e tormentata da voci e dicerie che sono poi false” E guardò la psichiatra perché capisse quello che doveva capire. “dottoressa, per favore, voglio sapere. Ne ho bisogno per avere la forza per andare avanti” Fece Giusy con un filo di voce La dottoressa la guardò quasi con compassione “Va bene, venga anche lei: se sentirà cose spiacevoli la responsabilità sarà della signora Tindara” “me ne assumo la responsabilità Dottoressa: stia tranquilla” Ma dentro di se, la sua anima paesana replicò per come era la sua natura “ma va affanculu tu e cu ti cacoi” La dottoressa aprì loro la porta e le fece accomodare di fronte ad una piccola scrivania, dietro cui si sedette. “mi dica signorina Giusy, come sta andando il suo fidanzato.” Sorrise nel chiederlo e Tindara capì che era un sorriso di circostanza, un professionale invito ad iniziare la discussione. “Ecco, non ci sono stati altri … episodi. Bastiano lavora tranquillamente e non ha avuto più altre … ricadute” “bene, prende ancora i calmanti quando sente ansia” “si” Rispose Giusi con un filo di voce, guardando con aria complice Tindara. “Figurati se gli diamo quelle cose - commentò la Tindara interiore - non è nu pacciu, uno che dobbiamo stordire con le pastiglie” “Bene – ripeté soddisfatta la psicologa – potete sospendere per un po' se non vi sono altre crisi” Osservò i suoi appunti ed iniziò lentamente a parlare come un giudice che legge una sentenza “Ecco, ho fatto venire la signora Tindara per avere un quadro completo del signor Bastiano, perché penso che il suo disturbo depressivo ricorrente sia dovuto a un senso di colpa eccessivo che lo porta a fargli perdere l’autostima e a rifugiarsi nel sonno o nella immobilita. È un modo con cui si fugge a decisione e scelte che non si sanno gestire. Per questo ci si rifugia in sé stessi, si chiudono i contatti con il mondo esterno che si percepisce come ostile, incapace di capirci e pronto solo a giudicarci impietosamente. Signora Tindara lei non era presente quando è successo la prima volta?”
Chiese guardandola da sopra gli occhiali che le erano scivolati sulla punta del naso “Pari proprio na cucca peggio i mia” Pensò sorridendo Tindara e continuo ad alta voce
“no dottoressa, io non c’ero. Stava andando con Giusy a vedere la casa che volevano comprare per il matrimonio e d’improvviso Bastiano si è seduto sopra una sedia nel laboratorio della pasticceria e non si è più mosso.” “era come se dormisse – continuò Giusy - Solo quando gli ho detto che ormai si era fatto troppo tardi e non potevamo più andare si è come svegliato tornando normale.” “Bene” - Fece la dottoressa scrivendo qualcosa e continuò – la seconda volta è stata quando avete fatto le prove in chiesa no?” “Si dottoressa – rispose prontamente Giusy – eravamo arrivati e il prete ci ha fatto un sermone sull’amore eterno e gli impegni che richiede: dedizione, comprensione, perdono, fedeltà. Sulla fedeltà il prete si fermò a lungo, lamentandosi che al giorno d’oggi tutti tradivano tutti, prima e dopo il matrimonio e che questa era la prova che il diavolo usava il sesso per rovinare le famiglie. Bastiano mi ha chiesto di andare un momento fuori e da allora non ricorda più niente” “Si, io ero li come testimone e lui ha detto “esco un momento” e non l’abbiamo più visto; solo dopo mezzora che aspettavamo abbiamo sentito gridare una signora che era andata a confessarsi e ha visto dentro il confessionale Bastiano che dormiva tanto pesantemente da sembrare morto”
Giusy si contorse le mani e continuò
“dottoressa, cos’è che ha: non è che non vuole più sposarsi? Che non mi vuole più bene” “non dire queste cose – fece seria Tindara – non è così. … E’ che deve abituarsi all’idea, come tutti maschi” “A quale idea signora Tindara ?” Fece la psicologa guardandola severamente “All’idea che deve cambiare abitudini” “e quali in particolare signora Tindara” La incalzò la dottoressa. Tindara dentro di se sorrise e si disse “Chi pensi che mi futti? Ti pari chi haiu u cabbuni bagnatu? Strunza sucaminchia” “Dottoressa, Bastianu è un artista – fece replicando ad alta voce come stava spiegando qualcosa di complicato ad un bambino - è uno che con un po' di zucchero, due uova è un po' di farina, crea dei capolavori di dolci! Ha mai mangiato il suo Babà al limoncello? I bignè alla crema di gelso? Le hanno mai regalato un suo panettone alla crema di mandarino? Il suo budino al mosto di vino con la cannella e le mandorle? Vi sono persone che vengono da Catania solo per poterli assaggiare!! Sono dolci che nessuno prima di lui è stato capace di immaginare e di fare o che lui prende dalla tradizione ricreandoli. Tutto questo andare, girare, fare e dire per il matrimonio lo stressa, gli ferma l’ispirazione, uccide la sua creatività” “Ma questo non può farlo cadere in stato catatonico Signora! Io penso invece che il signor Bastiano si senta in colpa con la signorina Giusy per certe abitudini, certi modi di fare che aveva prima di conoscerla” “Dottoressa non c’è un prima e un dopo nel modo di essere di Bastiano.” “Vuol dire che lui è sempre lo stesso?” Chiese ironica la psicologa “Si, è sempre lui” “Quindi quello che faceva prima lo fa ancora” “E che cosa faceva prima dottoressa?” “non so, ma parlando con il signor Bastiano mi è sembrato che lui nutra per lei un ammirazione e rispetto che normalmente è difficile trovare così forte tra un dipendente e il suo datore di lavoro: forse si sente in colpa per questa ammirazione … o forse non è solo ammirazione” Tindara sorrise “Dottoressa, parliamoci chiaro, cosa vuol dire?” La dottoressa fece una faccia neutra, quasi indifferente come quella di un serpente prima di mordere “Ecco, io penso che il legame che c’è tra lei e il signor Bastiano sia molto, molto forte. Una forza che non può essere solo dovuta al rapporto di lavoro. Nel discutere con lui ho notato che l’ha citata lo stesso numero di volte della signorina Giusy. Alle volte scambiava il vostro nome e nei sogni che mi racconta c’è sempre una figura femminile di una certa età di cui ha bisogno di lui, che lui non può lasciare perché c’è un impegno che non sa gestire. Un bisogno descritto con immagini che potrebbero avere anche un risvolto sessuale. Penso che Bastiano, pur amando la signorina Giusy, sia ancora legato a lei signora Tindara, …alle abitudini che gli dava … e che forse gli dà ancora, tanto da farlo sentire … in difetto con se stesso” Giusy si volto a guardare Tindara che restò impassibile come se il discorso non la riguardasse
C’era afa. Afa e non sapevo cos’altro. Qualcosa che dentro da giorni mi turbava, mi inquietava, mi innervosiva, e che in quella domenica pomeriggio di agosto sembrava dovesse esplodermi dentro. Era un periodo in cui facevo cose che non avevo mai fatto. Mi prendevo cura dei miei capelli, delle unghie, della pelle. Levavo la mia esuberante peluria da tutte le parti del mio corpo che non le competevano, anche in quei punti che nessuno poteva vedere. Mi ero fatta le unghie di una fotomodella ed avevo incominciato a usare sempre il rossetto, scegliendo sempre quelli più costosi, così come per le scarpe e i girocolli d’oro o di perle. Ogni volta che scendevo a Messina tornavo con un profumo che ero capace di finire in una settimana e questo perché volevo che mi si notasse, mi si considerasse non solo come la signora Tindara, la padrona della panetteria e una delle più ricche del paese. Volevo essere considerata come donna. Da chi non lo sapevo, non l’immaginavano, ma avevo bisogno di pensare che potevo piacere, che potevo ancora interessare, che non ero tornata ad essere la vecchia e sfortunata Tinderuccia ed essere commiserata per questo: mi avevano già commiserata e quando ero piccola.
In quei momenti, quando il negozio era chiuso e non avremmo fatto pane per quella notte avrei voluto che qualcuno mi portasse a passeggiare nel viale san Martino a Messina, o a Taormina. Avrei potuto andarci da sola, ma non era questo quello che volevo. Volevo che qualcuno mi ci portasse e facesse con me tutte quelle cose che Bastiano e i suoi amici facevano alle loro amiche per divertirsi. Invece stavo chiusa nel negozio e seduta al bancone controllavo i conti degli altri negozi come facevo ogni domenica quando tiravo le somme per capire come stava andando e mettere da parte i soldi. Un’abitudine che avevo preso quando i debitori di mio marito avevano incominciato a bussare alla porta esigendo da me il pagamento dei suoi debiti. Ora non avevo più di questi problemi ma ogni domenica, in attesa che qualcuno mi portasse a spasso, tiravo sempre le somme.
Però in quel pomeriggio afoso e silenzioso, la volontà di confermare una sicurezza economica che ormai era certezza, mi era passata. Volevo altro, qualcosa che mi desse piacere, che mi facesse felice. Mi ricordai che nel frigorifero, nella cucina dietro il forno, c’era una granita che Karl mi aveva preso al mattino ma che non avevo toccato. Mi avviai verso la cucina, attraversai il piccolo corridoio tra le mura della casa e il forno, entrai nella stanza in cui viveva Bastianu e mi avvicinai al frigorifero. In quell’istante vidi Bastiano sdraiato sul lettino posto sotto la piccola finestra. Era quasi del tutto nudo, a parte uno slip che non tratteneva la sua virilità che il sonno aveva ritemprato. I capelli lunghi e spettinati, la barba lunga e rada, i pettorali sviluppati a forza di sollevare sacchi di farina, le braccia muscolose, le dita grosse e forti, le vene grandi e marcate, le cosce robuste di chi si muoveva facendo chilometri ogni giorno. La mia anima tremò ed il mio cuore per un attimo si fermò. Non lo avevo mai visto così, non l’avevo mai considerato per quello che quel corpo ispirava o per l’uso che potevo farne.
Forse sto dicendo una bugia. Giorni prima stavo prendendo le casse dentro cui mettiamo le forme di pane a lievitare. Erano in alto, su una mensola. Ne stavo prendendo una mettendomi sulla punta dei piedi e d’improvviso questa con un'altra mi cade quasi addosso. Rivedo quel momento come accadesse adesso: riesco a fermarla ma non posso prenderle bene e bloccarle. Allora Bastianu viene e da dietro grazie alla sua altezza, mi aiuta bloccandole con le sue mani. Nel far questo, il suo corpo urta il mio ed io lo sento lungo tutta la schiena. Fu un brivido che mi corse dentro la spina dorsale risvegliando quel serpente voglioso che cacciando mio marito, avevo addormentato. “lassa a pigghiu jo” Mi disse, e spinse in alto le casse restando con il suo corpo attaccato al mio e strusciandosi contro di esso. Non so se lo fece apposta. Ma era tanto che nessuno toccava il mio corpo e la pressione del suo, l’odore del suo sudore, squarciarono i miei sensi, liberandoli, vogliosi e affamati. Pensai che la mia carne reagisse in quel modo inaspettato per la solitudine che aveva provato. Ma quello che dentro me avevo sentito, non era una carezza: era piacere che voleva essere, crescere e consumarsi. Un piacere, epidermico, tangibile che scese dentro di me a svegliare desideri forse volgari, stupidi, inutili, eppure, intensissimi. Desideri di una donna sola che, non per sua scelta, era prigioniera di una aridità carnale dono della sua cattiva sorte. Ed ora, vedendolo li nudo su quel letto, quei desideri tornarono a strisciare dentro ogni intimità del mio corpo, bruciando come ferite dolorose e dolcissime. Percepivo la presenza, la sensualità di quel corpo come se fosse il calore di un fuoco lontano ma che arrivava fino a dentro la mia anima, accendendo con essa ogni altro mio pensiero e desidero sedati dalla sorte. Bruciavano soprattutto quelle parti che avrebbero dovuto dare solo piacere, ma che mio marito, nel suo egoismo maschile, aveva sempre ignorato, violentandole e così facendo, spegnendone la sensibilità e l’interesse. Quel corpo che si offriva era bellissimo, e a vederlo li, disponibile e gratuito, le mie labbra si aprirono come a volerlo baciare. La mia lingua mi sorprese sporgendosi dalle labbra e muovendosi come se stesse leccando un gelato fatto da quei muscoli di Bastiano che, inesperta com’era, avrebbe voluto accarezzare, esplorare con goloso desiderio e oscena voglia. Sentii il cellulare contro la coscia, lo presi velocemente e scattai una foto e corsi via, spaventata da quanto avevo fatto: dalla incontrollata danza della mia lingua col suo osceno desiderio, da quel voler rubare quel corpo, anche se solo in una foto, per tenerlo con me e non lasciarlo più, per poter immaginare di fare con lui, tutto quello che la mia carne chiedeva e che la mia anima, ora confusa e spaventata da sé stessa, sognava, desiderava. Pretendeva.
Tindara scosse la testa “Dottoressa lei sta alludendo a cose che per buona creanza non voglio neanche pensare. Io con Bastiano? Ma signora mia lei ‘nzonna, vagheggia e francamente mi delude, mi delude molto dottoressa” “Ah si - fece gelida la dottoressa – mi spieghi allora perché Bastiano ha per lei così tanta “ammirazione”” “No dottoressa, è lei che deve spiegare a noi perché, e mi sembra che lei non abbia le idee molto chiare. Mi dica ad esempio lei sa quando Bastiano ha iniziato a lavorare?” “Mi ha detto che a tredici anni era andato a lavorare da Domenico, la pasticceria che ora è di sua proprietà” “E le ha detto anche perché suo padre lo ha portato lì?” “Perché negli altri negozi come il barbiere o il falegname c’erano già altri ragazzi” “No, non perché lo ha portato nella pasticceria di don Domenico, ma perché lo ha portato a lavorare? Vede, lei non lo può sapere, la famiglia di Bastiano abita sui monti, con altre famiglie tutte imparentate. Hanno la ‘nciuria, il soprannome “i Rimiti” ,gli “Eremiti” , perché vivono della loro campagna e dei loro boschi e non hanno bisogno di nulla, tanto che vengono al paese solo per le grandi feste, una, due volte l’hanno. Che bisogno aveva suo padre di metterlo da un Mastro se aveva mandrie e greggi da custodire, campi da arare, vigne da zappare e uliveti da curare?”
