#voglio una lurida
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falcemartello · 3 months ago
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Che imbarazzo
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falcemartello · 3 months ago
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Traduzione impeccabile
🤣🤣🤣
Ossimoro
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arretoskore · 7 months ago
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I mean, say what you want about j-ax but a couple of Articolo 31 songs did more for my self esteem than years of body positivity movement
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thebestofyourgirls · 3 months ago
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ciao a tutti, questo post lo scrivo perché ieri sera un “uomo” qui su tumblr, dico “uomo” perché avrà circa trentacinque anni (non di meno), mi ha insultata pesantemente.
era solito commentare sotto i miei post, molto frequentemente, con parole come “porca”; oppure scrivermi in chat privata cose oscene.
ho portato pazienza perché odio bloccare gli utenti, anche se viscidi, mi sembra che bloccare sia una bambinata, ma ieri sera non c’ho più visto.
mi ha definita come una “troia”, una da “scopare e basta”; rincarando la dose di stupidità dicendomi che in confronto ad altre ragazze qui, che sono delle dee (secondo la sua opinione), io non sono nulla se non una che è (e cito) “lurida e utile a farsi scopare e svuotare le palle”.
detto ciò, questa notte ho faticato a dormire a causa di queste parole piene d’odio.
chi mi ha conosciuto un pochino sa che in questo blog è mia intenzione mescolare scrittura, foto che definirei “autoriali”, e un po’ di svago.
non voglio che nemmeno osiate pensare che sono una troietta in cerca di attenzioni o altro a causa di alcuni scatti che posto.
detto questo grazie a chi ogni giorno mi fortifica mostrando apprezzamenti verso di me e del mio blog.
un bacio, Ana 😘😔
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licisca-73 · 2 months ago
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Domani niente cinghiate!" mi aveva detto ieri, spiazzandomi.
" Spiazzare"è il verbo più appropriato per due motivi: avevo sicuramente meritato i colpi e non c'è stato un incontro senza segni.
Ho provato a fargli cambiare idea ma inutilmente. Se io sono testarda, lui lo è molto più di me, non a caso i ruoli nel nostro rapporto sono stati chiari fin da subito: lui è dominante e io sottomessa.
"Voglio coccolarti" aveva aggiunto, continuando a spiazzarmi. Non sono abituata alle coccole, bacini sì ma coccole vere e proprie no...In uno stato di incredulità e di imbarazzo lancio la mia provocazione:
"Mi sa tanto che sei follemente innamorato di me" gli scrivo.
Attendo con curiosità la sua risposta che non tarda ad arrivare: "Bella risposta e anche quella giusta". Ecco come disarmarmi.
Con queste premesse ci incontriamo. È un uomo di parola, lo confermo, ma aggiungo che bisogna seriamente analizzare ogni sua parola: vero, infatti, che il mio culo non riporta alcun segno, ma è altrettanto vero che l' incontro è durissimo. Affamata come sono, fin da subito avanzo le mie pretese e con la bocca punto direttamente al cazzo: colpi decisi, grandi conati e tanta saliva ricoprono quella tanto adorata verga. Ne faccio incetta, lo ammetto, e, soltanto quando la mia fica inizia a pulsare reclamando l' affondo, mollo l' osso. Lui mi sbatte con decisione e lei rutta: è ormai una consuetudine quel rumore che le prime volte mi metteva a disagio e oggi mi rende fiera. Dolcezza e durezza si mescolano: colpi decisi e baci, mani che si intrecciano mentre il cazzo "cattivo" apre bene la fica. Ieri non aveva detto niente plug e, pertanto, tira fuori il mio amico rosa e mi chiede di bagnarlo e di indossarlo. Si gira per qualche istante e quando torna da me cerca il plug: lo cerca e non lo trova. Sorrido divertita mostrandogli il nascondiglio: mi ha detto di bagnarlo ma non come farlo e quindi, stavolta, ho usato la mia fica. Incredulo e sorridente mi bacia. Ama i miei colpi di testa, lo so, e mi prodigo per farlo godere mentre i colpi di fica bagnano il plug.
Impalata...E a proposito di impalata come non raccontare l'impalata nel culo? Liberato dal Pink Toy, è arrivato il momento del culo, suo luogo prediletto ove scaricare tutta la sua forza. Lo fotte sempre duramente ma stavolta mi sorprende e mi chiede di impalarmi: col cazzo nel culo sembro una fantina, mi fa notare, e io lo considero un bellissimo complimento data la sua passione smoderata per il mondo dell' ippica. Godo e cavalco fiera mentre lui mi sculaccia e mi incita. Mi emoziona andare su e giù perché, tenetevi forti, è la mia prima impalata nel culo. Ho fatto di tutto, signori e signore, ma confesso che questo mi mancava e, aggiungo, visti i risultati per entrambi, decidiamo di adottarla come buona prassi. Mi ha promesso un incontro dolce e tanto spazio riserva a baci e abbracci, a lunghe chiacchierate, ai concorsi a premi. Lui parla, io lo sbaciucchio e lo accarezzo pensando al premio che a breve mi darà...Dopo altre inculate frontali andiamo in bagno: la premiazione avviene con la mia testa nel cesso. Martella incessante in un culo ormai beatamente distrutto fino alla sborra: adoro sentirlo gemere mentre mi stringe i fianchi e si svuota dentro di me. Mi inginocchio, stavolta non per spompinarlo ma semplicemente perché sono esausta, sazia ma sfinita. L'amazzone ha bisogno di sdraiarsi accanto a lui e di riprendere fiato. Stiamo così per un po'. Provo una grande serenità e vorrei poter dormire accanto a lui cosi. Dopo un po' ci alziamo e iniziamo a raccattare abiti e Toys. Andiamo in bagno, devo sistemare il trucco prima di uscire ma lui sta pisciando! Posso rinunciare alla possibilità di camminare per strada lurida di piscio? No, assolutamente no.
