#una pietà di michelangelo senza maria
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my brain's drawing connections i myself am not even able to catch up with
#its just.#il parallelismo padre-figlio/catone-roma/libertà/roma come repubblica#e il padre-figlio/patria-pompeo#catone che si immagina quasi come un pater patriae che stringe tra le braccia il cadavere di roma senza ancora sapere di essere destinato a#suicidarsi ad utica lontano dal cadavere della res publica (non ci sono più forze repubblicane cesare ha vinto ha rimandato il funerale#fin troppo e ora si rifiuta di vederne bruciare il cadavere?)#e pompeo che fugge dalla res publica e forse e perfettamente cosciente che sarà lontano dalla propria patria dove troverà la sua fine#nessuno dei due alla fine vedrà le fiamme che avviluppano le carni della res publica#e poi foscolo e la madre/patria#almen le ossa rendete allora al petto della madre mesta#foscolo in esilio cosciente che troverà la sua fine lontano dalla patria/madre e implora che almeno i suoi resti possano tornare tra le sue#braccia e la condizione di esilio eterno il crescere passivamente nella propria patria e sciegliersela poi attivamente difendendola e#combattendo per essa e la realizzazione del dover morire senza lo sguardo della propria madre/patria e senza il suo abbraccio#una pietà di michelangelo senza maria#una pietà di michelangelo senza cristo e maria che rivolge lo sguardo oltre l'osservatore verso il vuoto#raga non lo so im just talking at this point#i was probably mildly reaching the entire time idk. my brain just started screaming this at me#e poi.#il padre che innalza la pira e tiene le tetre torce fra le mani/catone disposto a tenere dietro al vacuo fantasma della res publica#la patria che viene risparmiata dall'essere macchiata dal sangue del suo figlio pompeo/l'implorazione di foscolo che almeno le sue ossa#possano essere sepolte nella terra della patria che è stata risparmiata (privata indebitamente?) del suo sangue#idk. a lot of reaching im aware#reference tag#hania collects
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti
IL DISAGIO DEL NON-FINITO
L'opera d'arte non è sempre espressione di un frammento di storia. Spesso gli artisti vedono segni nascosti ai più e intuiscono quei passaggi d'epoca che annunciano percorsi accidentati, fasi di decadenza, rotture traumatiche nei fragili equilibri delle società. Così, raccontano il disfacimento coi soli mezzi che possiedono: la tela e la materia da plasmare. Le pennellate acquistano consistenza materica nel tracciare figure che oscillano tra corporeità e dissoluzione. Lo scalpello sbozza senza cesellare. Ecco comparire il non-finito come espressione di un interiore, profondo disagio. Come rivelazione brutale. Come grido soffocato. Come descrizione violenta. Come appello disperato. Come trasfigurazione del reale nell’astratto di forme che si dissolvono. Descrivendo una parabola che in realtà è molto più affollata, mi sovvengono alcuni esempi. Il primo fu Donatello, che comprese prima d'altri le albe incompiute dell'Umanesimo. Poi fu l'amarezza per una visione distorta del potere spirituale ad attingere Michelangelo. Tiziano intuì il dramma dell'Europa incendiata da conflitti sanguinosi tra le nascenti nazioni. Rembrandt sentiva la fine del secolo d'oro olandese nello sfilacciarsi dei valori originari. Goya avvertì lo smarrimento di fronte agli effetti di lungo periodo delle rivoluzioni di fine Settecento. Fino a culminare con il '900 di Francis Bacon.