Guardò la dottoressa che non fece nessun movimento
“Glielo dico io, perché quando è nato, sua madre ha avuto una emorragia ed è morta. Lui è stato svezzato da sua sorella Sarina. Ma i suoi fratelli lo trattavano male perché dicevano che aveva ucciso la loro madre. Per questo suo padre lo ha messo a mastro in paese, perché in famiglia non lo trattavano bene. Suo padre, preoccupato per come i fratelli lo consideravano, lo ha portato da una vecchia zia in paese. Ogni giorno il piccolo Bastiano andava da don Domenico a lavorare, dall’alba a quando era notte fonda. Ed ora le dico un'altra cosa che lei non può sapere ma che è importante. Quando il padre lo ha portato da don Domenico, quest’ultimo gli ha detto “vedi io non ho apprendisti perché chi lavora con me, deve avere capacità particolari. Se tuo figlio le ha, resta e io gli insegno un mestiere meraviglioso, se non ce l’ha, lo porti via” e diede a Bastiano un dolce e gli chiese ���che giusti senti?” e lui subito ”Pasta sfoglia farcita di mele con Marsala, sento poi la buccia di limone e vaniglia, una vaniglia che non è quella nelle bustine” Don Domenico sorrise. “Infatti, è vaniglia Tahiti. Ecco – disse don Domenico – lui per questo lavoro va bene, quando assaggia sente quello che c’è dentro” e lo prese con se. È stato l’unico allievo di don Domenico, l’unico a cui il vecchio Mastro diceva e spiegava i segreti della sua arte. Non le dico l’invidia e la rabbia dei figli” SI rivolse a Giusy, “ “quando vi siete incontrati la prima volta in pasticceria cosa ha fatto Bastiano?” “Mi ha dato un pezzo di torta e mi ha chiesto gli ingredienti “E tu li hai indovinati?” “Tutti” “Lo vede dottoressa? Giusy è stata l’unica a ripetere quello che ha fatto Bastiano quando ha iniziato a lavorare. Per Bastiano lei non è semplicemente, la sua ragazza. E’ l’unica che può comprendere la sua arte e l’unica per cui può inventare e creare. E’ la sua ispirazione” La dottoressa le rispose mentre prendeva appunti “Qui non è in discussione l’amore di Bastiano per la signorina Giusy…. Ma forse un altro amore” Tindara guardò la dottoressa “Ma quali amuri e brodo i ciciri … dottoressa ….”
Era voglia, solo voglia. Me ne rendevo conto ora che, tornata dietro il bancone, guardavo la foto di Bastianu seminudo. Era la voglia di possedere quel corpo lo così com’era, forte e tonico, per stringerlo contro il mio di donna matura, sgraziato forse ma soffice e caldo, sentendo su di esso le sue mani stringermi ed esplorarmi, cercarmi e saziarmi. Era la voglia di far scivolare la sua lingua in ogni mia parte e lo stesso fare con lui: accarezzarlo, stringerlo, leccarlo, baciarlo, succhiarlo, schiacciandolo con il mio peso e sentire il suo sul mio corpo. Era il desiderio osceno di dargli ogni piacere e rubarglielo per goderne e nutrirmene. La mia mano finì sotto il bancone dove ero tornata dopo averlo fotografato. Scese, laggiù in mezzo alle gambe e la stringevo con le mie cosce in quel punto, per evitare che lei facesse quello che le mani, la lingua o il sesso di lui avrebbero dovuto fare: seminare, far rifiorire e strappare il piacere dal mio corpo.
Liberarlo, finalmente.
Mio marito faceva il suo dovere coniugale per il suo unico uso e consumo, obbligandomi, coprendomi con il suo sudore acido e stordendomi con l’odore di alcool e tabacco del suo alito malato. Mi faceva vedere filmati osceni pretendendo che, innocente ed inesperta com’ero, facessi con lui quello che quelle svergognate facevano con i loro verri. Ma io non ne capivo il senso, lo scopo, non sentivo quel piacere che lui insultandomi e picchiandomi, diceva di provare. Ora però, io avrei voluto fare tutte quelle cose oscene che avevo subito, con quel corpo seminudo, giovane e pieno di forza. Spensi disperata il telefono e levai la mano dalle cosce, mi alzai uscendo per strada impaurita da quanto provavo, sconvolta da quanto desideravo. Corsi in chiesa per fuggire al diavolo che si contorceva nella mia carne come un serpente prima di rompere il guscio dell’uovo in cui era cresciuto e uscire libero e padrone, affamato e impietoso. In chiesa mi inginocchiai disperata dicendo “Signuruzzu libberami i sta tentazione, i sti mali pinseri, i stu diavulu chi mi mancia i canni. È nu carusu! è nu carusu Signuri mei! Chi mali fici p‘aviri sti tintazioni sti disii ill’infennu! È nu carusu u criscii jò, puria esseri me figghiu! Picchì Signuri mei, picchì sti pinseri, stu malu focu intra i me canni. Libbirami signuruzzu, libbirami i stu diavulu chi mi tenta” e pregavo, pregavo come non avevo fatto mai. Poi alzai gli occhi e vidi l’altare di san Sebastiano, con la statua in gesso del Santo seminudo trafitto di frecce, colorato da un rosa denso e lucido come il corpo di Bastiano. Aveva gli stessi muscoli e lo stesso volto da bambino di Bastiano, e ad osservarlo, a contemplarlo stupita di notarlo solo in quel momento, mi sentii persa, persa, persa, come se fossi diventata pazza e ne avessi avuto alla fine la conferma nel vedere nella statua del santo, lo splendido goloso corpo di chi, oscenamente e volgarmente desideravo.
“Comunque, tornando a quanto dicevamo – continuò Tindara - Bastiano iniziò a lavorare perché la famiglia non aveva per lui nessuna considerazione cosa che invece trovava in don Domenico. Purtroppo poi don Domenico venne a mancare e i suoi parenti, la prima cosa che fecero, fu mandarlo via anche se era un pasticcere provetto. Ai figli non era andato giù la preferenza che don Domenico aveva dato a lui invece che a loro. Allora Bastiano sentì che io cercavo un aiuto perché mio padre era appena morto per un infarto. Lo avevo trovato alcuni giorni prima disteso sul pavimento della sua camera da letto con in mano dei pezzi di giornale e senza di lui non sapevo come far andare avanti il panificio visto che mio marito pensava solo alle carte e alle sue donne di strada.” “che età aveva quando lo assunse allora?” “Aveva circa si e no diciotto anni” “Come mai lo fece stare a casa sua? Non aveva una casa dove abitare nel paese?” “La vita di chi fa il pane, non è come quella degli altri lavoratori. Mio padre si alzava all’ una di notte e incominciava ad impastare per preparare i panini, il pane comune e quello che chiamiamo il pane di grano duro. Verso le sei c’era la prima infornata. Poi quando sfornava andava a Messina a prendere i prodotti che servivano in negozio. Bisognava muovere sacchi di farina pesanti e ceste piene di pane caldo. E’ un lavoro massacrante, che fa sudare e sporcare ma la zia dove stava Bastiano era vecchia e non gli lavava neanche le magliette bianche con cui lavorava. Chi lo vedeva per strada pensava che fosse stato a zappare. Mio padre aveva comprato due case, una attaccata all’altra. Nei piani superiori aveva fatto una infinità di stanze e vi abitavamo noi. A pianterreno c’è il negozio e, attaccati, il panificio e il grande forno. Dietro il forno c’era una stanza di servizio in cui abbiamo messo una cucina, un bagno e un letto per appoggiarci quando potevamo. La stanza era un avanzo della casa che dava sul vicolo e vi avevamo mantenuto anche la porta di entrata, così che era indipendente dal resto della casa. Bastiano dormiva li perché poteva mangiare quello che gli cucinavo e riposare quando il lavoro lo permetteva. Poi ho incominciato a lavargli i vestiti, a stirarglieli, a comprarglieli, a mandarlo dal parrucchiere o dal dottore se non stava bene perché nessuno si curava di lui. Con il tempo sono diventata la madre che non ha conosciuto, un’amica, un punto di riferimento importante” “Ma suo marito non aveva niente da ridire per questo ragazzotto che le stava in casa?” “Mio marito pensava solo a giocare. Era la sua droga. Se stava in negozio mi sparivano i soldi, se ci aiutava a fare il pane combinava di proposito dei danni, così aveva un motivo per farsi cacciare da mio padre e andarsene a giocare a carte.
Poi successe il patatrac.
C’era una ragazza che veniva al negozio solo quando c’era mio marito e veniva sempre con una bellissima collana al collo. Pensavo che fosse la solita paesana che voleva esibire i suoi gioielli. Un giorno sono andata nella gioielleria di Messina dove compravamo i regali per i battesimi e cresime perché una mia comare aveva avuto una bambina. Il gioielliere, tutto contento, appena mi vede mi chiede se la collana che mio marito mi aveva comprato mi fosse piaciuta. Lo guardo stupita e gli chiedo di quale collana parlasse. Lui me ne fa vedere una simile a quella che la ragazza che veniva in negozio portava al collo. Dottoressa mi è venuta una rabbia che se mio marito fosse stato li, gli avrei cavato gli occhi e mangiato il cuore. Ma nel tornare al paese incominciai a pensare. Dove poteva aver preso i soldi se continuava a perdere a carte? Arrivata a casa vado a vedere dove mio padre conservava il denaro che era sotto il cassetto basso del comò, nella sua camera da letto. Lì c’erano tutti i soldi che guadagnavamo in piccoli pacchetti che potevano stare tra l’ultimo cassetto e il corpo del grande comò. Quando levo l’ultimo cassetto vedo che la base del comò ha ancora qualche pacchetto di soldi. Allora ne prendo uno e lo apro. Dentro vedo che vi sono due o tre banconote che coprono fogli di giornali tagliati come banconote. Da fuori sembrava che ero milionaria: in realtà, quel disgraziato di mio marito mi aveva rubato tutto!! Forse mio padre aveva scoperto che i soldi che aveva sudato, erano scomparsi e gli era venuto l’infarto. Se ne fossi sicura avrei già denunciato mio marito. Quando comprendo che tutti i risparmi sono scomparsi, Dottoressa impazzisco! Prendo tutte le cose di mio marito, i vestiti, le scarpe, i libri, le carte e le butto dalla finestra, in piazza ingiuriandolo il più che potevo, gridando che se lo avessi visto gli avrei sparato.”
si fermò un istante
“lui era troppo vigliacco per farsi vedere e da allora non l’ho più visto. L’avevo sposato perché sono come sono, piccola, grossa, con gli occhialoni e il naso curvo come il becco di un gufo e solo lui mi aveva cercato quando tutte le mie coetanee erano già sposate da anni. Quando si era presentato elegante, educato, gentile, io me ne sono innamorata subito e gli credevo quando mi parlava del suo amore. Ma ormai avevo capito che l’amore di cui parlava era quello che aveva per i miei soldi. Scomparso lui, come tanti corvi su un cadavere, arrivarono tutti i suoi debitori con cambiali dove c’era la mia firma. Quel maledetto di mio marito aveva perso una fortuna e per non finire sparato in qualche angolo di strada, aveva falsificato la mia firma. Mi consigliai con un avvocato e lui mi disse che, per come si poteva, magari dilazionando, era meglio pagare e prendersi le cambiali: da un momento all’altro avrebbero potuto pignorarmi il forno ed io avrei impiegato anni a dimostrare che quella firma non era la mia.”
Si fermò di nuovo e con il fazzoletto si asciugo le labbra
“Ero disperata. Non avevo un aiuto, un soldo, un qualcosa per potermi difendere da quei corvi. Allora Bastianu. aveva ormai ventuno anni e lavorava di fronte al forno giorno e notte in silenzio e con impegno. Mi vide che piangevo seduta in un angolo del panificio e mi chiese cosa era successo. Gli spiegai che avevo bisogno di soldi per pagare i debitori e salvare il forno. Mi disse con quell’entusiasmo che hanno solo i ragazzi che non c’era problema. Avremmo fatto più pane, avremmo fatto la focaccia la sera e i cornetti di notte. Avremmo venduto di più guadagnando il doppio. Gli dissi che era solo e che non poteva fare tutto. Rispose che avremmo preso suo cugino Karl che era autistico, e che suo padre Sabbuccio voleva far lavorare perché da quando erano tornati dalla Germania, non parlava con nessuno. Per Sabbuccio il figlio che lavorava era un modo per farlo integrare nel paese dove non conosceva nessuno dato che parlava poco e principalmente in tedesco. Io conoscevo bene Sabbuccio, era stato mio compagno di classe alle elementari e gli dissi di si. Poi fece venire una sua nipote, Razudda, che aveva avuto un figlio senza sposarsi e aveva bisogno di guadagnare qualcosa. Potevo pagarli quando avevo i soldi e come tutti nella sua famiglia, quando iniziavano a lavorare non si fermavano mai. Poi, su consiglio di Bastianu, abbiamo incominciato a fare il pane usando la farina di un grano antico, il Perciasacchi che mi vendevano i suoi zii. Questo grano è come il Kamut così il pane prendeva un gusto buonissimo, antico e gustoso. Ebbe un grande successo, dai paesi vicini venivano solo per comprare quel pane. Così un mio cugino con un furgone ha incominciato a portare il pane anche ai paesini della costa. Sfornavamo pane in continuazione, pane di grano duro, pane comune, pane con pancetta, con olive, e poi piccoli o grandi panini, una focaccia buonissima alla Norma alle patate, alla cipolla, alla Margherita, alla Messinese e cornetti di tutti i tipi. E tutto con Bastianu che controllava ogni cosa, che aveva sempre nuove idee e che con la sua esperienza e gentilezza guidava Karl e gli altri lavoranti che poi abbiamo preso per poter fare tutta quella produzione. Bastiano ha questo talento, se lei gli fa assaggiare un pezzo di pane, lui le sa dire la farina, il lievito madre, gli ingredienti ed è capace di rifarlo, non uguale, ma più buono. Abbiamo aperto un negozio nel paese sul mare perché il nostro che è chiuso in mezzo ai monti ed ha sempre meno abitanti. In quel negozio vendiamo il pane e tutti i prodotti che i suoi parenti Rimiti ci davano: formaggi, salame, olio, olive, sott’olio, maccheroni fatti in casa, funghi, vino e aceto. E cosi, di paese in paese abbiamo aperto altri negozi, gestiti da parenti, amici creando una cooperativa che ormai è una macchina che da soldi. Ormai i soldi non li conservavo più in mazzetti sotto il cassetto del comò, ma nelle scatole per le scarpe.”
