occhialeecaschetto
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occhialeecaschetto · 7 months ago
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Chissà quante volte, nei prossimi giorni, mesi e anni, mi toccherà ascoltare, declinata in varie versioni, la frase udita stamattina:
- È salita di nuovo la Meloni?! Vadano affanculo tutti! Ho fatto bene a non andare a votare! -
Eh sì, una vera genialata!
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occhialeecaschetto · 7 months ago
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Vannacci sul palco della Lega a Roma rievoca il “Presente”: “I nonni morti sul Carso oggi lo gridano più forte”
Vannacci sul palco della Lega a Roma rievoca il “Presente”: “I nonni morti sul Carso oggi lo gridano più forte” https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/06/06/vannacci-sul-palco-della-lega-a-roma-rievoca-il-presente-i-nonni-morti-sul-carso-oggi-lo-gridano-piu-forte/7577720/
E certo, i morti sul Carso di 80 anni fa sono molto più importanti delle centinaia di morti sul lavoro che ogni anno insanguinano l'Italia.
Per onorare i defunti di ieri Vannacci è pronto a prendere provvedimenti, per impedire le morti di oggi, invece, non muove manco un mignolo.
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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Gennaio 2024
di Carlo Romano.
Ci sono post sconsigliatissimi dalla netiquette, il regolamento non scritto – ma molto sentito dagli utenti - del bon ton e della tolleranza social. Ma, a quanto pare, sono inevitabili. Eccoli piovere puntualmente sul web, per citare Boris, “così de botto, senza senso”.
L’ultimo della lunghissima collezione è apparso 2 giorni fa su Stappamamma, frequentatissima pagina Facebook. Nata come punto di incontro virtuale delle mamme di Roma Nord, ha presto allargato i suoi confini al resto della Capitale.
È su questo gruppo di 48 mila genitori che si scambiano in continuazione informazioni e consigli, che da qualche ora si è abbattuto il post di un’utente. Sfondo simil tramonto, nel mezzo quattro parole: “Cerco filippino riordino casa”.
Il post, letto dal popolo di Stappamamma come un tragicomico misto di ignoranza e razzismo, è diventato un instant meme. Una figuraccia da condannare, ma anche di cui ridere.
“Poteva scrivere che aveva bisogno di una persona per aiuto domestico e che se fosse stata di origine Filippine sarebbe stato gradito, magari per esperienze pregresse. Ma non tutti i filippini puliscono bene, non tutti gli egiziani sanno fare la pizza e così via”, si legge nel commento più pacato.
Il resto è un’unica grossa collettiva presa in giro. “Non sono filippino, ma posso venire se avete casa libera”. E ancora: “Sono il filippino, m’ha cercato qualcuno?”. C’è pure chi ribalta ruoli e nazionalità: “Cerco italiana come filippina”.
La pioggia si fa cascata: “Cerco jamaicano per togliere le ragnatele”. E poi un “cerco cubano per riordinare bene” e un “cerco pompiere australiano per amica”. Il sunto? Eccolo qui: “Cerco italiana con livello culturale sopra al minimo”.
I commenti continuano, ce ne sono a centinaia. E allora vale il consiglio di una sapidissima utente di Stappamamma: “Nell’attesa dei commenti ho disdetto Netflix e comunque ho commentato solo per tenere alto il post così finisco i pop corn”
A questo punto resta solo una domanda senza risposta: la signora del post che ha dato il via alla tempesta alla fine (indipendentemente dalla nazionalità) avrà trovato un collaboratore domestico?
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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di Pasquale Pugliese
 9 Gennaio 2024
Sul Fatto Quotidiano del 6 gennaio, Cosimo Caridi (“Altri 500mila al fronte”. In migliaia tentano la fuga) ha raccontato i tentativi di fuga in massa dei giovani ucraini di fronte alla necessità del governo di inviare al fronte altri 500mila soldati, abbassando l’età della coscrizione ai 25 anni e obbligando all’addestramento alla guerra tutti i maschi che abbiano compiuto 18 anni, che non possono comunque lasciare il paese fino ai 60. La polizia che ferma i giovani alla frontiera con la Polonia e li costringe all’arruolamento sembra far crollare, dopo due anni di guerra alimentata dalle armi occidentali, sia la retorica della “resistenza di popolo” all’invasore russo sia quella della “controffensiva fino alla vittoria” prodotte dal governo ucraino e rilanciate acriticamente anche dalla maggior parte dei media italiani.
Non a caso alla fine del 2023 anche l’Ufficio europeo per l’obiezione di coscienza, la War Resisters’ International (di cui è sezione italiana il Movimento Nonviolento) e l’International Followship of Reconciliation (di cui è sezione italiana il Mir) hanno espresso congiuntamente “profondo disappunto e grave preoccupazione per le continue vessazioni nei confronti degli attivisti pacifisti e degli obiettori di coscienza, compresi i procedimenti giudiziari arbitrari e le sentenze ingiuste” in Ucraina. Come, del resto, avevano già fatto anche per la messa fuorilegge del movimento degli obiettori di coscienza in Russia.
L’obiezione di coscienza e i tentativi di diserzione sono importanti segnali che anche la società civile ucraina manifesta stanchezza e insofferenza per la continuazione di questa guerra, nonostante la massiccia propaganda bellica messa in campo da governo e media, insieme ai pervasivi dispositivi di “disimpegno morale” dispiegati in questa come tutte le guerre – e diffusi, ovviamente, anche in Russia, oltre che in Israele e tra le milizie di Hamas – per convincere pacifici cittadini a trasformarsi in combattenti. Questi dispositivi sono stati ampiamente studiati dallo psicologo sociale statunitense Albert Bandura (Disimpegno morale, 2017) anche per spiegare come avviene la riformulazione etica dell’omicidio, grazie alla quale i soldati possono sentirsi liberi di uccidere superando la censura morale che vieta la violenza. E’ utile riepilogarli qui di seguito.