- Donatello (1386-1466): “Pulpito della Passione, Sepoltura” (1456-1466)
- Michelangelo Buonarroti (1475-1564): “I Prigioni”: lo schiavo giovane; lo schiavo che si desta; lo schiavo barbuto; Atlante (1519-1534)
- Tiziano (1488-1576): “Il supplizio di Marsia” (1570-76); “Pietà” (1576)
- Rembrandt (1606-1669): “La congiura di Giulio Civile” (1661-62)
- Francisco Goya (1746-1828): “Saturno che divora uno dei suoi figli (1821-23)
- Francis Bacon (1909-92): “Studio dal ritratto di Innocenzo X di Velasquéz” (1953)
- In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
#thegianpieromennitipolis#arte#arte medievale#arte moderna#arte contemporanea#donatello#michelangelo#tiziano vecellio#rembrandt#goya#francis bacon#maria casalanguida
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Forse una vita intera non basterebbe per conoscere ogni angolo nascosto di Roma, per scoprire la storia dietro ad ogni pietra e tributare un omaggio ad ogni opera d’arte. Un solo giorno è certamente un tempo troppo piccolo per poter anche soltanto sorvolare con lo sguardo tutto ciò che ci sarebbe da vedere e scoprire nella capitale. Avere a disposizione 24 ore nella città eterna è comunque un dono che non dovrebbe andare sprecato. Ecco dunque alcuni possibili itinerari di visita, piccoli tour per godere al massimo della meraviglia di Roma, magicamente sospesi tra archeologia, Vacanze Romane e Dolce Vita, senza dimenticare di ritagliarsi una pausa pranzo per assaggiare un’immancabile carbonara in una delle tante trattorie di Trastevere. In abbinamento o in alternativa ai nostri suggerimenti è sempre un’ottima idea prenotare biglietti o tour guidati, acquisire ingressi prioritari per ottimizzare al meglio le vostre preziose 24 ore romane. Roma in un giorno: un morso della mela Prima che New York esistesse, Roma era la grande mela del mondo: la città dei sette colli, dei re leggendari, dei Papi e degli artisti, cosmopolita dall’antichità ed emblema moderno di un orgoglio italico che si stempera nella costante ironia sulle sue problematiche quotidiane. Chi dovesse avere soltanto un giorno per visitarla, senza averla mai vista e vissuta prima, dovrebbe concentrarsi sull’essenziale, scegliendo un itinerario classico, attraverso i monumenti che rendono Roma una delle più belle città al mondo. Colosseo La storia dell’antica Roma rivive letteralmente passeggiando tra le sue arcate, oltre le quali si sfidavano i celebri gladiatori provenienti dalle più remote province dell’ Il circuito archeologico di Colosseo, Fori Imperiali e Palatino è insieme al Pantheon tra i siti più visitati d’Italia e, vista l’enorme affluenza di pubblico in ogni periodo dell’anno, è consigliabile prenotare un ingresso prioritario, se non addirittura una visita guidata. Oltrepassando l’arco di Costantino si può ammirare una delle cartoline più belle del mondo: la vista sul Palatino e sul foro Romano. Altare della Patria L’imponente Vittoriano affacciato sulla celebre piazza Venezia, dedicato a Vittorio Emanuele II, è uno dei simboli della nazione italiana, un tempio laico dedicato al nostro paese, che dal 1921 custodisce il sacello dedicato simbolicamente al Milite Ignoto. Fontana di Trevi Forse la fontana più famosa non solo della città e d’Italia, ma persino del mondo intero. Costruita nella prima metà del Settecento dall’architetto Nicola Salvi davanti alla facciata di palazzo Poli, la tardo barocca fontana di Trevi è un vero spettacolo per gli occhi. La fontana è una delle tappe fondamentali di qualsiasi tour organizzato della capitale, compreso quello nei suoi sotterranei. Vale comunque la pena anche fermarsi semplicemente ad ammirare il magnifico complesso statutario che adorna la grande vasca rettangolare della fontana e magari gettare nelle sue acque la consueta monetina dopo aver espresso il vostro desiderio. Piazza di Spagna Una delle più famose di Roma, con la suggestiva scalinata di 136 gradini al termine della quale si erge l’iconica facciata della chiesa rinascimentale di Trinità dei Monti, da anni impareggiabile sfondo di eventi e sfilate di moda. Ai piedi della scalinata, il piccolo gioiello barocco rappresentato dalla fontana della Barcaccia, realizzata nel 1629 da Pietro Bernini e dal suo allora giovane figlio, e non ancora celebre, Gian Lorenzo. Intorno alla piazza si aprono le vie dello shopping romano per eccellenza come via Condotti, via Margutta e via del Babuino. Pantheon Fondato nel 27 a.C. come tempio dedicato a tutte le divinità passate, presenti e future. La sua inconfondibile struttura si caratterizza per la grande cupola al cui