Guardò la dottoressa
“in tutto questo tempo io l’ho vestito, l’ho nutrito, l’ho curato. Io sono stata la mamma che non ha mai avuto e lui è stato il mio aiuto fidato, il mio consigliere e confidente, anche se abbiamo più di vent’anni di differenza. Tra noi c’è un rapporto come tra fratello e sorella. - si fermò per sottolineare il suo pensiero - Non ci sono cose strane o cose sporche tra di noi”
Gli uomini si possono imbrogliare, ma Dio no, non potevo imbrogliarlo: la mia era una voglia sporca, oscena e disgustosa. Ma mi attirava. Mi possedeva, non riuscivo più a negarla o a vincerla. Come tutti i deboli incominciai a pensare che solo saziandola potessi vincerla. Sono tornata a casa dalla chiesa disperata perché il desiderio di lui non si spegneva. Quella sera non entrai neanche nel panificio e il giorno dopo lo evitai e così fu per diversi giorni e per evitarlo andavo a vedere gli altri negozi, andavo dal commercialista, dai fornitori cercando di essere più impegnata che potevo. Ma la notte non riuscivo a dormire, mi muovevo nel letto come se fosse pieno di carboni accesi, fino a che non accendevo il telefonino e guardavo la foto che avevo fatto. Stavo a guardarlo per ore, a seguire ogni curva del suo corpo, ogni suo più piccolo particolare e dentro mi sentivo bruciare come se avessi nel mio corpo un mare di lava fusa, che ondeggiava lambendo quelle parti del corpo che volevano essere saziate, cercando il modo di uscire, di far esplodere questa mia carne sgraziata e far bruciare la sua pelle con i miei baci rapaci e le mie tenerezze lascive. Nello stesso tempo, mi vergognavo di quanto provavo, perché non riuscivo a controllarlo, a soffocarlo, a capire come spegnerlo. Perché era questo che più di tutto mi sconvolgeva, perché non capivo questa improvvisa voglia di Bastiano, che avevo visto diventare uomo un ragazzo per cui ero stata quella madre che madre non ero. Quel ragazzo che fino a pochi giorni prima avevo avuto accanto giorno e notte ascoltando i suoi sogni innocenti come i suoi occhi e raccontandogli i miei problemi, cercando di spiegargli la vita per fargli vincere quella sua sensazione che nessuno lo amasse e volesse. Ora dovevo cercare di non pensare che fosse lì, un piano sotto il mio letto, seminudo e disponibile.
Finché un sabato notte lo sentii rientrare dall’uscita settimanale che faceva con gli amici. Sapevo che come sua abitudine si sarebbe fatto una doccia prima di coricarsi e subito pensai a quel corpo coperto da infinite goccioline d’acqua desiderando di essere una di loro per scivolare sulla sua pelle, e leccare ogni parte. Allora, smisi di pensare, mi alzai e vestita solo della mia costosa camicia da notte, scesi da lui. Non sapevo perché, o se lo sapevo, non lo volevo ammettere, ma sentivo che dovevo scendere, dovevo vederlo. Ne avevo bisogno, Scesi velocemente e lo raggiunsi dietro al forno. Stava uscendo dalla doccia, il corpo pieno di gocce d’acqua e coperto solo da una tovaglia che gli circondava i fianchi.
Mi salutò sorridendo “Prendo una bottiglia d’acqua” dissi dirigendomi verso il frigo, poi mostrandomi sorpresa aggiunsi “Ma così tutto bagnato ti verrà un accidente” E presi dal suo armadio una tovaglia di spugna e mi misi ad asciugargli le spalle e i capelli grondanti d’acqua toccandolo con voglia “non sei più un bambino devi riguardarti” Dicevo mentre gli accarezzavo con la tovaglia le spalle “e chistu, chi jè” Feci mostrando stupore indicando un segno rosso che aveva sul collo “Nenti, fu Mariarosa” “ e come ha fatto? Ti desi nu muzzicuni?” Sorrise “no, era mezza brilla e mi ha detto che ero il meglio della compagnia e mi ha fatto questo succhiotto” “Mariarosa è a to zita?” Chiesi con indifferenza mentre dietro di lui, gli accarezzavo delicatamente le spalle con l’asciugamano “no, è troppo bambina. A me piacciono più mature” Rispose ridendo “Hai gustu …” Risposi e lentamente scesi con le mie labbra a coprire il segno di Mariarosa e continuai baciandolo poco più sopra e ancora più sopra poi lasciai la mia lingua libera di scivolare fino al suo lobo per esplorare il suo orecchio e mordere il suo tenero lobo. Le mie mani esploravano il suo petto, accarezzandolo e scendendo verso la muraglia della tovaglia che custodiva i suoi desideri, il suo piacere, il cibo per le mie voglie. Levai con delicatezza quell’inutile, ipocrita copertura e accarezzai i miei sogni più segreti. Girò il volto a guardarmi ed io osservai quel volto da bambino che mi guardavano in bilico tra un dolcissimo desiderio e un inutile sorpresa.
Ci guardammo.
Ero il serpente che osserva la colomba prima di morderla a morte. Questo mi sentivo e me ne vergognavo ma mi eccitavo al solo pensarlo. Fu la mia lingua, il messaggero della parte oscura della mia mente a rompere gli indugi. Uscì dalle mie labbra e lo saluto, ondeggiando di fronte alle sue labbra, sfidandole, provocando il suo corpo, stordendo la sua anima. E la sua anima rispose nello stesso modo, la sua lingua uscì a sfiorare la mia, a girare intorno a lei, finché le sue labbra la imprigionarono e la risucchiarono dentro la sua bocca. Calda, liquida, dolce. Sentì le sue mani esplorarmi, stringermi, imprigionarmi, desiderarmi, ubbidire agli angoli bui e volgari del suo desiderio, così come facevano le mie, come, affamata, faceva la mia bocca che incomincio a baciarlo a leccare le sue gocce di acqua, a scendere sempre più in basso, fino alla vergogna più infima solo per trarne il piacere più forte. Per me e per lui. Per prepararlo a saziarmi. Per anticipargli quel paradiso che in me avrebbe provato. Quando tutta la mia saliva aveva coperto tutti gli angoli da cui nasceva il suo piacere, mi alzai, staccandomi da lui. Lentamente arretrai levandomi tutti quei sottili vestiti che coprivano il mio infuocato corpo. Arrivai al tavolo dove mangiavamo. Senza mai levare gli occhi da quel corpo di cui avevo ancora il gusto salato in bocca.
Mi sedetti e allargai quanto più potevo le gambe. “Veni” Gli dissi, comandandolo a saziarmi. Lui fu ubidiente. Dolcemente, vogliosamente ubidiente. Si avvicinò lentamente, sorridendo e mi baciò sulle labbra e continuò a baciarmi, sul collo, sul seno. Ma io lo fermai e con le mani, spinsi la sua testa giù ad esplorare con la sua bocca, la sorgente del mio piacere, ad aprirla, a leccarla, come se fosse un gelato, un dolcissimo gelato. Nessuno l’aveva mai fatto per me, e nell’imporgli di darmi quel piacere sentii che era questo quello che mi mancava. Finalmente avevo trovato quello che cercavo con i costosi profumi e cure per il mio corpo: sentirmi adorata, come deve esserlo una dea, una regina, una padrona. Quando alla lingua lui aggiunse le sue dita io conobbi il piacere, quello vero, non quello rapido e distratto con cui mio marito saziava il suo volgare e blasfemo desiderio. Provavo quel piacere, triviale nel modo, divino nel risultato, che il mio corpo desiderava, che la mia anima nera pretendeva, che il diavolo che c’era in me ordinava. Fu un lampo di luce che mi attraversò bruciandomi di dolcezza. Ero una oscura mosca caduta nel miele dorato in cui affondava annegata dal puro piacere. Ero un serpente inebriato dal suo veleno. Ero una donna che apprezzava il frutto del suo corpo. Ero l’origine di quel piacere che finalmente ero mio, solo mio, per sempre mio. Si alzò senza far caso a tutto quello che provavo, come tutti quegli amanti inesperti, preoccupati solo di dare senza chiedere nulla. Sentii che era un mio schiavo, servo primogenito delle mie estasi. Era questo quello che ancor di più appagava la mia sensualità, un piacere più intenso di quello della carne: era il comandarlo! Io che avevo sempre ubbidito a mio padre, a mio marito, al prete a tutti i maschi che avevo incontrato nella mia vita, ora ero la sua padrona, seduta sul mio trono, e lui mi aveva onorato inginocchiandosi per donarmi quanto lui non stava ancora provando.
Era questo che faceva dilatare le mie narici per inebriarmi mentre saziavo la mia voglia. Senza preamboli lo attirai a me spingendolo dentro a nutrire i miei desideri ancor più affamati. Fu in me, ubbidiente e voglioso. Fu una spada rovente che mi attraversò per sciogliere quella che fino ad ora era stata la mia carne gelata dal tradimento. Un lampo luminoso nella eterna notte gelida del mio grembo. Continuava baciandomi sul collo, stringendomi i capezzoli, tirandoli. torcendoli, come i capricci delle sue amiche gli avevano insegnato. Il dolore che mi dava era altro piacere. Lo gustavo in silenzio.
Era la prima volta che il mio corpo mi donava gioia.
Si fermò. Mi fece scendere dal tavolo e mi fece voltare facendomi sdraiare sulla pancia. Alzò la mia gamba sinistra e la fece appoggiare sul tavolo. Tornò dentro di me con una mano che tormentava i miei capezzoli e un altra che accarezzava amorevolmente le punta del mio sesso. Era piacere puro sentire il suo corpo sulla mia schiena, mentre urtava instancabile il mio tondo e sgraziato posteriore. Tutto ormai mi dava piacere, un piacere osceno, volgare. La sua mano lasciò il mio capezzolo e affondò le dita nei miei capelli, li strinse e con forza fece voltare il mio volto verso di lui. Lo sguardai stupida dalla sua improvvisa rudezza, ma prima che la mia bocca potesse chiudersi, la sua lingua la violò e scese dentro di lei a cercare la mia. Era questo quello che volevo, che desideravo dentro di me: che mi cercasse per godere. Nuovamente raggiunsi il massimo piacere, con la sua mano che spellava il mio sesso e gli rubava il lento balenio dell’orgasmo. Godetti ancora. Persa in quella elettricità carnale che mi attraversa il corpo e mi portava dove la carne non è carne ma solo un brivido, lo schiocco di una frusta, l’eruzione di un vulcano. Morì e rinacqui, adorando quel corpo che mi possedeva mentre ubbidiente saziava i miei desideri. Anche lui raggiunse il piacere. Forse forte quanto il mio. Lo senti ansimare, accasciarsi di me, come una grossa onda che urla e sparisce nella sabbia della riva che aveva sconvolto con la sua forza. Sentii il suo fuoco accendersi dentro il mio grembo, nel freddo sterile e inutile vuoto in cui non sarebbe mai nata una vita. Ansimava come ansimavo io, stanchi e poco abituati a quei giochi carnali dove la fatica è solo una misura dell’intensità con cui il piacere ci travolge. Avevo desiderato per prima, lo avevo fatto cadere negli abissi delle mie voglie, avevo vinto il suo corpo perché mi ero nutrita della sua forza, avevo succhiato dalla sua vita, la sua anima innocente, facendo brillare con essa la mia anima nel buio dell’esistere. Eppure, ancora non ero sazia.