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edward-elric-2 · 2 years ago
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19 Febbraio del 1941, Auschwitz.
Caro Abel,
…ti ricordi di me? Sono Yoah.
Ricordi quella domenica di pioggia? Eri scappato da casa tua per vedermi, ti ritrovai sotto casa tutto zuppo, mi gettai fra le tue braccia, fregandomene di prendermi un malanno e bagnarmi anche io.
Ti ricordi i baci dati di nascosto agli angoli delle strade? Le tue mani che scorrevano sul mio corpo mentre i nostri respiri si mischiavano…
Ti ricordi i nostri sguardi che si spogliavano? Mi scopavi la mente.
Ti ricordi l'amore fatto nelle campagne abbandonate per paura di essere scoperti? Il tuo fiato sul mio collo, le tue mani sui miei fianchi, le tue labbra sui miei seni e io stretta a te.
Ti ricordi quando guardavamo le stelle di notte sulla vecchia quercia? Finivamo sempre per guardarci a vicenda e scoprirci in baci lenti e infiniti assaporando l'uno il sapore dell'altro.
Ti ricordi gli sguardi fugaci quando ci incontravamo per caso per le strade? Ci dicevamo ‘ti amo’ senza aprir bocca.
Ti ricordi? Il nostro era un amore proibito.
Una storia d'amore come la nostra non poteva avere un futuro, entrambi lo sapevamo benissimo.
Tu un tedesco, io una sporca lurida ebrea.
Sapevamo che più sarebbe andata avanti, più avrebbe fatto male. Eppure abbiamo preferito amarci fino a consumarci. Amarci fino alla distruzione.
Non saprei dire a parole quello che tu hai significato per me, sei stato il mio piccolo grande infinito.
Avrei voluto starti affianco per sempre.
Avrei voluto essere la madre dei tuoi figli e la donna che avresti portato all'altare.
Avrei voluto amarti senza nascondermi, senza vergogna, senza paura.
Avrei voluto urlare al mondo quanto ti amo.
Avrei voluto addormentarmi con te, sudati dopo aver fatto l'amore, in un tuo abbraccio.
Avrei voluto svegliarmi all'alba e trovarti riposare accanto a me, sorridere e accarezzarti quel tuo viso perfetto.
Avrei voluto insegnare ai nostri figli che l'amore esiste indipendente dalla razza, dalla condizione sociale e dalle difficoltà che ci sono sul cammino.
Avrei voluto camminare mano nella mano con te nel parco, ormai anziana, affaticata magari, con le rughe.
Ma tu con me e io con te.
Resterei qui a scriverti ancora per ore, ma purtroppo il tempo stringe.
Mi hanno detto che oggi andrò in una camera speciale, c'è andata una mia amica il mese scorso, non ne è uscita più.
Ho capito che sono al capolinea, non servo più qui, non hanno più bisogno del mio servizio. Ed è quello che succede a tutti quelli di cui possono fare a meno qui dentro, vengono eliminati.
Non ho paura sai? Non ho paura della morte. Immaginerò di essere fra le tue braccia e mi lascerò andare piano piano, con calma.
Non ho rimpianti, ho vissuto al massimo la mia vita e i momenti accanto a te mi hanno fatto capire cos'è la felicità.
Grazie per tutto ciò che mi hai donato.
Grazie per avermi amata nonostante tutto.
E, amore mio, ti auguro davvero che tu possa amare di nuovo…e se c'è un'altra vita, da lassù sarò il tuo angelo custode.
Non ti resta che alzare lo sguardo al cielo e sorridere, si, pensami con un sorriso, non con le lacrime.
Voglio sia così.
Ti ho amato tanto, e ti amerò fino al mio ultimo respiro…
Addio Abel…
Tua Yoah.
Yoah morì il 20 Febbraio del 1941 e il suo corpo venne gettato in una fossa comune e poi bruciato, alla notizia Abel si suicidò impiccandosi nella loro vecchia quercia il 22 Febbraio del 1941, il cadavere fu trovato dai soldati qualche giorno dopo.
Dovremmo imparare a stringere più forte negli abbracci, a baciare con più calma, a dire più spesso quello che proviamo alle persone che amiamo. Perché non si sa mai quand'è l'ultima volta.
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stupidachesei96 · 2 years ago
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Faccio schifo
Sono un fallimento
Non valgo nulla
Mi sono lavata e tolto il pigiama mi sento un eroina dato che è dal martedì che non me lo tolgo .
Ora devo uscire a pesarmi devo sapere da dove devo partire.
Devo essere focalizzata sul mio obiettivo senza lasciarmi influenzare da nulla .
Ho patito di nuovo quell'inferno quando dici che l'incubo diventa di nuovo realtà .
Ora voglio togliere tutto il grasso che ho in corpo solo così riuscirò a vedermi allo specchio.
Sono un mostro faccio schifo sono una lurida cicciona fallita .non valgo nulla .
E soprattutto non devo permettere a nessuno di ferirmi.
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falcemartello · 3 months ago
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Nel frattempo...