1) Giustificazioni morali, sociali ed economiche che nobilitano la violenza con scopi onorevoli e fini meritori (è il classico principio del fine che giustifica i mezzi).
2) Linguaggio eufemistico per mascherare la violenza, non nominandola, depotenziandone la carica di colpevolezza (per esempio, definire le vittime civili “effetti collaterali”).
3) Confronto vantaggioso volto all’autoassoluzione attraverso la comparazione della propria violenza con quella sempre più efferata e intenzionale attribuita al nemico.
4) Spostamento della responsabilità su qualcun altro a cui si è obbedito, minimizzando il proprio ruolo (è la linea difensiva dei gerarchi nazisti a Norimberga e di Eichmann a Gerusalemme).
5) Diffusione e diluizione della responsabilità su più soggetti agenti (“lo hanno fatto tutti”): è lo strumento di discolpa nella violenza di branco.
6) Minimizzare e trascurare gli effetti dannosi delle proprie azioni: se i danni procurati non sono degni di nota svanisce anche il senso di colpa per le conseguenze.
7) Deumanizzazione del nemico, grazie alla quale si annullano gli scrupoli a compiere violenza negando l’umanità di chi la subisce.
8) Attribuzione della colpa: nell’escalation del conflitto si seleziona un atto ostile dell’altro e lo si considera come provocazione iniziale, scaricando su di esso la responsabilità delle conseguenze.
E’ grazie alla messa in campo di questi dispositivi culturali, con modalità sempre più sofisticate fornite dallo sviluppo dei media, che nel corso dei secoli, aggiunge Bandura, “persone ordinarie e perbene hanno compiuto molti atti distruttivi in nome di ideologie, principi religiosi, dottrine sociopolitiche e imperativi nazionalistici”, attraverso l’interiorizzazione del convincimento che in guerra uccidere il proprio simile non è omicidio ma atto di eroismo.
E’ proprio questo il meccanismo che rifiutano gli obiettori di coscienza al servizio militare, rigettando il doppio standard etico tra violenza privata e violenza pubblica. Come Tal Mitnick, il diciottenne refusenik israeliano in carcere dal 26 dicembre scorso per le seguenti ragioni: “Credo che il massacro non possa risolvere un massacro. L’attacco criminale contro Gaza non riparerà il terribile massacro compiuto da Hamas. La violenza non risolverà la violenza. Ed è per questo che rifiuto”. Anch’egli sostenuto dalla Campagna italiana di Obiezione alla guerra, a cura del Movimento Nonviolento. Tal e gli altri, a tutte le latitudini, sono giovani che rifiutano le sirene del disimpegno morale che inducono a compiere la banalità del male della guerra, e contemporaneamente assumono su di sé la responsabilità del bene della pace, pagandone personalmente le conseguenze.
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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Quelli che “I giovani non hanno voglia di lavorare”. Ecco i casi più eclatanti dell’ultimo anno
di Charlotte Matteini | 31 DICEMBRE 2023
I giovani non hanno più voglia di lavorare. Quante volte abbiamo sentito questa frase nell’ultimo anno? Anzi, se volessimo essere veramente precisi dovremmo dire negli ultimi anni. La risposta corretta è svariate decine, se non addirittura centinaia di volte. Perché questo refrain è diventato una sorta di vero e proprio genere letterario che da molto tempo, ormai, riempie le pagine dei giornali e fornisce molteplici spunti di polemica ai talk show di ogni rete nazionale e locale, arricchito dalle innumerevoli interviste a grandi chef, imprenditori e Vip – da Alessandro Borghese a Flavio Briatore passando per Claudio Amendola, per citarne solo alcuni – che dalle colonne di prestigiose testate giornalistiche confermano l’allarme: i giovani non hanno più voglia di lavorare, i giovani non hanno più spirito di sacrificio.
Esiste uno sconfinato archivio di articoli giornalistici dedicati al filone “i giovani non hanno più voglia di lavorare” ma ce ne sono alcuni che meritano di essere citati perché estremamente rappresentativi di questa distopica narrazione. Per esempio, nel 2021 un titolone sconquassa le ferie estive delle redazioni di mezza Italia: “Cerco camionisti a 3000 euro al mese ma nessuno vuole lavorare”. Ben presto si scopre che le condizioni strombazzate a mezzo stampa non erano esattamente quelle realmente offerte a coloro che avevano provato a proporsi all’azienda in questione. Menzione d’onore, poi, per l’azienda veneta che a mezzo stampa, e a più riprese nel corso degli anni, si è lamentata di non riuscire a trovare giovani operai e che nel 2021 abbiamo ritrovato invischiata in una brutta indagine per caporalato. Ovvero sfruttamento di lavoratori.
Ma passiamo al 2022 e 2023, gli anni della serie infinita di imprenditori che si lamentano di non riuscire a trovare lavoratori desiderosi di sperimentare una meravigliosa esperienza durante la stagione estiva e di commercianti e industriali che cercano disperatamente dipendenti rigorosamente giovani. “Offro 1.500 euro al mese ma i giovani non vogliono lavorare”, dichiara un ristoratore che racconta di aver dovuto chiudere il negozio appena inaugurato. “Offro fino a 2.000 euro al mese ma non trovo giovani disposti a lavorare”, afferma invece un imprenditore pugliese di altro settore che successivamente racconta di essere stato letteralmente invaso dai cv dopo l’intervista rilasciata a tv e quotidiani. Sconvolgente, chi l’avrebbe mai detto. Il filone diventa dunque copione: più queste lamentele finiscono dritte dritte in prima pagina sui giornali, più iniziano a moltiplicarsi sui social i post di titolari che raccontano di offrire opportunità di lavoro e di non riuscire a trovare nessuno, post che immancabilmente vengono ripresi dalla stampa locale e nazionale per alimentare il dibattito, provocano una corsa all’invio di cv da ogni parte d’Italia, dando vita a un meraviglioso filone narrativo che ricorda tanto il “paradosso del gatto imburrato”.