“comunque grazie a lui ha guadagnato molto bene, questo non l’invoglia a tenerlo con sé? A farlo sentire in colpa perché la sta lasciando?” Gracchiò la voce sgraziata della Dottoressa “No. Gli dovevo tutto, ma Bastiano è anche una persona buonissima che non chiede per sé mai nulla, ma non vuole che gli altri gli dicano cosa fare. È restato con me perché poteva fare quello che voleva e se aveva un’idea io gli davo i mezzi per realizzarla. Non pretendeva mai nulla, ma io gli davo qualche soldo in più degli altri e lui era contento anche se neanche li spendeva perché non gli dava valore: a lui importa solo sentire il gusto delle sue farine e dei suoi dolci e creare un nuovo dolce o un pane diverso. I soldi erano solo un riconoscimento, non un fine. Per questo ho deciso di fare qualcosa di importante per lui, di soddisfare il suo sogno più grande: aprire una pasticceria! Perché lui dentro è pasticcere. Ha ancora il quaderno dove scriveva le ricette che gli diceva don Domenico e se lei vedesse questo quaderno, lo troverebbe pienissimo di mille altre ricette che ogni giorno inventa e che vorrebbe sperimentare. Passa il suo tempo a vedere tutti quelli che mettono sui social le foto o i filmati dei dolci. Sul suo computer ha più di diecimila ricette e conosce tutti i pasticceri di questo mondo. Così ho comprato il laboratorio e la casa nella piazza del paese dove don Domenico aveva la pasticceria e che i suoi inutili figli hanno fatto fallire. Ho dato tutto a Bastiano dicendogli che era tutto suo e che li era libero di fare quello che voleva. Da quel momento lo vedevo solo una volta alla settimana per controllare i conti. Quando mi ha detto che aveva conosciuto Giusy e che voleva sposarla sono stata contentissima! Io gli ho regalato le fedi e il viaggio di nozze che faranno. Perché voglio che abbia quello che ne io ne lui abbiamo avuto: una famiglia” “un atteggiamento encomiabile signora che per una persona che non è mai stato abbandonato, che ha avuto rapporti sociali, normali e quotidiani, porterebbero sicuramente ad una esistenza normale. Ma Bastiano ha avuto una infanzia piena di sensi di colpa, di rifiuti, di rapporti limitati a don Domenico e a lei: abbandonare il proprio mondo è traumatico per tutti, ma non ci spinge a chiuderci in noi stessi, a rifugiarci nel sonno per la predica di un prete sulla fedeltà. Lo dico a tutti e due: dovete affrontare il problema accettando il fatto che per Bastiano il matrimonio ha qualcosa che lo obbliga a fuggire in se stesso e, man mano che la data si avvicina, sarà sempre peggio. Lei signora Tindara può anche dirmi che per lei Bastiano è un figlio, ma dalle discussioni che abbiamo fatto, per lui non è solo una madre adottiva”
mi ero nutrita della sua forza, avevo succhiato dalla sua vita la sua anima innocente, facendo brillare con essa la mia anima nel buio dell’esistere. Ma non ero ancora sazia. Sdraiata sulla pancia sul tavolo, mi girai. Era sudato come lo ero io. “vieni, facciamoci una doccia” Gli dissi prendendolo per mano e tirandolo nel bagno. Si lasciò insaponare e lasciò che le mie mani lo accarezzassero ovunque. Il suo corpo aveva un profumo buono, non quello del bagnoschiuma che aveva usato, ma quello del desiderio. Un profumo intenso, che mi entrava nel naso e come una spina arrivava in fondo nel cervello, ad aprire le gabbie in cui avevo chiuso le mie voglie, per farle uscire e scivolare dense dentro il mio sangue, a guidare le mie labbra, la mia lingua, le mie mani, la mia sete del suo corpo. Lo strinsi contro il mio che lo avvolse. Lo baciai sotto rivoli di acqua che scendevano lungo i nostri corpi come ruscelli su i fianchi del monte. Lo guardai e mi sorrise. Era contento. Lo feci uscire dalla doccia e con un lenzuolo di spugna lo asciugai strofinandolo e baciando la pelle che asciugavo. “Hai ancora voglia?” Chiese e io che gli stavo asciugando i piedi lo guardai dal basso verso l’alto con tra i miei occhi ed i suoi, tutto quel suo corpo che avevo desiderato. “Si” Risposi sinceramente. Allora avvicinò la mia testa e disse solo “saziati”
E così feci e quando fu della consistenza giusta, lo portai a letto e salii su di lui, muovendomi come una regina sul suo cavallo ora in avanti ora indietro per quanto piacere trovavo o gli davo. Sorrideva stringendomi il grosso seno osservando il mio volto preso dal piacere lascivo di dominarlo. Poi mi fece scendere e sdraiato dietro di me, mi prese come aveva fatto prima sul tavolo. Lo sentivo spingere e stringere il mio seno. La cosa lo eccitò e quel dondolare di circostanza diventò irruento, cattivo, voglioso. Spinsi la sua mano a stringere il mio sesso e con la mia strinsi i suoi capelli tenendo ferma la sua testa perché la mia lingua giocasse con la sua. Arrivò forte come il vento di maestrale, il mio corpo sussultava dal piacere come una pergola colpita dalla grandine. Ero io che lo usavo, che lo gustavo per come volevo, come faceva mio marito con me, quando mi faceva subire tutte le peggiori volgarità che le sue puttane gli insegnavano. Ma adesso, ero io la padrona del piacere e lui era il servo che doveva saziarmi. Questo pensiero mi bruciò dentro, mi esaltò, squarciò la mia mente abbagliandola di luce.
Ero io, finalmente, la padrona.
La mia anima divenne liquida e usci da ogni mia parte, le cosce incominciarono a tremare e per un minuto il mondo intorno a me si spense. Sentì che anche lui, travolto dal mio, dava sfogo al suo piacere. Ansimando lentamente si spense mentre io, come una foglia morta che si staccava da una quercia, svogliatamente planavo ritrovandomi tra le sue braccia. Ritornando in questo orribile mondo dove ero brutta, goffa e sola. Fu così che iniziammo e che con regolarità continuammo. Mai sazi. Mai Pentiti, Mai stanchi. Quel fare l’amore, non era amore, lo sapevamo, ma aveva dell’amore la forza, la capacità di distruggere il presente, la possibilità di volare via, lontano da tutto e da tutti, come se fosse una droga che ci regalavamo l’uno con l’altra. Ma non era amore. Non lo era. Non poteva esserlo. Era una solitudine che violentava un'altra solitudine.
“Dottoressa, io non sono sua madre, sono il bene che nessun altro gli ha dato, ma lui deve capire che per il suo stesso bene, io sono ormai il passato. Lei ha studiato e può trovare il modo giusto di dirglielo. Siamo venute a parlarle proprio per dirle questo: quello che lui pensa o pensava, non conta nulla, conta che ha qualcuno che gli vuole bene e con questo qualcuno deve vivere il resto della vita” “Purtroppo questo lo deve capire lui, io più che sostenerlo psicologicamente non posso fare altro! Se è vero tutto quello che ha detto, o anche se non fosse vero, Bastiano non riesce a trovare un equilibrio tra di voi: per lui avete la stessa importanza, per lui scegliere equivale a far del male a una di voi due. Io per questo l’avevo chiamata: lei deve trovare il modo di uscire dalla sua vita”
Tindara guardò la dottoressa con un’aria cattiva
“io sono già uscita dalla sua vita nel momento in cui ha incontrato a Giusy, ed è questo che lei non ha afferrato. Se lei non sa capire e aiutare Bastiano, lo dica pure troveremo un altro modo” La dottoressa la guardò come se stesse per scoppiare e con voce sempre più alterata le rispose “Glielo ripeto perché forse lei non vuole capire: Bastiano non si può aiutare se lei non esce dalla sua vita” Tindara l’osservò con il volto che improvvisamente diventò indifferente e freddo “Va bene, se lei continua e pensarla cosi, faccia pure. Per me lei finisce qui” Si alzò di scatto e si rivolse a Giusy “Si ci vò parrari tu, paraci puru: jo fini” E senza salutare se ne uscì.
Attraversò camminando velocemente e nervosamente il corridoio ed uscita su uno dei viali che circondavano il Policlinico si incamminò lungo il primo che vide. Ad un certo punto notò una panchina vuota sotto un albero, si fermò a guardarla e alla fine si sedette con gli occhi fissi di fronte a se indifferente a tutto Dopo circa mezzora arrivò Giusy che si sedette accanto a lei e le chiese senza guardarla. “Perché non le hai voluto dire che andavate a letto?” Giusy sapeva tutto. Forse Bastianu le aveva parlato di loro perché lui era fatto così: a chi voleva bene non nascondeva nulla. Era una sua qualità
“Perché non è questo il problema di Bastianu” “e allora qual’ è il suo problema? Fammelo capire una volta per tutte” fece Giusy esasperata dalla situazione. Tindara sbuffò e si voltò da un'altra parte senza guardarla e dopo un attimo di silenzio, incominciò a parlare sottovoce come se parlasse a sé stessa. “Sabbuccio, quando ha capito che suo figlio non era come gli altri, ha incominciato a studiare e si è fatto una certa cultura su quello che c’è nella testa degli uomini e come funziona. Lui mi ha detto che ognuno di noi viaggia verso la sua felicità come una nave in un mare senza fine. La sua intelligenza, il suo talento, la sua immaginazione sono le vele che catturano il vento della vita e che lo spingono avanti. Ma il timone di questa nave è il bambino che siamo stati, quello stesso bambino che pensiamo sia scomparso dentro noi quando abbiamo raggiunto la pubertà. Ma lui è li. Ricorda tutto. L’amore, l’abbandono, le gioie e i pianti. È lui con le sue paure, i suoi desideri che sceglie la rotta verso cui la nave naviga, che decide di cosa abbiamo bisogno e quindi chi siamo. A volte navighiamo senza problemi, altre volte il bambino che ci guida, non riesce a trovare la sua rotta perché si spaventa e ha paura o è arrabbiato con il mondo perché non gli da quello che vuole. Allora incomincia a far girare la nave in tondo, disorientato e perso.”
Si fermò in silenzio per un attimo.
“Quasi due anni fa Sabbuccio, mi ha chiamato dicendomi che suo figlio gli aveva telefonato preoccupato per Bastianu perché non era andato a lavorare. Mi disse che Karl era scioccato per questo e mi chiese di vedere se era successo qualcosa a suo nipote Bastiano. La cosa mi stupì ed andai nella sua stanza a vedere. Era li, sdraiato sul letto che guardava il tetto. “Bastià chi succidiu?” gli ho chiesto “nenti, nenti” mi rispose ma non si mosse e non mi guardava. Allora vedo sul suo comodino una lettera, la prendo e la leggo. Era di una scuola per pasticceri di Parma, una famosa, dove solo i migliori vanno. La lettera, in modo molto gentile diceva che non potevano accettare la sua iscrizione perché non aveva titoli: non aveva frequentato scuole specializzate né aveva mai gestito una pasticceria. “non te la prendere Bastià, questi non sanno quanto sei bravo. Poi ci sono altre scuole.” Ma lui si arrabbia. Mi dice gridando che non potrà mai andare in nessuna scuola perché per lui era già stato difficile fare le medie e non era mai andato alle superiori. Quello che sapeva, lo sapeva perché io l’avevo forzato a leggere i libri di pasticceria e a cercare le ricette su internet. Di tutto il resto, di quello che c’era fuori dal forno, non sapeva nulla. Aggiunge che lui non è che sperava qualcosa dalla scuola di Parma, ma voleva capire se finalmente poteva fare il pasticciere, se ne avesse le capacità, invece così nulla, non poteva fare nulla. Non l’avevo mai visto in quello stato, ne immaginavo che dentro di lui vi fosse tutta questa frustrazione. “Bastià non ti avvilire – gli faccio - vedrai che troviamo una soluzione. Puoi andare a Messina dai nostri compaesani pasticceri, fai passare un anno e ripresenti la domanda e vai”. Sul momento si è calmato e mi chiede “ma tu verrai con me, non è vero?” io lo guardo stupita e gli rispondo “come faccio, devo mandare avanti tutti i negozi, non posso farlo da Parma” “devi venire! devi venire, io senza te non so muovermi, non saprei cosa fare, dove andare, come organizzarmi, mi sentirei come quando andavo da don Domenico, che mi sentivo solo e dovevo solo ubbidire” “ma Bastiano, cosa dici, non sei un diverso e non hai bisogno di me” “No , no, non posso farcela senza di te, sei la mia maestra, il mio google-map che sa sempre dove andare e cosa fare. Poi, anche tu hai bisogno di me per fare l’amore e dimenticare tutti i tuoi problemi: io sono la tua droga. Lo faremo quando vorrai, ogni minuto se ti servirà: con me sarai felice vedrai.” “Ma che dici Bastiano, non è così che si vive….” Ma non era la verità quello che dicevo. Lui capisce sempre il nocciolo delle questioni ed quello che mi aveva detto d’improvviso mi apparve come la vera realtà che stavo vivendo, qualcosa che dentro di me sapevo senza volerla ammettere: lo usavo per dimenticare la mia solitudine.
Come gran parte della mia vita anche il sesso era stato solo un’illusione. Con lui sedavo le mie ansie e nascondevo i miei sensi di colpa per mio padre, i figli che non avevo avuto, gli sbagli fatti o subiti che leggevo nei sorrisini ironici della gente, il vuoto in cui ero finita per salvare il forno e pagare i debiti e accumulare, accumulare soldi che non sapevo spendere ed erano solo la misura del mio essere nulla. “E allora per te cos’è quello che facciamo se per me è una droga” Gli chiesi arrabbiata dalla mia scoperta. Lui esitò qualche secondo “È qualcosa che non mi fa pensare. Perché dopo sto bene anch’io e mi vengono in testa tante idee nuove. Perché così mi consideri e posso stare con tè” “ma Bastiano, così nessuno di noi due risolve i suoi problemi. Poi, potrei essere tua madre, sono di un altro tempo, tu devi trovare la tua strada, devi stare con i tuoi amici, i tuoi compagni, costruirti un futuro che io non potrò darti. Ma perché non ti trovi una ragazza e ti sposi?” “io … lo vorrei, ma … ma dovrei cambiare vita, avere altre abitudini, uscire sempre, non avere più te come riferimento … No no, fuori da questa stanza, senza di te, ci sono solo problemi. Qui sto bene. C’è il pane caldo, ci sei tu. Fuori sono solo uno stupido, solo qualcuno che a scuola andava male, solo qualcuno che le ragazze non vorrebbero mai presentare ai genitori anche se vogliono divertirsi con me. Sono solo un bambino che suo padre ha nascosto in una pasticceria perché ha ucciso sua madre. Devo stare qui. Qui sto bene, tutti mi vogliono bene e mi rispettano. Qui sono importante, guadagno bene senza problemi, tu Karl, i clienti tutti mi volete bene.” “Bastiano ma non è così. Non puoi restare chiuso per tutta la vita nel di dietro di un forno. Tu hai talento per i dolci, e ogni talento è un dono di Dio, lo devi usare, lo devi far conoscere” “A chi dovrei farlo conoscere’ a gli altri? loro mi vogliono così, senza talento. Un talento è una responsabilità, per lui bisogna fare delle scelte … difficili, molto difficili … ma se nessuno ne parla, è come se non esistesse. Il mio non esiste. Basta, non ne voglio parlare. Basta” Si è messo in posizione fetale e si è addormentato.” “Già allora?” “Si già allora. Io sono rimasta a guardarlo e poi mi sono sdraiata accanto a lui e l’ho abbracciato. A lui piace essere abbracciato perché da bambino nessuno l’abbracciava. Mi sono chiesta cosa potevo fare, perché Bastiano ha cambiato la mia vita ma non riusciva a cambiare la sua. Ecco per una settimana sono rimasta li a pensare, a ragionare, senza arrivare ad una conclusione. Lui era nervoso, appena qualcuno gli diceva qualcosa rispondeva incazzato.