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osservatoriosubliminale · 4 years ago
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Attesa
Mi sveglio, e non so come ma sono qui.
Mi ritrovo, all'improvviso, al centro di questa stanza.
Mi stropiccio gli occhi, e scopro che è la mia vecchia classe delle superiori.
Lurida e lercia, proprio come me la ricordavo.
Ma non sono adolescente, anzi: mi sento più vecchio, in qualche modo.
Nel fisico, nei pensieri, nelle esperienze.
Sono più vecchio, ma non mi sono mai sentito meglio.
In pace, incredibilmente, coi miei pensieri.
Con le mie esperienze.
Con il mio corpo.
Mi guardo attorno e noto che c'è una marea di gente.
L'unico che riconosco è Gabriele.
Mi sorride.
Trepidante.
Come se stesse attendendo qualcosa da me.
E vedo che i banchi, di quell'aula, sono tutti messi attorno al palco.
A questo palco.
Minuscolo, probabilmente.
Devo salire su questo palco?
Non lo so, cosa dovrei salirci a fare?
Dietro al palco un'insegnante.
Che mi guarda.
Nel suo vestito a fiori, largo sulle gambe e stretto in petto.
Mi sorride.
E mi basta questo per convincermi a salire.
Lo faccio.
Diventa tutto buio.
E le poche luci presenti in stanza puntano a me.
Tutto è puntato su di me.
Come se fossi la cosa più importante in quel preciso momento.
Non so cosa ci faccio qui, ma incomincio a parlare.
Forse è una delle cose che più mi riesce bene.
E lo faccio, anche se non so bene cosa sto dicendo.
Ma sto bene qui, sento come se non fosse la prima volta ad essere qui.
Tutte le attenzioni sono su di me, ma sento come se non potessi mai deludere queste persone.
Forse ho faticato tanto per essere qui.
Mi sento gratificato.
Mentre parlo quasi non mi guardo attorno.
Per quanto la stanza sia piena di gente non ho voglia di guardare nessuno.
Anche perché non riesco, è tutto così buio.
Tranne che per un angolo, proprio quello dove sei seduta tu.
È bastato un attimo per notarti.
Seduta lì, con un bellissimo vestito e il timore che ti scoprissi.
Stupenda, come il tuo solito.
È bastato un attimo.
Il mio cuore si è fermato, perché non mi aspettavo di vederti lì.
La stanza è piccola, ma sei così distante che non sarei mai riuscito a raggiungerti.
Forse perché non mi merito di farlo, o tantomeno provarci.
Siamo distanti km, quando in realtà sei qui.
Ma non ho coraggio, ho sbagliato troppo con te.
Mi sento così in colpa che mi vergogno, ora, ad essere su questo palco.
Davanti a te, con il tuo sguardo dolce e fiero che mi fissa e non mi toglie lo sguardo di dosso.
Mi sento in colpa, perché non volevo.
Mai avrei voluto sbagliare così tanto con te.
Sei così distante ma il tuo dolore lo percepisco benissimo.
Mi penetra nelle ossa, destabilizzandomi.
Ingoio il rospo, chiedendomi cosa ci fai lì.
Sei l'ultima persona che mi aspettavo qui, con me.  
Non posso fare altro che continuare, chiedendomi perché sei lì, così lontana ma così vicina a me.
Non riesco a reggere il tuo sguardo, anche se vorrei guardarti ancora e ancora.
Ti ho fatto davvero male.
Mi dispiace.
La stanza diventa di nuovo luminosa.
È finito lo spettacolo?
Non so, so solo che non riesco ad avvicinarmi a te.
E anche se potessi non potrei, non ci sono sedie accanto a te.
Niente di niente.
Inavvicinabile, in tutti i senti.
Tocca ritornare in scena?
Mi chiamano.
Salgo di nuovo.
Mi inchino, e ringrazio tutti i presenti.
Tutto finito.
Se ne vanno tutti.
Io invece rimango qui.
Non me ne voglio andare.
Ma vedo che nemmeno tu vuoi.
Sono qui, su questo palco.
Ed adesso tu sei lì, ed io qui per te.
Ma cosa fare? Mi sento di troppo.
Ho così paura di te.
Ma tu sei ferma, non ti muovi di un millimetro.
E mi guardi, perché sono l'unica cosa viva qui.
Forse la cosa più importante per te.
Anche se il dolore che ti ho causato è immenso.
Infinito.
E ci sto male per questo.
Ma non posso stare qui a guardare.
Mi avvicino.
Adesso sei molto più vicina a me.
Così tanto che quasi potrei stringerti e fare finta che sia tutto a posto.
Toccarti i capelli, accarezzarti il viso e osservare le microreazioni del tuo viso.
E questo mi sarebbe bastato, perché avrei di nuovo avuto la confidenza per scatenare in te qualcosa di bello.
Avrei, forse, visto il tuo viso sorridente, il tuo splendido viso sorridente.
Ma non lo merito, non ho il coraggio di farlo.
Ma eccomi.
Eccomi qui da te.
Sono qui, sono da te.
Non so nemmeno perché l'ho fatto, ma spero solo che tu mi possa perdonare.
Come se fosse facile farlo, dopo tutto quello che t'ho fatto.
Mi sono inginocchiato, per non farti alzare.
Per guardarti negli occhi, forse, per l'ultima volta.
Avrei voluto rimanere lì per sempre, fermo, ad osservarti.
Ammirarti, forse.
Ma hai preferito rompere l'oblio di quel momento accarezzandomi.
