#undici ritratti
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fashionbooksmilano · 1 year ago
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Saltimbanchi
Marie Desplechin, Emmanuelle Houdart
Logos, Modena 2012, 48 pagine, ill. , Rilegato, 28x37,5 cm, ISBN 9788857604411
euro 25,00
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"Accorrete, non abbiate paura in città è arrivato il circo. Siamo saltimbanchi e viviamo alla giornata. Venite a vedere, grandi e bambini, lasciatevi cullare dalle nostre parole: siamo narratori di favole, mescoliamo magia, illusione e poesia. Sotto il nostro tendone tutto è possibile!" 
Le sorelle siamesi, la donna barbuta, il colosso, la lillipuziana, il musicista senza braccia e senza mani… Undici ritratti strani e bellissimi che immortalano artisti circensi come altrettanti inviti a immaginare per loro vite straordinarie e numeri stupefacenti. L’illustratrice ha affidato i suoi personaggi a Marie Desplechin, che ha dato loro un nome e ha inventato per loro un destino necessariamente fuori dal comune: “Emmanuelle ha immaginato e disegnato undici personaggi favolosi. Me li ha affidati. Sono arrivati alla spicciolata, prima le gemelle siamesi, poi l’uomo senza arti e la donna barbuta, poi il colosso, la cartomante e la lillipuziana… Uno dopo l’altro, ho dato a ciascuno di loro un nome e una storia, poi una famiglia che andava formandosi da sola man mano che scrivevo. È stato facile e divertente: ai vari personaggi i ritratti calzavano a pennello! Così abbiamo inventato il nostro circo itinerante, una famiglia profondamente umana, in cui regnano la fantasia, il coraggio, l’ingegno. E, ovviamente, l’amore.” Marie Desplechin
Dal racconto di una vita rocambolesca a un altro, Emmanuelle e Marie intrecciano i legami che uniscono questi saltimbanchi e ci raccontano questo circo con un umorismo tenero e una profonda poesia. Su un tema dalle immagini abbastanza stereotipate, Emmanuelle trova nuove piste per trascinarci al centro di una moltitudine di personaggi favolosi. Le figure rappresentate appaiono insieme stranamente familiari e al contempo molto enigmatiche, ben riconoscibili e tuttavia avvolte da un velo trasparente che ce ne separa; gli sguardi, le pose, gli elementi che li compongono e li circondano ce li rendono lontani e misteriosi. Hanno una presenza magnetica e stupefacente. Ritroviamo qui l’universo ibrido di Emmanuelle Houdart – corallo o vegetale, maschio o femmina, piuma o pelo? – e i suoi motivi ricorrenti – l’uovo, la spugna, i libri. E quando l’immagine potrebbe rivelarsi troppo disturbante o crudele, ecco che il testo di Marie Desplechin interviene a rassicurare. La diversità diventa fonte di fascino e seduzione. E come al circo, ci si stupisce, si trema, si ride con quegli uomini e quelle donne che non sono come tutti gli altri ma sono comunque nostri simili, nostri fratelli.
08/07/23
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stranotizie · 1 year ago
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Undici ritratti, undici casi studio portati sulla pagina dalla psichiatra e psicoterapeuta forense Gwen Adshead in collaborazione con la scrittrice Eileen Horne. Adshead e Horne si avvicinano a undici menti criminali, pazienti dell’ospedale psichiatrico di massima sicurezza di Broadmoor, in Inghilterra, per mettere in discussione il nostro concetto di «male»: anche dietro le storie più buie c’è un principio di luce. “Il diavolo in noi” è un’immersione profonda nelle menti ai confini tra bene e male che fa vibrare le corde della compassione. Lo trovate in libreria!
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lamilanomagazine · 2 years ago
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Modena, il ritratto di Carlo Sigonio della bolognese Lavinia Fontana è ora esposto nella Galleria Nazionale d'Irlanda
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Modena, il ritratto di Carlo Sigonio della bolognese Lavinia Fontana è ora esposto nella Galleria Nazionale d'Irlanda.   Il ritratto dello studioso modenese Carlo Sigonio, importante dipinto del Museo Civico di Modena eseguito nel 1578 da Lavinia Fontana è esposto a Dublino, alla Galleria Nazionale d’Irlanda nella mostra dedicata alla pittrice e intitolata “Lavinia Fontana: Trailblazer, Rule Breaker”, in italiano “Una pioniera che infrange le regole” che ospita opere provenienti dai maggiori musei italiani e internazionali tra i quali gli Uffizi, la Pinacoteca nazionale di Bologna, la Galleria Spada di Roma, il British Museum, il Louvre. Il titolo della mostra, curata da Aoife Brady e aperta fino al 28 agosto, mette l’accento sulla straordinaria capacità dell’artista bolognese di costruirsi una carriera di livello internazionale aprendo così la strada ad altre pittrici in un’epoca in cui il mondo dell’arte era dominato dagli uomini. Lavinia Fontana, nata a Bologna nel 1552, era figlia d’arte e suo padre Prospero, affermato pittore e uomo di cultura, fu anche il suo primo maestro. Fino a oltre la metà dell’Ottocento, infatti, alle donne non era permesso frequentare botteghe, scuole o accademie d’arte. Il matrimonio con il mediocre pittore Paolo Zappi, celebrato nel 1577, non interruppe la sua carriera anche perché il padre aveva avuto la lungimiranza di specificare nel contratto matrimoniale che era dovere del marito occuparsi dei guadagni che la moglie avesse ottenuto come “pittora”. Di fatto, Zappi divenne l’agente di Lavinia che alla fine degli anni Ottanta del Cinquecento era una ritrattista affermata che dipingeva prevalentemente ritratti di notabili bolognesi: farsi ritrarre dalla “pittora” era diventata quasi una moda per le nobildonne e gli uomini di cultura affermati come, appunto, Carlo Sigonio che fu ritratto dopo il trasferimento a Bologna per ricoprire la cattedra di Eloquenza nello studio. Nel dipinto la pittrice registra con minuziosa attenzione gli oggetti che simboleggiano il ruolo del professore universitario: l'abito, il manto foderato di pelliccia, il colletto e i polsini, gli strumenti del lavoro intellettuale, i libri, il tagliacarte, il calamaio, gli occhiali, il biglietto ripiegato con la scritta “Al Molto Mag.co et Ecel.te mio il S.or Carolo Sigonio, Bologna”, collocati sul tavolo. Nel 1583, Lavinia Fontana ricevette la sua prima commissione pubblica: una pala d’altare per la cattedrale di Imola, la prima opera a soggetto religioso e destinata a una chiesa dipinta da una donna. Nello stesso periodo la famiglia decise di trasferirsi a Roma dove l’artista godette di un periodo particolarmente brillante e dove morirà nel 1614 dopo una carriera straordinaria, come dimostra anche la grande quantità di opere sopravvissute, progettata e perseguita in modo instancabile e tenace, mantenendo un volume di lavoro altissimo nonostante le undici gravidanze portate a termine.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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unfilodaria · 2 years ago
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Letizia Battaglia
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Le foto di Letizia a Trani dal 31 Marzo al 31 Maggio 2023 a Palazzo delle Arti "Beltrani". Per informazioni: tel. 0883/500044
incarna in sè arte, impegno civile, partecipazione e passione. Trani la celebra ad un anno dalla sua scomparsa con una straordinaria mostra monografica che testimonia trent’anni di vita e società italiana.
“Letizia Battaglia. Testimonianza e narrazione”, fruibile dal 31 marzo al 31 maggio 2023 dal martedì alla domenica, dalle ore 10.00 alle 18.00, a Palazzo delle Arti Beltrani, è una carrellata di 30 scatti in bianco e nero che hanno segnato a fuoco la memoria visiva della storia del nostro Paese, passando dalla inconsapevole bellezza delle bambine dei quartieri poveri siciliani (uno su tutti ‘La bambina con il pallone del quartiere Cala di Palermo’) al volto di Pier Paolo Pasolini, ai morti per mano della mafia, tra cui Piersanti Mattarella, e poi, ancora, le processioni religiose, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino all’arresto del feroce boss Leoluca Bagarella.
Testimonianza vera, spesso crudele e cruenta, dell’appassionato impegno civile e politico di Letizia Battaglia che per trent’anni ha fotografato la sua terra, la Sicilia, con immagini che denunciano l’attività mafiosa nei coraggiosi reportage per il quotidiano «L’Ora» di Palermo, che l'ha eletta di fatto ad una delle prime fotoreporter italiane. La fama di Letizia Battaglia, nomen omen, è passata nel corso degli anni da una dimensione regionale a una nazionale e internazionale. Notorietà premiata, oltre che da numerosi riconoscimenti in tutto il mondo, anche dal New York Times che nel 2017 ha inserito la fotografa ottantaduenne tra le undici donne più influenti dell’anno, per l’impegno dimostrato come artista.
Il percorso espositivo tranese intende restituire l’intensità che caratterizza tutto il suo lavoro: dall’attività editoriale a quella teatrale e cinematografica, passando per l’affresco della Sicilia più povera e la denuncia dell’attività mafiosa, della miseria, del degrado ambientale, conseguenza della deriva morale e civile.
«Questa mostra, composta da immagini provenienti dall’Archivio Letizia Battaglia di Palermo e selezionate dai loro curatori Marta e Matteo Sollima, nipoti della fotografa, rappresenta un’occasione preziosa per conoscere l’artista Battaglia, divulgare la sua opera e celebrarla nel nostro territorio ad un anno dalla scomparsa – commenta Alessia Venditti, autrice con Andrea Laudisa dei testi che accompagnano l’esposizione. Battaglia è riconosciuta come una delle più grandi interpreti del Novecento e la fotografia, vocazione a tempo pieno, è stato lo strumento con cui ha rivelato la cruda realtà della mafia, del clientelismo e della povertà; celebri sono altresì i suoi ritratti, tra cui spicca la serie di fotografie scattate a Pasolini presso il Circolo Turati di Milano.
La mostra tranese e le foto per essa selezionate, che riguardano il periodo di produzione che va dal 1972 al 2003, hanno l’intento di svelare al pubblico il modo di intendere la fotografia di Letizia Battaglia come arma di ribellione e missione.
Il percorso espositivo è completato dalla proiezione del documentario di Francesco Raganato "Amore amaro” (2012), visibile durante la fruizione della mostra».
In occasione della preview della mostra per la stampa, con ingresso solo su invito, giovedì 30 marzo alle ore 18:30, Alessia Venditti presenterà l’opera della fotografa introducendo il progetto espositivo ideato con Marta e Matteo Sollima, curatori dell’archivio palermitano. Interverranno Niki Battaglia, direttore del Palazzo delle Arti Beltrani, e il sindaco della città di Trani, Amedeo Bottaro. 