Il sabato successivo tornò prima del previsto dalle sue serate con gli amici. Gli chiesi perché. Mi rispose che una sua amica voleva fare, ma lui l’aveva mandata a quel paese. Stranita gli chiesi spiegazioni. “Era la zita di mio compare Melo, non potevo mancargli di rispetto. Lui le vuole bene e lei fà con il primo che incontra. Ma chi fimmina è? “ “Si vede che si voleva solo divertire, oppure non l’ama” “L’amore, l’amore: tutti a riempirsi la bocca con questa parola, ma che cosa è l’amore? Spiegamelo!” Chiese alterato dalla rabbia “È quando tu pensi sempre a qualcuno e lo vorresti sempre con te, in ogni minuto della tua giornata. Tu non hai mai amato?” “se è questo l’amore no, mai” “non ami neanche me?” “che c’entra tu sei diversa” “e cioè? che cosa sono per te?” “te l’ho detto, un riferimento, una certezza, … una sorella” “con le sorelle non si fanno certe cose” “va bhe, noi lo facciamo perché così ci liberiamo la testa e perché ci piace. È il nostro modo di non pensare a niente, il nostro spinello. Così poi io torno nel mio buco a fare pane e a vedere i programmi dei dolci sullo smartphone, e tu torni a combattere ed impazzire con i fornitori, il commercialista e gli operai. Noi ci vogliamo bene come due naufraghi finiti sulla stessa zattera che si aiutano per necessità e bisogno ma che non si amano, non si desiderano e si pensano solo per quello che serve a tirare avanti” Aveva ragione, come sempre. L’uno serviva all’altro per vincere il malessere di dover lottare con tutti per poter sopravvivere in quella gabbia invisibile che era la nostra solitudine. Ma al di la di questo, non c’era un progetto, un futuro da programmare insieme. Il nostro non era e non è amore. Eravamo due animali chiusi in gabbia, due animali di successo in quello che facevano ma dei falliti per come vivevamo in mezzo agli altri. Incominciai a cercare su internet articoli di psicologia che mi aiutassero a capire cosa fare. Ma mi perdevo in tutte quelle spiegazioni e parole nuove. L’unico che conoscevo e che sapeva spiegarmi le cose era Sabbuccio e gli chiesi aiuto. Lui mi aiutò ad arrivare al punto del problema …” Giusy sorrise e chiese con malizia “Bastianu dice che voi due ora state insieme…” Sorrise anche Tindara e quasi arrossì abbassando lo sguardo “Quando eravamo bambini e a scuola giocavamo a bandiera, Sabbuccio si metteva sempre di fronte a me e quando chiamavano il nostro numero mi faceva vincere sempre, anche se ero goffa e correvo come un piccolo ippopotamo. Crescendo, mi difendeva sempre quando mi prendevano in giro perché ero uno sgorbio con gli occhialoni e i peli sul labbro. Forse allora mi voleva bene. Ma lui stava nelle campagne tra pecore e maiali ed io ero la ragazza più ricca del paese. Per questo se ne è andato via, in Germania. Li ha studiato e ha iniziato a lavorare in banca. Poi gli è nato Karl e subito ha capito che aveva problemi. Gli hanno diagnosticato una forma di autismo e Sabbuccio è tornato a studiare e si è preso una laurea in pedagogia, per capire ed aiutare Karl. Quando sua moglie è morta, è tornato al paese perché dove stavano, vedeva che trattavano Karl da handicappato. Qui, i suoi parenti, i Rimiti non lasciano indietro nessuno. Lui mi ha fatto capire tante cose, anche di me. Ad esempio che quando si fa l’amore non bisogna essere qualcuno come una troia, o una sottomessa o una padrona. Bisogna essere sé stessi perché è questo l’amore: poter essere se stessi senza doversi nascondere.”
Si fermò a guardare le mani
“A furia di chiedergli cose, ho capito che per me ha un sentimento diverso da quello della sola amicizia. Gli ho chiesto cosa vedeva in me per tenermi sempre in considerazione dopo che era stato via per tanti anni. Lui mi ha risposto che ha un difetto agli occhi: non vede le forme, il corpo delle persone, ma solo le loro anime e la mia, da quando ero piccola, per lui è bellissima. Nel dirmi questo ha messo la mano in tasca e ha tirato fuori un pupazzetto, uno di quelli che c’erano una volta negli ovetti di cioccolato. Mi ha ricordato quando da bambini alle elementari, avevo visto che aveva finito la sua piccola merenda che si era portato da casa e non aveva altro, mentre tutti i nostri compagni tiravano fuori barrette di cioccolato e ovetti Kinder. Io lo avevo visto messo in un angolo tutto triste che faceva finta di niente e gli avevo regalato l’uovo di cioccolato che mi ero portata e che conteneva quel pupazzetto. Lui ha attraversato la sua vita con quel pupazzetto in tasca tenendolo sempre con se. Nel raccontarmi delle elementari mi mise il pupazzetto in mano. Io l’ho guardato, stupita e confusa, poi ho guardato lui e avrei voluto baciarlo, ma tutte le cose che mi sono successe … con mio marito … con Bastiano … non so! È come se l’unico mio talento sia quello di fare solo le cose sbagliate … o troppo in un senso o in quello opposto … Non lo so”.
Tindara si fermò e dalla tasca tirò fuori un fazzoletto soffiandosi il naso.
“ Non lo so. Mi manca il coraggio di crederci ancora. Una delle cose che ho in comune con Bastiano, è la difficoltà a capire questo mondo e le persone che lo abitano e a decidere di conseguenza. Tutte le decisioni che ho preso, le ho prese solo per disperazione. Poi con Sabbuccio, vedrò, devo ancora capire cosa voglio. Ora devo pensare a Bastiano.” Sistemò il fazzoletto in tasca e fissò Giusy negli occhi “Parlando con Sabbuccio di Bastianu, lui mi ha detto una parola che avevo dimenticato. Mi ha detto “se lo vuoi felice, gli devi ridare quello che lui pensa di aver perso, la sua dignità.” Ecco, quando mi ha detto questa parola, tutto mi fu chiaro. Era questo quello che Sabbuccio da bambino mi voleva dare facendomi vincere a bandiera, quella dignità che una bimba “streusa” e derisa pensava di non avere. È questo quello che a Bastianu manca, il sentirsi degno di se stesso, dei suoi sogni, di chi gli vuole bene, senza dover nascondersi o fuggire dormendo. Dopo che Sabbuccio mi ha detto in quel modo, ho pensato a lungo, poi sono andata a comprare il laboratorio di pasticceria di don Domenico, con la casa al piano superiore. Ho portato Bastiano nel vecchio laboratorio e gli ho detto che doveva rimetterlo in servizio, che era un investimento importante, che solo lui poteva aiutarmi. Gli ho detto di occuparsi della mobilia, dei decori, del personale, di tutto e l’ho lasciato fare tenendolo lontano dal vecchio forno. Gli ripetevo che era una cosa importante, che ci avevo messo tanti soldi, che solo lui poteva trasformare quel rifugio di gatti randagi, nella migliore pasticceria della Sicilia. L’ho mandato in giro a cercare le macchine che gli servivano, a comprare gli ingredienti per i dolci che da sempre avrebbe voluto fare, a frequentare altri pasticcieri con la sua stessa passione. Io mi sono preoccupata di tutta la carta bollata che serviva, della partita IVA, delle planimetrie e così via. Ho speso un mucchio di soldi ma ne avrei speso il doppio se fosse servito a far felice Bastianu e a non farlo più sentire un “diverso”, uno “sbaglio”. Si fermo e guardò il cielo
“Che cosa ha Bastiano? Ha paura perché è stato rifiutato da chi doveva amarlo e proteggerlo. Perché è sempre stato considerato uno strano, uno che sa fare cose che nessun altro sa fare, ma che preferisce nascondersi per non mostrarsi migliore degli altri ed essere nuovamente messo da parte. Ha paura di lasciare l’unico posto dove era sereno, le uniche persone che lo consideravano, l’unica donna con cui poter avere un po' di sicurezza. È questo quello che ha. Io di Sabbuccio non gli ho detto niente, non volevo che pensasse che lo mandavo dall’altra parte della piazza perché c’era un altro. Comunque, era troppo preso dalla pasticceria per pensare a me e tornare a scambiare il sesso che facevamo, con la sicurezza che gli davo. Era felice quando ha aperto la pasticceria e ancor di più quando ti ha conosciuto. Ma non è abituato a decidere, a rischiare, perché dentro di se si sente ancora solo. Ha paura di dover lasciare quanto ha, per una vita che non sa bene come affrontare senza un chiaro riferimento. Ha paura di sbagliare di deludere tutti, e te per prima. Ha paura di vivere in una casa che dà sulla piazza del paese dove tutti lo vedono e che non è la stanza dietro il forno in cui si era nascosto. Paura di mostrarsi a te come una persona fragile e insicura perché dentro di sé pensa che quello che è, lo deve agli altri. Ha paura di non esserti fedele e di tradirti appena io o una sua amica vogliamo levarci una voglia. Lui ti ama e vorrebbe essere lui a guidarti in questa vostra nuova vita, ma ha paura. Ha paura di perdersi dietro alla burocrazia, ai pagamenti, ha paura che tu scompaia per colpa sua improvvisamente come gli hanno detto ha fatto con sua madre, ha paura di dimostrarsi sbagliato in questa avventura che per lui sta diventando sempre più grande, più difficile e complicata. Ma non ti lascerebbe mai, perché sa che con questi capelli rossi sei una “diversa” anche tu, una che i compagni di classe additavano ridendo. Sei come lui e per questo che ti ha amato da subito, dal primo momento che gli hai sorriso dopo aver assaggiato il dolce che ti aveva offerto. Per il bambino che guida la sua nave, e che per paura lo tiene chiuso nel suo piccolo porto, tu sei ora il mare aperto, il domani, la speranza di cambiare, ed ha paura di fallire, di non riuscire e di essere lasciato di nuovo dietro un forno, a sentire il pane lievitare e la sua anima morire.”
Giusy chinò la testa a riflettere “Ma io cosa posso fare? Io ho i miei problemi e lui non parla. A volte non c’è bisogno che parli perché io so già cosa vorrebbe dirmi. Altre volte, è come se avesse paura di me. Non so cosa fare” Tindara la guardò. Si stava perdendo anche lei. “no, guarirà, ma non grazie alle pillole della dottoressa. La chiave di tutto deve essere il tuo amore. Se tu gli vuoi bene devi prendergli la mano e fargli capire che non è solo, che tu lo ami proprio perché non è come gli altri. Deve capire che sarai al suo fianco in ogni momento, che hai bisogno di lui, perché è questo quell’amore che né io né nessuna delle sue amanti occasionali gli abbiamo mai dato. Per questo ti ho chiesto di venire, perché speravo che quella stronza laureata ti sapesse spiegare, come fanno le dottoresse, le cose che ti ho detto e ti potesse aiutare a capire cosa fare. Invece niente.”
Giusy la guardò
“e allora? cosa dovrei fare e cosa posso realmente fare?” Tindara sorrise e prese le mani della ragazza tra le sue “Amalo, semplicemente, come fa lui con te. E’ l’unica arma che hai: il tuo amore. Amalo con la stessa dedizione e bisogno con cui vuoi essere amata e capita. Per me l’amore è una follia che guarisce tutte le altre follie di questo mondo. E non è gratis, perciò, visto che lo hai, tienilo stretto. Io, la dottoressa, tutto il mondo, siamo solo comparse, tu e lui siete la vostra vera vita. Al momento giusto farai tutto quello che servirà quando servirà: stai tranquilla. Perché Bastianu è speciale e anche tu lo sei. Comunque, se capita nuovamente che si addormenta, tu chiamami, saprò io cosa fare. Altro che quella stronza con il camice”.
Capitò qualche sera dopo. Tindara era con Razzudda a distribuire cornetti e focaccia ai tanti nottambuli di paese. Gli suonò il cellulare e vide il numero di Giusy, rispose e senti solo “Veni, s’addumintoi” Disse a chi serviva al bancone che doveva andare e uscì. Aveva pensato molte volte a quel momento e ogni volta arrivava alla solita conclusione: Giusy doveva risvegliarlo alla vita. Entrò sul retro della pasticceria e attraverso la scala interna salì all’appartamento dove stava Bastiano. Era buio, solo alla fine del lungo corridoio dove era salita, si intravedeva una luce fioca. Camminò lentamente verso quella che ricordava essere la camera da letto. Entrò nella grande camera e vide sul letto Bastiano che dormiva in posizione fetale. Accanto c’era Giusy con una vestaglia leggera che lo osservava a braccia conserte. Si avvicinò e le chiese “Comu fu?”
