#vladimir puškin
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smak-annihilation · 1 year ago
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Reading Eugene Onegin right now
Vladimir Puškin really was a thigh guy huh...
There are like 5 stanzas on the beauty and charm of the legs of a girl that isn't even a character in the book.
Lovin' this literature already :D
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ivaska · 3 years ago
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Puškin componeva versi oltremodo arroganti e oltremodo indipendenti e oltremodo dannosi, in cui si manifestava una pericolosa libertà di pensiero nella novità della verificazione, nell'audacia della sensuale fantasia e nella propensione a prendersi gioco di tiranni piccoli e grandi.
Lezioni di letteratura russa - V. Nabokov
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finnish-art-gallery · 3 years ago
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Kreivi Vladimir Aleksejevitš Mussin-Puškin, Karl Pavlovitš Brjullov, Finnish National Gallery
Mussin-Puškin, Vladimir ? kreivi, Aurora Karamzinin sisaren Emilien puoliso?
http://kokoelmat.fng.fi/app?si=A+II+1483
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schizografia · 5 years ago
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La differenza tra la visione umana e l’immagine percepita dall’occhio sfaccettato di un insetto può essere paragonata alla differenza tra un cliché a mezzatinta ottenuto con il retino più fine e la medesima immagine realizzata con la schermatura a grana grossa, quella che si usa nella riproduzione illustrata dei comuni giornali. La stessa relazione esiste tra il modo in cui vedeva le cose Gogol’ e il modo in cui vedono le cose i lettori ordinari e gli scrittori ordinari. Prima dell’avvento suo e di Puškin, la letteratura russa era praticamente cieca. La forma che percepiva era un profilo guidato dalla ragione: non vedeva il colore in sé, ma semplicemente usava le trite combinazioni di sostantivi ciechi e aggettivi fedeli come cani che l’Europa aveva ereditato dagli antichi. Il cielo era azzurro, l’alba rossa, il fogliame verde, gli occhi della bellezza neri, le nuvole grigie e così via. Fu Gogol’ (e, dopo di lui, Lermontov e Tolstoj) a vedere per primo che esistevano il giallo e il violetto. Che il cielo potesse essere verde pallido al sorgere del sole, o la neve di un azzurro intenso in un giorno sgombro di nuvole, sarebbe suonato come una sciocca eresia allo scrittore cosiddetto «classico», abituato com’era ai rigidi e convenzionali schemi coloristici della scuola letteraria francese del secolo XVIII.
Vladimir Nabokov, Nikolaj Gogol’
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lavocedelcerrano · 3 years ago
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 Pineto presentazione di poesie di autori russi e riflessioni sulla condizione delle donne dell’Est
 Pineto presentazione di poesie di autori russi e riflessioni sulla condizione delle donne dell’Est
“L’incanto d’Amore” nella poesia di quattro autori russi: Aleksandr Sergeevič Puškin, Michail Jur’evič Lermontov, Sergéj Aleksándrovič Esénin, Vladimir Vladimirovič Majakovskij. È questo il primo di una serie di appuntamenti letterari in programma questa estate a Pineto. Si inizia il 14 luglio 2021 alle 18 nel giardino di Villa Filiani con l’iniziativa culturale dell’Associazione di promozione…
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bedris · 7 years ago
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L’impronta storica di Vladimir Putin
L’impronta storica di Vladimir Putin
L’istituto di ricerche sociologiche russo “Levada-Center” ha condotto un sondaggio, chiedendo ai russi di indicare le personalità più illustri di tutti i tempi e di tutti i popoli. Al primo posto risulta Iosef Stalin – 38% – al secondo Vladimir Putin e il sommo poeta russo Aleksandr Puškin – 34% ciascuno – seguiti da Vladimir Lenin – 32% – e lo zar Pietro il Grande – 29%. Michail Gorbačëv ha…
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finnish-art-gallery · 3 years ago
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Kreivi Vladimir Aleksejevitš Mussin-Puškin, Karl Pavlovitš Brjullov, Finnish National Gallery
Mussin-Puškin, Vladimir ? kreivi, Aurora Karamzinin sisaren Emilien puoliso?