Ma proseguiamo, perché di esempi da analizzare ce ne sono molti e non sempre gli effetti della pubblicità mediatica hanno sortito gradevoli conseguenze: ricordiamo, per esempio, l’intervista all’imprenditrice milanese che dava addosso ai giovani fannulloni e che, purtroppo per lei, le si è rivoltata contro perché nel giro di pochissimi giorni si è scoperto, grazie alla testimonianza di una ex lavoratrice, che le condizioni proposte non erano esattamente così allettanti come aveva fatto credere. Altra menzione d’onore per il titolare di una storica pasticceria milanese che ha raccontato di essere costretto a chiudere per mancanza di giovani disposti a lavorare. Anche in questo caso, insomma, le ragioni della chiusura della storica bottega erano decisamente altre e a raccontarle sono stati gli stessi clienti del circondario.
Nel frattempo, nel corso degli anni si moltiplicano le testimonianze di lavoratori di ogni genere ed età che raccontano per quale motivo, ad esempio, sono fuggiti dal settore del turismo e della ristorazione o da svariate attività commerciali dal Sud al Nord, raccontando di paghe da fame, contratti irregolari, turni massacranti e ogni tipo di irregolarità esistente. Condizioni di irregolarità che sono comprovate non solo da una marea di inchieste giornalistiche sul tema ma anche e soprattutto dai dati emersi dagli ultimi rapporti di vigilanza dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro che hanno rivelato, anzi sarebbe più corretto dire confermato, che in Italia l’incidenza di irregolarità a livello nazionale è pari al 67% e che la “Palma d’oro” del settore che presenta la maggior percentuale di irregolarità è assegnata proprio a quello del turismo e della ristorazione con il 76% a livello nazionale e punte del 95% al Sud. Non che nel commercio e nel terziario la situazione sia migliore, sia chiaro, ma colpisce che il settore considerato più irregolare corrisponda esattamente a quello che fa più fatica a trovare personale e che più si è lamentato di questa difficoltà a mezzo stampa. Che coincidenza.
Come abbiamo già raccontato su Ilfattoquotidiano.it, questo genere letterario che narra dell’atavica mancanza di voglia di lavorare dei giovani affonda le sue radici in un passato ben più remoto degli anni post-pandemici: facendo una ricerca storica negli archivi dei maggiori quotidiani italiani emergono infatti decine di articoli che puntano il dito contro quelli che giovani lo sono stati negli anni ’50, ’60, ’70, ’80, ’90, ovvero gli attuali settantenni, sessantenni, cinquantenni e quarantenni che oggi sembrano essersi cambiati di casacca dismettendo gli abiti delle vittime e passando a quelli dei carnefici che umiliano gli odierni giovani senza minimamente prendere in considerazione una serie di fatti inoppugnabili, tipo che le condizioni offerte ai giovani degli ultimi dieci anni abbondanti sono spesso al limite dello sfruttamento, che di giovani lavoratori ce ne sono sempre meno perché si fanno sempre meno figli perché, caso strano, è difficile mantenerli senza stipendi dignitosi e contratti stabili, e che in realtà i dati Inps dimostrano che la percentuale di forza lavoro giovane nel 2023 si attesta al 38% rispetto alla platea totale degli assunti, in crescita costante da almeno 4 anni a questa parte.
Come avevamo già spiegato nel maggio scorso, secondo i dati dell’Osservatorio Precariato dell’Inps, la percentuale di giovani under 29 assunti con contratti stagionali ammontava al 37,7% nel 2019 ed è andata via via aumentando nel corso degli anni fino ad attestarsi al 38,6% del 2022, segnando peraltro, sempre nel 2022, il record storico di assunzioni stagionali pari a 1.018.089 contratti, quasi 100.000 in più rispetto all’anno precedente e poco meno del doppio rispetto al 2017. Se la situazione era questa per l’anno 2022, i nuovi dati dell’Osservatorio dell’Inps confermano in pieno questo trend perché comparando le assunzioni di giovani under 29 dei primi 9 mesi dell’anno con quelle dello stesso periodo degli anni precedenti scopriamo che i giovani under 29 sono il 38,2 della forza lavoro totale con 2.402.821 assunti su 6.271.872, con una grande differenza in termini di qualità dell’occupazione, perché quella dei giovani è trainata per lo più da contratti a termine, stagionali e intermittenti mentre quella dei lavoratori 30-50 e 51+ da contratti a tempo indeterminato, a termine e in somministrazione
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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Da "Il Fatto Quotidiano"
Una mobilitazione segreta – È di questi giorni la notizia che il Cremlino ha alzato la quota di soldati per il reclutamento annuale dai 250-260mila previsti prima della guerra a 420mila, numero messo nero su bianco nel piano annuale di reclutamento dei coscritti, anche se in precedenza era stato promesso di fermarsi a 300mila. Non si tratta, ovviamente, di una sola ma di più classi di età, dato che trovare quasi mezzo milione di potenziali soldati tra i 700 mila maschi nati nel 2005 sarebbe una missione impossibile: la Duma, il parlamento russo, ha votato per aumentare l’età massima alla quale gli uomini possono essere arruolati da 27 a 30 anni, aumentando il numero di giovani soggetti a un anno di servizio militare obbligatorio. Così, dal 1° gennaio 2024, i cittadini di età compresa tra 18 e 30 anni saranno chiamati al servizio militare e se rifiuteranno o ignoreranno la notifica dell’arruolamento, dovranno pagare una multa che per la maggior parte dei russi equivale a un mese di salario, oltre ad affrontare il carcere per le responsabilità penali connesse. La legge, che presto sarà firmata dal presidente Vladimir Putin, vieta inoltre di lasciare il Paese una volta ricevuta la chiamata alle armi. I coscritti, in teoria, non possono essere legalmente schierati per combattere fuori dalla Russia e sono esentati dalla mobilitazione del 2022: tuttavia, dato che la maggior parte delle battaglie avvengono in quattro regioni ucraine formalmente annesse dalla Russia, pur in assenza di riconoscimento a livello internazionale, mogli e madri hanno la certezza che i loro uomini, sia pure con scarso addestramento, possono essere inviati in battaglia senza alcuna possibilità di appello.