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diceriadelluntore · 3 years ago
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Storia Di Musica #202 - Lou Reed, Transformer, 1972
Mick Rock, uno dei più grandi fotografi del rock (tra l’altro recentemente scomparso), quando sviluppò delle foto che fece ad uno dei suoi miti (già all’epoca), si accorse che spesso erano leggermente fuori fuoco. Il mito le vide e gli piacquero così tanto che decise di usarne una per il suo nuovo disco, quello della rinascita. Lou Reed era a Londra agli inizi degli anni ‘70, dopo la tempestosa uscita dei leggendari Velvet Underground di cui fu leader e cantante, per registrare due dischi con la RCA. Il primo, a nome Lou Reed, registrato nel 1971 ed uscito nel ‘72, nonostante la produzione di Richard Robinson e la partecipazione di star della musica come Steve Howe e Rick Wakeman degli Yes e Caleb Quaye, il fidato chitarrista di Elton John, fu un fiasco, che mostrava la svogliatezza di Reed, che in pratica pescò dei brani scarto del periodo Velvet. Si pensava al tramonto di una leggenda. Ma la RCA continuava a sperare, e decise di produrre un secondo disco londinese di Reed. Unica condizione, che a curarlo sarebbero stati David Bowie e Mick Ronson, reduci dal successo spaziale di Hunky Dory e che nel 1972 lavoravano nientemeno che a Ziggy Stardust. Per Bowie e Ronson è la realizzazione dello stesso sogno di Mick Rock: lavorare per un mito, e mettono in campo tutta la loro genialità e lucidità musicale per creare qualcosa di grandioso. Registrato in due mesi ai Trident Studios di Londra, Transformer esce nel novembre 1972: gli undici brani diventano leggendari, tra i più famosi in assoluto di Reed e alcuni, che scopriremo tra poco, icone della musica rock. Bowie e Ronson chiamano gli Spiders From Mars a suonare, tra cui spiccano i nomi di John Halsey (batteria), Trevor Bolder (che suonò il basso per anni con gli Uriah Heep e che qui suona la tromba) e soprattutto Klaus Voormann, mitico bassista e sessionista dei Beatles (per i quali disegnò la storica copertina di Revolver del 1966) e Herbie Flowers (basso, contrabbasso, tuba), uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi, con partecipazioni in oltre 500 dischi e innumerevoli capolavori, che in questo disco avrà un ruolo decisivo. Bowie era il supervisore, Ronson il vero e proprio produttore, curando anche tutti gli assoli di chitarra, la produzione e gli arrangiamenti degli archi per numerosi brani. La chiave del successo fu l'accostare lo sguardo decadente e tagliente di Reed, i racconti della sua vita, con lo scintillante tocco musicale di Bowie e Ronson, in un disco che parla apertamente di travestitismo, prostituzione, hangover, droghe e altre cose sull’orlo del lato selvaggio. Si parte con Vicious, che in una famosa intervista Reed confermò essere ispirata ad un pensiero di Andy Warhol: «Mi disse "Perché non scrivi una canzone intitolata Vicious (=Vizioso)?", e io dissi "Che tipo di vizioso?", "Oh, sai, vizioso come se ti colpissi con un fiore", e l'ho scritto letteralmente», con le schitarrate di Ronson che sferzano come una sciabola di fiori; la vita della Factory è chiaramente l’ispirazione per Andy’s Chest, per arrivare al primo capolavoro: Perfect Day è una dolente ballata dal significato aperto a molte interpretazioni, basata sul rimpianto delle cose come sono e su come avrebbero potuto essere, probabilmente dedicata alla fidanzata di allora, e futura prima moglie Bettye Kronstad, anche se molti vedono nell’osservazione della tranquillità di un parco cittadino una metafora sul dolore di non essere più “una brava persona” per le dipendenze che si soffrono. Rimane uno dei brani simbolo di Reed, tra l’altro reinterpretata da centinaia di artisti nei decenni successivi. Hangin’ Around è uno dei classici ritratti di personaggi di matrice reediana, tra persone che sembrano interessanti ma non lo sono, quelli che fanno finta di nulla, quelli che vivono dissidi potentissimi personali ma non lo danno a vedere. Poi arriva un riff di contrabbasso, che diventerà mitico, che il fido Flowers improvvisò durante la registrazioni, e Reed, quasi narrandole, ci racconta di altri bizzarri personaggi: di Holly che da Miami in Florida ha fatto l’autostop fino a New York, e che per strada si è rasata le sopracciglia, fatto la ceretta alle gambe (si parla di Holly Woodlawn, una delle star della Factory di Warhol, definita da Truman Capote “uno dei volti degli anni ‘60); di Candy che veniva da Long Island ed era fissa al Max’s Kansas City, nei cui bagni offriva prestazioni orali ma non di tipo canoro (Candy Darling, altra star della Factory, a cui Reed già dedicò una fantastica canzone del periodo Velvet Underground, Candy Says); Little Joe invece è un prostituto (Joe Dallesandro, altra star della Factory, protagonista del discusso film Flesh del 1968, e probabilmente il modello che indossava il jeans in un’altra storica copertina del rock, Sticky Fingers dei Rolling Stones, che fu ideata da Warhol); Sugar Plum Fairy, che è uno slang per spacciatore, è riferito ai fornitori di sostanze che in quelle frenetiche settimane di metà anni ‘60 non andavano mai via dalla Factory;  Jackie vuole diventare un’attrice, o meglio, la James Dean donna, e Reed si chiede se davvero abbia voglia di schiantarsi (con riferimenti metaforici anche alla droga, dato che speeding e crash sono allusioni, Jackie è Jackie Curtis, altra attrice di quel fantasioso gruppo). E tutti questi bizzarri personaggi chiedono se si è pronti “a fare una passeggiata sul lato selvaggio”, rendendo Walk On The Wild Side una delle canzoni più famose della storia del rock, anche per l'assolo di tuba dello stesso instancabile Flowers, che leggenda vuole fu pagato due volte per lo stesso brano, una per il contrabasso e una volta per la suonata di tuba. Ma la meraviglia non finisce qui: dalla bellezza di Satellite Of Love, altra meravigliosa e dolente ballata, altro gioiello della costellazione di Reed; I’m So Free, una sorta di manifesto del suo pensiero, con memorabile riff, Make Up che diventerà un’icona della musica glam che con questo disco arriva ad uno dei suoi picchi, la filastrocca di New Telephone Conversation (ispirata anch’essa a Warhol, e alle strampalate telefonate notturne che faceva ai suoi amici), per finire con l’ennesimo gioiello: Goodnight Ladies è una delle numerose citazioni colte che Reed disseminerà nei suoi lavori (laureato cum laude in Inglese alla Syracuse University nel 1964): si rifà infatti al titolo di una delle poesie di The Waste Land di T.S. Eliot (che a sua volta riprendeva un verso dell’Amleto di Shakespeare, in Atto 4, Scena 5, pronunciato da Ofelia) ed è un brano jazz style che sa di crooner e di serata divertente (You said we could be friends, but that's not what's not what I want\And, anyway, my TV-dinner's almost done\It's a lonely Saturday night) e che chiude in maniera ironica e pungente, aria che pervade tutto l’album, uno dei capolavori della musica rock. Fu un successo anche insperato, con Reed impaurito che le evidenti allusioni delle canzoni venissero censurate. Non accadde ai brani, ma al retro della copertina, dove c’erano due immagini di Ernst Thormahlen, famoso designer e disegnatore: in una è una drag queen, nell’altra è con maglietta bianca, cappello da motociclista e jeans attillati a far risaltare un'erezione. L'edizione italiana fu censurata con un fascione dorato con la scritta "Produced by David Bowie and Mick Ronson" che attraversava la copertina coprendo entrambe le foto all'altezza dell'inguine. All’epoca i nostri censori non volevano saperne di camminare sul lato selvaggio.
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fotopadova · 5 years ago
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De Nittis e la rivoluzione dello sguardo
di Cristina Sartorello
E’ aperta al Palazzo dei Diamanti a Ferrara la mostra “De Nittis e la rivoluzione dello sguardo”, una retrospettiva sul pittore di Barletta, con opere provenienti dal museo della cittadina e da collezioni private; accompagnano i dipinti esclusivamente di Giuseppe De Nittis, numerose stampe fotografiche ottocentesche su carta all’albumina, al collodio, alla gomma bicromatata, ed altro provenienti dalla Biblioteca nazionale di Francia, dal Museo d’Orsay di Parigi e da Monaco.
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           Alfred Stieglitz, Istantanea, Parigi 1911
La mostra a cura di Maria Luisa Pacelli, Barbara Guidi ed Hélène Pinet intende rileggere la parabola creativa dell’artista da una prospettiva che evidenzia la  peculiarità  e specificità della sua arte e il suo modo, per certi versi inedito, di guardare la realtà e tradurla con immediatezza sulla tela per mezzo di inquadrature audaci, tagli improvvisi, prospettive sorprendenti affiancate a una sapiente resa della luce e delle atmosfere. Che si tratti di paesaggi assolati del sud Italia, di ritratti o delle affollate piazze di Londra e Parigi, De Nittis ha lasciato una serie di istantanee che rappresentano il mondo nel suo apparire fugace e transitorio, partecipando attivamente a quel “nuovo sguardo” che apre la strada alla modernità.
Pur senza dimenticare le esigenze del mercato e facendosi interprete del gusto delle esposizioni universali, attraverso un linguaggio teso alla sperimentazione e una sensibilità ottica affine a quella degli amici Manet, Degas e soprattutto Caillebotte, De Nittis ha abbracciato quella “rivoluzione dello sguardo” che segna l’avvento della modernità in arte, a cui nella Parigi di fine Ottocento contribuisce il confronto tra la pittura e i codici della fotografia e dell’arte giapponese che De Nittis studiò, con dimostrazioni pratiche di maestri giapponesi invitati a casa di amici, e collezionò.
A confermare l’occhio fotografico del pittore si noti in mostra l’affiancamento dei suoi dipinti a fotografie d’epoca firmate dai più importanti autori del tempo, da Edward Steichen, a Gustave Le Gray, da Alvin Coburn a Alfred Stieglitz, oltre ad alcune delle prime immagini in movimento dei fratelli Lumière, presenti in mostra con cinque loro filmati.
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          Gustave Le Gray, Barca al chiaro di luna ca. 1856-1857
Prende vita così un percorso avvincente scandito da circa centocinquanta opere, di cui 52 fotografiche degli stessi anni, provenienti da importanti collezioni pubbliche e private d’Italia e d’Europa, volto a mettere in evidenza il contributo dell’artista alla comune creazione del linguaggio visivo della modernità.
L’esposizione nel Palazzo dei Diamanti è divisa in undici sezioni; interessante la sala introduttiva con l’opera molto fotografica “La traversata degli appennini” ed un inventario post mortem dei beni appartenuti a De Nittis, morto nel 1884 a soli 38 anni, che comprendeva anche una scatola contenente cento fotografie.  
Non esistono documenti, testimonianze o dichiarazioni che dimostrino che De Nittis facesse uso della fotografia, ma sicuramente ne era interessato, quindi la curatrice Helene Pinet ha deciso di procedere ad un raffronto tra le opere dell’artista e le fotografie scattate nel periodo in cui egli visse, cioè nella seconda metà dell’ottocento.
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      Clarence Hudson White, Paesaggio invernale, 1903
Ingres, Delacroix e Courbet usavano le fotografie come modelli per realizzare le loro composizioni,  ma la riproduzione fotografica fu anche fonte di problemi con il diffondersi delle foto incisioni della Maison Goupil, a cui De Nittis aveva dato l’esclusiva per la vendita dei suoi quadri: “quando un pittore minore aveva bisogno di qualche centinaio di franchi, faceva fotografare il mio quadro”, e con la foto incisione, qualche tocco di colore ed ecco riprodotti in miniatura copie dei suoi quadri.
Assai interessante in quel periodo le sequenze fotografiche del movimento di un cavallo di Maybridge e le sue foto confermarono le osservazioni del fisiologo Etienne Jules Marcy, il quale sosteneva che in un determinato momento del trotto tutte quattro le zampe del cavallo non toccassero il suolo; perciò è probabile che anche De Nittis conoscesse le lastre del fotografo britannico che registravano la scomposizione del movimento, pubblicate dalla stampa francese nel 1878.
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      Constant Puyo, Donna in barca sulla Senna, ca. 1898-1914
Il pittore conduceva con la famiglia a Parigi un alto tenore di vita e questo gli permise di diventare amico della principessa Matilde, cugina dell’imperatore Napoleone III, conoscendo così il nipote Giuseppe Primoli, fotografo amatoriale che sosteneva che “tutto ciò che è nuovo è bello”.
Il confronto tra la visione fotografica e quella del pittore solleva problemi singolari, il primo tra questi è il soggetto e nessun   fotografo può rivaleggiare con una serie di tematiche così vaste affrontate da De Nittis nei suoi quadri, per cui il confronto è con una serie di fotografi professionisti e dilettanti.
Il secondo punto riguarda la tecnica e la realizzazione pratica molto più semplice per il pittore che usava una tela ed il cavalletto en plein air, mentre il fotografo aveva un equipaggiamento fragile ed ingombrante, usando il procedimento al collodio umido per verificare la giusta esposizione, fino all’invenzione nel 1880 del procedimento della gelatina al bromuro d’argento, con il quale si può finalmente parlare di foto istantanee.
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      Alfred Stieglitz, Miss S.R.,1904
Mentre il pittore compone il fotografo si limita a scegliere, ritagliare dalla scena il pezzo di realtà che ha davanti, ma questo comporta comunque un atto creativo, perché significa scrivere il punto di vista dell’osservatore.
A quel tempo i preparati chimici mancavano di sensibilità e l’azzurro del cielo impressionava la lastra più rapidamente del giallo e verde della vegetazione, perciò ritrarre contemporaneamente il cielo ed il soggetto principale era improponibile, ma Charles Marville e Gustave Le Gray si specializzarono nella composizione ed inquadratura dei cieli, mentre per il paesaggio sono mirabili le fotografie della foresta di Fontainbleau di Eugene Cuvelier.
Nel 1860 esistevano editori di fotografie come gli Alinari a Firenze ed è possibile che De Nittis abbia conosciuto il fotografo Giorgio Sommer, le cui foto con le sue vedute panoramiche del Vesuvio, compresa la sua eruzione nel 1872, erano in vendita all’ingresso del Museo Nazionale di Napoli.
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         Eugène Cuvelier, Strada lastricata a Chailly, 1850-1860
Molto significativa anche la bruma che avvolge tutto e sfuma le immagini, soggetto della fotografia pittorialista di fine secolo, mentre la fotografia urbana si era arricchita di un tema del tutto nuovo, cioè quello dell’architettura ingegneristica, come fece Charles Marville incaricato dalla città di Parigi di documentare tutti gli arredi urbani, con la creazione di archivi fotografici dei cantieri degli architetti.
L’ambiente mondano delle corse all’ippodromo è raffigurato dall’americano Edward Steichen ed Henri Lemoine, esponenti della fotografia pittorialista, o il dilettante Giuseppe Primoli, che custodiva le sue foto in appositi album di formato quasi quadrato, esposte nella mostra di Palazzo dei Diamanti, schegge di tempo di una vita felice, come nei primi film dei fratelli Lumiere, con il punto di vista unico e l’inquadratura fissa, nei quali si ha l’impressione che si stia guardando un’immagine che da ferma si anima.
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          Henri Lemoine, All’ippodromo, figure, 1894
De Nittis in tutta la sua vita ha sempre pensato fotograficamente, come il suo amico e collega Caillebotte ed entrambi hanno creato una pittura prettamente fotografica; anche se questo è stato frutto di ricerche e studi da parte della curatrice ed altri ricercatori, non esistono prove conclamate per dimostrare che la novità, l’inventiva e l’audacia delle loro opere derivino unicamente dal mezzo espressivo fotografico, ma la bellezza dei loro quadri è una prova certa di un’arte raffinata.