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finnish-art-gallery · 4 years ago
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Kreivi Vladimir Aleksejevitš Mussin-Puškin, Karl Pavlovitš Brjullov, Finnish National Gallery
Mussin-Puškin, Vladimir ? kreivi, Aurora Karamzinin sisaren Emilien puoliso?
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finnish-art-gallery · 5 years ago
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Kreivi Vladimir Aleksejevitš Mussin-Puškin, Karl Pavlovitš Brjullov, Finnish National Gallery
Mussin-Puškin, Vladimir ? kreivi, Aurora Karamzinin sisaren Emilien puoliso?
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pangeanews · 5 years ago
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Vladimir Majakovskij, la caramella con Venere, la “bellezza contorta” e il violino di Picasso
«Fra poco questo banale giocattolo a tic-tac diventerà più comico di una torcia sulla diga del Dnepr e più assurdo di un bue in automobile» [Il bagno, V. M.] chiosa Ciudakov l’inventore, cercando di dissuadere Velosipedkin dall’acquistare un orologio. Ha progettato una macchina in grado di fermare il tempo e lanciarlo in qualsiasi direzione e a qualsiasi velocità. Sono passati pochi mesi dalla stesura de La cimice, ma Majakovskij torna a riflettere, ne Il bagno, su di un ipotetico futuro, epurato, non solo dalla grettezza degli uomini della NEP, ma anche dall’ottusità della burocrazia statale. La possibilità di dominare il tempo: un espediente narrativo, il parto dell’esuberante fantasia di un poeta o l’esito di profonde meditazioni? Rispondere alla domanda significherebbe incorrere nel facile rischio di non esaurirne la complessità, sia che si propenda per un’alternativa piuttosto che per un’altra. La questione della lotta contro il tempo, incarnata in questa commedia da uno degli oggetti su cui si è esercitata la creatività di ogni epoca, è tema a cui, tuttavia, Majakovskij ritorna sovente.
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All’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, il poeta non è il solo esponente dell’intelligencija radicale a spronare l’immaginazione fino ai limiti dell’umano pensiero. Immortalità, resurrezione e ringiovanimento divengono le tre parole d’ordine dei Biocosmisti, membri di un movimento politico che affonda le sue radici nell’anarchismo russo. Nel loro primo manifesto del 1922, essi rivendicano i loro diritti fondamentali – di contro a quelli espressi nella dichiarazione della rivoluzione borghese del 1789 – quali la mobilità nel tempo e nello spazio cosmico. Animate da simili speranze e dal desiderio di estendere i limiti della comunità, come del singolo individuo, si esercitano la letteratura e la scienza dell’epoca [R. Stites, 1988], ma non solo: mentre sui palcoscenici sovietici si consuma l’avventura della majakovskijana macchina del tempo, un’altra macchina sui generis compare nell’ambiente variegato dell’avanguardia sovietica: la Letatlin. Essa viene ideata da Vladimir Tatlin. Dedicatosi alla progettazione di oggetti quotidiani, l’artista approda nel 1929 alla macchina del volo, a cui lavora sino al 1932, due anni prima del Congresso degli Scrittori e degli Artisti sovietici che decreterà l’affermazione del realismo socialista, facendo di questa macchina «the last major design of the avant-garde period» [ M. Tsantsanoglou, 2013].
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Ciò che qui mi preme sottolineare è che, nel presentare il prodotto delle proprie fatiche ai visitatori della mostra al Museo Puškin di Mosca, Tatlin si serva, per descriverlo, di concetti ed espressioni che avevano caratterizzato la produzione dei primi anni Venti, volta alla creazione di oggetti quali, ad esempio, tute sportive o pentole in metallo, arrivando a definirlo un oggetto di tutti i giorni.
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Una macchina radicata nella mitologia di tutti i tempi e nel sognare utopico, come la macchina per volare, a dispetto della sua inefficienza, è quindi l’esito naturale di un’attenzione alla vita quotidiana. Il fatto è tanto più curioso in quanto è lo stesso Majakovskij, nel poema Il proletario volante, a celebrare l’aviazione e insieme ad auspicare l’introduzione di una simile macchina nella vita di tutti i giorni: “Verrà un anno/ zerato di zeri. / Si sarà spento il rimbombo/ delle ultime/ battaglie-tuoni. / A Mosca/ non ci sarà/ più un vicolo, / o una via, / solo aeroporti/ e case”.