La tua mano, con la tua semplice dolcezza, si è poggiata sul mio viso.
Si è poggiata e mi ha accarezzato, mentre il tuo viso si rattristava.
E io con lui.
Ma, prima di staccare la mano, hai preferito dirmi una cosa.
"Aspettami."
Stai per scoppiare a piangere.
Ma non potrei mai vederti in quello stato.
Non potrei consolarti, e questo mi farebbe male.
Perché quel dolore te l'ho causato io.
Decido di andarmene.
Mi alzo e ti do le spalle.
Forse per permetterti di piangere.
E lo fai, ti sento.
Sento addirittura una lacrima scendere e sbattere a terra.
Non posso fare che piangere anch'io.
Piango a dirotto, forse come mai prima d'ora.
Ma mentre mi asciugo le lacrime decido che ti aspetterò.
Ti aspetterò.
Perché, aspettarti, è l'unica cosa che mi è rimasta da fare.
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scazz0 · 5 years ago
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questa vita scotta come la tua pelle quando vieni e mi dispiace, te l'ho detto, ma io sono un maledetto con il cuore troppo grande per un petto così stretto. ora  te ne puoi andare, lasciami con la musica, voglio solo una tela in questa stanza lurida; di te mi resterà il profumo dentro al letto e cinquanta mozziconi sporchi del tuo rossetto.
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insuperficie · 6 years ago
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Sui non-morti
Oggi sono entrato in ospizio, non vedevo mio padre da due settimane. Ero convinto di non poterlo vedere nemmeno oggi, perché quando stiamo insieme appena vado via diventa violento. Invece mi hanno detto che ormai non costituisce più un pericolo, e che quindi posso vederlo quanto voglio. Non è più un pericolo, mio padre. Un ex campione di canottaggio, quel brutale gigante che ha popolato la mia infanzia di scherzi fisici e annegamenti, il titano di un metro e ottantaquattro - uno otto quattro, le prime cifre impresse nella mia memoria - non è più un pericolo. Allora sono entrato, e l’ho visto accasciato su una poltrona con il suo pigiama e i calzini di spugna, il catetere che spunta dal pigiama un po’ sporco, e quel taglio insopportabile che non gli ho mai visto, un taglio da pugile, coi capelli ritti in testa così grigi e così vivi, almeno loro. 
Ma mio padre non è più vivo. La vita è fatta di fini, di alti e bassi, di progetti falliti e ripieghi, di compromessi. Dei malati di Alzheimer si dice “non è più lui”, ma il punto è proprio quello: è lui, eccome se è lui, ma non è più vivo. Esiste come un non morto, la perfetta figura dello zombie, privo di fini e di senso, animato solo da una disperata volontà, che mi guarda dal fondo della sua demenza e mi succhia via l’anima, mi mangia il cervello, brucia la mia carne di ansia e paura, facendomi spendere soldi e tempo, e facendomi spendere soldi e tempo in un’impresa senza senso, ovvero nella folle pratica di tenerlo nella sua riottosa non.morte. 
Mio padre è uno zombie, eppure lo amo. Amo sentire la sua pelle fredda sotto le mani quando lo accarezzo, le sue smorfie di riconoscimento mentre piange e si dimena e urla che io sono suo, che sono roba sua, in un guizzo folle di lucidità e di orgoglio per questo figlio così grosso, così enorme, così inutile. Amo il fatto di comprendere l’attesa della morte, la mia capacità di dare a questa attesa un senso, di pensare a domani, a tutti i soldi che spenderò, a tutti i debiti che farò per mantenerlo in questa lurida non vita, e ancora godere al pensiero di un suo sorriso, di una sua mano che come nel riflesso di un sentimento si stringe intorno alla mia, e mi ricorda di quando da piccolo mi prendeva in giro perché avevo le mani di una femminuccia e non riuscivo a stringere le sue. 
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Queste lenzuola sempre più sporche
Farà  freddo anche stanotte
Solo  vento e foglie, vivo in mezzo metro quadro
Ma non sono uno scrittore, ho soltanto dipinto un quadro
Tipo Kandinskij, me ne assumo i rischi
Vivere  soltanto per i dischi
Te  ne potrei parlare, ma tanto non lo capisci
E non darmi del cattivo solo perché bevo whisky
Andiamo  a duecento all'ora perché non abbiamo freni
Questa vita scotta come la tua pelle quando vieni
E mi dispiace, te l'ho detto, ma io sono un maledetto
Con il cuore troppo grande per un petto così stretto
Ora  te ne puoi andare, lasciami con la musica
Voglio solo una tela in questa stanza lurida
Di te mi resterà il profumo dentro al letto
E cinquanta mozziconi sporchi del tuo rossetto Sarà che io ci penso sempre
Se guardo il mio orologio, non ha più lancette
Il nostro tempo che scorre velocemente
Che ci consuma insieme e non ci lascia niente
Anche se ti allontano, resti qui
Dai dipendenza come sigarette
Questo amore e odio uccide lentamente
Perché mi avveleni come sigarette Ho il cuore nero, pieno di inchiostro
E c'ho la testa nel polo opposto dal tuo
Una vita in forse, non farmi le domande
Se hai paura delle mie risposte
E ci tocchiamo le ferite, sì, come dopo uno schianto
Che senti solo il botto e non capisci cosa ti sei fatto
Manchi come l'aria dopo due pacchetti
Vivere con il dubbio, come quando scommetti
Il bello è che al mattino ci raccontavamo i sogni
E oggi se parliamo, che strano, sembriamo sordi
Non credo alle tue parole, per te parlano i soldi
Ricordo che mi baciavi come si baciano i morti
Ora ne ho fatti tanti, mi guardi mentre li conto
Vedi, avevo ragione, adesso prova a darmi torto
Sai che cosa penso, ora lo provi su di te
Che se fai del male agli altri prima o poi ti torna contro.💫💛
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yesiamdrowning · 6 years ago
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dopodomani smetto.