La mostra è visitabile tutti i giorni dalle ore 9 alle ore 19 al Palazzo dei Diamanti a Ferrara, fino al 13 aprile 2020.
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otticabisogno · 4 years ago
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Mai Visto Così.
L’arte & la pubblicità
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Francesco Galdo, Museo dell’Occhiale, Salerno 7/20 aprile 2019
 Undici artisti notissimi nell’immaginario collettivo, da Vincent Van Gogh a Leonardo da Vinci, da Tamara de Lempicka a Giorgio de Chirico a Sandro Botticelli, a Raffaello Sanzio; dodici capolavori, reinterpretati dalla genialità di Francesco Galdo. 
Tecniche miste con un dettaglio singolare: Galdo ha apposto occhiali in un gioco di sguardi talora corrisposti, per rompere gli schemi di una percezione unilaterale, quella dei fruitori. Stavolta, sono i soggetti immortalati per sempre dai grandi maestri del passato a prendersi gioco degli astanti. La lungimiranza di Massimo Bisogno che nel suo “Museo dell’Occhiale” ha ricreato, con i ritratti realizzati da Galdo, uno spazio per l’arte che stimola e rinnova i campi semantici abusati della pubblicità. Un binomio vincente e d’effetto per sottolineare che la vista ha un potere altissimo nell’umano rapporto con l’ars pingendi. Per Francesco Galdo, art director pubblicitario, l’arte è una lente di ingrandimento potentissima; “esalta i piccoli frammenti del vivere che si mettono in luce”. Per Massimo, il furore dell’arte sublima l’animo. La connessione con la pubblicità potrebbe risultare arcana e desueta; ribaltata e contrapposta. Coesistono invece e si intersecano, fuori dai luoghi deputati, per strada o in mirabolanti tableaux vivants di iterata memoria. Arte e pubblicità stigmatizzano da sempre molte azioni umane; si impongono nella mente e nel cuore come rivelazioni al di fuori di ogni aristotelico paradigma visivo. Occhial per focalizzare gli spettatori novelli e quelli costumati. “Mai Visto Così”, un evento da osservare che ci fa riflettere e riscoprire condivise emozioni. Le rivisitazioni di Francesco Galdo hanno una potente carica di gioviale esprit, affatto dissacratorio. Monna Lisa e Vincent, Afrodite ed Edvard tendono a scardinare piuttosto, visioni prospettiche cristallizzate entro gli obsoleti schemi della cultura d’Occidente
                                                                                    Teobaldo Fortunato
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freedomtripitaly · 5 years ago
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Possiamo raccontare Venezia come una delle città più belle al mondo per la sua arte, cultura e per i luoghi storici da visitare. Essa, infatti, non ha bisogno di grandi presentazioni: è conosciuta in tutto il mondo per la sua unicità e meravigliosa bellezza, e visitarla è quasi un obbligo. La “Serenissima” è capoluogo dell’omonima città e della regione del Veneto: per le peculiarità urbanistiche e per il suo patrimonio artistico, Venezia, è universalmente considerata tra le più belle città del mondo ed è stata dichiarata, assieme alla sua laguna, patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO. Come visitare Venezia Venezia è una città lagunare bagnata dalle acque del Canal Grande (infatti a Venezia un giro in gondola è d’obbligo), le cui sponde sono caratterizzate da circa duecento palazzi storici, costruiti su antiche palafitte dall’aristocrazia veneziana del tempo. Il favoloso centro storico lagunare di Venezia, poi, è diviso in ben sei sestieri: San Marco che rappresenta il nucleo della città, la zona di Castello, la più orientale tra i sestieri e che prende il nome da un antico forte costruito per la difesa della città stessa, Canareggio molto famoso per via del ghetto veneziano e San Polo e Santa Croce, i quali rappresentano il cuore più antico ed originario di Venezia. Infine, vi è Dorsoduro, situato a sud della città, il cui nome deriva dal fatto che si tratta di una zona caratterizzata, fin dall’antichità, da un terreno stabile e meno paludoso rispetto ad altre aree. Le origini della città risalgono al periodo romano, quando i popoli veneti, per proteggersi dai continui attacchi dei barbari, si trasferirono sugli isolotti della laguna veneziana. Partendo semplicemente da questi piccoli insediamenti, la città di Venezia iniziò ad espandersi e a diventare uno dei maggiori centri economici, politici e militari, fino a diventare la “Serenissima”, ossia una delle Repubbliche più autorevoli in tutta Europa. I punti della sua potenza sono senza dubbio da individuare nel sistema politico, il quale era concentrato, ai tempi, nelle mani di un Doge, magistrato imperiale con poteri anche militari; fondamentale fu anche lo sviluppo del sistema commerciale marittimo, che consacrò Venezia come uno dei centri commerciali più importanti al mondo. Oggi la struttura urbanistica del centro storico della città l’espressione vivente della storia della laguna: lo stile dei palazzi storici, delle calle, delle piazze e dei ponti, dimostrano la forte influenza della cultura bizantina e, proprio per questa ragione, chi sceglie di visitare Venezia non potrà non rimanere abbagliato dalla fascino di questo luogo. Attualmente, la raffinata arte di Venezia può essere ammirata nei manufatti degli artigiani veneziani, i quali sono veri e propri artisti nella lavorazione del vetro e del ricamo. Venezia è inoltre circondata da diverse isole e, fra le più importanti, ricordiamo Burano, famosa per la produzione di merletti; Murano, culla della lavorazione del vetro; Pellestrina, caratterizzata da alti canneti e dune sabbiose e Torcello, uno degli insediamenti umani più antichi della zona. Elegante, inimitabile e preziosa: così è Venezia, un museo a cielo aperto, dove chiese, palazzi, ponti e piazze raccontano la vivacità ed unicità che segnano sin dai tempi antichi la storia di questa città. Gli imperdibili musei di Venezia Venezia è caratterizzata da uno dei sistemi museali più famosi ed importanti al mondo che custodiscono opere artistiche della città, dalle origini fino ai giorni nostri. Tra i vari musei vi sono alcuni degli spazi espositivi più famosi al mondo, come la Collezione Peggy Guggenheim e sontuosi palazzi come Ca’ Rezzonico e Ca’ Pesaro, divenuti centri museali dopo essere stati dimore di importanti famiglie aristocratiche. La Fondazione Musei Civici di Venezia riunisce undici musei: Palazzo Ducale, Museo Correr, Torre dell’Orologio, Ca’ Rezzonico, Ca’ Pesaro, Casa di Carlo Goldoni, Palazzo Mocenigo, Palazzo Fortuny, Museo del merletto di Burano, Museo di Storia Naturale, Museo del Vetro di Murano. Un immenso patrimonio culturale con oltre 700.000 opere d’arte, un vero e proprio sistema museale, ricco ed articolato, nato nel marzo 2008, che tutela e valorizza le bellezze della città di Venezia. Inoltre, la Fondazione stessa, favorisce l’aggregazione di soci partecipanti, pubblici e privati, che condividano le sue finalità ed istituisce relazioni con altri sistemi museali, nazionali ed internazionali, e sviluppa partnership con soggetti privati. Proprio per il loro copioso numero, abbiamo fatto la selezione di alcuni tra gli imperdibili musei di Venezia, i quali rappresentano al meglio l’artisticità ed esclusività della città stessa. Museo d’Arte Orientale a Ca’ Pesaro Nel famoso palazzo storico di Ca’ Pesaro, al terzo piano, troviamo il Museo d’Arte Orientale di Venezia. Esso conta con una straordinaria collezione composta da oggetti d’arte raccolti dal principe Enrico di Borbone, il quale trascorse circa nove mesi in Giappone ed un lungo periodo in Indonesia. Questo museo è stato inaugurato nel 1929 e si tratta della più ampia e prestigiosa collezione d’arte orientale in tutta Europa; molto apprezzata è la sezione giapponese, a cui sono state dedicate ben sette sale, seguita da quella cinese con le sue preziose esposizioni di porcellane e giade. Tessuti batik, pugnali kris e e figure in cuoio del wayang, invece, sono ammirabile nella sala dedicata all’Indonesia e alla sua storia. Tra i pezzi più rari e preziosi, troviamo le conchiglie dipinte in oro utilizzate nel gioco Kaiawase del periodo Muromachi, intorno alla metà del trecento. Ca’ Rezzonico Ca’ Rezzonico è opera degli architetti Longhena e Massari ed è proprio al suo interno che ha luogo il famoso Museo del Settecento: esso ospita opere di inestimabile valore, realizzate da artisti come Guardi, Canaletto, Longhi e Tiepolo. Questo palazzo è articolato in undici sale, all’interno delle quali è possibile ammirare antichi affreschi, dipinti e sculture del primo Settecento. Il primo piano è costituito da un grandioso salone: questo ambiente monumentale non trova rivali a Venezia, sia per la qualità delle decorazioni pittoriche, sia per le notevoli dimensioni. Questo enorme spazio è un’esaltazione araldica dei proprietari del palazzo, le aquile bicipiti del loro stemma sono ripetute su tutti i capitelli delle colonne ed, in questo modo, il visitatore viene trasportato in una dimensione magica e fiabesca all’interno delle mura domestiche. Il secondo piano, in particolar modo, è caratterizzato da alcuni dipinti di Canaletto e da una sala che ospita gli affreschi di Tiepolo e Longhi, entrambi stimati artisti dell’epoca. La Pinacoteca Egidio Martini, invece, domina il terzo piano: qui potrete trovare circa 300 opere, quasi tutte di scuola veneziana, che vanno dal Quattrocento agli inizi del Novecento. Infine, il Mezzanino Browning, ospita la Collezione Mestrovich, tra cui spiccano importanti opere di artisti come Bonifacio de’ Pitati e Tintoretto. Museo Storico Navale Il Museo Storico Navale di Venezia è stato inaugurato nel 1923 ed ha sede in un edificio del XV secolo, vicino all’Arsenale. Questo museo è articolato su quattro piani ed i primi 3 ospitano le attrezzature di svariate epoche marinare, tra cui modelli di imbarcazioni tradizionali e navi orientali come le giunche cinesi. All’ultimo piano si trova la Sala Svedese, testimonianza dei proficui scambi commerciali che legavano Venezia alla Scandinavia per lo sviluppo dell’industria aeronautica. Poco dopo la sua realizzazione, nel 1577, venne adattato temporaneamente a sede del Maggior Consiglio, ossia il principale organo di governo della città. Le sale mantennero comunque la funzione di falegnameria specializzata per la creazione di remi, affiancata da un’officina febbrile e da spazi di deposito, fino alla metà dell’Ottocento. Dal 1980 gli spazi delle officine dei remi hanno assunto la denominazione di Padiglione delle Navi, nel quale sono ospitate imbarcazioni di grande rilievo storico oltre a costituire un ampliamento della sede principale del museo. Museo Correr Le opere di Teodoro Correr, originariamente ospitate presso il Fontego dei Turchi, sono oggi ammirabili presso il Museo Correr di Venezia. Le Collezioni storiche del Museo Correr sono conservate al primo piano dell’edificio: al suo interno vi sono dipinti, affreschi e sculture come il Dedalo ed Icaro del Canova. Nelle altre sale, invece, sono contenuti alcuni reperti appartenenti ai Dogi, ritratti, costumi tipici dell’epoca, raccolte numismatiche e svariate riproduzioni del Leone di San Marco. Al secondo piano, troviamo il Museo del Risorgimento dedicato alla storia della città, così come la Quadreria, dove le tele sono disposte seguendo l’ordine cronologico dell’evoluzione della scuola veneziana. Avrete la possibilità, proprio qui, di osservare opere uniche come il Cristo morto sorretto da due angeli del Bellini, la Pietà di Antonello da Messina e le Due dame veneziane del Carpaccio. Collezione Peggy Guggenheim La Collezione Peggy Guggenheim è una fra le più prestigiose al mondo e comprende centinaia di opere d’arte europee ed americane del XX secolo. Essa ha sede presso il Palazzo Venier dei Leoni, al tempo dimora di Peggy Guggenheim. La collezione comprende opere del periodo del futurismo e dell’astrattismo di grandi artisti come Boccioni, Chagall, Picasso, Modigliani e molti altri; qui vengono poi organizzati eventi, cene di gala e visite esclusive alla collezione, con l’uso esclusivo del giardino e dell’ampia terrazza panoramica su Canal Grande. Fino al 1979, anno della morte di Peggy Guggenheim, per volontà della proprietaria, una volta a settimana la dimora veniva aperta gratuitamente al pubblico, il quale poteva così godere della collezione. Un viaggio nella vita di Peggy Guggenheim: la mostra scandisce gli eventi che hanno segnato i trent’anni trascorsi nella laguna dalla mecenate americana, con un approfondimento sul collezionismo post 1948. In occasione della mostra, le sale di Palazzo Venier dei Leoni. Ospitano la maggior parte delle opere acquistate tra il 1938, quando a Londra Peggy apre la sua prima galleria Guggenheim Jeune, ed il 1947, anno in cui si stabilisce definitivamente a Venezia. Palazzo Ducale Palazzo Ducale è una fra le più antiche opere della città di Venezia e, ad oggi, è considerato un imperdibile capolavoro gotico grazie alla sua imponente facciata. L’interno è reso elegante grazie alla presenza del marmo di Verona posto su archi di pietra, a loro volta sostenuti da da colonne con magnifici capitelli e sculture agli angoli. Quando l’edificio è stato costruito, aveva un disegno simile a quello di un castello, con torri agli angoli, e si trovava in un punto strategico con facile accesso al mare. Attualmente, il Palazzo Ducale è un museo che ospita mostre di grande interesse storico ed è aperto al pubblico offrendo una vasta gamma di itinerari, quali “Gli Itinerari segreti di Palazzo Ducale” ed “I tesori nascosti del Doge”. Esso offre una magnifica esperienza per chiunque sia interessato alla storia della città lagunare ed al design del palazzo stesso. I musei gratis di Venezia Ogni prima domenica del mese, a Venezia, l’entrata di alcuni musei è completamente gratuita. Si tratta di un’iniziativa molto interessante promossa dal Comune della città e dalla Fondazione Musei Civici di Venezia: una giornata, appunto, di ingressi gratuiti nei musei e nei siti archeologici più importanti d’Italia. I musei coinvolti in questa iniziativa sono: il Museo archeologico nazionale di Altino, il museo nazionale di Villa Pisani, Galleria “Giorgio Franchetti” alla Cà d’Oro, Museo di Palazzo Grimani, Gallerie dell’Accademia, Museo nazionale archeologico Concordiese, sale monumentali della Biblioteca nazionale