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Un simile punto di partenza obbliga la riflessione ad arrestarsi. Che cosa si intende per oggetto di tutti i giorni? Quale portato esso racchiude e cosa spinge i maggiori esponenti dell’avanguardia sovietica a porre la loro attenzione su questo aspetto della vita ordinaria? Ciò che è certo è che un artista come Tatlin non possa aver fatto di un interesse particolaristico – esente da implicazioni politiche, sociali e ideologiche – una delle sue più attive preoccupazioni. Con lui Majakovskij, nel cui teatro l’attenzione verso le cose ha un’importanza fondamentale e la cui vicinanza al creatore della Letatlin è documentata sin dal 1922, in Sette giorni di rassegna della pittura francese. Qui Majakovskij narra di un incontro con Picasso, a cui racconta di aver rivolto la seguente domanda. “Possibile che vi procuri soddisfazione scomporre per la millesima volta un violino, concludere con un violino fatto di latta, sul quale non si può suonare, che non viene acquistato e il cui scopo è di rimanere appeso alla parete per deliziare lo sguardo dell’artista?”. Mostrando diffidenza in quella che, a suo dire, rischia di tramutarsi in una pratica piccolo-borghese, pratica contrapposta, da Majakovskij, al lavoro di Tatlin, volto «a dare una vera forma a questo ferro».
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L’attenzione che il poeta, polemista e drammaturgo rivolge alle cose è, dunque, tutt’altro che insignificante e, insieme, ben diversa da quell’attaccamento gretto e materiale che popola l’esistenza dei pingui borghesi e dei tronfi burocrati. L’autore, ne Il bagno, irride, infatti, il goffo tentativo di Pobiedonosikov, che intende portare con sé, attraverso il tempo, incartamenti legali, cappelliere, borse, fucili da caccia, un intero baule armadio. «Compagno, e che sono i grandi magazzini?» [Il bagno], sbotta la Donna fosforescente, invitando il capo ufficio per il coordinamento e il collegamento a lasciarne almeno una parte nel presente. Ma a nulla valgono tali avvertimenti: Pobiedonosikov verrà scaraventato al di fuori della macchina del tempo e con lui l’amante, il segretario, il ritrattista personale. Il futuro socialista rimane appannaggio degli Impuri. Riuscirà questo ipotetico avvenire a farsi carico delle profonde istanze e aspirazioni del Majakovskij poeta e quale complesso di determinazioni materiali sarà degno di accompagnare il passo degli Impuri?
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2.
Bottoni e bambole, mele e paralumi, palloncini, aringhe e reggipetti imbottiti… Una pletora di merci affolla il primo atto della commedia fantastica in nove quadri La cimice, scritta nell’autunno del 1928, ma il cui soggetto è concepito assai prima e sicuramente sin dal 1927, anno di stesura della sceneggiatura cinematografica Dimentica il caminetto. Passano pochi mesi e la commedia è messa in scena con la regia di Vsevolod Mejerchol’d, scene di Aleksandr Rodčenko e musiche di Dmitrij Šostakovič. Corre l’anno 1929 e un’altra opera fa la sua apparizione dinnanzi al pubblico sovietico: L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, dove, in modo affatto singolare, la giornata di un cineoperatore si apre all’insegna di vetrine d’esposizione e venditori ambulanti.
*
Cose triviali, in apparenza ovvie sfilano dunque dinnanzi allo spettatore teatrale, come a quello cinematografico, documentando l’attenzione che in questi anni l’intelligencija va prestando alle cose e il tentativo da parte della stessa di criticare e mettere al bando le rimanenze della Nuova Politica Economica. Vertov e Majakovskij riflettono su quel feticismo della merce a cui Marx aveva dedicato parte della sua opera più imponente; il primo, ampliando il discorso che aveva inaugurato con Kinoglaz, dove l’intento era appunto quello di «mettere a nudo l’origine delle cose, a cominciare dal pane» [Il film Kinoglaz, D.V]; il secondo, mettendo in scena sia una gran quantità di merci che il loro rapporto con un protagonista d’eccezione: Prisypkin o Pierre Skripkin. Questi fa la sua entrata in scena in modo paragonabile a quella di un Augusto [F. Ferraresi, 2011]. Goffo e maldestro, tragicomico, improvvisato musicista e ballerino, egli incarna uno dei personaggi contro cui sovente si scaglia Majakovskij. Egli è il «nuovo ricco», il filisteus vulgaris, il prodotto di un sistema economico viziato come quello della NEP.