La spesa militare cresce – Per il prossimo anno il Cremlino sta pianificando la propria legge di bilancio pensando all’Ucraina, destinando il 38,6% del budget alle forze armate e alla guerra: si tratterà di un impegno non da poco in un paese in cui la spesa pubblica è due quinti di quella italiana e il cui Pil pro-capite è di un quarto inferiore a quello della Calabria. A mitigare il bagno di sangue (anche) finanziario contribuirà il keynesismo militare: l’aumento della produzione industriale a scopi bellici e l’impiego (forzoso) di molte centinaia di migliaia di disoccupati come soldati hanno avuto un impatto fino ad ora benefico sul mercato del lavoro, almeno dal punto di vista formale.
Le colossali perdite russe – Ma perché dopo aver chiamato alle armi quasi mezzo milione di soldati appena un anno fa, Putin ha ancora fame di truppe in grande quantità? La lettura dei dati raccolti e analizzati sulle perdite di equipaggiamenti russi e ucraini turba il Cremlino, ma mette in ansia anche le madri e le mogli dei soldati di entrambe le parti. Tuttavia si tratta soprattutto quelle dei russi per il semplice fatto che sono quasi tre volte e mezzo rispetto alle ucraine, pur essendo la guerra combattuta in Ucraina. Le perdite di materiali e mezzi conducono a una conclusione che lascia pochi dubbi: fare il militare è un lavoro pericoloso, ma farlo tra le truppe di Mosca lo è molto di più, dato anche il metodo di attacco con sanguinosissime meat wave (letteralmente, ondate di carne da cannone), veri e propri assalti di massa con perdite incredibili usati come niente fosse dagli ufficiali di Mosca. A vederli, uno capisce perché le guerre con gli zar e Stalin causarono perdite impressionanti. Così, osservare i campi di battaglia è come attraversare un immenso cimitero bianco, rosso e blu: se da decenni il rapporto tra ogni carro armato distrutto (o catturato o abbandonato) e le perdite di personale (intese come soldati morti, feriti gravemente, caduti prigionieri o dati per dispersi) è di uno a sei, allora gli oltre 2.400 tank russi distrutti e scoperti sul terreno hanno portato con sé la vita di quasi 15 mila uomini. Lo stesso hanno fatto i quasi 1.600 veicoli cingolati da combattimento di tipo BMP-1 e BMP-2 distrutti in Ucraina a danno di circa 13 mila combattenti russi. Per non dire degli 829 autocarri da trasporto tattico Ural-4320, la cui distruzione ha coinvolto come minimo 20 mila soldati dell’enorme paese euroasiatico. Fatte le somme, solo per i mezzi citati quasi 50 mila russi tra i diciotto e i sessant’anni hanno perso la vita o la salute fisica e mentale. Mancano da questo conto le perdite nelle trincee, negli assalti in campo aperto, nei combattimenti tra boschi e in aree urbane, nei depositi e nelle caserme colpite dai missili, sulle navi affondate da un paese, l’Ucraina, ufficialmente privo di Marina militare e di aerei ed elicotteri in missioni di combattimento o logistiche. Mancano nei numeri ma sono nelle menti di chi, madri e mogli, li attende a casa.
Guai a chi si lamenta – Tragedia si somma a tragedia: non esistono piani per la smobilitazione dei militari. Ultimamente, le lamentele per la mancanza di rotazione sono diventate più frequenti ma per forza di cose sono state limitate ai social media: le (pochissime) mogli dei mobilitati che hanno osato manifestare davanti agli uffici di reclutamento sono state duramente represse, così come sono state messe fuori gioco, definendole agenti stranieri, le associazioni di genitori e parenti dei soldati. Mentre in Ucraina decine di manifestanti hanno potuto radunarsi per le strade delle città per chiedere un limite di 18 mesi al servizio militare obbligatorio e la possibilità per i combattenti di “tirare il fiato”, in Russia ogni tentativo di protesta ha portato mogli e madri davanti ai tribunali col rischio di anni di prigione.
420.000 reclute sono molte o no? – Alla luce di tutto ciò, il numero enorme di coscritti non sembra destinato ad avere un impatto immediato sulla guerra, almeno fino all’estate del 2024: prima di tutto perché per formarli ci vorrà come minimo un anno. Poi, per la questione del morale: Ivan Ivanov – cioè il Mario Rossi russo – sa che più sono i suoi commilitoni più i generali pianificheranno le meat wave. Sentito sul tema, il generale americano Ben Hodges, uno dei massimi esperti sulla guerra russo-ucraina, ha subito messo le mani avanti: “Gli Stati Uniti, pur con una popolazione più numerosa di Vietnam e Afghanistan, hanno perso entrambe le guerre. In definitiva, si tratta tanto di volontà politica quanto di logistica e morale. Napoleone disse: “Il morale sta al numero come tre sta ad uno”.