centro si apre il suggestivo oculo introdotta da un classico colonnato culminante con un frontone. Nel corso dei secoli il Pantheon è diventato luogo di sepoltura per gli artisti più illustri del Rinascimento, come Raffaello Sanzio, e i re d’Italia. Piazza Navona In epoca romana corrispondeva allo stadio di Domiziano (85 a.C.), prima di diventare uno dei simboli della Roma barocca con al centro la stupenda fontana dei Quattro Fiumi di Gian Lorenzo Bernini (1648-1651), che si erge di fronte alla bella e coeva chiesa di Sant’Agnese, e ai rispettivi lati la seicentesca fontana del Moro e quella del Nettuno, già fontana dei Calderai. Basilica di San Pietro, musei Vaticani e cappella Sistina Per accorciare i tempi della visita si consiglia di valutare quanto tempo si ha ancora a disposizione e di conseguenza prenotare un ingresso prioritario o un tour privato. L’ambizioso progetto di papa Giulio II, cominciato nel 1506 e culminato con l’immensa cupola di Michelangelo, il famoso Cupolone, conserva alcuni tra i capolavori assoluti dell’arte italiana, tra i quali la Pietà di Michelangelo (1499) e il monumentale Baldacchino di Gian Lorenzo Bernini (1624-1633) artefice anche, tra il 1657 e il 1667, della monumentale piazza e il relativo colonnato che introduce la basilica, come se fosse un lungo e simbolico abbraccio. Quella stagione di grande fervore artistico promossa da Giulio II ha dato inoltre vita ad altri tesori immensi custoditi nei musei Vaticani, gli affreschi e le opere di Giotto, le stanze papali e il palazzo apostolico, per finire nel luogo in cui tutta questa meraviglia si condensa: la cappella Sistina con il Giudizio Universale (1508-1512) e gli affreschi della volta (1535-1541) realizzati sempre da Michelangelo. Le pareti della cappella non sono di certo da meno, impreziosite da un ciclo di affreschi realizzati dai massimi artisti italiani della seconda metà del Quattrocento: da Botticelli al Perugino, dal Pinturicchio al Ghirlandaio. Roma in un giorno: come in un film La iconicità indiscussa di Roma passa anche attraverso la celebrazione che ne ha fatto il cinema. La sua luce, i suoi spazi, le sue strade che attraversano ogni tempo ne hanno fatto un ideale set a cielo aperto, dai giorni gloriosi dei fasti di Cinecittà fino all’età produzioni hollywoodiane. Un modo originale per scoprire la città in poche ore potrebbe quindi essere quello di unire i puntini dei luoghi resi celebri dai film, come: Bocca della verità. L’antico mascherone in marmo che ornava l’interno della seicentesca chiesa di Santa Maria in Cosmedin dopo essere stato nient’altro che un tombino nella roma antica, nel 1953 la sua attuale collocazione, nei pressi del tempio di Ercole e della fontana dei Tritoni, è stata definitivamente immortalata in una scena dell’intramontabile Vacanze Romane, con Audrey Hepburn e Gregory Peck; Colosseo. Il Colosseo, riportato al suo antico splendore dalla computer grafica, è senza dubbio il protagonista indiscusso del colossal Il Gladiatore (2000) di Ridley Scott, l’immortale arena dove combatte Maximus, magistralmente interpretato da Russel Crowe; Ghetto di Roma. Le celebri arcate del portico di Ottavia e quel che rimane del teatro Marcello, entrambi di epoca romana e situate all’ingresso di quello che per lungo tempo è stato il ghetto ebraico di Roma, fanno da fondo a uno dei film più amati del celebre Alberto Sordi, Un americano a Roma (1954); Fontana di Trevi. Uno dei simboli più famosi di Roma è entrato ormai a far parte dell’immaginario collettivo anche grazie al cinema e, nello specifico, al famoso bagno di Anita Ekberg ne La dolce vita (1960) di Federico Fellini; Pantheon. Protagonista di alcune scene di Angeli e demoni (2006) di Ron Howard con Tom Hanks, tratto dal secondo e omonimo romanzo di Dan Brown; Piazza Navona. La fontana dei Quattro Fiumi di Piazza Navona, insieme al Campidoglio con i musei Capitolini, piazza di Spagna con la scalinata di Trinità dei Monti e i fori Imperiali alle vicende narrate ne Il talento di Mr Ripley, film di Anthony Minghella del 1999 con Matt Damon, Gwyneth Paltrow, Jude Law e molti altri; Campo de’ Fiori. La sua suggestiva atmosfera è stata immortalata in numerosi film italiani, tra cui La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino con Toni Servillo, che nel 2014 ha vinto l’oscar come miglior film straniero; Cinecittà. Un itinerario dedicato ai luoghi di Roma resi celebri dai film non può che concludersi con una visita degli studios di Cinecittà, cuore della cinematografia, della storia del cinema italiano e dal 2011 sede di un interessante