Sua la seguente battuta: «Compagno Bajan, in cambio del mio denaro esigo un matrimonio rosso e senza dei di nessun genere!» [La cimice, V.M.], alla quale non tarderà a rispondere l’adulatore, proponendo prontamente a Prisypkin un matrimonio in rosso con tanto di fidanzata rossa, bottiglie dal tappo rosso e una gran quantità di prosciutto rosso. L’intento di salvaguardare l’appartenenza alla piattaforma sovietica accompagna l’antieroe protagonista della commedia, similmente a quanto accade ad altri personaggi scaturiti dalla prodiga penna di Majakovskij. Il tema non è infatti nuovo, ma fa la sua comparsa sin dall’inizio degli anni Venti, come documentato dalla prima delle tre brevi commedie di propaganda scritte per lo Studio sperimentale del Teatro della satira di Mosca sotto il titolo di E che ne direste se?… dove il primo maggio del borghese Ivan Ivanovic trascorre tra sogni e preoccupazioni, non da ultima quella di dover rendere conto a terzi in merito alla propria adesione alla causa sovietica:
Accidenti! Arriva qualcuno. Di sicuro gli auguri di primo maggio.
(inquieto)
Scarmigliarsi i capelli! Con l’Internazionale in mano! Tutto nella debita forma. Tutto come si addice a chi si tiene ben saldo sulla piattaforma sovietica.
Prisypkin e Ivan Ivanovic sono i contraltari di Majakovskij, che all’ordinario dedicherà gran parte della sua attenzione, ma con diversi intenti ed esiti. Scrive il poeta in Tirate fuori il futuro, poesia del 1925: “Il comunismo / non è soltanto /sui campi, / nel sudore delle fabbriche. / È nella tua casa, anche, / a tavolino, / nei rapporti con gli altri, / nella famiglia, / nel costume”.
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L’esigenza di Majakovski relativa al costume è ben lontana dalla domanda di Prisypkin di un matrimonio rosso o dai capelli scarmigliati di Ivan Ivanovic. Essa non ha nulla a che fare con l’apparenza e con il riconoscimento di uno status sociale, come d’altronde documentato dal suo rifiuto di eleggere la moda ad arbitro delle scelte nel campo dei consumi. «Scordate la moda! / Al diavolo la balorda!» è l’imperativo pronunciato dal poeta nel 1929, in una poesia intitolata L’ultimo grido, e ribadito, solo un anno più tardi, in Vestiti per la gioventù, dove si legge: «Tenete / a freno / la moda!». L’autore si fa, in tale modo, il portavoce di un conflitto che va consumandosi sul piano della produzione materiale, tra una parte della popolazione, sensibile al richiamo e agli stilemi d’Occidente, così come alle abitudini di una vita borghese, e un’ala dell’intelligencija di sinistra, in seno alla quale erano nati il movimento costruttivista e il gruppo produttivista. Si assiste, infatti, in questi anni, al «tentativo di rimuovere la nozione di moda» [M. Zalambani, 1998]. Ma per quale motivo? Una possibile risposta alla domanda può forse essere ricavata dal tentativo di dare della moda una definizione quanto più accurata possibile. Su questo terreno non sarà inopportuno riportare alla memoria le considerazioni di George Simmel, per il quale: “La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni singolo un mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi”. [La moda, G. S.]
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Terreno di scontro/incontro ideale tra due forze di segno opposto le mode sono, ancora secondo Simmel, sempre mode di classe, in quanto quelle della classe elevata «si distinguono da quelle della classe inferiore e vengono abbandonate nel momento in cui quest’ultima comincia a farle proprie». Alla luce di quest’ultima considerazione può risultare più perspicua la ragione per la quale Majakovskij può aver stigmatizzato la moda quale retaggio della cultura borghese, sostituendo alle sue istanze quelle della funzionalità. Emblematiche di tale impresa le parole che il poeta riserva all’abito, indicando nel Moskvošvej, ente addetto all’abbigliamento, il luogo presso il quale le cittadine sovietiche potranno trovare indumenti semplici, leggeri e ampi, ma, soprattutto, ottimi per il lavoro.