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Mentre scrivo gira la notizia che, alle cinque date annunciate, il Fabrique di Milano ospiterà per altre due notti J-Ax e i redivivi Articolo 31. In poche parole, circa 2O mila persone avrebbero già deciso di pagare un obolo non leggero (45€ sui canali ufficiali) per festeggiare i 25 anni di carriera dell’ex di Fedez. “Non voglio prendere per il culo nessuno“, aveva messo le mani avanti J-Ax nel solito slang da finto trasgressivo e finto giovane - inconsciamente ammettendo che da solista col cavolo sarebbe riuscito a riempire San Siro. Poi il colpo di genio: dopo la pietra tombale (”E’ la fine per gli Articolo 31, non c'è possibilità di riunirci”), riciccia gli Articolo 31 come mia madre i broccoli. Promesse di rapper. Fiumi di parole, olio bollente che per anni si erano versati addosso Alessandro Aleotti da Milano col fu Vito Perrini da Bollate, reciproche accuse di verginità perdute, di astuzie di bassa lega, di carriere mandate in vacca per la grana e basta, senza sottrarsi a meschinità personali di stampo piccolo borghese.
Eppure.
Sbagliavano entrambi. Perché, a essere un po’ onesti, di purezza negli Articolo ce n'era poca fino dall'inizio, in quei primi Anni 9O quando il rap, perfino quello “spaghetti”, poteva sembrare una faccenda con qualche velleità contenutistica, nell’Italia ancora ebbra di Lambade. Non l'epica stradaiola degli Stati Uniti, d'accordo, ma insomma quella periferica senza i romanticismi delle Pausini, del disagio senza le derive dei Ramazzotti, di motivi per fare e supportare l’embrionale hip-hop culture volendo non ne mancavano neppure qui, nella provincia dell'impero. Non per loro però. Non per gli Articolo che da subito ne fecero un pretesto, un trampolino per “fare soldi per fare soldi per fare soldi”: nome farlocco (non esiste nessun Articolo 31 in Irlanda che parli di libertà d’espressione), spigoli smussati e filastrocche che potevano suonare figliocce del gioco sui piatti del giradischi, del freestyle, l'improvvisazione dei versi, per una platea già meno hip e sempre più pop adolescenziale - allora non esisteva l'etimo “bimbiminchia”. Hip-pop dove il gioco della battuta sconcia, “Dai tocca qui”, del citazionismo rétro spicciolo, “Oh mamma mi ci vuol la fidanzata”, era losco perché non serviva a nobilitare composizioni originali ma a riempirle di esche per fare abboccare quanti più pesci possibili. Così, in un parallelismo ittico, laddove in America si usava la tecnica col vivo, dove l’esca adoperata è una sola ma viva e di qualità, per far avvicinare un numero limitato di pesci ma di razza; gli Articolo usavano la tecnica del palamito: con esche di ogni risma fatte con pesci vivi e morti, molluschi e perfino vermi e crostacei. Così, negli stessi anni, se dall’altra parte dell'Oceano si campionavano brani di scuola Motown Records o di jazzisti minori come Jimmy McGriff o Freddie Hubbard, gli Articolo buttavano sul piatto uno swingetto noto alle mamme e piacevole per le figlie e il gioco era fatto. “Massimo risultato col minimo sforzo”, si diceva allora. (Fino a climax come quello della “Maria”, innocuo inno pro-canne per ragazzetti benestanti che faceva ridere/piangere tutti gli altri che erano appena usciti dai cult eroinomani di Carboni, Masini, Alice, e in cui poteva cascar giusto qualche pretino di quartiere che, ritenendola pericolosa, si metteva a polemizzare con i due che non cercavano altro. Seguito a ruota dal mantra di “Domani Smetto”, ennesimo crogiolo di luoghi comuni per pseudo-ribelli e dichiarazione d’intenti in salsa pop-punk come da cliché del tempo (a.D. 2OO2: annus orribili in cui sdoganammo Sum 41, Avrile Lavigne, Good Charlotte, etc.) che adombrò solo gli ultimi quattro che dagli Articolo 31 si aspettavano chissà quale botta di reni. Intramezzati da “Senza Filtro”, film che li vedeva come protagonisti e non si vergognava d’essere brutto purché bastevole per intortare orde di under 18.) Nonostante ciò, il successo arriva, in forma di Festivalbar e tv pressappochista, dove i due baldi giovani si presentavano al meglio delle loro possibilità: J-Ax di una goffagine imbarazzante in completi due volte più grandi di lui e nemmeno un etto dello stile di uno Shakur, bastoni da passeggio tenuti con l’eleganza di Gargamella e bandane per camuffare la calvizie imminente; Dj Jad di spalla, a scratchare in playback e fare breakdance come chiunque dopo una birra di troppo. Su tutto: i giochi di parole scontati, le rime da SMS, quella spocchia da lingua di fuori, quel bullismo idiota da schiaffo del soldato, da finti-uomini che indisponeva anche un dinosauro come Celentano che li definì “ragazzini che rompono i coglioni col rap”. Lui che il rap se l’era inventato ancora prima di sapere si chiamasse così, nel 1973 e senza rompere i coglioni a nessuno. Altra manna dal cielo! Altro buzz, altre ospitate in programmi da Non è la Rai in su,  dove si presentano già pronti alla ballata adolescenziale. E così finiscono per essere sempre più ospiti, personaggi televisivi a tutto tondo che rapper,  fino a rendersi conto che non c'è più acqua nel loro mare. Difatti si mollano.