percorso museale e mostre temporanee. Roma in un giorno: quintessenza romana Chi ha già visitato Roma sa che non è possibile dimenticare la sua atmosfera sempre intrisa in ugual misura di magnificenza e dissacrazione popolare, di ispirazioni artistiche e arte del buon vivere. Per chi ha già assaporato la Roma più iconica e conosciuta, una sosta di 24 ore in città può essere l’occasione per esplorare invece la quintessenza della romanità, attraverso alcuni dei suoi luoghi simbolo. Belvedere del Gianicolo Da questo colle che oggi custodisce alcuni dei monumenti più importanti intitolati all’Italia garibaldina, tra cui il mausoleo con l’ossario Garibaldino, il monumento a Garibaldi e la tomba di Goffredo Mameli, due ampi viali alberati costeggiano villa Aurelia e permettono di ammirare uno dei panorami più suggestivi del centro storico di Roma. Porta Portese Uno dei luoghi dove si respira maggiormente l’atmosfera popolare e popolana di Roma è senza dubbio porta Portese e il suo storico mercato delle pulci, reso celebre negli anni Settanta dall’omonima canzone di Claudio Baglioni. Trastevere Il rione medievale di Trastevere è uno dei quartieri più famosi di tutta Roma, celebre per il suo fitto intrico di viuzze, le sue innumerevoli chiese e palazzi storici, i pergolati con le frasche e le sue famose trattorie e osterie. Concedersi un approfondito tour e un succulento piatto di carbonara è quasi un obbligo. Testaccio Di fronte a Trastevere, sull’altra sponda del Tevere, si sviluppa un altro storico quartiere di Roma, il Testaccio, dove ancora si respira il vero spirito della città. Il suo antichissimo porto fluviale e poi popolare mercato, anche qui ci si può fermare senza alcun indugio per un boccone all’ombra delle invitanti fraschette e osterie tipiche. Giardini di villa Borghese e terrazza del Pincio Questa cinquecentesca e monumentale villa che ospita le celebre galleria ricolma di opere d’arte, tra le quali la statua di Paolina Bonaparte del famoso scultore veneto Antonio Canova, è circondata da un enorme parco pubblico, il quarto per estensione della città di Roma, accessibile da svariati punti, come piazzale Flaminio e la scalinata di Trinità dei Monti, la cui bellezza culmina senza dubbio sulla balconata del Pincio e il suo giardino affacciato su piazza del Popolo, dal quale si gode di un romantico tramonto sul profilo della città. Il parco di villa Borghese ospita anche lo zoo di Roma, il museo Civico di Zoologia, la casa del Cinema, numerosi edifici originali e un suggestivo lago, navigabile con piccole barche a noleggio. Roma in un giorno: le perle nascoste Se per voi non è la prima volta a Roma e avete visto almeno una volta quanto riportato sopra negli altri tour proposti, o se volete davvero scoprire alcuni luoghi magici che spesso o non si ha tempo di vedere o del tutto fuori dai soliti itinerari, vi lasciamo con alcune suggestioni che sicuramente cattureranno la vostra attenzione: Giardino degli aranci e villa del Priorato di Malta. In questo suggestivo giardino un poco fuori rispetto al centro storico c’è una porta. Dal buco della serratura si può vedere, in un suggestivo e barocco gioco prospettico, la cupola di San Pietro, come in una scena de La grande bellezza; Via Piccolomini. Da qui si vede invece una prospettiva invertita della cupola, che sembra più piccola avvicinandosi e viceversa; Passeggiata del gelsomino. Dalla stazione di San Pietro, entrare come se si dovesse prendere un treno e, dopo aver costeggiato il binario 1, percorrere quello che era un binario, oggi piacevole percorso pedonale che collega Roma al Vaticano; Palazzetto Zuccari. Questo curioso e stretto edificio barocco, che si affaccia su piazza della Trinità dei Monti, è detto anche casa dei Mostri, citata anche D’Annunzio ne Il piacere (1888), per via delle sue bizzarre e inquietanti decorazioni esterne. Le cornici di porte e finestre sembrano mostruose bocche aperte ispirate alle fantasiose statue dei giardini di Bomarzo; Piccola Londra. Nel quartiere Flaminio, corrispondente al centro storico di Roma, la piccola via privata Bernardo Celentano risulta essere davvero uno dei punti più suggestivi della capitale, con le sue villette a schiera colorate che ricordano molto quelle che si potrebbero ammirare nel celebre quartiere londinese di Notting Hill; Galleria Spada. Sita nell’omonimo palazzo, questa galleria è un curioso e mirabile esempio di falsa prospettiva barocca, realizzata dal celebre architetto Francesco Borromini (1599-1667). La galleria, che sembra lunga 35 m, è in realtà di soli 8 m circa. https://ift.tt/2AhAvqd