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3.
Sbaglierebbe chi volesse leggere l’introduzione de La cimice e gli interventi di Majakovskij relativi agli indumenti come il frutto di un’attenzione episodica al complesso delle determinazioni materiali di cui è intessuta la vita del cittadino sovietico. Ad accompagnare gli oggetti già incontrati in apertura della commedia si trovano infatti, rileggendo l’intera opera del poeta, le cose più ovvie, come i cosmetici o le confezioni delle caramelle. Durante un intervento in occasione della presentazione della mostra «Venti anni di lavoro», Majakovskij evidenzia un dettaglio apparentemente marginale che, ritengo, valga la pena di riportare per intero: “Oggi, durante la relazione, la compagna Koltsova, che presiede l’assemblea, mi ha offerto una caramella. Sulla carta c’era scritto Mosselprom, e in alto si vedeva la stessa Venere! Vuol dire che le cose contro cui si lotta e si è lottato per vent’anni penetrano ancor oggi nella vita! La stessa decrepita e contorta bellezza si diffonde tra le masse, persino sulle caramelle, avvelena di nuovo il nostro cervello e snatura la nostra concezione dell’arte”.
L’intervento si inserisce pienamente all’interno del programma del LEF (Fronte di Sinistra delle Arti), la cui parola d’ordine e conquista «consiste nella lotta per desestetizzare le arti applicate» [Io stesso, V.M.], secondo le parole dello stesso Majakovskij che al Mossel’prom, agenzia commerciale sovietica, dedicherà, insieme al compagno Rodčenko, il proprio impegno, non da ultimo realizzando il celebre slogan «In nessun luogo come al Mossel’prom».
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Il disappunto dinnanzi ad una Venere sulla confezione di una caramella non è quindi il moto di sdegno di un intellettuale, forse anche interessato alle cose; esso nasce da un impegno in prima persona diretto ad informare la promozione e il confezionamento delle stesse. Fanno eco a questo impegno i numerosi interventi, nei quali talvolta fanno la loro comparsa brusche invettive e salde prese di posizione, come in Ai compagni che danno forma alla vita:
Cosiddetti registi! Quando dunque vi deciderete a lasciare, voi e i topi, il palcoscenico? Organizzate la vita reale!
Ritorna il violino di Picasso, o almeno ritorna la percezione che il poeta aveva dello stesso, ma, insieme, ritorna l’esigenza, espressa in queste poche righe, di scuotere, animare la quotidianità. Di qui l’attenzione verso le cose, grette e materiali, che tanta parte avevano già avuto nella prima produzione majakovskiana.
Agnese Azzarelli
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pangeanews · 5 years ago
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“A Mosca mi elogiavano per ogni verso che scrivevo”: su Vladislav Chodasevič, il poeta della notte europea, del candore nella tragedia
Vladislav Chodasevič il 7 gennaio 1917, al davanzale, durante una tremenda gelata, aveva appena finito la poesia Negli affanni d’ogni giorno… iniziata il 14 dicembre dell’anno prima, “d’un tratto odo il crepitio di un fuoco / che mi fa chiudere gli occhi”, quando gli entra in casa Geršenzon, suo amico e maestro, cioè così riportano le note di commento scritte da Chodasevič stesso sulla copia personale di Nina Berberova dell’opera Raccolta dei versi, stampata a Parigi nel 1927. Una scena, quella dell’arrivo di Geršenzon a ultimazione di poesia, che si ripete dopo pranzo il 17 dicembre del 1917: Chodasevič  aveva appena finito la poesia Sogni, “pure mi è chiaro che un nuovo riflesso / riverbera ora su tutto”, quando gli entra in casa Geršenzon, felice, raccontando del decreto sulla nazionalizzazione delle banche, e al ripetersi della scena, questa variazione allo stesso tempo piccola e gigantesca della stessa dinamica, sembra di trovarsi in uno dei giochi dell’eternità di Antonio Moresco, in cui è difficile stabilire cosa viene prima e se viene veramente prima e cosa dopo, ammesso venga dopo sul serio, e allora le note diventano i cartelli più affidabili nella terra di confine per definizione che è la poesia, e l’apparato delle note alla raccolta Non è tempo di essere di Vladislav Chodasevič, per la Bompiani, a cura di Caterina Graziadei, è tutto da leggere, e non me la sento di dire s’è stato più trascinante leggere le poesie di Chodasevič o se le note alle proprie poesie scritte da lui o gli altri scritti di Chodasevič recuperati dalla Graziadei per raccontare le poesie di Chodasevič. Quando tra te e il poeta c’è chi traduce dalla lingua del poeta alla tua, passando per la sua, sua di chi traduce intendo, la poesia di chi si sta leggendo? E qui non mi riferisco solo alle lingue nazionali, al russo e all’italiano, ma alla lingua che ognuno di noi ha sia anatomicamente nel palato sia, in senso appena appena più lato, nella propria mente: ancora, sono tutti piani in movimento, l’instabilità continua sulla quale Moresco fonda i suoi romanzi colossali e tremolanti.