DJ Jad rientra nel suo brodo primordiale, ogni tanto azzarda qualcosa ma non decolla manco per finta; Ax, più scaltro, avvia una carriera di giudice ai talent, prima come ospite poi da titolare, fa l’opinionista (pure politico), la stellina pop fuori tempo massimo (qualcuno prima o poi scriverà qualcosa sulla supposta bellezza di Alessandro e io correrò a leggerla perché non sono mai riuscito a spiegarmela) e ritrova una seconda, lucrosa giovinezza prima da solo e poi di fianco al giovane-sul-serio Fedez, quasi un emulo. Si sbiadisce così del tutto qualsiasi illusione underground coi due che in perfetta sincronia con il tempo macinano affermazioni sempre più annacquate, un po’ filosofi un po’ immaturi, senza neppure darsi la pena di nascondere la contraddizione. Il botto arriva a  San Siro, la scorsa estate: l'apoteosi di una pianificazione riuscita benissimo. Ma quello è il canto del cigno, già annunciato. "Italiana" non bissa "Vorrei Ma Non Posto" (in termini commerciali mainstream è un vero e proprio flop, con meno della metà delle copie downlodate) e le carriere dei rapper diversamente ribelli, quelli che appena possono si riproducono e si fanno l'attico coi giardini pensili, dura finché c'è da difendere il fatturato rap in crescita se no si ferma. Allora cosa di meglio che rispolverare la vecchia ragione sociale con la scusa di un qualche anniversario a caso? “Non voglio prendere per il culo nessuno”. Sarà.
Le date sono scritte in agenda: cinque per tastare il terreno, al quale pare se ne stiano aggiungendo altre a testimonianza che lo stratagemma ha funzionato. Pienone assicurato, canteranno pure “Voglio una Lurida” facendo finta che ci sia mancata sul serio. Così ci sarà qualcun altro che finirà per credere alla favoletta che l'hip hop in Italia sia nato con J-Ax e DJ Jad. Peccato che sia un falso come le treccine che si attaccava alla pelata Ax tormentato da irrisolte turbe tricologiche. E non si tratta di fare i duri e puri, si tratta di sapere la storia. Gli Articolo 31 (sup)portavano un rap (già) edulcorato e monetizzato da Claudio Cecchetto via-Jovanotti (lo strobazzatissimo ”Strada di Città” fu prodotto da Franco Godi, un creatore di jingle pubblicitari). Ma questo non vuol dire che non c'erano stati tentativi di rap che partiva e sperimentava dalle basi (e dai centri sociali, non dai microfoni di Radio Dee Jay). 1985: Fresh Press Crew. 1986: Raptus. 1988: Devastatin Posse. Ma a parte nomi e date, c'è un dato di fatto ineluttabile e che andrebbe detto senza vergogna da chi di dovere: quando uscirono, si era tutti d'accordo che fossero “Merda”. Quasi subito estromessi dal giro dei puristi, in fama di arrivisti, i due era dato per certo che recitassero e i loro pezzi erano fonte d'imbarazzo per chi seguiva la scena, non solo per gli amanti di altri generi. Erano, senza se e senza ma, l’equivalente pantomima di Steve Rogers che scimmiottava il sound alla Vasco con “Alzati la Gonna”. Non gli davi quattro lire, ai 31, e la gente che li ascoltava era la stessa che ascoltava gli 883. Gli altri, né i primi né i secondi, si asoltavano “Straniero Nella Mia Nazione” dei Sangue Misto o “Terra di Nessuno” degli Assati Frontali o “Rappesaglia” in cassetta di Lou X. Ora, come siamo arrivati a dovergli pure dire grazie, è la dimostrazione che J-Ax è riuscito a prenderci per il culo tutti.