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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ATTUALITÀ
Dovremmo davvero vietare ai bambini di andare al ristorante? Decidetevi: o volete l'educazione affettiva, o quella militare
19 dicembre 2023
“Quei bambini spaventosi dalle urla animalesche", si legge riguardo a un ristorante su Repubblica. Lo stesso giornale su cui si trovano appelli all'introspezione della "educazione affettiva". Ma allora è il caso di decidersi: i bambini sono da tutelare o da cacciare dai locali? Volete l'educazione affettiva o quella militare? Non sarà che forse, come tutto, è solo una questione di genitori ricchi e genitori poveri?
di Jacopo Tona
Come se fosse difficile avere sempre qualcosa da raccontare, è diventata prassi comune sui principali quotidiani nazionali raccogliere e citare i commenti presi dai social. In un circolo vizioso di “controboomerismi”, potremmo dire che, se una volta portavi a casa il giornale e ci trovavi dentro il commento dell'intellettuale di turno, adesso apri il link della notizia, sullo stesso giornale, e ci trovi dentro i commenti dello zio Antonino, fresco fresco di spritz, della compagna di classe irrancidita dal mondo, del collega incazzato con la vita ma sempre pronto a farsi bello con il capo, della zia cinofila fondamentalista e misantropa. Se la nuda notizia è la parte di impatto, la componente semplicemente emozionale della comunicazione, il commento, in teoria dovrebbe servire a stimolare, raddrizzare la prima sensazione verso una qualche sorta di riflessione. Peccato che se segui la strada di uno che guida dopo essersi scolato dieci Campari col gin, in un attimo ti ritrovi in mezzo a una sventagliata di patologismi che farebbero venire le orecchie alle pagine del Dsm, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Ma il peggio è che, a volte, chi raccoglie i commenti per farne un articolo ci mette anche del suo, e qui le cose si complicano. In peggio. Il dieci dicembre sul sito di Repubblica è stato pubblicato un articolo dal titolo “Quei bambini spaventosi dalle urla animalesche: lo sfogo del ristorante sushi diventa un caso”. Ma sorvoliamo sull'ossimoro dei bambini spaventosi, soprassediamo sul fatto che i piccoli umani, tecnicamente, sono animali, passiamo oltre al fatto che un ristorante sushi non si può sfogare. Casomai, il ristoratore. Ma passiamo al succo. Anzi, al sushi, il cui dramma ci consente di fare un volo pindarico sulla cultura contemporanea, come se fosse un viaggio in aereo seduti al posto centrale, e da un lato hai Crepet e dall'altro nonno Elkann che legge Proust. Davanti, il generale Vannacci che reclina tutto lo schienale contro di te. Cito da Repubblica: “I piccoli portati a cena fuori nel posto sbagliato, quelli che per tossico e ancestrale senso di colpa definiamo esuberanti e vivaci, invece che fuori controllo, ineducati, maleducati. Ai cani, sculacciate, ai bimbi iPhone e iPad in mano. Così va”. 
Piccola premessa: sono letteralmente intossicato dalla tossicità dell'utilizzo tossico della parola tossico, al punto che ogni volta che la trovo infilata in un discorso mi scatta un alert in testa, il quale mi segnala la possibilità di un discorso che cerca di nascondere una mancanza di contenuto sotto il tappetino della terminologia mainstream. Ora, è novità degli ultimi anni il fatto che si sia creata una distinzione tra posti per famiglie e posti dove la famiglie non possono accedere. Molti ristoranti e alcuni hotel applicano questa sorta di discrimine, che posso anche capire nel caso in cui negli esercizi commerciali in oggetto si svolgano attività strettamente adulte. Però, c'è qualcosa che non mi torna nel caso dei ristoranti. Perché un ristorante sushi, come suggerisce l'articolo di Riccardi, dovrebbe essere un posto sbagliato per i bambini? Anche se volessimo ammettere, come è implicito nel virgolettato che ho copiato poco sopra, che tutti i bambini sono potenzialmente esuberanti e vivaci ergo ineducati e maleducati, ciò equivarrebbe a ignorare il fatto che una buona fetta di ragazzini è Adhd, ovvero (prendo senza falsi pudori da Wikipedia) soffre di un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da problematiche nel mantenere l'attenzione ed eccessiva attività e/o difficoltà nel controllare il proprio comportamento. Vivendo nell'epoca dello stigma, direi che forse viene più facile stigmatizzare una problematica infantile e preadolescenziale, in quanto non abbiamo bambini Adhd influencer tali da poter difendere politicamente il proprio irrinunciabile diritto al sushi. A peggiorare ulteriormente le cose, arriva l'argomento monstre: immaginate la Brambilla, Crepet e il generale Vannacci che si fondono insieme, dando origine al paragone tra i bambini e i cani. La tesi è che ci vorrebbero un'educazione affettiva per i cani e un'educazione marziale per i bambini, come se la figura arcaica del padre severo, che è il concetto cardine del patriarcato, fosse da ripristinare. Curioso, no? Poi c'è il confronto tra le sculacciate ai cani e i tablet ai bambini. 
Non sarà vero che i tablet li dai ai bambini casinisti per farli stare un po' seduti? Allora si vuole mangiare tranquilli e non vedere bambini col tablet? Il massimalismo paga raramente. E se i bambini che l'autrice definisce mini mostri che lanciano bacchette, buttano il cibo, scarabocchiano il menù, non fossero in realtà altro che il B-side di chi li accusa? Nei manuali di pedagogia troviamo due tendenze: l'iperprotezione dei figli e l'iper-responsabilizzazione. Fargli fare tutto ciò che vogliono, oppure vietare tutto. Prolungare l'infanzia o anticipare l'adolescenza. Rimandare l'autonomia del bambino, oppure anticiparla a un periodo in cui non può essere né capita né messa in pratica. Entrambe le tendenze, però, non fanno altro che trasformare il mini mostro in un maxi mostro. La richiesta di voler mangiare in un ambiente dove non ci siano inconvenienti di nessun tipo, infatti, cos'è se non è una domanda di iperprotezione? Allora che differenza c'è tra i bambini indiavolati al ristorante e la tizia che sogna un ristorante senza bambini indiavolati? Entrambi sognano un mondo senza Altri, che magari non siano cani. Peccato che le funzionalità cognitive dei cani non siano le stesse degli umani, e uno dei modi peggiori di amare i cani è quello di volerli pensare come esseri umani. Avete mai portato un gatto, invece, al ristorante? La chicca finale: “Si potrebbe anche dire sottovoce che almeno i ristoranti giapponesi potrebbero far pagare il sushi come costa in Giappone il ché sarebbe un deterrente per famiglie di insaziabili bambini”. Tradotto: i genitori poveri di bambini poveri sono matematicamente inadatti alla vita civile, dalla quale andrebbe forzatamente esclusi. Però magari la giornalista potrebbe andare da Cracco, se la povertà la urta così tanto. Educare i bambini al rispetto per gli altri vuol dire anche e soprattutto questo: non voler escludere nessuno.