Roma in un giorno: cosa vedere e visitare Forse una vita intera non basterebbe per conoscere ogni angolo nascosto di Roma, per scoprire la storia dietro ad ogni pietra e tributare un omaggio ad ogni opera d’arte. Un solo giorno è certamente un tempo troppo piccolo per poter anche soltanto sorvolare con lo sguardo tutto ciò che ci sarebbe da vedere e scoprire nella capitale. Avere a disposizione 24 ore nella città eterna è comunque un dono che non dovrebbe andare sprecato. Ecco dunque alcuni possibili itinerari di visita, piccoli tour per godere al massimo della meraviglia di Roma, magicamente sospesi tra archeologia, Vacanze Romane e Dolce Vita, senza dimenticare di ritagliarsi una pausa pranzo per assaggiare un’immancabile carbonara in una delle tante trattorie di Trastevere. In abbinamento o in alternativa ai nostri suggerimenti è sempre un’ottima idea prenotare biglietti o tour guidati, acquisire ingressi prioritari per ottimizzare al meglio le vostre preziose 24 ore romane. Roma in un giorno: un morso della mela Prima che New York esistesse, Roma era la grande mela del mondo: la città dei sette colli, dei re leggendari, dei Papi e degli artisti, cosmopolita dall’antichità ed emblema moderno di un orgoglio italico che si stempera nella costante ironia sulle sue problematiche quotidiane. Chi dovesse avere soltanto un giorno per visitarla, senza averla mai vista e vissuta prima, dovrebbe concentrarsi sull’essenziale, scegliendo un itinerario classico, attraverso i monumenti che rendono Roma una delle più belle città al mondo. Colosseo La storia dell’antica Roma rivive letteralmente passeggiando tra le sue arcate, oltre le quali si sfidavano i celebri gladiatori provenienti dalle più remote province dell’ Il circuito archeologico di Colosseo, Fori Imperiali e Palatino è insieme al Pantheon tra i siti più visitati d’Italia e, vista l’enorme affluenza di pubblico in ogni periodo dell’anno, è consigliabile prenotare un ingresso prioritario, se non addirittura una visita guidata. Oltrepassando l’arco di Costantino si può ammirare una delle cartoline più belle del mondo: la vista sul Palatino e sul foro Romano. Altare della Patria L’imponente Vittoriano affacciato sulla celebre piazza Venezia, dedicato a Vittorio Emanuele II, è uno dei simboli della nazione italiana, un tempio laico dedicato al nostro paese, che dal 1921 custodisce il sacello dedicato simbolicamente al Milite Ignoto. Fontana di Trevi Forse la fontana più famosa non solo della città e d’Italia, ma persino del mondo intero. Costruita nella prima metà del Settecento dall’architetto Nicola Salvi davanti alla facciata di palazzo Poli, la tardo barocca fontana di Trevi è un vero spettacolo per gli occhi. La fontana è una delle tappe fondamentali di qualsiasi tour organizzato della capitale, compreso quello nei suoi sotterranei. Vale comunque la pena anche fermarsi semplicemente ad ammirare il magnifico complesso statutario che adorna la grande vasca rettangolare della fontana e magari gettare nelle sue acque la consueta monetina dopo aver espresso il vostro desiderio. Piazza di Spagna Una delle più famose di Roma, con la suggestiva scalinata di 136 gradini al termine della quale si erge l’iconica facciata della chiesa rinascimentale di Trinità dei Monti, da anni impareggiabile sfondo di eventi e sfilate di moda. Ai piedi della scalinata, il piccolo gioiello barocco rappresentato dalla fontana della Barcaccia, realizzata nel 1629 da Pietro Bernini e dal suo allora giovane figlio, e non ancora celebre, Gian Lorenzo. Intorno alla piazza si aprono le vie dello shopping romano per eccellenza come via Condotti, via Margutta e via del Babuino. Pantheon Fondato nel 27 a.C. come tempio dedicato a tutte le divinità passate, presenti e future. La sua inconfondibile struttura si caratterizza per la grande cupola al cui centro si apre il suggestivo oculo introdotta da un classico colonnato culminante con un frontone. Nel corso dei secoli il Pantheon è diventato luogo di sepoltura per gli artisti più illustri del Rinascimento, come Raffaello Sanzio, e i re d’Italia. Piazza Navona In epoca romana corrispondeva allo stadio di Domiziano (85 a.C.), prima di diventare uno dei simboli della Roma barocca con al centro la stupenda fontana dei Quattro Fiumi di Gian Lorenzo Bernini (1648-1651), che si erge di fronte alla bella e coeva chiesa di Sant’Agnese, e ai rispettivi lati la seicentesca fontana del Moro e quella del Nettuno, già fontana dei Calderai. Basilica di San Pietro, musei Vaticani e cappella Sistina Per accorciare i tempi della visita si