Marciana. Venezia, la città che non stanca mai Durante il giorno, Venezia, accoglie un gran numero di visitatori, i quali si dirigono alla scoperta delle opere d’arte, dei musei, delle piazze, delle chiese e dei palazzi; mentre la sera si trasforma nel luogo ideale per fare festa tutti insieme. Se poi amate le lunghe passeggiate, Venezia è senza dubbio la città per voi. Il tempo vola nella splendida laguna, soprattutto se ci si trova immersi nelle meraviglie di Piazza San Marco, Ponte di Rialto, Ponte dei Sospiri: ecco i luoghi da visitare a Venezia, ideali per scattare foto pazzesche! E dopo aver scoperto Venezia in lungo ed in largo, arriva anche il momento di sedersi e rilassarsi davanti ad un buon piatto caldo. Gli italiani amano la buona cucina ed in città potrete sicuramente trovare trattorie e taverne che sapranno soddisfare anche i palati più raffinati: tortellini, tagliatelle, pasta lasagne, gelato… E chi più ne ha, più ne metta! Venezia, dunque, è proprio come una bella donna italiana, dal carattere indomabile, ma dal fascino irresistibile: ogni anno milioni di viaggiatori approdano a Venezia per scoprire tutte le meraviglie di questa incantevole città. https://ift.tt/3087ndy Musei di Venezia: quelli da non perdere Possiamo raccontare Venezia come una delle città più belle al mondo per la sua arte, cultura e per i luoghi storici da visitare. Essa, infatti, non ha bisogno di grandi presentazioni: è conosciuta in tutto il mondo per la sua unicità e meravigliosa bellezza, e visitarla è quasi un obbligo. La “Serenissima” è capoluogo dell’omonima città e della regione del Veneto: per le peculiarità urbanistiche e per il suo patrimonio artistico, Venezia, è universalmente considerata tra le più belle città del mondo ed è stata dichiarata, assieme alla sua laguna, patrimonio dell’umanità da parte dell’UNESCO. Come visitare Venezia Venezia è una città lagunare bagnata dalle acque del Canal Grande (infatti a Venezia un giro in gondola è d’obbligo), le cui sponde sono caratterizzate da circa duecento palazzi storici, costruiti su antiche palafitte dall’aristocrazia veneziana del tempo. Il favoloso centro storico lagunare di Venezia, poi, è diviso in ben sei sestieri: San Marco che rappresenta il nucleo della città, la zona di Castello, la più orientale tra i sestieri e che prende il nome da un antico forte costruito per la difesa della città stessa, Canareggio molto famoso per via del ghetto veneziano e San Polo e Santa Croce, i quali rappresentano il cuore più antico ed originario di Venezia. Infine, vi è Dorsoduro, situato a sud della città, il cui nome deriva dal fatto che si tratta di una zona caratterizzata, fin dall’antichità, da un terreno stabile e meno paludoso rispetto ad altre aree. Le origini della città risalgono al periodo romano, quando i popoli veneti, per proteggersi dai continui attacchi dei barbari, si trasferirono sugli isolotti della laguna veneziana. Partendo semplicemente da questi piccoli insediamenti, la città di Venezia iniziò ad espandersi e a diventare uno dei maggiori centri economici, politici e militari, fino a diventare la “Serenissima”, ossia una delle Repubbliche più autorevoli in tutta Europa. I punti della sua potenza sono senza dubbio da individuare nel sistema politico, il quale era concentrato, ai tempi, nelle mani di un Doge, magistrato imperiale con poteri anche militari; fondamentale fu anche lo sviluppo del sistema commerciale marittimo, che consacrò Venezia come uno dei centri commerciali più importanti al mondo. Oggi la struttura urbanistica del centro storico della città l’espressione vivente della storia della laguna: lo stile dei palazzi storici, delle calle, delle piazze e dei ponti, dimostrano la forte influenza della cultura bizantina e, proprio per questa ragione, chi sceglie di visitare Venezia non potrà non rimanere abbagliato dalla fascino di questo luogo. Attualmente, la raffinata arte di Venezia può essere ammirata nei manufatti degli artigiani veneziani, i quali sono veri e propri artisti nella lavorazione del vetro e del ricamo. Venezia è inoltre circondata da diverse isole e, fra le più importanti, ricordiamo Burano, famosa per la produzione di merletti; Murano, culla della lavorazione del vetro; Pellestrina, caratterizzata da alti canneti e dune sabbiose e Torcello, uno degli insediamenti umani più antichi della zona. Elegante, inimitabile e preziosa: così è Venezia, un museo a cielo aperto, dove chiese, palazzi, ponti e piazze raccontano la vivacità ed unicità che segnano sin dai tempi antichi la storia di questa città. Gli imperdibili musei di Venezia Venezia è caratterizzata da uno dei sistemi museali più famosi ed importanti al mondo che custodiscono opere artistiche della città, dalle origini fino ai giorni nostri. Tra i vari musei vi sono alcuni degli spazi espositivi più famosi al mondo, come la Collezione Peggy Guggenheim e sontuosi palazzi come Ca’ Rezzonico e Ca’ Pesaro, divenuti centri museali dopo essere stati dimore di importanti famiglie aristocratiche. La Fondazione Musei Civici di Venezia riunisce undici musei: Palazzo Ducale, Museo Correr, Torre dell’Orologio, Ca’ Rezzonico, Ca’ Pesaro, Casa di Carlo Goldoni, Palazzo Mocenigo, Palazzo Fortuny, Museo del merletto di Burano, Museo di Storia Naturale, Museo del Vetro di Murano. Un immenso patrimonio culturale con oltre 700.000 opere d’arte, un vero e proprio sistema museale, ricco ed articolato, nato nel marzo 2008, che tutela e valorizza le bellezze della città di Venezia. Inoltre, la Fondazione stessa, favorisce l’aggregazione di soci partecipanti, pubblici e privati, che condividano le sue finalità ed istituisce relazioni con altri sistemi museali, nazionali ed internazionali, e sviluppa partnership con soggetti privati. Proprio per il loro copioso numero, abbiamo fatto la selezione di alcuni tra gli imperdibili musei di Venezia, i quali rappresentano al meglio l’artisticità ed esclusività della città stessa. Museo d’Arte Orientale a Ca’ Pesaro Nel famoso palazzo storico di Ca’ Pesaro, al terzo piano, troviamo il Museo d’Arte Orientale di Venezia. Esso conta con una straordinaria collezione composta da oggetti d’arte raccolti dal principe Enrico di Borbone, il quale trascorse circa nove mesi in Giappone ed un lungo periodo in Indonesia. Questo museo è stato inaugurato nel 1929 e si tratta della più ampia e prestigiosa collezione d’arte orientale in tutta Europa; molto apprezzata è la sezione giapponese, a cui sono state dedicate ben sette sale, seguita da quella cinese con le sue preziose esposizioni di porcellane e giade. Tessuti batik, pugnali kris e e figure in cuoio del wayang, invece, sono ammirabile nella sala dedicata all’Indonesia e alla sua storia. Tra i pezzi più rari e preziosi, troviamo le conchiglie dipinte in oro utilizzate nel gioco Kaiawase del periodo Muromachi, intorno alla metà del trecento. Ca’ Rezzonico Ca’ Rezzonico è opera degli architetti Longhena e Massari ed è proprio al suo interno che ha luogo il famoso Museo del Settecento: esso ospita opere di inestimabile valore, realizzate da artisti come Guardi, Canaletto, Longhi e Tiepolo. Questo palazzo è articolato in undici sale, all’interno delle quali è possibile ammirare antichi affreschi, dipinti e sculture del primo Settecento. Il primo piano è costituito da un grandioso salone: questo ambiente monumentale non trova rivali a Venezia, sia per la qualità delle decorazioni pittoriche, sia per le notevoli dimensioni. Questo enorme spazio è un’esaltazione araldica dei proprietari del palazzo, le aquile bicipiti del loro stemma sono ripetute su tutti i capitelli delle colonne ed, in questo modo, il visitatore viene trasportato in una dimensione magica e fiabesca all’interno delle mura domestiche. Il secondo piano, in particolar modo, è caratterizzato da alcuni dipinti di Canaletto e da una sala che ospita gli affreschi di Tiepolo e Longhi, entrambi stimati artisti dell’epoca. La Pinacoteca Egidio Martini, invece, domina il terzo piano: qui potrete trovare circa 300 opere, quasi tutte di scuola veneziana, che vanno dal Quattrocento agli inizi del Novecento. Infine, il Mezzanino Browning, ospita la Collezione Mestrovich, tra cui spiccano importanti opere di artisti come Bonifacio de’ Pitati e Tintoretto. Museo Storico Navale Il Museo Storico Navale di Venezia è stato inaugurato nel 1923 ed ha sede in un edificio del XV secolo, vicino all’Arsenale. Questo museo è articolato su quattro piani ed i primi 3 ospitano le attrezzature di svariate epoche marinare, tra cui modelli di imbarcazioni tradizionali e navi orientali come le giunche cinesi. All’ultimo piano si trova la Sala Svedese, testimonianza dei proficui scambi commerciali che legavano Venezia alla Scandinavia per lo sviluppo dell’industria aeronautica. Poco dopo la sua realizzazione, nel 1577, venne adattato temporaneamente a sede del Maggior Consiglio, ossia il principale organo di governo della città. Le sale mantennero comunque la funzione di falegnameria specializzata per la creazione di remi, affiancata da un’officina febbrile e da spazi di deposito, fino alla metà dell’Ottocento. Dal 1980 gli spazi delle officine dei remi hanno assunto la denominazione di Padiglione delle Navi, nel quale sono ospitate imbarcazioni di grande rilievo storico oltre a costituire un ampliamento della sede principale del museo. Museo Correr Le opere di Teodoro Correr, originariamente ospitate presso il Fontego dei Turchi, sono oggi ammirabili presso il Museo Correr di Venezia. Le Collezioni storiche del Museo Correr sono conservate al primo piano dell’edificio: al suo interno vi sono dipinti, affreschi e sculture come il Dedalo ed Icaro del Canova. Nelle altre sale, invece, sono contenuti alcuni reperti appartenenti ai Dogi, ritratti, costumi tipici dell’epoca, raccolte numismatiche e svariate riproduzioni del Leone di San Marco. Al secondo piano, troviamo il Museo del Risorgimento dedicato alla storia della città, così come la Quadreria, dove le tele sono disposte seguendo l’ordine cronologico dell’evoluzione della scuola veneziana. Avrete la possibilità, proprio qui, di osservare opere uniche come il Cristo morto sorretto da due angeli del Bellini, la Pietà di Antonello da Messina e le Due dame veneziane del Carpaccio. Collezione Peggy Guggenheim La Collezione Peggy Guggenheim è una fra le più prestigiose al mondo e comprende centinaia di opere d’arte europee ed americane del XX secolo. Essa ha sede presso il Palazzo Venier dei Leoni, al tempo dimora di Peggy Guggenheim. La collezione comprende opere del periodo del futurismo e dell’astrattismo di grandi artisti come Boccioni, Chagall, Picasso, Modigliani e molti altri; qui vengono poi organizzati eventi, cene di gala e visite esclusive alla collezione, con l’uso esclusivo del giardino e dell’ampia terrazza panoramica su Canal Grande. Fino al 1979, anno della morte di Peggy Guggenheim, per volontà della proprietaria, una volta a settimana la dimora veniva aperta gratuitamente al pubblico, il quale poteva così godere della collezione. Un viaggio nella vita di Peggy Guggenheim: la mostra scandisce gli eventi che hanno segnato i trent’anni trascorsi nella laguna dalla mecenate americana, con un approfondimento sul collezionismo post 1948. In occasione della mostra, le sale di Palazzo Venier dei Leoni. Ospitano la maggior parte delle opere acquistate tra il 1938, quando a Londra Peggy apre la sua prima galleria Guggenheim Jeune, ed il 1947, anno in cui si stabilisce definitivamente a Venezia. Palazzo Ducale Palazzo Ducale è una fra le più antiche opere della città di Venezia e, ad oggi, è considerato un imperdibile capolavoro gotico grazie alla sua imponente facciata. L’interno è reso elegante grazie alla presenza del marmo di Verona posto su archi di pietra, a loro volta sostenuti da da colonne con magnifici capitelli e sculture agli angoli. Quando l’edificio è stato costruito, aveva un disegno simile a quello di un castello, con torri agli angoli, e si trovava in un punto strategico con facile accesso al mare. Attualmente, il Palazzo Ducale è un museo che ospita mostre di grande interesse storico ed è aperto al pubblico offrendo una vasta gamma di itinerari, quali “Gli Itinerari segreti di Palazzo Ducale” ed “I tesori nascosti del Doge”. Esso offre una magnifica esperienza per chiunque sia interessato alla storia della città lagunare ed al design del palazzo stesso. I musei gratis di Venezia Ogni prima domenica del mese, a Venezia, l’entrata di alcuni musei è completamente gratuita. Si tratta di un’iniziativa molto interessante promossa dal Comune della città e dalla Fondazione Musei Civici di Venezia: una giornata, appunto, di ingressi gratuiti nei musei e nei siti archeologici più importanti d’Italia. I musei coinvolti in questa iniziativa sono: il Museo archeologico nazionale di Altino, il museo nazionale di Villa Pisani, Galleria “Giorgio Franchetti” alla Cà d’Oro, Museo di Palazzo Grimani, Gallerie dell’Accademia, Museo nazionale archeologico Concordiese, sale monumentali della Biblioteca nazionale Marciana. Venezia, la città che non stanca mai Durante il giorno, Venezia, accoglie un gran numero di visitatori, i quali si dirigono alla scoperta delle opere d’arte, dei musei, delle piazze, delle chiese e dei palazzi; mentre la sera si trasforma nel luogo ideale per fare festa tutti insieme. Se poi amate le lunghe passeggiate, Venezia è senza dubbio la città per voi. Il tempo vola nella splendida laguna, soprattutto se ci si trova immersi nelle meraviglie di Piazza San Marco, Ponte di Rialto, Ponte dei Sospiri: ecco i luoghi da visitare a Venezia, ideali per scattare foto pazzesche! E dopo aver scoperto Venezia in lungo ed in largo, arriva anche il momento di sedersi e rilassarsi davanti ad un buon piatto caldo. Gli italiani amano la buona cucina ed in città potrete sicuramente trovare trattorie e taverne che sapranno soddisfare anche i palati più raffinati: tortellini, tagliatelle, pasta lasagne, gelato… E chi più ne ha, più ne metta! Venezia, dunque, è proprio come una bella donna italiana, dal carattere indomabile, ma dal fascino irresistibile: ogni anno milioni di viaggiatori approdano a Venezia per scoprire tutte le meraviglie di questa incantevole città. Venezia è una città stupenda, ricca di storia e di luoghi da scoprire come i numerosi musei, scrigno di tesori artistici e pittorici incredibili.