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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Dovremmo davvero vietare ai bambini di andare al ristorante? Decidetevi: o volete l'educazione affettiva, o quella militare - MOW - Mowmag.com
"Dovremmo davvero vietare ai bambini di andare al ristorante? Decidetevi: o volete l'educazione affettiva, o quella militare - MOW - Mowmag.com" https://mowmag.com/attualita/dovremmo-davvero-vietare-ai-bambini-di-andare-al-ristorante-decidetevi-o-volete-l-educazione-affettiva-o-quella-militare
Non so chi ha scritto quest'articolo ma chiunque sia è da santificare subito!
Appoggio ogni singola virgola.
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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Ultim'ora!
Giorgia Meloni, riferendosi alla ripresa economica post-covid sotto il governo Conte, ha detto "Anche un gatto morto sbattuto per terra rimbalza".
Approfitto di questa elegantissima metafora per spiegare l'attuale economia sotto il governo Meloni.
"Anche una pantegana morta sbattuta per terra...no, non rimbalza. Rimane ferma stecchita lì dov'è. Mannaggia!"
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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All'inizio del boom economico, i prodotti industriali erano ancora costruiti seguendo la mentalità contadina e artigiana per cui, se un oggetto era fatto bene, doveva essere il più resistente e longevo possibile. Dopo qualche decennio, si resero conto che una volta che tutti avessero avuto la lavatrice, il frigorifero, il televisore, la macchina, il mercato si sarebbe contratto perché a chi sarebbe interessato acquistarne di nuovi?
Se non si volevano chiudere le fabbriche, bisogna farsi venire un'idea nuova. E la novità consisté nel costruire modelli sempre più fragili, che non sopravvivessero più di pochi anni. E il mercato delle persone che vivevano riparando oggetti cominciò a risentirne perché per quanto un elettricista possa essere bravo, aggiustare un elettrodomestico che è già uscito dalla catena di montaggio con gli ingranaggi tenuti insieme dagli elastici, sarà comunque un lavoro raffazzonato. I consumatori se ne resero presto conto. Ha senso fare accomodare il forno che si guasta ogni due mesi quando, sommando i soldi per le riparazioni, posso comprarne uno nuovo?
Poi c'è stato l'asso nella manica, la trovata geniale che ha consentito ai governi di questi ultimi vent'anni di mandare avanti l'economia non solo dell'automobile e degli elettrodomestici ma di qualsiasi settore: pretendere che tutto, periodicamente, venisse sostituito con un modello meno inquinante. E con TUTTO, intendo proprio TUTTO.
Ventinove anni fa i miei genitori hanno acquistato casa. Appartamento nuovo, in condominio appena costruito, dove tutto era "a norma", "a regola d'arte", "a legge". Dieci anni dopo circa, le maniglie di due porte-finestre si ruppero. Fiduciosi, si misero alla ricerca di una maniglia nuova. Non la trovarono. Da nessuna parte. Né nei negozi di serramenti, né dal ferramenta. La spiegazione? "È un tipo di maniglia vecchio, non viene più prodotto." Dopo l'iniziale stupore nello scoprire che un oggetto di soli dieci anni è considerato talmente obsoleto da essere fuori mercato, i miei genitori reagirono con un "Va bene, ci dia una maniglia compatibile da montare al posto suo." "Mi dispiace ma non è possibile, non sarebbe a norma, capisce?" "E io che dovrei fare? Restare con le porte-finestre aperte giorno e notte?!" "Eh, ma sa, quelle porte-finestre sono vecchie, vanno sostituite..." "Veramente, sono in ottimo stato! A parte la maniglia che s'è rotta, la struttura in legno è perfetta!" "Sì, ma non sono isolanti" "Non è vero, hanno i doppi vetri" "Sì, ma non trattengono il calore come quelle odierne" "Guardi che quando le acquistammo erano certificate a norma, isolanti e tutto il resto" "Ma la normativa di dieci anni fa è superata da quella attuale. Ormai sono vecchie. DOVETE cambiarle per legge."
Difendere l'ambiente è cosa buona e giusta peccato che chi ha ideato questa tecnica di vendita fosse più interessato ai guadagni che a combattere l'inquinamento. Siamo sicuri che il continuo spreco di materie prime per produrre, di volta in volta, l'auto catalitica/ l'auto a diesel/l'auto elettrica, l'elettrodomestico di classe A/di classe A+/di classe Asupersayan, la porta-finestra isolante/quella ancora più isolante/quella a chiusura stagna, non finisca per avere sull'ambiente un impatto maggiore che tenerci le vecchie panda a benzina e il forno del 1984?
Per tornare alle porte-finestre, potevano i miei genitori, con ancora un mutuo sulle spalle, sobbarcarsi della sostituzione "per legge" di 5 infissi in legno massello e con i doppi vetri? No. Chiamarono un falegname che come meglio poté, montò le nuove maniglie sulla vecchia struttura. Un lavoro raffazzonato e non per colpa del falegname ma perché era come incastrare a forza due pezzi di puzzle incompatibili fra loro.