“stavamo parlando dei conti del negozio. Gli ho detto che il ragioniere Santoro ci deve ancora pagare i dolci fatti per il matrimonio della figlia tre mesi fa. Insistevo di andare dall’avvocato perché i soldi sono tanti e Santoro ci prende in giro dicendoci che domani avrebbe pagato, ma fino ad ora niente. Bastianu ha detto che lo avrebbe richiamato per parlargliene, invece è venuto qua e si è messo a dormire. Non so più cosa fare” Le braccia le scesero lungo i fianchi. Tindara sorrise. Si avvicinò a Bastianu e lo guardò. Gli aggiustò una ciocca che gli cadeva sulla fronte “Pari n’anciuleddu non è veru?” Disse voltandosi verso Giusy sorridendo “Si un angelo che mi farà morire” Fece lei sconsolata. Tindara fece la faccia seria e si girò verso fi lei “Ora lo sveglio, ma poi devi parlargli tu” “E cosa devo dirgli se non mi ascolta mai” “Perché parli al Bastiano sbagliato, quello che è bravo, che ha talento, successo e tanta paura di sbagliare, di interagire con gli altri. Devi parlare al bambino, quello che è al timone della sua vita. Al bambino che ha paura, che non vuole affrontare il ragionier Santoro. Devi cercare dentro di te la tua bambina e devi far parlare loro due in un modo che si possano capire. Devi dirgli le tue paure per fargli vincere le sue. L’amore che hai per lui ti farà trovare le parole giuste e il modo più adatto.” “ma come? … non capisco!” “Ti faccio vedere” Si avvicinò Bastiano e si sdraiò sul letto vicino a lui. Aggiustò di nuovo il ciuffo dei suoi capelli, poi, con voce calda incominciò a parlare “ Bastianu, suggiti … Dai Bastianu isati c’amu fari u pani …” E lo accarezzava sul volfo e sul corpo. Poi avvicinò le sue labbra a quelle di lui e in un sospiro ripeté “Bastianu … susiti … fozza” Giusy vide la lingua di lei scivolare tra le labbra di lui e riapparire dopo alcuni secondi inseguita da quella di Bastianu. “ susiti …. È taddu … u pani livitoi” Gli occhi di Bastianu si aprirono e guardarono quelli di Tindara. Lei l’osservò e gli sorrise. “Giusy, ha bisogno di te, vuole parlarti - e si voltò verso la ragazza. Bastianu fece lo stesso e vedendo Giusy si irrigidì - a vidi quant’è bedda? Ed è scantata picchi a lassi sempri sula” Giusy lo guardo e vide il suo volto diventare preoccupato come se stesse cercando di capire cosa succedeva “a vidi com’è bedda – continuò Tindara, con voce lenta – una accussi bedda chi ti voli tantu beni, na trovi chiù: idda nasciu pi tia e tu? Tu chi fai? Ti metti a dommiri? Scappi? chi omu si?” E lo baciò sulle labbra delicatamente. Bastianu si separò subito da lei quasi non volesse i suoi baci di fronte a Giusy “No iddu nun scappa” Disse improvvisamente Giusy e sia Tindara che Bastiano la guardarono stupiti perché era la prima volta che la sentivano parlare siciliano. “Iddu, ora, non scappa chiù – e sorrise mordendosi il labbro inferiore come se un pensiero malizioso le era fiorito nel cuore. Si sbottonò il primo bottone della camicetta e lentamente continuò a sbottonare tutti gli altri mentre, con la stessa lentezza parlava, quasi sottovoce - nun è veru cori mei? Nun scappi chiù … picchi jo u sacciu chi hai…”
Si levò la camicetta, facendola cadere con noncuranza per terra e lo stesso fece con la gonna. “Jo u sacciu che si ‘ncazzatu … picchì tutti ti mancaru i rispettu … ti lassaru sulu pi strada comu a nu cani … “ Si levò il reggiseno e lo lasciò scivolare accanto alla camicetta e allo stesso modo fece scivolare lungo le gambe le mutandine, restando di fronte a Bastianu tutta nuda, con la sua pelle bianchissima che quasi brillava nella penombra della stanza e la sua peluria rosso fuoco che ne esaltava ancor di più la luminosità. “Tutti ti lassaru cori mei – si mosse e salita sul letto lentamente gattonò verso Bastiano e Tindara – Ti lassaru i toi, ti lassò u to mastru Don Duminico, ti voli lassari puru Tindara chi ti trattoi i figghiu e maritu” Si sdraiò al fianco di Bastiano con il suo seno generoso che gli sfiorava il naso e la mano che si insinuava nella sua camicia ad accarezzargli il petto. “… ma jo, … jo nun ti pozzu lassari … tu si a vita mei … nascisti pi mia … e jo u sacciu …” Ed incominciò a baciarlo in ogni angolo del volto, con delicatezza, come se fosse un bambino “ jo u sacciu chi tu nun ti scanti, chi si unu capaci i vutari u munnu …, unu chi tutti muntuurannu comi u megghiu” E lo baciò a lungo mentre la sua mano lentamente lo spogliava. Sfiorò con il seno il naso di Bastiano “u senti u ciauru? U ciaru da me peddi ? tu senti tutti i ciauri e u sai chi ciauru è chistu?” E gli sfiorò con un capezzolo le labbra, cosi che lui potesse morderlo “ … è u ciaru du me focu … du nostru focu … tizzalu Bastianu … fallu chiù ranni … nui semu divessi: nui, ni vulemu beni Bastianu … nto munnu nuddu si voli beni comi a nui dui … jo nun ti lassu, Bastianu … nun ti pozzu lassari … jo ti vogghiu beni … si a me vita” E lo baciò con un bacio lungo, intenso a cui lui rispose con la stessa intensità e voglia. Tindara lentamente si staccò da Bastiano mentre Giusy lo spogliava. Si alzò dal letto e fece due passi indietro osservando i due corpi avvinghiati, affascinata dalla calda luce sensuale che emanavano. Gli venne voglia di spogliarsi anche lei e di avvinghiarsi con loro. Capì però che per loro due, lei non era più li e si sentì di troppo. Indietreggiò ancora di più con gli occhi fissi sui due ragazzi ormai completamente nudi, con Giusy che sussurrava parole che solo il cuore di Bastianu sentiva e le mani di Bastianu che lente scivolavano su quel corpo d’avorio. Arrivò alla porta e l’aprì, uscì e la rinchiuse alle sue spalle e subito si appoggiò contro di essa, chiudendo gli occhi e lanciando un lungo sospiro come se avesse appena superato una fatica degna di Ercole. Dopo qualche secondo si riprese e di corsa tornò al negozio.
Come ogni lunedì mattina, alle nove precise, Sabbuccio entrò nel negozio con un vassoio di cornetti e tazze di cappuccino. Salutò Tindara che al bancone stava preparando un panino caldo farcito con la mortadella, per il solito studente che si era alzato tardi e che era già in ritardo per l’ultimo pullman che partiva per Messina. Sabbuccio si diresse verso il panificio lanciando il suo solito “Gutte morning” per far capire al figlio che era arrivato. Attraversò il negozio con il vassoio in mano, sorridendo a Tindara che lo osservava, come affascinata dalla sua camicia tedesca perfettamente stirata, i suoi jeans attillati che evidenziavano le gambe sportive e il sedere perfetto che lei riteneva uguale, nella forma e sostanza, a quello di Bastiano. Sabbuccio, arrivato nel panificio, incominciò a distribuire cornetti e cappuccini parlando ora in tedesco con il figlio, ora in siciliano con gli altri due aiutanti, prendendoli in giro per le vittorie o le sconfitte delle loro squadre di calcio.
Una volta che aveva finito di discutere con il figlio, tornò nel negozio e si avvicinò al bancone dietro cui Tindara si attardava in attesa di Razzuda. “Bastiano ti manda questi dolci” Le fece mostrando una scatolina fatta da un unico foglio pieno di disegni di limoni e piegato con una cura che ed una abilità che rivelava la mano attenta e precisa di Giusy. “Bastianu? È resuscitato? È da sabato che lui e la sua zita non si fanno vedere” “No stamattina erano in negozio, tutti affaccendati a preparare pacchetti e dolci. Appena sono entrato Bastiano mi ha chiesto di aspettare che doveva mandarti dei dolci per te. Mi sembrava a posto! Anzi era tutta energia: mentre ero li che Giusy mi incartava le paste, lo vedevo che guarniva una torta e parlava con il vivavoce al telefono con un ragioniere. Gli diceva di preparare i soldi che stava mandando i sui cugini, i Gemelli a ritirarli. Più questo ragioniere gli diceva di lasciar perdere che soldi non ne aveva, più lui gli inventava che questo suo rifiuto avrebbe fatto incazzare i gemelli, perché i soldi doveva darli a loro … Gli diceva che i Gemelli sono persone rozze e ignoranti, che si arrabbiano facilmente e che gli avrebbero distrutto la casa … anzi, gli diceva di mandar via le donne, perché a uno dei gemelli lo ‘ciuriavano’, “Spezzaconna” perché una volta un caprone gli aveva dato una testata e lui con un pugno gli aveva spezzato un corno. L’altro, gli diceva, lo chiamano “Sfilatino” perché con l’omonimo coltello sapeva ammazzare un agnello tanto velocemente che neanche la povera bestia se ne accorgeva. A quel punto il ragioniere gli ha detto che gli stava facendo un bonifico immediato e di non scomodare i suoi cugini” “Ma i gemelli sono due pezzi di pane …. – disse sorridendo Tindara – lo stava prendendo in giro” E sorrise per la furbizia di Bastianu contenta che Giusy lo avesse guarito. “mi ha detto di darti questi due dolci che aveva appena inventato” Aprì con delicatezza la scatola fatta piegando e ripiegando con una precisione giapponese un sottile foglio di carta. Quando lo aprì videro solo due pasticcini. Uno coperto da una gelatina rossa e l’altro da cioccolato fondente con una spirale di cioccolato bianco simile a quella che Tindara aveva tra i capelli. A vedere quest’ultimo pasticcino, lei alzò perplessa le sopracciglia.
Sabbuccio la guardò e chiese “Posso azzardare un ipotesi?” “dimmela” “La pasta rossa è Giusy e quella al cioccolato sei tu” “ma sai cosa vuol dire?” “che vi vuole bene?” “ o, che adesso Giusy e Tindara sono la stessa cosa, che non ha più motivo di avere paura” Sabbuccio sorrise “allora possiamo mangiarle?” “certo” Lei prese quella al cioccolato e le diede un morso e lo stesso fece lui con la pasta rossa. Inghiottito il primo boccone fu lui a parlare “è buonissima: la gelatina è di melograno, la crema di gelso bianco con un sentore di liquirizia e un profumo di rosa – restò in silenzio – è una dichiarazione d’amore. Per gli ebrei il melograno è onesta purezza, per i cristiani è il matrimonio, la madre che nutre, il gelso è la passione dell’amore, la liquirizia è una radice, a dire che lei è la sua radice, la rosa è per antonomasia l’amore delicato e perfetto. Bastiano non crea dolci, scrive poesie. E il tuo di cosa sa?” “È cioccolato, ha un sentore di speziato di pepe nero, ma dentro c’è una crema di mango, con un gusto di cannella. Cosa vuol dire?” “Interessante. Il cioccolato è legato al piacere, il mango è il frutto dell’amicizia e la cannella è nobiltà, aristocrazia” “davvero?” “si, ma è legata anche alla fenice che con la cannella costruiva il suo nido. Vuol dire rinascita, rigenerazione. Penso che abbia creato questo dolce solo per te.” Lei sorrise “Può essere. Ma il sentore di pepe? “per i romani era un bene prezioso, forse vuol dire che l’amicizia che gli dai è una ricchezza intensa e piacevole.” La guardò ed i suoi occhi si fermarono a guardare le sue labbra “comunque, mi piace sentire il profumo speziato delle tue labbra” I suoi occhi tornarono a fissare quelli di lei.
Mi guardava. Mi guardava nello stesso modo di quando eravamo bambini. Io una palla pelosa con dei fondi di bottiglia come occhiali e lui un bambino denutrito con le ginocchia sbucciate e il maglione consunto ereditato dal fratello maggiore. Fu però come se vedessi quegli occhi per la prima volta, e per la prima volta capissi quello sguardo. Una volta a mare dei ragazzi hanno invitato delle mie amiche a fare un giro in motoscafo e portarono pure me per non lasciarmi da sola sulla spiaggia. Andavamo veloci sul mare calmo in una splendida giornata d’agosto. Ad un certo punto, una barca ci tagliò la rotta e, per evitarla, il timoniere fece una virata così brusca che sentii il cuore quasi uscirmi da petto. Ecco, a vedere gli occhi di Sabbuccio, provai la stessa cosa perché d’improvviso, la bambina brutta e ridicola che guidava la mia vita nel mare dell’esistere, aveva fatto una brusca virata e dà che navigava in cerchio tra sbagli, incertezze e solitudine, a che aveva deciso di cambiare rotta, di scegliere una volta per tutte, la direzione giusta. Con i gomiti mi alzai sul bancone dietro cui c’era Sabbuccio, gli misi un braccio al collo per non cadere all’indietro, tirando il suo volto vicino al mio, avvicinai le mie labbra alle sue, e dopo un secondo di esitazione, lo baciai. La bambina che avevo dentro, il bambino denutrito che lui aveva dentro di se, erano salpati verso l’orizzonte.
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Devo dire che da qualche secolo non incontravo Sallusti in tv, è successo ieri a È sempre Carta Bianca. È riuscito a dire che “Il patriarcato non esiste, la verità è che Adamo ed Eva hanno fatto un gran casino”. Poi parlava di femminicidi dicendo che il record è nell’emancipato nord Europa dove il patriarcato non esiste, ma confondeva i paesi baltici (che detengono il record dei femminicidi in effetti, ma che non sono un modello di emancipazione femminile) con la Scandinavia. Quando ho detto che il libro di Amadori “La guerra due sessi” era autopubblicato mi urlava che non era vero, lo sapeva perché era un libro che aveva presentato lui e aveva un grosso editore. Falso, non sapeva neppure di quale libro stesse parlando tutta la stampa dalla mattina, lo ha confuso con “L’Italia che vogliamo”, sempre di Amadori (e Valditara), che in effetti ha presentato lui. Poi è riuscito a dire, con serenità, “Io sono incensurato”. Seriamente. A ogni mia precisazione ridacchiava e mi chiamava maestrina. Il patriarcato spiegato semplice. E il giornalismo de Il Giornale spiegato semplice. #EsemprecartaBianca
Selvaggia Lucarelli
@stanzaselvaggia
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Un mio pensiero felice.