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fashionbooksmilano · 1 year ago
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Prima, donna Margaret Bourke-White
a cura di Alessandra Mauro con un testo di Concita De Gregorio
ContrastoBooks, Roma 2020, 184 pagine, 124 fotografie, 24 x 30 cm, cartonato, ISBN 9788869658075
euro 35,00
email if you want to buy [email protected]
Prima, donna. Margaret Bourke-White, il volume che ripercorre le vicende e il lavoro di una delle figure più rappresentative ed emblematiche del fotogiornalismo internazionale. Una donna che, con le sue immagini, le sue parole e tutta la sua vita, è stata in grado di creare un personaggio forte e invidiabile costruendo il mito attraente di se stessa.
Pioniera dell’informazione e dell’immagine, Margaret Bourke-White ha esplorato ogni aspetto della fotografia: dalle prime immagini dedicate al mondo dell’industria e ai progetti corporate, fino ai grandi reportage per le testate più importanti come Fortune e Life; dalle cronache visive del secondo conflitto mondiale, ai celebri ritratti di Stalin prima e poi di Gandhi (conosciuto durante il reportage sulla nascita della nuova India e ritratto poco prima della sua morte); dal Sud Africa dell’apartheid, all’America dei conflitti razziali  fino al brivido delle visioni aeree del continente americano. E a un certo punto sarà Margaret Bourke-White stessa che accetta di porsi davanti e non dietro all’obiettivo, diventando a sua volta il soggetto di un reportage in cui il collega Alfred Eisenstadt documenta la lotta della fotografa contro il morbo di Parkinson, malattia che la porterà alla morte. Una battaglia in cui non avrà paura di mostrarsi debole e invecchiata, nonostante un’eleganza e un buon gusto a cui non rinuncerà mai, confermandosi ancora una volta la prima in tutto.
“Se ti trovi a trecento metri di altezza, fingi che siano solo tre, rilassati e lavora con calma”, era il motto di Margaret Bourke-White. Il libro pubblicato da Contrasto ne ripercorre i molti primati, raccontati lungo un doppio binario. Attraverso undici capitoli, che corrispondono ad altrettante fasi della vita della fotografa, la potenza delle immagini si accosta a quella della forte voce di Margaret Bourke-White. È infatti lei che, in prima persona, scrive e racconta il suo lavoro, le avventure vissute, le sfide vinte. Una scrittura visiva, che completa e arricchisce la storia di ogni sua memorabile fotografia.
13/06/23
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paoloferrario · 6 years ago
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Adolescenza impavida, ritratti e storie di giovani donne che combattono il cancro. Undici adolescenti che sono passate dal reparto di Oncoematologia pediatrica di Padova. Undici storie di ragazze che hanno combattuto la loro lotta contro il cancro e ne portano i segni sulla pelle: le ha ritratte la fotografa Anna Bussolotto, da Il Mattino di Padova, 15 dicembre 2018
Adolescenza impavida, ritratti e storie di giovani donne che combattono il cancro. Undici adolescenti che sono passate dal reparto di Oncoematologia pediatrica di Padova. Undici storie di ragazze che hanno combattuto la loro lotta contro il cancro e ne portano i segni sulla pelle: le ha ritratte la fotografa Anna Bussolotto, da Il Mattino di Padova, 15 dicembre 2018
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lamilanomagazine · 2 years ago
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Sassari, presentata la stagione La Grande Prosa e Danza
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Sassari, presentata la stagione La Grande Prosa e Danza. Viaggio tra le umane passioni con la Stagione 2022-2023 de La Grande Prosa e Danza organizzata dal CeDAC/ Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna al Teatro Verdi e al Teatro Comunale di Sassari, con il patrocinio e il sostegno del Comune di Sassari, della Regione Sardegna e del MiC / Ministero della Cultura e con il contributo della Fondazione di Sardegna. Undici titoli in cartellone tra dicembre e aprile, con i grandi protagonisti della scena italiana e internazionale, tra moderne riletture di classici, da Shakespeare a Molière, e testi di autori contemporanei, spaziando tra brillanti commedie, divertissement in musica e ritratti d'artista, echi della storia del Novecento e intricati intrecci sentimentali, accanto alle affascinanti creazioni di celebri coreografi. Tra i protagonisti lo scrittore Daniel Pennac, artisti del calibro di Remo Girone, Maria Paiato con Mariangela Granelli e Ludovica D'Auria, Emilio Solfrizzi, Lucrezia Lante della Rovere e Stefano Santospago, Elio aka Stefano Belisari, e prestigiose compagnie di danza come l'Ukrainian Classical Ballet, la Koresh Dance Company, il Balletto di Roma e l'Aterballetto. Una programmazione ricca e variegata, pensata per un pubblico raffinato e esperto, amante della prosa e curioso delle novità, con una speciale attenzione per le giovani generazioni, che potranno (ri)scoprire immortali capolavori e confrontarsi con la nuova drammaturgia, oltre alle incantevoli favole sulle punte e le moderne variazioni dell'arte di Tersicore, con le spettacolari e suggestive coreografie di Roni Koresh, Valerio Longo e Johan Inger. Si parte – martedì 6 dicembre al Teatro Verdi – con un imperdibile “Dal Sogno alla Scena” in compagnia di Daniel Pennac, che firma la drammaturgia insieme con Clara Bauer e Pako Ioffredo: lo scrittore francese, sul palco con Pako Ioffredo e Demi Licata, si racconta e indaga le fonti della sua ispirazione, tra visioni oniriche, ricordi e emozioni. La Stagione de La Grande Prosa del CeDAC prosegue poi al Teatro Comunale di Sassari da giovedì 15 dicembre con “Ci Vuole Orecchio” dove Stefano “Elio” Belisari canta e recita Enzo Iannacci, poi lunedì 9 gennaio “La Tempesta” di William Shakespeare nell'immaginifica versione di Alessandro Serra (il regista di “Macbettu”), martedì 31 gennaio Remo Girone interpreta “Il cacciatore di nazisti / L'avventurosa vita di Simon Wiesenthal” con drammaturgia e regia di Giorgio Gallione. Si ispira alla figura e all'esistenza movimentata di Sarah Bernhardt, “La divina Sarah” di Eric-Emmanuel Schmitt con Lucrezia Lante della Rovere e Stefano Santospago, in programma martedì 28 febbraio, l'irresistibile comicità di Molière lunedì 20 marzo ne “Il malato immaginario” con Emilio Solfrizzi e per chiudere in bellezza, martedì 28 marzo appuntamento con “Boston Marriage” di David Mamet con Maria Paiato e Mariangela Granelli insieme con Ludovica D'Auria, incentrato sull'incontro-scontro tra due donne, un tempo legate ora nemiche, culminante in un vertiginoso e spietato duello verbale. La Stagione di Danza 2022-2023 del CeDAC al Teatro Comunale di Sassari si apre in bellezza venerdì 20 gennaio ore 21 con il Gran Gala Ballet dell'Ukrainian Classical Ballet: la compagnia di Kiev nella sua tournée europea sbarca anche in Sardegna con il suo ricco repertorio, tra capolavori della storia del balletto e coreografie originali. La Koresh Dance Company propone venerdì 10 febbraio “La Danse & Bolero”, con la nuova creazione di Roni Koresh, ispirata al celebre dipinto di Matisse e l'intrigante versione del coreografo israeliano del capolavoro di Ravel; omaggio al grande compositore argentino martedì 7 marzo con “Astor / Un secolo di Tango” del Balletto di Roma, un “concerto di danza” con coreografie di Valerio Longo e regia di Carlos Branca, con Mario Stefano Pietrodarchi a bandoneón e fisarmonica, e infine giovedì 13 aprile “Don Juan”, una creazione di Johan Inger per l'Aterballetto, in collaborazione con il dramaturg Gregor Acuña-Pohl, con musica originale di Marc Álvarez, per una reinterpretazione del mito dell'eterno seduttore. Tra storie d'amore e d'amicizia, note biografiche e diari, racconti e canzoni, splendide commedie – da “La Tempesta” a “Il malato immaginario”, a “Boston Marriage”, senza dimenticare “La divina Sarah” - la Stagione de La Grande Prosa racconta i labirinti della mente e del cuore, affrontando temi importanti – dalla tragedia della Shoah alla condizione delle donne, dal male di vivere, affidandosi alle parole di grandi autori teatrali, ma anche musicisti, con l'omaggio a Enzo Iannacci con il talento istrionico di Elio, e scrittori come Daniel Pennac. La danza lancia un messaggio di pace con il Gala dell'Ukrainian Classical Ballet, gioca tra rimandi pittorici, letterari, teatrali e musicali ne “La Danse & Bolero” e “Don Juan” e rende omaggio ad Astor Piazzolla, artista d'avanguardia e inventore del Tango Nuevo. La Stagione 2022-2023 de La Grande Prosa e Danza al Teatro Verdi e al Teatro Comunale di Sassari è organizzata dal CeDAC/ Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna, con il patrocinio e il sostegno del MiC / Ministero della Cultura, dell'Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport della Regione Autonoma della Sardegna e dell'Assessorato alla Cultura e Spettacolo del Comune di Sassari, con il prezioso contributo della Fondazione di Sardegna e il supporto di Sardinia Ferries, che ospita sulle sue navi artisti e compagnie in viaggio per e dalla Sardegna.... Read the full article
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fashioncurrentnews · 7 years ago
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Venezia: star del cinema e scrittori nell’albo d’oro del Gritti
Per i suoi 70 anni di gloria, The Gritti Palace si regala – e ci regala –  una galleria di ritratti realizzati dal fashion illustrator britannico David Downton. Legends of the Gritti, questo il nome della collezione di undici acquarelli, raffigura alcuni degli ospiti più iconici della storia del  famoso hotel veneziano, le cui fotografie sono abitualmente esposte negli spazi comuni e le cui dediche firmate sono raccolte nel “Libro d’Oro” dell’albergo.