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iodanessunaparte · 6 years ago
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«Oh signore,-» gli dissi, notandovi negli occhi suoi il disprezzo; «-come fate a non accorgervi che c’è chi vi muore sotto il naso e chi muore altrove, per poi trascinare il proprio corpo sulle spalle, infliggendosi così, non meno che altre ferite ad ogni passo in avanti?» Stette zitto, saettò lo sguardo tra me e la finestra. La stanza si fece piccola e il silenzio iniziò a soffocarmi, quasi più dei pensieri. Il poco di vita che eravi sopravvissuto nel mio cuore si fece sentire con violenti battiti. Il suo? Temetti che il suo non fosse mai esistito. Si sfregò una mano sugli occhi, come per scrollarsi un peso di dosso; ma quello che si scrollò fu ben altro che un peso. Le sue labbra sganciarono una bomba: «Allora mia cara, è ora che questi poveri dannati capiscano di essere sulla battaglia errata. Per l’amor di Padre Nostro che si fermino e non facciano storie! Se trascinano il proprio corpo e si autoinfliggono ulteriori ferite per desiderio della pietà altrui sono affar loro.» Sputò, facendo sgorgare il suo sguardo di veleno. Un uomo pericoloso, la sua indifferenza reca più dolore che ferite fisiche. Annuii, mi venne spontaneo; forse pure il mio corpo si era reso conto che lui era un caso perso. Un ghiacciaio irremovibile, ma era un’ultima mia speranza. «Desidera altro, Signorina?» Irruppe la sua lurida voce nei miei poco gentili pensieri. «Certo- avrei voluto rispondergli - Voglio ritirarmi da questa battaglia.» Ma fu chiaro: per lui non sarei stata che “una dannata in cerca di pietà”. Perciò mi schiarii la gola, m’imposi di mantenere l’autocontrollo dinanzi alla scintilla di divertimento nei suoi spietati occhi e risposi nella maniera più garbata e al tempo stesso sarcastica che mi riuscii: «No, sono a posto così. Vi ringrazio per l’attenzione. Tolgo il disturbo. Vado...» «Vado a mettere la mia “povera e dannata” anima in pace, vado a ritirarmi da questa battaglia. Vado a morire altrove. Ah vi prego, perdonatemi per le migaglie di me che vi sono rimaste sotto le suole ben curate. Seguirò il vostro consiglio, non andrò più avanti, quelli come me non fanno altro che storie, no?» La voce nella mia testa avrebbe voluto tanto rispondergli a tono, ma come sempre, non avrei lasciato che notasse l’ennesimo buco che mi fecero le sue parole gelate. Accennai appena un sorriso e uscii da quel concentrato di meschinità e indifferenza, tenendo a bada le mani per non imprimergli sulle gote i contorni della mia mano, colma di indignazione da scaricargli addosso, per accertarmi che conoscesse almeno il significato letterale della parola “dolore”.
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falcemartello · 3 months ago
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Performance tra il coraggioso e lo strabiliante.
Avrà cantato anche il celebre pezzo "Voglio una lurida"?
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3nding · 6 years ago
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La mia lettera al Capo della Polizia Dott. Gabrielli, pubblicata su L’Espresso di oggi
Signor Capo della Polizia e Prefetto dottore Franco Gabrielli,
Mi è nota la Sua straordinaria correttezza istituzionale e l’alto profilo che caratterizza la Sua guida democratica nella gestione degli uomini e delle donne della Polizia di Stato al servizio del Paese .
Nel corso della mia terribile vicenda umana ho avuto modo di incontrare diversi rappresentanti della Polizia di Stato , verificandone non soltanto la competenza ma anche la sensibilità e il profondo senso dello Stato.
Mi sono imbattuta in investigatori della Squadra Mobile di Roma di rara onestà intellettuale, in un contesto difficile, doloroso, reso particolarmente accidentato dalla materia trattata , dalle figure coinvolte , dall’humus che aveva generato fatti che a giusta ragione possono ancora oggi far dubitare della stessa essenza dello Stato.
Quel buio feroce che ha travolto vite e diritti, mistificando, corrompendo il circuito democratico, producendo un dolore che ha varcato ogni soglia di sofferenza umana miscelandosi con l’ombra di un tradimento istituzionale.
Quello Stato invece presente come non mai, nei gesti, nelle parole, nei fatti, di questi uomini silenziosi, disponibili, orgogliosi di onorare la verità e di riporre nel cuore del proprio lavoro, la centralità dell’essere umano, dell’ultimo come del più importante di essi.
È noto che la ricerca della verità abbia richiesto un dazio ulteriore da versare per chi le scrive e per la sua famiglia , attraverso il discredito prima della vittima poi dei suoi cari.
La vittima, un reietto, un rifiuto della società, un criminale secondo una certa vulgata, non avrebbe dovuto conoscere giustizia. La giustizia per gli ultimi è sovente una ipotesi. Un lusso che si concede di rado, se capita.
La famiglia, quella di un nulla di 43 chili, niente altro che un’emanazione di quel nulla.
Quindi, un lungo aberrante percorso tra insulti, minacce, illazioni, accostamenti a forme di mitomania, di protagonismo, di ricerca di visibilità, di affarismo, di abbandoni familiari, di spregevolezze dispensate a piene mani da ogni latitudine umana, anche da categorie professionali che per deontologia si vedrebbero obbligate a riporre tra i più reconditi angoli dei propri pensieri almeno quelli contrari alla decenza e alla umana pietà. E a tacerli, anche solo per decoro. Per non suscitare emulazioni, per impedire di rendere confuso il proprio ruolo. Per dignità.
Oggi vivo nella paura, nel terrore di accompagnare persino i miei figli a scuola nel quartiere di Torpignattara dove uno sconosciuto mi ha comunicato che “devo abbassare lo sguardo quando passo di li“. Chissà, Signor Prefetto, cosa avrà voluto dirmi. Per quanto mi sforzi, non c’è molto spazio per l’immaginazione. C’è chi scrive che sono una lurida infame, una troia, che devo morire con sofferenze doppie rispetto a quelle inflitte a mio fratello. Non tutti sono comuni cittadini, alcuni hanno una piena riconoscibilità istituzionale. Basta leggere le informazioni di base, o, visualizzare alcuni siti social di sindacati di categoria dove vi è libero spazio a congetture, insulti e sputi virtuali.
C’è chi applaude a questo scempio, chi lo fomenta, chi finge di non capire ciò che scrive, chi lo capisce benissimo, chi istituzionalizza questa tremenda gogna in forza delle proprie prerogative di rappresentanza, chi lo accosta alle conseguenze derivanti dalla partecipazione al fantomatico partito dell’antipolizia.