*
Chodasevič scrive in un’altra lingua, ancora di più: in un altro alfabeto. Stare davanti all’originale di una poesia di Chodasevič per me è in parte come stare davanti a un quadro di Joan Miró, e se nel caso di Miró, nel trascriverne il nome, la cura sta nell’accentargli per bene la ó, provatevi voi a trascrivere correttamente e in originale il nome di Vladislav Felicianovič Chodasevič:  Владислав Фелицианович Ходасевич. Quali scarabocchi comporrebbe la mano non arresasi alla protesi della tastiera e al suo processore di parole elettronico con tutti i font utili e che ti dispensa da tutto, ti dispensa dall’imparare a scrivere. E come faccio a dire se mi sono attardato più sui primi quattro versi del 18 novembre 1906, “Solo, fra le anse del fiume, / allo stridìo di attardate gru, / oggi di nuovo apprendo/ la muta sapienza dei campi”, o se quando, tra le note, c’è quella del luglio 1923, e si parla della birreria di Berlino, dove andava spesso con Belyi: “Mariechen, bruttina, cagionevole, ricordava in qualcosa Nadja L’vova. Belyi si ubriacava, ballava con lei”. E Nadja L’vova chi è? È una poetessa morta suicida, nel 1913, e questa nota è di postilla alla poesia An Mariechen, “Che fai là, fissa al bancone della birra? Ti si è forse appiccicato?/ Qui servirebbe una ragazza di piglio, / e tu sei pallida e smunta”. Dai sapienti campi russi alle appiccicose bettole tedesche? Tra il 1906 e il 1923 ci sono stati: amori, divorzi, altre fughe d’amore, altre rotture e separazioni, rivoluzioni, emigrazioni, successi, foruncolosi, lauti pasti, indigenze, le stampe clandestine, le nuove liriche, la storia di un uomo incastonata nella storia di un paese, di tutta un’epoca, e di un uomo che si è voluto poeta e che quindi della poesia ha la sensibilità e la malattia, la superbia e la grande miseria. Lo stesso poeta che riporta la reazione alla lettura della sua poesia Un episodio, nel gennaio 1918, “suscitando il ‘tempestoso’ entusiasmo di Vjačeslav Ivanov (con levata di braccia al cielo). In seguito, a motivo di questi versi, gli antroposofi non mi davano più tregua”, e che nella nota alla poesia In riunione scrive “A Mosca mi elogiavano per ogni verso che scrivevo”, dal 1927 decide di smette di essere poeta, incarna la figura dell’intellettuale russo emigrato, studia Puškin e pubblica recensioni e articoli sui quotidiani: Chodasevič è morto, il poeta Chodasevič, Chodasevič è vivo, l’intellettuale russo emigrato Chodasevič, come lo sbirro D’Arco di Moresco in Canto di D’Arco: attraversa la città dei vivi e la città dei morti e la città di confine tra la città dei vivi e la città dei morti perché non si è mai del tutto vivi e basta, del tutto morti e basta (anche se Chodasevič poi muore del tutto il 14 giugno del 1939, come scrive Graziadei nella nota biografica: “Macerato da un cancro non diagnosticato per tempo, il poeta muore dopo lunghi tormenti, quando viene tentata una tardiva operazione, il 14 giugno 1939”).