I pensieri felici sono quelli che ti fanno cambiare delicatamente l'umore, che ti fanno fare un accenno di sorriso senza che te ne accorgi, che ti tolgono ragnatele dagli occhi e massaggiano un po' il petto. Il mio pensiero felice del momento è il ricordo di una sera d'estate di credo otto anni fa, metà agosto, è il compleanno di zio e come al solito per i grandi compleanni viene organizzata una festa nella "piazzetta" tra la casa e la legnaia, vengono messi dei tavoli da osteria, si tirano fuori tutte le sedie e le panche, zia cucina le fettuccine al sugo di fianchetto, l'altra zia porta tre quattro casatielli, zio apre la sua riserva di vino che millanta ogni anno come il più buono di sempre e tutti parlano, ridono ad alto volume, i bambini giocano e c'è una bella atmosfera da inizio festa, l'aria è tiepida nonostante sia metà agosto, non fa tanto caldo. Sul gradone sul fondo della piazzetta ci sono i fratelli di mia zia che suonano, sono bravissimi, la batteria, il sax, le chitarre, le voci, sono cresciuta con loro che suonano rock, blues, canzoni napoletane, rock progressivo e non mi stancherei mai di sentirli. Ad un certo punto succede, parte zio Augusto alla batteria e cominciano a suonare lei. Io sono da un lato della piazzetta con il mio bicchiere di carta con un po' di vino dentro e, come ci fosse una calamita, incrocio lo sguardo di mio cugino, appoggiato al muro dalla parte opposta alla mia con la sua camicia bianca di lino da artista, i capelli arruffati in tanti riccioli ribelli e una sigaretta in bocca, che con un sorriso complice e cretino mi guarda. E' una sorta di richiamo il nostro: inevitabile e naturale. Cominciamo a muoverci, spalle lui, fianchi io, ogni movimento è un passo l'uno verso l'altro. Ed è così che in pochi secondi siamo al centro della piazzetta a ballare, sinuosi, buffi e seducenti, un ballo di quelli che ti vengono spontanei quando segui la musica e vuoi solo divertirti, è viscerale, è bellissimo. Mentre ballo scendo lenta sulle ginocchia come fosse un passo di danza, poso il bicchiere a terra, mi alzo e gli rubo la sigaretta, lui apre le braccia e canta. Dietro le sue spalle vedo mia cugina che si avvicina ballando, si tiene la gonna ampia arrotolata con una mano alla vita, è bellissima, poi arriva mia madre col suo modo buffissimo di ballare che le scompiglia i capelli, mio zio con i suoi passi avanti e indietro veloci con le braccia aperte, si aggiunge anche Barba (è il suo battesimo di fuoco), tutti cantiamo e balliamo. E' una serata come tante ed è unica allo stesso tempo, gli zii suonano tutte le nostre canzoni preferite e noi facciamo i cretini, c'è tanto casino ma anche tanta calma.
Il mio pensiero felice del momento.
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BARRICADE ( Deluxe ) Movie Studio Series GAMER EDITION 02
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In mezzo alle riproposte dei personaggi di War for Cybertron nella nuova veste di Studio Series Gamer Edition, per fortuna spunta un modellino inedito, non apparso nelle linee di giocattoli contemporanee all'uscita dei videogiochi dove questi personaggi apparivano, ovvero BARRICADE, il poliziotto cattivo nato e portato alla fama nel primo film dal vivo dei Transformers del 2007.
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Anzi no, anche se ormai associamo quel nome a quel personaggio, a dire il vero un Barricade esisteva già sin dalla G1, nella forma di un Micromaster fucsia ed azzurro che diventava un'auto da F-1, e questa versione videoludica pare ispirarsi più a lui, ma non nei colori, col nero e grigio scuro che richiamano di più quello cinematografico.
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Se i vari design dei WfC del videogioco li ho sempre trovati innovativi ma comunque reminiscenti dei personaggi G1 cui si ispiravano, giocoforza non avendo un corrispettivo definito questo Barricade mi è sempre parso un po' anonimo, e per questo non mi ha mai attirato tanto, a veder le foto in rete di questo modellino seppur inedito, ma una volta dal vivo il ROBOT finalmente palesa il suo carisma latente, con una figura bella solida.
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Il nostro è riportato fedelmente dal modello in CGI del gioco, appunto con un grigio scuro che si sposa col nero principali ed i però pochi tocchi di viola, sopratutto sulle ruote, cui ci tornerò nel veicolo.
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La parte peggiore si sicuro sono i piedi, un po' troppo grandi e piatti, e se la forma grossomodo è quella a guardar il concept in CGI, la fregatura sta nei talloni corti che tendono a far cadere all'indietro il robot con un nonnulla. Non scherzano nemmeno le ruote ai lati delle anche, anche loro fedeli al design del personaggio, e citazione degli stessi particolari nel Micromaster G1 omonimo, ma volendo queste si possono abbassare sotto le ginocchia, come farà anche il suo remold del generico Decepticon Soldier uscito in seguito.
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Anche la forma della testa è presa dal Micromaster, ed anche per questo però il nostro mi risultava banale dato che sembra essere un Megatron dei poveri con quel casco nero tondeggiante, ma vabbè, magari è solo un problema mio. ^^'
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Comunque, interessante è la zainata sulle spalle che rispecchia l'effettiva schiena del personaggio nel videogioco, con scolpito il reattore che sarà nel retro del veicolo, e sotto cui si può sistemare a riposo l'unico accessorio / arma, una mitraglietta leggera che, come negli altri Gamer Edition SS di WfC, si fa usare al robot sostituendola all'avambraccio destro.
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E come per gli altri GE di questa prima wave, a parte Optimus, pure lui però non ha poi nessun posto dove appendere l'avambraccio tolto; come posabilità sulla carta non siamo messi male, con tanto di rotazioni di polsi e bacino e tutto il resto del pacchetto tranne l'inclinazione laterale delle caviglie, MA quando dicevo sopra che la figura è solida non scherzavo, nel senso che le articolazioni sono davvero dure, che si fa fatica anche a ruotar la testa, così come la zainata e le ruote sulle cosce summenzionate sono d'impiccio per i movimenti del robot.
Peccato infine che non abbia nessun altro accessorio arma bianca come gli altri colleghi sempre della prima wave.
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La TRASFORMAZIONE non è nulla di nuovo e si è già vista in millemila altri, ma per questo Barricade si sposa molto bene, con i piedi che si richiudono verso l'alto, le ruote sulle cosce si abbassano ed il bacino ruota mentre salgono i pannelli sui polpacci per formare la parte anteriore e centrale del veicolo, mentre le mani rientrano negli avambracci e si abbassano le spalle con le braccia che diventano le parti laterali, ed infine la zainata sulla schiena si dispiega rivelando la parte superiore posteriore ottimamente nascosta che si posiziona al suo posto.
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L'AUTO CYBERTRONIANA risultante non ha nulla dell'eventuale auto della polizia del Barricade dei film, così non ricorda manco da lontano un'auto da F1 come il Micromaster, ma è comunque davvero bella e sopratutto grande, quasi fosse un Voyager.
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La forma è stilizzata al limite del giocattoloso ma contenuta dalla colorazione grigio e nera, con tocchi di viola ed argento, MA un po' rovinata dalla banalità delle ruote tutte nere e con l'aggancio alla "sorpresina da ovetto kinder", laddove sarebbe stato il massimo averle in plastica trasparente viola o almeno con qualche linea sempre viola.
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Bello il paraurti aggressivo frontale ed i reattori sul retro; magari avrebbe giovato esteticamente aver le ruote posteriori più grandi, ma va bene anche così. Niente male il simbolone di fazione sul cofano, ed ovviamente l'arma ( che a guardar il videogioco dovrebbe essere un po' più grande a paragone ) può piazzarsi subito dietro il tettuccio o "nascosta" sempre nel retro.
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Di certo è un salto nel passato in quel periodo e con quello stile di veicoli creati per i videogiochi del dittico Cybertroniano, così come aiuta l'essere inedito come modellino rispetto ai colleghi, e quindi ha quasi più carisma così che come robot!
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Insomma, un bel modellino da scoprire, per chi magari come me ad una visione superficiale non dice chissà cosa, e al solito peccato per quei difetti succitati, ovvero le ruote anonime e la posabilità un po' soffocata, ma di certo sulla mensola fa una bella figura insieme agli altri Decepticon di WfC. ^^
-Videorecensione
#transformers#hasbro#generations#decepticon#wfc#recensione#review#deluxe#barricade#g1#micromasters#distructor#war for cybertron#movie studio series#studio series gamer edition
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"Le macchie delle prime gocce di pioggia.
Il sole.
Il pane e il vino.
Il saltello.
Pasqua.
Le venature dei fogli di carta.
L'erba che si muove.
I colori delle pietre.
I ciottoli sul letto del ruscello.
La tovaglia bianca all'aria aperta.
Il sogno della casa nella casa.
Il vicino che dorme nell'appartamento accanto.
La quiete della domenica.
L'orizzonte.
La luce della stanza nel giardino.
Volare di notte.
Andare in bici senza mani.
La bella sconosciuta.
Mio padre.
Mia madre.
Mia moglie.
Mio figlio...."
Il cielo sopra berlino è un altro boomerang che torna ciclicamente, come sempre, alla memoria.
(Peccato non sia riuscito a trovare il tema di sottofondo della scena.)
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[...]
Ora, noi non vorremmo spingerci a dire che sia imparentato con Vincenzo Visco, detto dai contribuenti “Dracula” (a proposito: qualcuno ha più sentito parlare la Lega di flat tax?). Non è che lo vogliamo precisamente proporre come segretario del Pd al posto di Elly Schlein o come bandiera del “sistema” e dell’“establishment” (anzi: dell’élite) portato al governo dal Bilderberg e da George Soros. Però qualcosa dobbiamo dirla. Siamo lieti, ecco. Non abbiamo difficoltà a confessarlo. Siamo lieti che Matteo Salvini, l’uomo pescato più volte al mare insieme col pesce azzurro, attualmente vicepremier, ministro dei Trasporti e segretario della Lega, nei fatti rappresenti l’intersezione insiemistica di Giuliano Amato (quello del prelievo forzoso dei conti correnti) e di Mario Monti (quello dell’austerity).
Salvini è infatti vittima di una grave ingiustizia. Bisogna cominciare a dirlo. Giù le mani da Salvini! Egli viene infatti giudicato per quello che dice, e non per quello che fa. Dice che “con meno armi c’è meno guerra”? Sì, però non c’è nessuno in Parlamento che abbia votato con costanza, fedeltà (e accanimento) a favore dell’invio delle armi in Ucraina come Salvini e la Lega. Egli farà pure il putiniano da hotel Metropol su Facebook o su Instagram, ma poi guardatelo al Senato: è assai più atlantista di Giuseppe Conte e di gran parte del Pd che addirittura mette in discussione l’appartenenza dell’Italia alla Nato. Lui e Joe Biden: fratelli. Dicono che sia razzista. E in effetti su Instagram trasmette solo video di neri che fanno cose brutte. Però quale governo in Italia ha accolto più migranti di tutti? Ma quello con Salvini, ovviamente, che ha votato e fatto votare alla Lega il decreto flussi. Un record di neri sbarcati nel nostro paese (sai quanti video adesso sui social). E poi: chi ha cancellato il Superbonus? E chi ha cancellato il Reddito di cittadinanza? Lui, lui, e sempre lui. Matteo nostro. Il figlio segreto di Angela Merkel e Ursula von der Leyen. A Palazzo Chigi gli danno la sua Settimana Enigmistica con la biro, le sue forbici con la carta bianca per ritagliare gli elefanti e lui vota qualsiasi cosa. Certo le spara grosse, a volte sembra un picchiatello, non ha inibizioni né pudori né freni, ma non si può giudicare un uomo dalle apparenze. Per una volta, stiamo ai fatti. Questo fa tutto il contrario di quello che dice. E’ una garanzia: Salvini, (non) basta la parola.
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Priorità e obiettivi.
Ieri dopo il lavoro e visto che non avevo niente da mangiare sono andato al risto-pizzeria italiano, l'unico veramente italiano, che c'è in città a mangiarmi una margherita (la mia pizza preferita) e a fare un giro, così non si sa mai. Dopo la pizza infatti ho girato le vie del centro ma la città era vuota, non c'era un cane, giusto dei ragazzetti punk, i locali erano deserti, alcuni per chiusura settimanale, già, la Domenica. Allora mi sono avviato verso casa e pensavo che questa città è troppo piccola e tranquilla per i miei gusti, lo è sempre stato ah, niente di nuovo, ma prima avevo una priorità, la famiglia, e adesso?
Allora ho pensato a svariate cose in quei 15 minuti a piedi, un pensiero su tutti è "Che cosa ci faccio qua se non ho più quella priorità?". Nel lavoro da sempre, almeno da quando vivo qua, non ho potuto salire di livello, 15 anni a fare lavori base e relative paghe, musicalmente questo paese è morto, ho parlato spesso nei miei post l'assoluta mancanza di luoghi adatti per le band, che come ho detto sono abituati a suonare 2/3, se va bene 4 volte l'anno; certo c'è chi suona di più ma son pochissimi e famosi (sapete come la penso, essere famosi in Estonia è come essere ricchi al monopoli eh).