Chi sono? Hernest Hemingway, Somerset Maugham e Peggy Guggenheim – i cui ritratti troveranno collocazione nelle suite a loro dedicate – e poi Grace Kelly, Greta Garbo, Lauren Bacall, Elisabeth Taylor, Marcello Mastroianni, Paul Newman, Humphrey Bogart, Charlie Chaplin – attori dal fascino intramontabile, rappresentati con lo stile classico e raffinato dell’illustratore per impreziosire la lobby dell’hotel.
La collaborazione con Downton – che ha lavorato per magazine quali Vogue, Harper’s Bazaar, V Magazine e per brand come Chanel Dior, Tiffany & Co., Estée Lauder, ritraendo negli anni Linda Evangelista, Paloma Picasso Dita Von Teese, Iman e Cate Blanchett – va ad arricchire la tradizione di mecenatismo che è un vanto dell’albergo, nato come palazzo della famiglia Pisani nel 1475, quindi trasformato in residenza privata del doge Andrea Gritti nel 1575, e successivamente divenuto casa d’elezione per famiglie nobili e nomi illustri dell’arte e dello spettacolo.
“I ritratti di David rimandano a quel mondo di glamour e di lusso discreto ma sofisticato, di cui il Gritti Palace è da sempre perfetto rappresentante”, commenta Paolo Lorenzoni, General Manager di The Gritti Palace, A Luxury Collection Hotel, Venice. Gli fa eco David Downton: “Che privilegio avere l’opportunità di ritrarre alcuni dei personaggi leggendari che hanno firmato il famoso Libro d’Oro del The Gritti Palace, che raccoglie il gotha delle icone del XX secolo. La loro magia, come quella dell’albergo, risuona ancora!”
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italianaradio · 5 years ago
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Se vincere è l’unica cosa che conta
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Se vincere è l’unica cosa che conta
Se vincere è l’unica cosa che conta
Se vincere è l’unica cosa che conta. “Se il mondo rassomiglia in modo impressionante a un campo di calcio …seduto sullo sterminato tappeto verde a scavarci buche con la sua paletta d’oro zecchino c’è ancora oggi Lionel Messi”. Sono le parole di Leonardo Colombati ad aprire la “partita perfetta” del numero di IL, maschile, in edicola dal 30 agosto con Il Sole 24 Ore.
Una copertina dedicata al calcio, gioco e affare, epica e commedia, fede secolarizzata e fabbrica di semidei: mentre comincia la nuova stagione, una squadra di scrittori mette in campo la sua formazione. Cristiano Ronaldo, Mario Balotelli, Dani Alves, Andrea Belotti, Mattia Destro, Manolo Prestin, Daley Blind, Aron Gunnarson, Nicolò Barella, Vagner Love, e appunto Leo Messi.
Grandi miti e campioni di provincia, mai arrivati a giocare nella massima serie: 11 calciatori protagonisti di 11 inediti ritratti d’autore. Come quello scritto da Andrea Vitali, nella sua zoomorfa interpretazione del pallone, che elenca le “ricchezze che abbiamo sotto gli occhi e rendono dolce la vita, perché di calcio vive non solo chi lo pratica, ma anche chi ne gode da una tribuna o curva, o anche da un divano”. O come Enrico Brizzi che teorizza: “Nel calcio vincere sarà anche l’unica cosa che conta, ma vincere con undici soldatini in campo è meno gratificante rispetto al riuscirci guidati da un “pazzo” circondato dall’aura della leggenda”.
Non solo calcio e sport sul numero di settembre del maschile del Sole 24Ore, ma un focus su sfide e occasioni di business. A cominciare dal fenomeno delle start up over fifty. Nella Startup Survey di Istat e Mise, il 33,5 per cento ha tra i 45 e i 64 anni, il 35,6 per cento tra i 35 e i 44. All’indomani del G7 e delle preoccupazioni mondiali per l’Amazzonia, non può mancare un focus sui grandi cambiamenti climatici dovuti all’inquinamento e le sue ricadute nel quotidiano di ciascuno di noi, comprese le “conversazioni sul tempo”, una volta argomento buono per rompere il ghiaccio col classico repertorio di luoghi comuni e mezze stagioni, oggi tema arroventato, che, più di politica e calcio, divide in opposti schieramenti.
  Se vincere è l’unica cosa che conta. “Se il mondo rassomiglia in modo impressionante a un campo di calcio …seduto […]
Elena Luviè
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fotopadova · 3 years ago
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Mario Giacomelli: Figure/Ground
da https://www.getty.edu (trad. G.Millozzi)
 --- Nato in povertà, in gran parte autodidatta, Mario Giacomelli è diventato uno dei più importanti fotografi italiani. Dopo aver acquistato la sua prima macchina fotografica nel 1953, ha iniziato a creare ritratti "umanistici" di persone colte nei loro ambienti naturali e astrazioni drammatiche di paesaggi. Ha continuato a fotografare nella sua città natale, Senigallia sulla costa adriatica italiana, ma non solo, per quasi cinquant'anni. Rese in bianco e nero ad alto contrasto, le sue fotografie sono spesso grintose e crude, sempre intensamente personali.
Questa interessante mostra a Los Angeles (USA) presso il Centro della Fondazione Getty è dedicata alla memoria di Daniel Greenberg (1941-2021) ed è stata possibile grazie alla donazione da lui fatta insieme a Susan Steinhauser.
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Mario Giacomelli (1925-2000) è unanimemente considerato come uno dei più importanti fotografi italiani del XX secolo. Nato in povertà, ha vissuto tutta la sua vita a Senigallia, una città sulla costa adriatica italiana, nelle Marche. Dopo aver perso suo padre all'età di nove anni ed aver completato ad undici la scuola elementare, ha fatto l'apprendista tipografo e lo stampatore, iniziando da autodidatta a dipingere e a scrivere poesie. Con i soldi donati da un anziano dell’ospizio dove la madre lavorava, aprì una sua tipografia, attività che gli ha assicurato la stabilità finanziaria per tutta la vita. Il suo impegno con la fotografia è iniziato poco dopo, profuso la domenica, quando il negozio era chiuso.
Dopo aver acquistato la sua prima macchina fotografica nel 1953, Giacomelli ottenne rapidamente numerosi riconoscimenti per la cruda espressività delle sue immagini, che echeggiavano molte dei temi del cinema neorealista del dopoguerra e della letteratura esistenzialista, con i loro interessi sulle condizioni della vita quotidiana e della gente comune come pensiero, individuale ed affettivo. La sua preferenza per la pellicola con grana grossa e per la carta da stampa ad alto contrasto lo ha portato a creare composizioni audaci e geometriche con neri profondi e bianchi luminosi. Focalizzando più frequentemente la sua macchina fotografica sulle persone, i paesaggi e le marine delle Marche, Giacomelli ha trascorso diversi anni ad esplorare la sua personale idea fotografica, ampliandola e reinterpretandola, o riproponendo un'immagine realizzata per una serie per includerla in un'altra. Dando inoltre alle sue opere titoli derivati ​​dalla poesia, trasformò soggetti familiari in meditazioni su temi esistenziali, il tempo, la memoria e sul senso dell'esistenza stessa.
 LA FORMAZIONE DI GIACOMELLI
Da giovane Giacomelli prestò per un breve periodo servizio nell'esercito italiano durante la II Guerra Mondiale. La sua pratica fotografica mostra l'influenza di due approcci prevalenti nella fotografia europea del dopoguerra: l' "umanesimo", che è spesso associato al fotogiornalismo, e l'espressione artistica come mezzo per esplorare la psiche interiore, derivata dalla teoria della fotografia soggettiva avanzata dal tedesco Otto Steinert (1915-1978). In Italia, questi approcci hanno trovato le loro rispettive controparti nei circoli fotografici "La Gondola", fondato a Venezia nel 1948, e "La Bussola", nato a Milano nel 1947. Giacomelli, da fotografo autodidatta, ha scambiato idee e conoscenze con i membri di entrambi i club. Fu anche cofondatore del circolo "Misa", una sezione locale de "La Bussola" che prese il nome dal fiume che scorre a Senigallia.
Le persone ed i luoghi di Senigallia sono motivi ricorrenti nell'opera di Giacomelli. Oltre a rivelare il suo interesse per le diverse comunità della sua città natale - dalle fotografie di una famiglia rom ai bambini che si divertono sulla spiaggia - dimostrando la sua capacità di combinare impulsi umanistici ed espressivi. Giacomelli sin da giovane capì come la grana grossa, il movimento e l'alto contrasto potevano fare di più che fornire semplicemente una sensazione di astrazione in quanto accrescevano anche il potere emotivo delle immagini.
 I PRIMI LAVORI (1956–60)
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Mia madre 1956, stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 Nel 1955 Giacomelli acquistò la fotocamera Kobell di seconda mano con obiettivo Voigtländer che avrebbe impiegato per il resto della sua carriera. In seguito la descrisse come qualcosa che era stato "rattolato", ossia tenuto insieme con del nastro adesivo e che perdeva sempre parti! Realizzata dai produttori milanesi Boniforti & Ballerio, la fotocamera utilizzava rullini 120 per produrre negativi 6 x 9 cm e dandogli la possibilità di usarla con obiettivi intercambiabili ed un flash sincronizzato. Per Giacomelli non era un dispositivo per registrare la realtà, ma un mezzo di espressione personale. La sua prima collaborazione con membri di club fotografici locali e nazionali e la sua sperimentazione con l'illuminazione naturale e artificiale, esposizioni multiple e altre tecniche con questa nuova macchina fotografica ed in camera oscura hanno presto portato a quella raffinatezza di un linguaggio visivo unico che lo contraddistingue.
Tra le prime fotografie di Giacomelli ci sono ritratti di familiari e amici: l'immagine di sua madre che tiene in mano una vanga è una delle sue più significative. Ha anche scattato fotografie di nature morte e studi di figura nella sua casa e nel giardino; i nudi esposti in mostra ritraggono il fotografo e sua moglie, Anna. Relativamente convenzionali nella composizione, queste opere illustrano come Giacomelli abbia imparato il suo mestiere, fornendo anche la misura in cui il suo soggetto è stato suggerito dalle persone e dai luoghi a lui più vicini.
 OSPIZIO | VERRÀ’ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI (1954–83)
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Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, n. 97 , 1966; stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 La prima opera che Giacomelli espose in serie fu Ospizio. Raffigura i residenti della casa per anziani di Senigallia, dove sua madre lavorava come lavandaia, che ha visitato per diversi anni prima di iniziare a fotografarvi. Realizzate con il flash, le immagini che ne risultano sono caratterizzate da uno studio inflessibile di individui che vivono i loro ultimi giorni. In seguito si riferirà a queste come le sue fotografie più vere e dirette perché riflettevano la sua stessa paura di invecchiare.
Giacomelli ha continuato questa serie per quasi tre decenni, ribattezzandola nel 1966 Verrà la morte e avrà i tuoi occhi come il titolo di una raccolta di poesie dello scrittore Cesare Pavese (1908-1950). Nel portfolio pubblicato nel 1981 ha intensificato le qualità inquietanti del declino e dell'isolamento mentale e fisico ingrandendo piccole porzioni dei suoi negativi e stampando su carta accartocciata anziché piatta.
"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dalla mattina alla sera, insonne".
—Tradotto da Geoffrey Brock, 2002
 LOURDES (1957 e 1966)
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Lourdes, 1957, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 In contrasto con Ospizio / Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, la serie Lourdes descrive persone che vivono con malattie, ferite o disabilità che sono alla ricerca di una guarigione miracolosa. Giacomelli ricevette l'incarico di fotografare in questo luogo di pellegrinaggio cattolico nel sud della Francia nel 1957. Fortemente addolorato da ciò che vide, usò solo pochi rullini, restituì la somma che gli era stata anticipata e per un po’ di tempo non mostrò a nessuno le immagini scattate. Si recò poi di nuovo a Lourdes nel 1966, con la moglie e il secondo figlio. Questa volta era alla ricerca di una cura, per il loro figlio, che aveva perso la capacità di parlare a seguito di un incidente.
Lourdes è l'unica serie realizzata da Giacomelli fuori dall'Italia, anche se gli è stato attribuito un gruppo di fotografie realizzate in Etiopia (1974) ed un altro in India (1976). Giacomelli acquistò macchine fotografiche e pellicole per due persone che stavano programmando un viaggio in questi paesi, ed entrambi hanno tratto spunti e suggerimenti da precedenti discussioni con lui quando fotografarono nelle rispettive località. Giacomelli in seguito fece delle stampe dai negativi e firmò il suo nome su alcuni di essi, riconoscendo così la sua collaborazione.
 PUGLIA (1958)
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Puglia , 1958; stampato 1960, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 Giacomelli gestiva la sua tipografia, la Tipografia Marchigiana, nel centro di Senigallia. Un’attività di successo che divenne ben presto un luogo di ritrovo per fotografi, artisti e critici, il cui indirizzo stampato lo ritroviamo sul verso di tutte le sue fotografie. Nei suoi primi anni, l'attività occupava la maggior parte del tempo di Giacomelli, lasciandogli solo la domenica per le sue escursioni fotografiche. Così esplorava più spesso la vicina sua città, le sue spiagge e la campagna circostante nelle Marche, solo di tanto in tanto viaggiava anche più lontano.