Ma Signor Prefetto, chi compone il fantomatico partito dell’antipolizia? Cosa è questa invenzione dialettica? Nessuno ancora lo comprende. È una sorta di appello al corporativismo, una chiamata alle armi? Siamo sicuri che questo misterioso neologismo non si sviluppi in ambiti più interni che esterni alla Polizia di Stato per opera di chi di questa Istituzione in realtà non abbia compreso nè lo spirito nè la missione?
Viene il dubbio che forse l’ideatore di tale espressione, l’attività di Polizia in realtà non l’abbia mai praticata o forse l’abbia esercitata molto poco, apprendendone della sua esistenza così come del sacrificio di tanti agenti onesti attraverso racconti, quindi de relato.
È singolare vivere le esperienze di altri e raccontarle. Certo viverle è altra cosa, ne converrà.
Le chiedo ancora: Ma non sarà che il partito dell’antipolizia vada ricercato nella Polizia stessa piuttosto che all’esterno?
Voglio portare alla Sua attenzione un fatto emblematico.
Sulla pagina Facebook del Segretario Generale del SAP Stefano Paoloni, un poliziotto, sono comparsi qualche giorno orsono alcuni commenti estremamente dirompenti e offensivi sulla mia persona e sui miei familiari.
Uno dei tanti, postato da un insospettabile medico di Ferrara, conteneva le seguenti espressioni: «Questa è una mitomane pronta a tutto… la morte di suo fratello si è rivelata essere una gallina dalle uova d’oro per lei e per la sua famiglia».
Alla mia conseguente azione di tutela, è seguita la reazione a mezzo stampa del poliziotto Stefano Paoloni che ritengo debba essere sottoposta al Suo vaglio per comprendere se tale condotta risponda ancora alla deontologia, ai regolamenti, al decoro cui ha l’obbligo di attenersi un agente di polizia o se invece sfugga integralmente alle regole sancite dall’Amministrazione della Pubblica Sicurezza .
Perché a quelle del buon senso e della sensibilità umana parrebbero essere del tutto estranee, come asserisce tanta gente comune che non può credere che simili commenti possano essere stati prodotti da un poliziotto in servizio.
Paoloni, poliziotto, presumibilmente non ancora svincolato da tali obblighi professionali, dichiarava a mezzo stampa sul quotidiano La Nuova Ferrara :«L’insulto è da ripudiare e condannare, ma nel caso del dottor Buraschi, riteniamo sia nell’ambito del sacrosanto diritto della libertà di pensiero che non deve necessariamente essere lo stesso della signora Cucchi, per non essere condannato».
Esisterebbero quindi insulti da ripudiare ma non tutti poi, o meglio tutti, tranne quelli in questione che invece ricadrebbero nella libertà di espressione di un soggetto verso cui esprimere piena solidarietà dopo la querela ricevuta.
Pertanto, la solidarietà del Sindacato di Polizia, ergo, di una parte della polizia, attraverso una sorta di benedizione pubblica consacrerebbe un insulto verso la mia persona ed i miei congiunti , in un atto liberale di pensiero.
E ancora: “……E Paoloni difende il suo amico virtuale, che sembra conoscere anche di persona, tanto che lo descrive come “una persona corretta, moralmente ed eticamente esemplare, un grande professionista, al quale va tutta la nostra solidarietà»”.
«Questi purtroppo sono gli effetti dell’azione mediatica – riflette il segretario del Sap - Rendere un processo mediatico, virtuale, espone sia a messaggi di stima che a messaggi di dissenso. L’insulto è da ripudiare e condannare, ma nel caso del dottor Buraschi, riteniamo sia nell’ambito del sacrosanto diritto della libertà di pensiero che non deve necessariamente essere lo stesso della signora Cucchi, per non essere condannato».
Dottor Gabrielli se la libertà di pensiero è un insulto anzi “un messaggio di dissenso” o “una libertà di pensiero” e se diventa legittimo esprimerlo ricevendo la solidarietà pubblica di un poliziotto (la cui qualifica permane e non può ritenersi coperta da forme di immunità sindacali) e di un sindacato, allora dobbiamo interrogarci sulla direzione dirompente di questo pensiero e sulla convinzione di impunità insita in un simile atto.
Sulle conseguenze inquietanti di tale messaggio, sul significato orrido divulgato da un uomo in divisa, mi permetta, più offensivo dell’insulto stesso.
Sul senso di tali parole auspico che la SV possa assumere le più ampie distanze pubbliche , per evitare di ingenerare il dubbio che da oggi in avanti, le offese proferite da chicchessia nei miei confronti possano trovare legittimazione e solidarietà attraverso simili assurde prese di posizione da parte di appartenenti alla Polizia di Stato.
Perché il poliziotto Paoloni intende comunicarci che ogni insulto concettualmente è da ripudiare in linea di principio ma non quello del caso di specie che invece rientrerebbe nella libertà di pensiero, anche perché proferito da un suo amico sulla sua pagina pubblica di sindacalista della Polizia di Stato.
Auspico vivamente che questa sia l’ennesima occasione per ribadire che chi svolge un ruolo sindacale nell’ambito della Polizia di Stato, non è immune dai doveri di pubblico ufficiale e non è neppure esente da provvedimenti disciplinari.
Non è mio compito indicarLe, non ne ha certo bisogno, la strada più consona da seguire per la Sua Amministrazione in questi casi. Ma di certo occorrerà tornare ancora una volta sull’annoso e dibattuto tema del cd. partito dell’antipolizia per aggiungerne qualche nuovo capitolo. Nella direzione giusta stavolta.
Con osservanza
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