consiglia di valutare quanto tempo si ha ancora a disposizione e di conseguenza prenotare un ingresso prioritario o un tour privato. L’ambizioso progetto di papa Giulio II, cominciato nel 1506 e culminato con l’immensa cupola di Michelangelo, il famoso Cupolone, conserva alcuni tra i capolavori assoluti dell’arte italiana, tra i quali la Pietà di Michelangelo (1499) e il monumentale Baldacchino di Gian Lorenzo Bernini (1624-1633) artefice anche, tra il 1657 e il 1667, della monumentale piazza e il relativo colonnato che introduce la basilica, come se fosse un lungo e simbolico abbraccio. Quella stagione di grande fervore artistico promossa da Giulio II ha dato inoltre vita ad altri tesori immensi custoditi nei musei Vaticani, gli affreschi e le opere di Giotto, le stanze papali e il palazzo apostolico, per finire nel luogo in cui tutta questa meraviglia si condensa: la cappella Sistina con il Giudizio Universale (1508-1512) e gli affreschi della volta (1535-1541) realizzati sempre da Michelangelo. Le pareti della cappella non sono di certo da meno, impreziosite da un ciclo di affreschi realizzati dai massimi artisti italiani della seconda metà del Quattrocento: da Botticelli al Perugino, dal Pinturicchio al Ghirlandaio. Roma in un giorno: come in un film La iconicità indiscussa di Roma passa anche attraverso la celebrazione che ne ha fatto il cinema. La sua luce, i suoi spazi, le sue strade che attraversano ogni tempo ne hanno fatto un ideale set a cielo aperto, dai giorni gloriosi dei fasti di Cinecittà fino all’età produzioni hollywoodiane. Un modo originale per scoprire la città in poche ore potrebbe quindi essere quello di unire i puntini dei luoghi resi celebri dai film, come: Bocca della verità. L’antico mascherone in marmo che ornava l’interno della seicentesca chiesa di Santa Maria in Cosmedin dopo essere stato nient’altro che un tombino nella roma antica, nel 1953 la sua attuale collocazione, nei pressi del tempio di Ercole e della fontana dei Tritoni, è stata definitivamente immortalata in una scena dell’intramontabile Vacanze Romane, con Audrey Hepburn e Gregory Peck; Colosseo. Il Colosseo, riportato al suo antico splendore dalla computer grafica, è senza dubbio il protagonista indiscusso del colossal Il Gladiatore (2000) di Ridley Scott, l’immortale arena dove combatte Maximus, magistralmente interpretato da Russel Crowe; Ghetto di Roma. Le celebri arcate del portico di Ottavia e quel che rimane del teatro Marcello, entrambi di epoca romana e situate all’ingresso di quello che per lungo tempo è stato il ghetto ebraico di Roma, fanno da fondo a uno dei film più amati del celebre Alberto Sordi, Un americano a Roma (1954); Fontana di Trevi. Uno dei simboli più famosi di Roma è entrato ormai a far parte dell’immaginario collettivo anche grazie al cinema e, nello specifico, al famoso bagno di Anita Ekberg ne La dolce vita (1960) di Federico Fellini; Pantheon. Protagonista di alcune scene di Angeli e demoni (2006) di Ron Howard con Tom Hanks, tratto dal secondo e omonimo romanzo di Dan Brown; Piazza Navona. La fontana dei Quattro Fiumi di Piazza Navona, insieme al Campidoglio con i musei Capitolini, piazza di Spagna con la scalinata di Trinità dei Monti e i fori Imperiali alle vicende narrate ne Il talento di Mr Ripley, film di Anthony Minghella del 1999 con Matt Damon, Gwyneth Paltrow, Jude Law e molti altri; Campo de’ Fiori. La sua suggestiva atmosfera è stata immortalata in numerosi film italiani, tra cui La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino con Toni Servillo, che nel 2014 ha vinto l’oscar come miglior film straniero; Cinecittà. Un itinerario dedicato ai luoghi di Roma resi celebri dai film non può che concludersi con una visita degli studios di Cinecittà, cuore della cinematografia, della storia del cinema italiano e dal 2011 sede di un interessante percorso museale e mostre temporanee. Roma in un giorno: quintessenza romana Chi ha già visitato Roma sa che non è possibile dimenticare la sua atmosfera sempre intrisa in ugual misura di magnificenza e dissacrazione popolare, di ispirazioni artistiche e arte del buon vivere. Per chi ha già assaporato la Roma più iconica e conosciuta, una sosta di 24 ore in città può essere l’occasione per esplorare invece la quintessenza della romanità, attraverso alcuni dei suoi luoghi simbolo. Belvedere del Gianicolo Da questo colle che oggi custodisce alcuni dei monumenti più importanti intitolati all’Italia garibaldina, tra cui il mausoleo con l’ossario Garibaldino, il monumento a Garibaldi e la tomba di Goffredo Mameli, due ampi