Per questa serie, realizzata in Puglia, la provincia più a sud-est d'Italia (il “tacco dello stivale”), dovette fare un viaggio di circa 480 chilometri. Lì ha concentrato la sua attenzione sull'interazione di più generazioni di cittadini che si riuniscono tranquillamente sullo sfondo della tipica architettura semplice e imbiancata delle città collinari come Rodi Garganico, Peschici, Vico del Gargano e Monte Sant'Angelo. Queste immagini ci forniscono un'idea della capacità di Giacomelli di coinvolgere i suoi soggetti, sottolineando anche il fondamentale impulso umanistico nel suo lavoro.
 SCANNO (1957-1959)
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Scanno, n. 52 , 1957-1959; stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 A seguito della sua continua osservazione dei residenti dell'ospizio di Senigallia, le fotografie, che Giacomelli ha realizzato durante i viaggi a Scanno nel 1957 e nel 1959, dimostrano ulteriormente la sua capacità di descrivere le persone in un determinato tempo e luogo. In questo paese situato nell'Appennino dell'Italia centrale, a circa 430 chilometri a sud di Senigallia, Giacomelli incontrò uomini e donne che svolgevano le loro faccende quotidiane o si radunavano in piazza, drappeggiati in abiti o mantelli scuri, con il capo coperto di cappelli o sciarpe. Anche quando si radunano, i soggetti sembrano isolati o persi nei propri pensieri. Sia a fuoco nitido, che sfocato dal movimento, l'individuo, che accidentalmente guarda direttamente nella sua macchina fotografica, suggerisce un senso di mistero o furtività. Giacomelli ha usato, per fotografarli, una bassa velocità dell'otturatore e una ridotta profondità di campo.
 GIOVANI SACERDOTI | NON HO MANI CHE MI ACCAREZZANO IL VOLTO (1961–63)
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Giovani sacerdoti, n. 74, 1961–63; stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 Tra le immagini più memorabili di Giacomelli ci sono quelle dei pretini (giovani sacerdoti) del seminario di Senigallia, che ha catturato mentre giocano nella neve o si rilassano nel cortile. Ancora una volta accoppiando le forme particolari di figure vestite di nero (questa volta, seminaristi in tonaca) su uno sfondo bianco (ambienti innevati o assolati), queste fotografie suggeriscono uno stato d'animo più spensierato di quanto non sia evidente in altre serie. Sebbene sembrino coreografie impostate, sono invece il risultato della sfrenata giovialità dei preti mentre corrono, lanciano palle di neve o giocano a girotondo, unite alla lungimiranza di Giacomelli di lasciare che le scene si svolgessero naturalmente, mentre le riprendeva dal tetto.
Dopo aver conquistato la fiducia dei seminaristi, Giacomelli iniziò ad interagire con loro, ma questa interazione si interruppe bruscamente quando propose ai giovani dei sigari in cambio di alcune fotografie che intendeva presentare a un concorso sul tema del fumo. Il rettore del seminario, scandalizzato dalla proposta, gli negò ulteriori accessi. Giacomelli in seguito diede a questa serie il titolo Non ho mani che mi accarezzano il volto, traendo le parole dai primi due versi di una poesia di padre David Maria Turoldo (1916-1992) dedicata ai giovani che abbracciano solitaria vita religiosa. Questo titolo conferisce intensità ai momenti di esuberanza e cameratismo che accompagnano le intense ore di studio in seminario.
 I PRIMI PAESAGGI (1954–60)
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Paesaggio: Fiamme sul campo , 1954; stampato 1980, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 La regione italiana delle Marche è caratterizzata da dolci colline, piccole fattorie e frazioni, tra i primi soggetti fotografati da Giacomelli. Come per i suoi ritratti e gli studi di figure di questo periodo, le composizioni dei suoi primi paesaggi sono abbastanza convenzionali, con elementi in primo piano al centro e sullo sfondo, altri organizzati attorno alla linea dell'orizzonte chiaramente distinguibile. Tuttavia, man mano che affinava la propria tecnica, Giacomelli si posizionava spesso in cima a una collina puntando la macchina fotografica verso il basso o alla base di essa puntandola verso l'alto, eliminando così l'orizzonte e creando un disorientante assieme di forme geometriche. Il suo particolare sviluppo del negativo, l'uso di carta da stampa ad alto contrasto e le manipolazioni in camera oscura hanno ulteriormente migliorato le qualità grafiche distintive delle sue immagini. Non era raro per lui incidere forme sui suoi negativi per aggiungere drammatici contrappunti.
Negli anni Giacomelli è tornato più volte in alcuni siti, documentandoli durante le diverse stagioni e rotazioni di colture. In seguito avrebbe incorporato fotografie realizzate per uno scopo in una serie che aveva altre ambizioni iniziali, in particolare quella di fungere da commento sulla capacità sia degli eventi naturali sia degli interventi umani di cambiare le caratteristiche della terra.
 LA BUONA TERRA (1964-1966)
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La buona terra, 1964-1966: stampato anni '70, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 Per questa serie, Giacomelli ha seguito le vicende di una famiglia di contadini per diversi anni mentre conducevano la loro vita quotidiana nelle campagne intorno a Senigallia, seminando e raccogliendo colture e curando il bestiame. Una volta ottenuta la loro fiducia, ha iniziato a realizzare fotografie che sottolineassero la natura ciclica della loro esistenza, includendo sia l'intreccio di più generazioni sia l'intreccio di compiti e responsabilità quotidiane, con momenti di svago e riposo. La buona terra racconta una storia di resilienza, autosufficienza e continuità.
L'ultima di queste immagini è simboleggiata dal motivo ricorrente degli imponenti pagliai che fanno da sfondo al lavoro, al gioco e alla celebrazione del matrimonio di una giovane coppia.
Periodicamente Giacomelli chiedeva alla famiglia, con la quale intratteneva un'amicizia al di là di questo progetto, di utilizzare il proprio trattore per arare precise sagome nei campi incolti. Le immagini risultanti, che costituiscono la base della sua serie Consapevolezza della natura, affrontano la questione degli interventi dell'uomo sul paesaggio. Alcuni esempi sono in mostra parte finale del percorso.
 METAMORFOSI DEL TERRITORIO (1958-1980)
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Metamorfosi della terra, n. 5 , 1971; stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 Le fotografie raccolte sotto il titolo Metamorfosi della Terra sono state realizzate nell'arco di circa due decenni nelle campagne senigalliesi. Senza una linea dell'orizzonte per ancorarli, sono disorientanti, richiedendo allo spettatore di fare affidamento su una casa o un albero solitario come punto focale. L'ambiguità prospettica abbonda: Giacomelli ha scattato le fotografie da un punto di vista elevato o abbassato? Ha tenuto la telecamera parallela o perpendicolare al terreno? Questa confusione è il risultato dell'intrinseca "verticalità" della regione collinare marchigiana, o Giacomelli si è affidato alla manipolazione in camera oscura (come la stampa su fogli di carta fotografica inclinati diagonalmente) per creare configurazioni ad angolo retto di forme che altrimenti dovrebbero retrocedere nella distanza ad un determinato punto, seguendo i principi della prospettiva?
Queste ambiguità sono ulteriormente intensificate dall'intenzione di Giacomelli di affrontare con questo lavoro le questioni di abbandono e perdita ecologica. Profondamente in sintonia con la geografia rurale e le pratiche agricole marchigiane, diffida delle conseguenze che hanno accompagnato il passaggio dai secolari sistemi di frazionamento e rotazione delle colture ai moderni metodi di meccanizzazione e concimazione che sovraccaricano il terreno mantenendolo in costante uso. La serie è quella del lamento.
 CONSAPEVOLEZZA DELLA NATURA (1976-1980)
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Consapevolezza della natura, n. 38 , 1977-1978; stampato 1981, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 Le fotografie di questa serie sono tra le più iconiche di Giacomelli, notevoli per la loro astrazione grafica e grintosa, che ha ottenuto grazie ad una prospettiva aerea e utilizzando pellicole scadute per esasperare il contrasto tra bianco e nero. Trovando una poetica reciprocità nel ritrarre una terra in “triste devastazione” con una pellicola “morta”, Giacomelli ha percepito queste immagini come un mezzo per resuscitare la sua amata campagna marchigiana e dotarla di un diverso tipo di bellezza. I campi arati pulsano con un'intensità ritmica che è assente dalle immagini precedenti, in parte perché ha chiesto che alcuni di questi solchi fossero incisi appositamente nella terra (come già anticipato, dalla famiglia di contadini che ha descritto in La buona terra). Un timbro sul verso di ogni stampa descrive ulteriormente la serie come “l'opera dell'uomo e il mio intervento (i segni, la materia, la casualità, ecc.) registrati come documento prima di perdersi nelle relative pieghe del tempo”. Le immagini risuonano concettualmente con la Land Art o Earth Art, un movimento artistico attivo alla fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, in cui gli artisti usavano il paesaggio per creare sculture e forme d'arte site-specific. Come era sua abitudine, Giacomelli ha incorporato fotografie di serie precedenti, che potrebbero essere state fatte da una collina vicina o che non includevano i suoi interventi.
 LAVORI SUCCESSIVI (anni '80)
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Le mie Marche, anni '70-'80, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 Giacomelli ha concepito molte delle sue serie come sequenze che raccontano storie di individui in un determinato tempo e luogo. Ha intervallato ritratti e paesaggi, ma ha anche unito questi generi in doppie esposizioni o sperimentando tempi di posa lunghi e muovendo la fotocamera durante l'esposizione per sfocare le linee tra la figura e lo sfondo. E ancora una volta, ha spesso riproposto un'immagine realizzata per una serie in un'altra serie, rafforzando il senso di fluidità che collega tutto il suo lavoro. Molte di queste sequenze sono state ispirate da poesie, non nel tentativo di illustrarle, ma per creare narrazioni parallele.
Sebbene le fotografie in questa sezione derivino da serie diverse, ne condividono il senso nell'impostazione, nella posizione o nell'atmosfera. Più facilmente classificabili come paesaggi, segnano un notevole passaggio dalla precedente posizione di Giacomelli di criticare il lento degrado della terra a quella che invece pone le basi per una contemplazione più metafisica dell'interconnessione tra spazio, tempo ed essere. La maggior parte è stata realizzata negli anni Ottanta, quando Giacomelli rifletteva sulla perdita della madre (morta nel 1986), sulla sua crescente reputazione internazionale come fotografo e sulla propria mortalità.
 IL MARE DELLE MIE STORIE (1983-1987)
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Il mare delle mie storie, 1983–87, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 Giacomelli ha annotato che il mare a cui si fa riferimento nel titolo di questa serie era quello della sua infanzia, l'Adriatico, ma in realtà era anche il mare di tutta la sua vita. Ha realizzato le sue prime fotografie lungo la costa di Senigallia dopo aver acquistato una macchina fotografica nel 1953. Circa trent'anni dopo, la curiosità su come una prospettiva aerea potesse trasformare l'aspetto delle persone lo ha portato a ricorrere ad un amico che possedeva un aeroplano per farlo volare sopra le spiagge della regione. Le composizioni risultanti creano motivi astratti sulla sabbia, generati dalle forme e dalle ombre di bagnanti, di sedie a sdraio, d'ombrelloni e di barche.
 VORREI RACCONTARE QUESTO RICORDO (2000)
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Vorrei raccontare questo ricordo, 2000, Mario Giacomelli, stampa alla gelatina sali d'argento. Il J. Paul Getty Museum, dono di Daniel Greenberg e Susan Steinhauser. Riprodotto per gentile concessione di Mario Giacomelli Archive © Rita e Simone Giacomelli
 Il titolo poetico di questa serie riflette lo stato d'animo sempre più pensieroso dell'ultimo lavoro di Giacomelli. Di tanto in tanto intravediamo il fotografo stesso mentre si occupa di uno strano assortimento di oggetti di scena, tra cui cani e uccelli di peluche, un manichino e una maschera. Il suo brusco ritaglio, la leggera sovraesposizione per invertire i valori tonali e la pittura o il graffio di aree sul negativo introducono elementi dell'assurdo o del surreale come mezzi per affrontare l'inevitabilità della propria mortalità. La serie, una delle sue ultime, è una meditazione sulla malinconia, la perdita e il passare inesorabiole del tempo.
 RIFLESSIONI SU GIACOMELLI
Giacomelli muore nel novembre 2000 dopo una lunga malattia. Aveva continuato a lavorare su diverse serie fotografiche fino ai suoi ultimi giorni, con il commovente titolo Vorrei raccontare questo ricordo attestando fino alla fine il suo temperamento profondamente introspettivo. Dai suoi inizi poco promettenti come ragazzo povero e poco istruito, Giacomelli ha reindirizzato il corso della sua vita, mantenendo un'attività di stampa di successo che gli forniva sicurezza finanziaria e dedicandosi alle arti come personale mezzo di espressione.  Sebbene fosse autodidatta in poesia, pittura e fotografia, è stato con quest'ultimo mezzo che ha creato un senso di continuità e fluidità per tutta la sua vita. Ha ottenuto riconoscimenti internazionali come uno dei fotografi più importanti d'Italia nonostante abbia realizzato la maggior parte delle sue fotografie nella sua città natale, Senigallia e nelle vicine Marche.