Fatto sta che mi sono fissato un obiettivo, che è diventata la mia priorità, andare via di qui. Oggi nel giretto triste pomeridiano ho incontrato mia figlia che usciva dal lavoro e le ho fatto compagnia al supermercato, una vera soddisfazione vederla indipendente a 21 anni, tutta suo padre 😊. Abbiamo parlato di come vanno le cose e le ho detto questa cosa, c'è restata un pò male ma ha capito le motivazioni e non può farci niente perchè è la mia vita, come io non ho mai influenzato la sua e dato sempre carta bianca, il risultato si vede la mia piccina è oramai matura. Per me andare via di qui è importante, ogni angolo di questa città mi ricorda qualcosa, non per forza legato a Maarja, ho ricordi dei più disparati soprattutto quando bevevo come una spugna, Spongebob fatti di lato.
Non ho ancora deciso dove e quando, ma sicuramente dopo l'inverno che mi servirà a riprendermi e a darmi una linea guida per questa nuova vita, una nuova guida, lustrare per bene la musica a 360° e poi andare. C'è anche da dire che per spostarsi di nazione servono i soldini, quindi purtroppo per questo dovrò tirare un pò la cinghia, ma non importa, mi focalizzo su questi aspetti e vado avanti.
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Sono veramente arrabbiato. Quanto alla querela, la superficialità di certi commenti è inaccettabile. Vorrei chiarire alcune cose prima di partecipare questa sera a “è sempre carta bianca" alle ore 22:30. Pensate che sia così facile dire cose querelabili su Israele? Io ho dovuto ingaggiare una squadra di professionisti che mi ossessiona tutti i giorni: “Professor Orsini, non dica questa cosa su Israele a Rete 4 ché non è querelabile!”. “Non dica quest’altra cosa su Netanyahu ché nemmeno questa frase è querelabile!”. Il problema è che quando parli di uno Stato terrorista come Israele - tale è secondo la letteratura scientifica sul terrorismo - dire cose peggiori di ciò che Israele fa ai palestinesi è quasi impossibile. Ad esempio, se io dico che Netanyahu è un criminale di guerra; se dico che è un terrorista di Stato sullo stesso piano morale dei terroristi dell’Isis che hanno appena realizzato la strage di Mosca; se dico che è un massacratore di bambini musulmani, come diavolo faccio a beccarmi una querela se queste frasi corrispondono a verità in base all’osservazione scientifica? E allora che cosa posso dire di così grave a Rete 4 per superare l’orrore del genocidio che Israele sta compiendo a Gaza? Che cosa posso dire a Rete 4 per insultare uno Stato che ha sterminato 14000 bambini palestinesi e ne va pure fiero? Il vero problema è che Israele non è diffamabile perché quello che sta facendo è un orrore talmente grande che nessuna locuzione potrà mai rappresentare fedelmente. Quindi io devo spendere un sacco di soldi per pagare una squadra di esperti che inventi delle frasi che io possa dire a Rete 4 per descrivere l’orrore che l’esercito israeliano, la più grande vergogna del mondo occidentale, rappresenta oggi per noi tutti. Israele fronteggia un processo all’Aja per genocidio. L'ex premier israeliano, Olmert, ha detto testualmente che: "Netanyahu è un criminale, un macellaio, un ladro, un mascalzone".
Questo post è querelabile? Vi prego, ditemi di sì, altrimenti avrò buttato i miei soldi.
Orsini
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SOGNO: 9 luglio 2023 festa, piscina o mare, porto, vari gruppi, gente, studenti e conoscenti mischiati San Cosimato, cado nell'acqua, sono tranquillo, passo su una tavola che galleggia, tipo porta bianca, una ragazza mi aiuta a risalire, perdo il mio gruppo, trovo in un ristorante stanza interna a vari tavoli delle persone sono ricce e canute, un gruppo di toscani sono tutti invecchiati, mi notano in silenzio, vecchie coppie magri, fanno sempre le stesse cose in ricordo; torno fuori al tavolo dove stavo con degli studenti. Suppongo che il mio gruppo sia andato a mangiare in un posto, ma non so quale non sono certo, e neanche sono certo che mi stiano aspettando, mi prenderanno in giro per il ritardo e la caduta in acqua. Ma c'è una parte di sogno prima più divertente. Torno al tavolo e scopro che mi è sparito il telefono, c'è la cover vuota con le cuffie; inizialmente sono tranquillo c'è il codice e l'impronta, ma dentro ho un sacco di miei autoscatto osé vabbè al solito: se pubblicano è violazione della mia privacy. Mi sveglio col pensiero che dentro c'è banca nelle app, patente e carta d'identità; non ero preoccupato do così poca importanza al mio telefono e ai suoi contenuti. mi sveglio preoccupato. Ma prima c'erano state danze giochi e giovani ragazze e studenti, poi si era andati in piazza e c'era tanta altra gente e gruppi che si costituivano lì casualmente, col porto in piazza; e giovani colleghe che mi danno una mano, e colleghi che mi porgono una mano per uscire dall'acqua.
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Mi son fatta silenzio
quando avevi bisogno
di ascoltare i tuoi mostri urlare.
Mi son fatta arte
quando i tuoi occhi
bramavano meraviglia.
Mi son fatta piccola
quando non c’era spazio per me,
e mi son fatta enorme
quando da solo
non riuscivi a riempire
i contorni del tuo corpo.
Mi faccio
leggero foglio di carta,
ora
per farti scrivere
ciò che sarà di noi.
Ti sono lieve
per non darti il peso
della responsabilità.
Così, bianca
puoi riempire ogni spazio.
Non avere paura
accartocciami
incendiami.
La magia dell’amore
è che non sarò mai cenere.
Tornerò sempre
a essere me stessa
e mi ritroverai
sorridente, ad aspettarti.
Perché tra tutte le forme
quella che s’incastra meglio
tra le braccia tue
sono io.
La signorina nessuno - Giorgia Soleri
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AVERE TRUMP E HARRIS ALLA CASA BIANCA NON E' INDIFFERENTE
La campagna elettorale per la Casa Bianca é una fiera dell’assurdo, un teatro delle finzioni, un amusement per i trumpiani che gabbano gli elettori. Che gabbano, soprattutto, la sinistra “vera” dovunque. E l’assurdo si fa indifferentismo: che vinca Donald Trump o Kamala Harris poco importa poiché la Casa Bianca sta dalla parte di Israele comunque. Fuori degli States, questa logica riluce di anti-americanismo. E, quindi, Harris e Trump “pari son”. Negli States, il risvolto di questo “lack of trust” si materializzerà probabilmente nella scelta di molti arabo-americani democratici di astenersi dal voto, con l’illusione di non votare per Trump. E “gli sciagurati” gli faranno un grosso favore. Beffati, avranno in cambio quel che piú temono.
Non votanto per Harris non fermeranno il massacro in corso a Gaza, in Cisgiordania e in Libano. Lo agevoleranno. Trump è stato sempre molto chiaro: sta completamente dalla parte del governo di Israele. Ha sempre parlato senza lingua biforcuta -- a ragion del vero, questo vale per tutte le questioni incendiarie da lui sostenute, come l’odio per gli immigrati, il disprezzo per gli europei, la misogenia, il machismo (ricordiamo quando nel corso della campagna del 2016, disse che la sua pratica con le donne era “grab the pussy”?).
Nel corso del suo primo mandato come presidente, Trump ha preso una decisione epocale piena di significato: ha spostato la sede dell’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, un gesto che intendeva gettare al macero la politica dei due popoli e due stati. Ora che le armi e la distruzione hanno reso quella politica una chimera, la posizione di Trump come “protettore” di Israele si manifesta col sostegno pieno alla guerra di religione di Netanyahu. Al quale Trump ha sempre detto di “fare ciò che deve”, di "andare avanti" con la pulizia etnica della terra del popolo di Dio. E Netanyahu ha ricambiato diventando uno dei capi di governo piú impegnati nella sua rielezione di Trump (l’altro grande supporter è Vladimir Putin).
Vi è un'altro particolare che non puó sfuggire agli arabo-americani democratici che pensano di astenersi dal votare Harris: fin alle prime mosse della sua presidenza, Trump ha perseguito una dura politica anti-islamica. Del resto, l'islamofobia è sempre stata la carta di identità dell’internazionale dell’estrema destra. Giorgia Meloni gridava nei suoi comizi (e lo scrisse nel programma elettorale del suo partito nel 2022) di difendere la “tradizione giudeo-cristiana”
contro quella “islamica”. Intervenendo al congresso dei camerati spagnoli di Vox alcuni anni fa, ha urlato le stesse parole usate da Trump. Oggi Meloni sussurra l’islamofobia, evidentemente perché l’Italia ha una dipendenza energetica strutturale dall’estero e i dirigenti dell’Eni la seguono come un’ombra nei suoi viaggi nei paesi produttori di petrolio, che sono per lo piú di reglione islamica.
Il potere imperiale di cui godono gli Stati Uniti consente a Trump di essere meno diplomatico, e quando puó ridicolizza il popolo di Allah. Il primo decreto presidenziale che firmó nel marzo 2017 fu contro gli ingressi di mussulmani (anche per turismo) ovvero dei cittadini di Iran, Siria, Sudan, Yemen, Somalia e Libia. La sua prima prova di forza contro la magistratura, l’inizio delle ostilità contro la divisione dei poteri, fu all’insegna della islamofobia.
Prevedendo gli esiti del non-voto, cento leader arabi dell'Arizona hanno rilasciato alcuni giorni fa una dichiarazione che invita i cittadini di origine araba a leggere bene le dichiarazioni dei candidati. Il 13 ottobre scorso, si dice nel documento, lo stesso giorno in cui l'amministrazione Biden minacció di riconsiderare il sostegno militare se Israele non avesse migliorato le condizioni umanitarie a Gaza e ridotto le vittime civili nei successivi 30 giorni, Harris ha twittato: “Israele deve urgentemente fare di piú per facilitare il flusso di aiuti a chi ne ha bisogno. I civili devono essere protetti e avere accesso a cibo, acqua e medicine. Il diritto umanitario internazionale deve essere rispettato”. E nel suo comizio in Michigan, davanti a una platea numerosa di arabo-americani, Harris ha usato espressioni forti di empatia per le sofferenze del popolo palestinese e libanese; e si è impegnata a fare “tutto ciò che è in suo potere” in qualità di Presidente “per porre fine alla guerra a Gaza” e per “un futuro di sicurezza e dignità per tutti i popoli della regione”. Il documento suggerisce infine di ragionare politicamente: “le decisioni di Harris come presidente saranno influenzate dalla più ampia coalizione del Partito Democratico, che comprende una forza crescente che spinge per i diritti umani dei palestinesi”. Chissà se il pensare politico vincerà sull’assurdo.
Nadia Urbinati
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TORTA DI PANE E MELE AL CARAMELLO
Dosi x 8 pers:
140 g di Farina - 6 Mele Stayman - 60 g di Mandorle tritate -
1 Arancia bio - 330 g di Yogurt bianco intero - 250 g di Pane raffermo - 4 Uova - 130 g di Zucchero semolato - 2 cucchiai di Zucchero di canna - 650 ml di Latte intero - 1 cucchiaino raso di Cannella in polvere - 1 bustina di Lievito per dolci - Sale.
Per la decorazione:
160 g di Zucchero semolato - 1 cucchiaino di Cannella in polvere
80 ml di Acqua.
Scaldate il latte con la scorza di arancia grattugiata (senza la parte bianca, che è leggermente amarognola) e spegnetelo prima che bolla. Fatelo intiepidire e versatelo in una ciotola capiente; aggiungete il pane spezzettato e lasciatelo ammorbidire. Sbriciolatelo con la punta delle dita, dovrà risultare morbido ma il latte non dovrà colare.
Lavate le mele, sbucciatele e tagliatele a pezzettini; mettetele via via in una seconda ciotola con il succo dell’arancia filtrato, la cannella e mescolatele. Trasferitele poi nella ciotola con il pane e rimestate.
Sbattete leggermente le uova insieme allo zucchero semolato e un pizzico di sale, usando una frusta a mano, poi unite lo yogurt e mescolate ancora. Versateli nel composto di pane e mele, quindi unite anche le mandorle tritate; setacciatevi la farina con il lievito, mescolando con una spatola.
Foderate uno stampo a cerniera del diametro di 22 cm, con un foglio di carta da forno, bagnato e strizzato, facendolo aderire bene a fondo e pareti. Versate il composto ottenuto, battendolo leggermente per far uscire eventuali bolle d’aria; cospargetelo con lo zucchero di canna, mettetelo in forno già caldo a 180°C (funzione statica) e lasciatelo cuocere per circa 40 minuti, finché sarà gratinato sulla superficie.
Mentre la torta cuoce, preparate il caramello morbido. Versate lo zucchero e la cannella in un pentolino con il fondo spesso e i bordi alti. Cuocetelo su un fornello piccolo e a fiamma molto bassa, in modo che la fiamma non lambisca le pareti; mescolate lentamente con un mestolo in legno. Lo zucchero all’inizio cristallizzerà ma poi, poco alla volta, tornerà liquido. Se vi accorgete che lo zucchero tende a scurire, togliete il pentolino dal fuoco, sempre mescolando; rimettetelo sul fuoco e continuate così finché lo zucchero si sarà sciolto.
Poco prima che lo zucchero si sia sciolto del tutto, fate bollire dell’acqua (metà rispetto al peso dello zucchero) in un tegamino, spegnete e mettete il coperchio.
Quando lo zucchero sciolto ha assunto un colore ambrato, levate il pentolino dal fuoco. Mettete il coperchio, lasciando solo una piccola fessura: versate da lì l’acqua bollente, piano e in varie riprese. Fate molta attenzione, proteggete anche le mani con dei guanti in modo da non scottarvi. Appena il composto smetterà di bollire, mescolate con un mestolo in legno e tenete sul fuoco altri 2 minuti. Fate raffreddare il composto che diventerà viscoso.
Fate intiepidire leggermente la torta e decorate la superficie con il caramello; tagliatela a fette e servitela.
By: https://spadellandia.it/dessert/torte-e-crostate/torta-di-pane-alle-mele-e-caramello/
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