Sono trascorsi altri vent'anni e le porte-finestre sono ancora lì, anche le due con le maniglie riattaccate alla meno peggio perché il legno massello e i doppi vetri non sanno di essere stati declassati "per legge" a materiale obsoleto e continuano a svolgere egregiamente il loro lavoro.
Chi non esiste più sono gli elettricisti, i falegnami, i fabbri, impossibilitati a svolgere il loro mestiere in un'economia basata sul "vietato riparare, bisogna sostituire". Impensabile assumessero apprendisti quando faticavano già per conto loro ad arrivare a fine mese. E fra chi aveva figli, quanti avranno detto loro "Fa' un altro mestiere, ma non il mio"?
Sì, si sono estinti i falegnami come (SCOOOOOP!!!!) hanno scoperto alcuni giorni fa dei quotidiani. È emerso che le aziende faticano a trovarli.
Poteva essere un'occasione per domandarci in modo SERIO il motivo di tale carenza di professionisti manuali ma la generazione di adulti a cui purtroppo appartengo non poteva perdere l'occasione di coprirsi di ridicolo anche stavolta così si è sollevato il solito peana:
I GIOVANI NON HANNO VOGLIA DI LAVORARE!
E figuriamoci se non era colpa dei ggggggiovani!
Responsabili loro di tutto, pure del buco nell'ozono, pure della maniglia rottasi vent'anni fa a casa dei miei genitori!
Fra l'altro, pochi mesi fa, i soliti giornali sollecitati dalle solite aziende annunciavano che mancavano un sacco di ingegneri informatici e che questo "è il lavoro del futuro"!
Quindi, per capire, il giovane ideale delle aziende sarebbe uno studente di ingegneria informatica (sì, loro lo vorrebbero già laureato e operativo ma signori miei, studiare richiede anni, fatevene una ragione) che si mantiene agli studi facendo il falegname a tempo pieno. Una richiesta ragionevole, effettivamente. Persino troppo modesta.
Perché non pretendere anche che contemporaneamente alla falegnameria non imbianchino le pareti, infilandosi il manico della pennellessa nell'ano?
Davvero, le aziende di oggi i ragazzi li viziano, chiedono loro così poco!
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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Il padre di Giulia Cecchettin, ai funerali della figlia, ha detto "Mi rivolgo agli uomini, dobbiamo essere per primi agenti di cambiamento".
Non mi risulta che sui social qualcuno l'abbia attaccato scrivendo "Perché non vai in Iran a dirlo agli uomini islamici?"
Evidentemente è molto più accettabile sentirsi dire "dobbiamo cambiare" da un altro uomo che da una giovane donna.
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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Israele, il ministro Sa'ar "Gaza sarà più piccola alla fine della guerra. Chiunque ci attacchi deve perdere territori."
E anche stavolta la risoluzione "Due popoli, due Stati", sarà rispettata in pieno!
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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L'esercito israeliano ipotizza di allagare i tunnel di Hamas con l'acqua di mare. Comportandosi come i bambini quando si accaniscono su di un formicaio. Solo che le loro formiche sono altre persone.
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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Di Marco Travaglio
Mesi fa, all’ennesima lista di putiniani, scrivemmo a mo’ di battuta che presto o tardi tutti avrebbero abbandonato Zelensky e sarebbe toccato a noi, noti servi di Putin, difenderlo. Mai fare battute. Infatti il momento è già arrivato. E il capo delle forze armate certifica la sconfitta sul campo in polemica con Zelensky. Usa e Nato accusano Zelensky di aver perso la guerra (persa in realtà da loro) per non aver fatto di testa sua (invece ha fatto di testa loro). E premono perché tratti dopo averlo spinto a non farlo, anzi a vietare per decreto i negoziati in attesa della disfatta russa, del default di Mosca e della caduta di Putin. Come ha ricordato l’ex premier israeliano Bennett, Biden e Johnson bloccarono l’intesa Mosca-Kiev da lui propiziata per un cessate il fuoco nel marzo 2022: mezzo milione di morti fa. Zelensky rinvia le elezioni del 2024 perché teme di perdere pure quelle, con buona pace della propaganda sul popolo schierato come un sol uomo con lui e con la guerra a oltranza fino all’ultimo ucraino. Sua moglie non vuole che si ricandidi, temendo di restare prematuramente vedova in una guerra civile scatenata dagli oltranzisti nazistoidi che lo ritengono troppo debole e i trattativisti filoccidentali che lo giudicano troppo rigido. Il sindaco di Kiev dice che la famosa democrazia ucraina somiglia alla Russia: noi lo sospettavamo almeno da quando Zelensky mise fuorilegge gli undici partiti di opposizione, ne arrestò il capo, unificò le tv in un solo canale di propaganda ed epurò ministri, generali e autorità locali con accuse di corruzione non suffragate dai magistrati. L’ex presidente filo-Usa Poroshenko tenta di incontrare il filo-putiniano Orbán e i conservatori Usa e Ue, ma viene fermato alla frontiera e accusa Zelensky di “involuzione autoritaria”. Ora, se non lo salva Bruno Vespa, interveniamo noi.
 
 
Ps. Paolo Mieli, polemizzando con un giornale a caso, dice che chi vide giusto fin dall’inizio aveva torto perché, senza le armi Nato e Ue all’Ucraina, Putin sarebbe arrivato a Kiev (o, secondo la teoria Servergnini, a Lisbona). Paolino, non fare il furbo. Nato e Ue non ci competono. Noi abbiamo sempre chiesto che l’Italia non inviasse armi a Kiev (in base all’art. 11 della Costituzione, non poteva farlo e infatti non l’aveva mai fatto in 75 anni con alcun Paese non alleato), ma solo aiuti difensivi, finanziari, sanitari e alimentari. E si facesse mediatrice di una tregua e di un compromesso con S. Sede, Israele, Turchia e Cina per salvare il salvabile di un Paese destinato alla distruzione e al massacro senz’alcuna speranza di sconfiggere la Russia. Quindi non polemizzare con ciò che in questi 21 mesi non abbiamo mai detto, ma con ciò che abbiamo detto. E, se puoi, non scordarti ciò che hai detto tu.