viali alberati costeggiano villa Aurelia e permettono di ammirare uno dei panorami più suggestivi del centro storico di Roma. Porta Portese Uno dei luoghi dove si respira maggiormente l’atmosfera popolare e popolana di Roma è senza dubbio porta Portese e il suo storico mercato delle pulci, reso celebre negli anni Settanta dall’omonima canzone di Claudio Baglioni. Trastevere Il rione medievale di Trastevere è uno dei quartieri più famosi di tutta Roma, celebre per il suo fitto intrico di viuzze, le sue innumerevoli chiese e palazzi storici, i pergolati con le frasche e le sue famose trattorie e osterie. Concedersi un approfondito tour e un succulento piatto di carbonara è quasi un obbligo. Testaccio Di fronte a Trastevere, sull’altra sponda del Tevere, si sviluppa un altro storico quartiere di Roma, il Testaccio, dove ancora si respira il vero spirito della città. Il suo antichissimo porto fluviale e poi popolare mercato, anche qui ci si può fermare senza alcun indugio per un boccone all’ombra delle invitanti fraschette e osterie tipiche. Giardini di villa Borghese e terrazza del Pincio Questa cinquecentesca e monumentale villa che ospita le celebre galleria ricolma di opere d’arte, tra le quali la statua di Paolina Bonaparte del famoso scultore veneto Antonio Canova, è circondata da un enorme parco pubblico, il quarto per estensione della città di Roma, accessibile da svariati punti, come piazzale Flaminio e la scalinata di Trinità dei Monti, la cui bellezza culmina senza dubbio sulla balconata del Pincio e il suo giardino affacciato su piazza del Popolo, dal quale si gode di un romantico tramonto sul profilo della città. Il parco di villa Borghese ospita anche lo zoo di Roma, il museo Civico di Zoologia, la casa del Cinema, numerosi edifici originali e un suggestivo lago, navigabile con piccole barche a noleggio. Roma in un giorno: le perle nascoste Se per voi non è la prima volta a Roma e avete visto almeno una volta quanto riportato sopra negli altri tour proposti, o se volete davvero scoprire alcuni luoghi magici che spesso o non si ha tempo di vedere o del tutto fuori dai soliti itinerari, vi lasciamo con alcune suggestioni che sicuramente cattureranno la vostra attenzione: Giardino degli aranci e villa del Priorato di Malta. In questo suggestivo giardino un poco fuori rispetto al centro storico c’è una porta. Dal buco della serratura si può vedere, in un suggestivo e barocco gioco prospettico, la cupola di San Pietro, come in una scena de La grande bellezza; Via Piccolomini. Da qui si vede invece una prospettiva invertita della cupola, che sembra più piccola avvicinandosi e viceversa; Passeggiata del gelsomino. Dalla stazione di San Pietro, entrare come se si dovesse prendere un treno e, dopo aver costeggiato il binario 1, percorrere quello che era un binario, oggi piacevole percorso pedonale che collega Roma al Vaticano; Palazzetto Zuccari. Questo curioso e stretto edificio barocco, che si affaccia su piazza della Trinità dei Monti, è detto anche casa dei Mostri, citata anche D’Annunzio ne Il piacere (1888), per via delle sue bizzarre e inquietanti decorazioni esterne. Le cornici di porte e finestre sembrano mostruose bocche aperte ispirate alle fantasiose statue dei giardini di Bomarzo; Piccola Londra. Nel quartiere Flaminio, corrispondente al centro storico di Roma, la piccola via privata Bernardo Celentano risulta essere davvero uno dei punti più suggestivi della capitale, con le sue villette a schiera colorate che ricordano molto quelle che si potrebbero ammirare nel celebre quartiere londinese di Notting Hill; Galleria Spada. Sita nell’omonimo palazzo, questa galleria è un curioso e mirabile esempio di falsa prospettiva barocca, realizzata dal celebre architetto Francesco Borromini (1599-1667). La galleria, che sembra lunga 35 m, è in realtà di soli 8 m circa. Scopri cosa vedere a Roma in un giorno: dall’itinerario classico della Roma Antica fino ai quartieri Trastevere e Testaccio.
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Bisogna essere Straniero a se stesso per arrivare ad intuire che ogni cosa ci è estranea in questo mondo. Ogni cosa si nasconde per rivelarsi nel suo mistero indecifrabile. Forse soltanto laddove i ponti del pensiero crollano , le nostre braccia possono allungarsi e le nostre mani sfiorarsi senza toccarsi mai sopra l'abisso che ci ha generati. Eterna distanza delle dita di Adamo e Dio nell'affresco di Michelangelo. Il Vuoto tra le dita che persiste nella sua impossibilità a riempirsi, nella volontà a non riempirsi. Noi siamo figli di quel Vuoto non di Adamo.