*
Del 27 novembre 1916 è la poesia Al Parco Petrovskij, della sezione Per la via del grano, la prima de La raccolta dei versi, quindi la Notte europea, terza sezione dell’opera, è ancora lontana, eppure nella poesia Al Parco Petrovskij c’è la prefigurazione della notte che sta arrivando, che è già arrivata: Chodasevič è in auto, è l’alba, vede un uomo impiccato nel parco Petrovskij, il parco dei ricordi d’infanzia, Chodasevič ci andava a giocare accompagnato dalla njanja, bisogna far attenzione, non si può tradurre njanja con balia o tata, la njanja è una istituzione russa, è un fuoco della cultura russa, Chodasevič passa in auto all’alba con Anna Ivanovna e Igor’ Terent’ev e vede l’uomo impiccato nel parco Petrovskij della sua infanzia. Nella letteratura russa non mancano gli impiccati. La prima che mi viene a mente: la bimba violata da Stavrogin, che s’impicca nel capitolo censurato de I demoni, romanzo pubblicato nel 1873 ma che verrà stampato con il capitolo censurato, inserito in appendice, solo nel 1926. La bimba impiccata di Dostoevskij e della letteratura russa mi rimanda alla letteratura italiana e a Antinisca, allora, “la bambina che si era impiccata a una trave due o tre appartamenti sopra il mio, e che incontravo ogni giorno sull’ascensore”, così Antonio Moresco in Lettere a nessuno, ma la bambina impiccata attraverserà molte opere di Moresco, come un trauma. La violenza di un trauma ha la poesia Al Parco Petrovskij di Chodasevič, che viene dopo Dostoevskij e prima di Moresco, ammesso in letteratura tengano le coordinate del prima e del dopo. Nella poesia di Chodasevič l’impiccato senza nome è un uomo che indossava un cappello, prima, “Era nero il cappello / rotolato sulla sabbia”. Chodasevič ricorda fosse immobile il corpo dell’uomo impiccato a una cinghia sottile: “Pendeva, senza oscillare”: quanto tempo prima è successo, allora? Per quanto tempo è rimasto esposto e abbandonato a sé stesso quel corpo offeso? Tutta la notte? Ci deve essere voluta tutta la notte per calmare il dondolio della cinghia scossa dalle convulsioni, dal dolore del soffocamento. Quel corpo deve essere rimasto lì per tutta la notte e solo adesso, mentre il sole sorge, comincia a attirare dell’attenzione. “Sotto, la gente s’affollava / in un cerchio ammutolito”. Allora quanto in alto si trova il corpo immobile dell’impiccato? A quale ramo di quale albero di quale altezza? Chiude Chodasevič: “Era quasi invisibile / la cinghia sottile”. Per chi non distingue a colpo d’occhio la cinghia nella luce granulosa dell’alba, dunque, in un primo momento, l’uomo impiccato deve essere parso un uomo sospeso in aria: un uomo impiccatosi al cielo con una corda d’aria. Un uomo immobile, sospeso tra la sabbia del parco dell’infanzia e il cielo all’alba, morto. La notte stava arrivando, la notte era appena arrivata, la notte arriverà, la notte si era capovolta nell’alba, l’alba si capovolgerà nella notte, Moresco nei suoi romanzi prova a instillare poesia scrivendo centinaia di pagine invece che i pochissimi versi scelti, e Chodasevič passando in auto guarda un uomo impiccato e senza nome e, prima che al secolo accadesse di nuovo e per la prima volta tutto quello che ci è successo, il dandy russo Chodasevič, l’ammalato umiliato costantemente dalle sue infermità Chodasevič, scrive una poesia su un uomo impiccata dal niente, nel niente.
Antonio Coda
*In copertina: Vladislav Chodasevič (1886-1939), il poeta prediletto da Vladimir Nabokov
L'articolo “A Mosca mi elogiavano per ogni verso che scrivevo”: su Vladislav Chodasevič, il poeta della notte europea, del candore nella tragedia proviene da Pangea.
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