 
Sorgente: L’hanno rimasto solo – Il Fatto Quotidiano
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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Comincio a chiedermi se nei decenni passati, dopo l'ennesimo attentato di matrice terrorista o mafiosa in Italia di cui, inevitabilmente, tutti avremmo parlato, in qualche bar non sia successo che un avventore sia saltato in piedi sbraitando "E delle bombe che l'IRA semina in Irlanda del Nord, non importa a nessuno?".
Se una scena del genere sarà capitata, immagino che le altre persone presenti nel bar l'avranno guardato attonite per poi esclamare "Ma che cazzo c'entra? Questo è un attentato avvenuto in Italia, per mano di italiani e con vittime italiane. Perché dovremmo parlare dell'IRA? A noi la bomba mica ce l'hanno messa gli irlandesi!"
Me lo chiedo perché in questi giorni, su internet, leggo messaggi del tipo "Perché Elena Cecchettin non va a fare le sue prediche sul patriarcato in Iran?" "E del patriarcato islamico, ne vogliamo parlare?".
Giulia era italiana o iraniana?
È stata uccisa in Italia o in Iran?
Il suo assassino è islamico o cattolico?
E allora perché sua sorella Elena dovrebbe parlare dell'Iran e dell'Islam?
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occhialeecaschetto · 1 year ago
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Quando, nel 2001, Erika e Omar uccisero la madre e il fratellino di lei a coltellate, l'Italia restò ovviamente attonita. Meno ovvia fu la reazione che seguì perché per mesi, forse addirittura per anni, adulti e giornalisti continuarono a domandarsi "Cosa sta accadendo ai nostri figli?".
A quei tempi avevo vent'anni e già da un po' di tempo mi ero accorta che il numero di omicidi di donne per mano di uomini stava aumentando. Non so se a quei tempi il ritmo era già come quello attuale, con una media di una donna uccisa ogni tre giorni ma che queste notizie passassero spesso al telegiornale era un dato di fatto. Eppure la società non si poneva la domanda "Cosa sta accadendo ai nostri uomini?" , troppo presa com'era dal chiedersi angosciata "Cosa accade ai nostri figli?" e "Cosa accade ai nostri giovani?" perché due adolescenti dicasi due avevano commesso una strage familiare che era sì terribile ma anche più unica che rara.
I giornalisti erano troppo impegnati a tendere agguati ai pochi casi di parricidio per dare rilievo a tutte quelle donne ammazzate per mano di un uomo. Occorsero anni prima che si cominciasse a notare il fenomeno, altri anni ancora prima che gli si desse il nome di femminicidio e solo recentemente qualcuno si azzarda a scrivere "Cosa sta accadendo ai nostri uomini?".
Scrivo questo perché l'omicidio di Giulia Cecchini per mano di Filippo Turetta mi ricorda il periodo di Erika e Omar. Opinionisti, giornalisti, terapeuti, filosofi, politici e quant'altro approfittano del fatto che Filippo ha 22 anni ed è un figlio per imbastire la loro lezioncina su "È colpa dell'educazione familiare", "La scuola ha fallito, "I giovani sono fragili", " I segnali che i genitori devono cogliere" e via cialtronando, come se il problema fossero i vent'anni di Filippo.
Cari signori e signore, e gli uomini che uccidono a 40, 50, 60, 70 anni e sono vostri coetanei? Cosa mi dite di loro? Anche loro (e voi), come sermona Crepet, appartengono ad una generazione a cui i genitori non dicevano mai di "no" e li giustificavano sempre? Anche loro (e voi, e noi) appartengono ad una generazione fragile? O forse è meglio smettere di parlare di problema generazionale per affrontare il problema sociale?
In questi giorni, le uniche parole sensate sono state quelle di Elena, la sorella di Giulia. E proprio per la lucidità e la determinazione con cui parla sta già raccogliendo tanti commenti di odio verso la sua persona. Non mi stupisce. Tutti bravi a condannare il femminicidio in sé ma ascoltare una ragazza di 24 anni spiegare chiaramente che l'omicidio è solo l'ultimo atto di una lunga catena di eventi e se davvero vogliamo porre termine a questa strage ogni singolo individuo deve assumere su di sé la responsabilità del cambiamento culturale, ecco che molti esponenti della classe dominante (o che ritengono di appartenervi) si sentono punti sul vivo.
Individui e giornali abituati a vivere di stereotipi e a respirare pregiudizi, adesso ci tengono a "mettere i puntini sulle i". Persone abituate a sentenziare "Gli zingari sono tutti ladri", "Le donne sono tutte troie", "Gli immigrati sono tutti stupratori" adesso se ne escono con piccati "Mica gli uomini sono tutti così!". Giornali abituati a pubblicare articoli dello stesso tenore, scontenti di vedersi di vedersi interrompere la narrazione del "raptus omicida", se la prendono col bersaglio sbagliato e titolano "Le femministe sono troppo aggressive" "Macché patriarcato! Smontato il copione della sinistra" e via sproloquiando.
E a proposito di "La colpa è dei ggggggiovani" ( influenzati dal cellulare/dai social/la musica trap/una roba qualsiasi a caso) titolone avvistato oggi "Il 40%dei delitti commesso da chi ha meno di 35 anni" il che vuol dire che ben il 60% è commesso da chi di anni ne ha più di 35. Complimenti per la zappata sui piedi.
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