“Naturalmente [la fotografia] non può creare, né esprimere tutto ciò che vogliamo esprimere. Ma può essere una testimonianza del nostro passaggio sulla terra, come un quaderno…
...Per me ogni foto rappresenta un momento, come respirare. Chi può dire che il respiro di prima sia più importante di quello dopo? Sono continui e si susseguono finché tutto si ferma. Quante volte abbiamo respirato stanotte? Potresti dire che un respiro è più bello degli altri? Ma la loro somma costituisce un'esistenza”.
—Mario Giacomelli, 1987
 LA COLLEZIONE GIACOMELLI
Tra il 2016 e il 2020, i collezionisti di Los Angeles Daniel Greenberg e Susan Steinhauser hanno donato 109 fotografie di Mario Giacomelli al J. Paul Getty Museum. La loro collezione copre ampie aree della produzione di Giacomelli, da alcune delle sue prime immagini a quelle realizzate negli ultimi anni della sua vita. Attingendo dalle loro donazioni, questa mostra è concepita non come una retrospettiva completa, ma come un'opportunità per considerare la visione dei collezionisti nell'assemblare questi fondi in un periodo di vent'anni, facendo comprendere quelle che percepivano come le preoccupazioni chiave della pratica di Giacomelli: la gente e il paesaggio, così come la gente nel paesaggio – il rapporto “figure/ground” del sottotitolo della mostra.
Il Getty Museum è riconoscente anche all'Archivio Mario Giacomelli, con sede a Senigallia, Sassoferrato e Latina, per l'assistenza nella conferma di titoli e date. Nel corso della sua carriera Giacomelli è tornato alle singole immagini, ripensandole e rielaborandole per serie successive, complicando spesso il compito di assegnare titoli o date definitivi. Grazie anche a Stephan Brigidi dei Bristol Workshops in Photography per aver fornito informazioni sui portfolio dell'artista del 1981, La gente e Paesaggio.  Le stampe dei portfolio sono dislocate nei quattro percorsi della mostra e presentate in cornici più leggere ed in misura più grande.
 ---Tutte le immagini in mostra: link
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Mario Giacomelli: Figure / ground
29 giugno-10 ottobre 2021
Getty Center
1200 Getty Center Drive, Los Angeles, CA 90049   ' +13104407300
Orario: 10.00 – 17.00, chiuso il lunedì
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storiedellarte · 6 years ago
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Tintoretto, Miracolo dello schiavo, 1548, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Che sarebbe Venezia senza Tintoretto? Senza l’incontro con la sua sterminata produzione di quadri, pale d’altare ed enormi teleri in chiese, confraternite e palazzi di questa città? Insieme a Tiziano e a Veronese, infatti, Tintoretto ne ha segnato il volto e l’immaginario, tanto che sembra impossibile raccontare la sua pittura lontano da Venezia, dove è nato e da cui quasi mai si è allontanato. Come esempio di questa difficoltà, viene subito in mente il Tintoretto emigrato a Roma, alle Scuderie del Quirinale, nel 2012. L’ultima grande retrospettiva su di lui, a Venezia, risale addirittura al 1937, a cura di Nino Barbantini, a Ca’ Pesaro.
L’inesorabile celebrazione dei cinquecento anni dalla nascita del pittore ci consente di vederlo finalmente raccontato, alla luce degli studi più aggiornati, in due grandi esposizioni, figlie di un unico progetto nato dalla collaborazione tra Fondazione Musei Civici, Gallerie dell’Accademia di Venezia e National Gallery di Washington (dove le mostre si traferiranno da marzo 2019).
L’evento principale, Tintoretto 1519–1594 (7 settembre 2018–6 gennaio 2019, a cura di Robert Echols e Frederick Ilchman), si snoda negli appartamenti del doge a Palazzo Ducale, luogo emblematico per eccellenza, segnato quasi ovunque dalla presenza di Tintoretto, che vi ha lavorato dalla giovinezza fino agli ultimi anni di vita. In questo contesto va in scena una rassegna monografica, che si apre e si chiude con due autoritratti, quello giovanile, alla vigilia del successo (1546–1547, Philadelphia, Museum of Art), e quello spoglio e intensissimo della vecchiaia, che piacerà tanto a Manet (c. 1588, Parigi, Louvre). Tra questi due estremi, in undici sale, si dipana un lungo percorso, articolato per temi, che tenta di restituire la complessità di una produzione ricchissima e quanto mai varia, dalle pale d’altare, ai soggetti profani, ai ritratti, alle allegorie per gli apparati della Serenissima.
Dopo l’apparizione della pala giovanile di San Marziale (1549), fresca di restauro, esempio dei numerosi interventi sostenuti da Save Venice, la mostra vira sullo studio del corpo umano, sul rapporto con Michelangelo e la scultura antica attraverso una serie spettacolare di disegni provenienti da grandi collezioni europee. Quindi segue l’intimità della Susanna e i vecchioni di Vienna e, prima di una galleria di quindici grandi ritratti, tre sale in cui si esplora il processo creativo del pittore. Lo si fa con una inedita ampiezza attraverso dipinti, disegni, dati tecnici, manichini e modellini didattici.
Il dialogo tra le quattro storie ovidiane per la sala dell’Anticollegio di Palazzo Ducale e l’Origine della via Lattea della National Gallery di Londra apre invece sugli anni successivi la morte di Tiziano con risultati di raffinatezza e compiutezza assolute.
Prima dell’ultimo capitolo religioso (“Visioni di fede”), c’è ancora spazio per esplorare le capacità narrative del pittore (“L’istante sospeso”) in una sala dominata dal Ratto di Elena del Prado e dal Tarquinio e Lucrezia di Chicago.
Si invita così, per tagli tematici orizzontali, a riflettere sulla novità di un linguaggio altamente drammatico: un comporre sorprendente e imprevedibile, scene di massa in cui i corpi subiscono la tirannica manipolazione di un regista già pronto per grandiosi colossal, una tecnica estremamente sofisticata, dove il pennello disegna e al tempo stesso campisce le tele con un cromatismo dinamico e sprezzante, che consente di coprire superfici sempre più ampie, fino all’immenso Paradiso per la sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale (1588–1592), uno dei dipinti più grandi al mondo.
Novità di tale portata non potevano non rendere il maestro veneziano oggetto di grandi passioni o di furiose controversie, e non solo ai suoi tempi.
La formazione di Tintoretto, solo accennata a Palazzo Ducale, è il soggetto della mostra allestita alle Gallerie dell’Accademia, le nuove Gallerie che hanno più che raddoppiato gli spazi espositivi dopo il trasferimento dell’Accademia di Belle Arti (Il giovane Tintoretto, 7 settembre 2018–6 gennaio 2019, a cura di Roberta Battaglia, Paola Marini, Vittoria Romani).
Una mostra sul primo cruciale decennio di attività, che cerca di guidare il visitatore dentro quell’incredibile contesto in cui, dopo confronti, stimoli e sperimentazioni, con il Miracolo dello schiavo del 1548 giunge a maturazione il linguaggio pittorico di Tintoretto.
Qui le prime opere del pittore entrano in gioco solo dopo un’immersione straordinaria nella pittura degli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento. Capolavori che illustrano “continuità e innovazione” nella pittura veneziana, con Tiziano (Cena in Emmaus del Louvre, 1533–34), Bonifacio de’ Pitati, Polidoro da Lanciano e il Pordenone. E i cambiamenti prodotti dai grandi toscani, interpreti della cultura figurativa raffaellesca e michelangiolesca, che hanno contribuito all’avvio di una nuova stagione della pittura con i loro soggiorni a Venezia all’inizio degli anni quaranta: Francesco Salviati (la pala per Santa Cristina della Fondazza a Bologna, 1539–40), Giuseppe Porta Salviati e Giorgio Vasari. Sullo sfondo le proposte innovative di Andrea Schiavone e Lambert Sustris.
Dopo questa grande Ouverture entra in scena finalmente la pittura del giovane Tintoretto e il racconto dei suoi esordi si allarga nella grande sala dell’ala palladiana occupata dalla mostra, a partire dal confronto tra la perduta Battaglia di Cadore di Tiziano e la Conversione di san Paolo di Tintoretto a Washington.
Sfilano uno dopo l’altro alcuni dei più importanti esempi dell’attività giovanile del pittore, come la Sacra conversazione Molin (1540), gli ottagoni per Ca’ Pisani (Modena, Galleria Estense), la Cena in Emmaus di Budapest, l’Apollo e Marsia, già soffitto per la casa veneziana di Pietro Aretino, oggi ad Hartford, fino allo splendido accostamento tra la Disputa di Gesù di Milano e la Sacra Famiglia e santi di Colonia.
Il finale, nell’ultima sala, è introdotto dall’emozionante dialogo tra le ultime cene di Jacopo Bassano (1547–48, Roma, Galleria Borghese), di Giuseppe Porta Salviati (1545–47, Venezia, Chiesa della Salute) e dello stesso Tintoretto (1547, Chiesa di San Marcuola). La sua pittura si fa molto dinamica e astratta. È un passaggio fondamentale per giungere al grande telero con San Marco che libera lo schiavo dal supplizio della tortura, l’opera con cui il pittore si afferma a Venezia.
L’enorme tela campeggia a chiusura di una narrazione per immagini tesa e compatta che ha distillato la filologia più agguerrita attraverso la lettura dello stile e una disponibilità profondamente didattica (da non perdere la lettura dei pannelli).
Michelangelo Buonarroti, Studio del Giorno, 1524-1525 circa, Haarlem, Teylers Museum, inv. A 30 recto
Tintoretto, Miracolo dello schiavo, 1548, particolare, Venezia, Gallerie dell’Accademia
Si raggiunge il Miracolo dello schiavo guidati dal confronto con il Michelangelo della Cappella Paolina a Roma e quello delle tombe medicee a Firenze. È il momento più emozionante: un disegno di Tintoretto studia la figura del Crepuscolo di Michelangelo e accanto un foglio dello stesso Michelangelo prepara la figura del Giorno (Haarlem, Teylers Museum). Tintoretto interpreta il plasticismo michelangiolesco in senso pittorico. Non cerca la definizione della figura, suggerisce l’immagine di un corpo palpitante di vita attraverso tratti nervosi e spezzati, mentre il chiaroscuro dissolve le forme nel violento contrasto tra luce e ombra. Parla da solo a questo punto l’accostamento tra la schiena disegnata da Michelangelo e, nel Miracolo dello schiavo, il soldato dipinto sulla destra, di spalle, con una veste aderente che splende di un assurdo rosso-violaceo.
Usciti dalle Gallerie, a pochi passi ritroviamo Tintoretto a San Trovaso (Ultima cena, 1563–64) e soprattutto nella chiesa e nella Scuola Grande di San Rocco. La sua pittura è così legata a Venezia che il percorso può proseguire in quasi tutta la città.
Testo uscito su “Alias Domenica”, “Il Manifesto” 30 settembre 2018
Tirannico e sofisticato. Tintoretto a Venezia Che sarebbe Venezia senza Tintoretto? Senza l’incontro con la sua sterminata produzione di quadri, pale d’altare ed enormi teleri in chiese, confraternite e palazzi di questa città?
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tmnotizie · 6 years ago
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SAN BENEDETTO – Il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana presenterà il suo libro “Un paese senza leader” domani sera venerdì 29 giugno ore 21,30 alla Palazzina azzurra. Conversano con l’autore Gerardo Villanacci e Silvio Venieri.
Tra partiti che si sgretolano, gruppi politici allo sbando e leader che nel giro di pochi mesi compiono un’inarrestabile ascesa e una rovinosa caduta, nei venticinque anni della Seconda Repubblica gli italiani hanno vissuto il crollo di tutti i tradizionali fronti politici. Dal suo osservatorio privilegiato di direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana coglie le tensioni generate da queste dinamiche e, con l’aiuto delle irriverenti vignette di Giannelli, traccia una panoramica dell’attuale politica italiana.
Gli errori della sinistra e la scissione del PD; la temporanea caduta di Berlusconi, la sua rinascita e le nuove spinte del Centrodestra; l’irrompere sulla scena dei nuovi esponenti del M5S e la svolta nazionalista della Lega Nord. In un’analisi a tutto campo, e con retroscena e ritratti dei protagonisti che ha conosciuto «da vicino» (da Berlusconi a Renzi, da Salvini a Grillo e Di Maio, da D’Alema a Veltroni e Prodi), Fontana si chiede se sia possibile ricostruire una classe dirigente all’altezza della situazione.
E soprattutto se ci sia oggi un leader che sappia eliminare odi e rivalità per mettersi davvero al servizio del nostro Paese e per formare un nuovo governo finalmente solido e duraturo. Un’analisi politica preziosa per capire la situazione italiana post elezioni 2018.
Luciano Fontana, laurea in Filosofia del Linguaggio a Roma, lavora per undici anni all’Unità dove si occupa di politica italiana, cronaca amministrativa e giudiziaria. Dal 1997 è a Milano al Corriere della Sera, dove percorre l’intera carriera passando dall’ufficio centrale alla vicedirezione fino a quando, nel marzo 2009 con il ritorno di Ferruccio de Bortoli, viene nominato condirettore. Da maggio 2015 succede a de Bortoli come direttore del quotidiano milanese.
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