Lo Straniero era una faccenda sacra per l'uomo greco antico. Non si arriva al vertice della civiltà umana , non si crea un cielo in cui brillare solitari come l'astro più splendente se non si è un greco antico.
Nello Straniero il greco bambino vedeva i suoi dei, mascherati come presenze festose e danzanti di un rito primaverile. Ma il greco uomo vedeva nell'Altro ciò che di sé è nascosto , il pudore della miseria , la terribile fame che disegna geometrie sconosciute, mappe del delirio, l' andare via ,avanti verso il nulla. Impossibile tornare se non si è mai partiti.
L'ospitalità è il gesto del superiore egoismo. Onorando lo straniero, aprendogli le porte della casa il greco dona a stesso l'opportunità di conoscere , pur sapendo che non conoscerà mai niente di un altro. Non trovo altri esempi nella storia per definire questo sguardo felice , aperto, questa tenerezza che accoglie tutto con un sorriso , senza paura ma , è bene ricordarlo, senza pietà.
Lontano da casa, lontano dal rumore insulso dell'informazione, dei suoi troppi cani idrofobi, trovo riparo su una panchina. E guardo queste due immagini. Silvia Romano, l'ostaggio liberato, e la Annunciata di Palermo di Antonello da Messina. Due donne, due straniere e per questo due Madonne. Lo stesso velo, la stessa gioia scolpita nella carne dolente della paura , la stessa mano a salutare e tenere lontano , a chiedere rispetto per un mistero interiore che non ha parole.
Chi è piu sola di una donna che aspetta di generare il figlio di Dio? Madonna Maria, come Madonna anche la madre di Giuda, il suo traditore. Madonna ogni donna che accoglie in sé un estraneo , un altro , lo Straniero.
A me non importa nulla se Silvia si è convertita all'Islam , se preferisce il gelato al limone, che io detesto, se legge Baricco che reputo un idiota narcisetto o mangia gli spaghetti con forchetta e cucchiaio. Arrivo a dire che se fosse incinta e fondamentalista mi sarebbe più cara ancora. Solitudine estrema di due esseri uniti nell'odio della folla.
Io vedo in lei uno Straniero. Come Maria , come questo flagello di coronavirus , come me.
Diceva Nietzsche che ciò che non mi uccide mi rafforza. Io mi provo ad andare ancora un po'oltre....solo ciò che vuole uccidermi mi rafforza. Nel diverso riposa la mia follia. Amo solo i miei assassini . Io che non riesco ad amarmi. Soltanto sulle loro labbra ho trovato i baci più dolci e strazianti.
Kerelle
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L’ultima Europa.
“Questa mia persona cadrà un giorno come questa lucerna, e sarà spento il lume della vita.” Così lo scultore Michelangelo Buonarroti commentò la propria morte a seguito di una visita inattesa di Giorgio Vasari. Si cade, scomposti come il Cristo della Pietà detta “Bandini”, sorretti dalle braccia di Nicodemo, il capo reclinato sulla spalla e poggiato alla fronte di Maria. I profili dell’uno e dell’altra perduti nella roccia grezza. Ci si adagia nell’amore di un padre e di una madre, quando restano.
L’ultima bambina d’Europa getta un sassolino nell’anima e solleva increspature morali. Edito dalla coraggiosa AlterEgo Edizioni, Francesco Aloe non risparmia neppure il titolo: l’ultima bambina d’Europa. Come se il moribondo continente, che in questa storia è lo specchio del nord-Africa dei nostri giorni, fosse stato travolto senza speranza di redenzione dalla sofferenza, dal terrore e dall’indifferenza e fosse rimasta a baluardo un flebile e vigorosa vita, piccina e muliebre. Quando ho ricevuto questo romanzo sapevo bene che sarebbe stato un viaggio intenso. Mi sono perduta in una storia semplice e potente, che stringe il cuore in una morsa. La scrittura pulita, misurata, accorta dell’autore, con i punti fermi ripetuti – come un monito a fermarsi, riflettere, immaginare – suggerisce di non bighellonare tra le pagine, perché quest’Europa distrutta e disastrata, violenta e dimenticata, è la stessa terra che centinaia e centinaia di migranti attraversano ogni giorno al di là della Sicilia, alcuni morendo tra le dune, altri tra le onde, nel “mare cannibale” che ha condotto la mia memoria alle teste mozzate dei Fantasmi di Portopalo.
Immaginiamo che il mondo si rovesci, mi ha detto Francesco. Immaginiamo di perdere agiatezza, sicurezze, serenità, di non avere acqua potabile, cibo, abiti puliti, farmaci, un’auto e con questa penuria di mezzi e forze percorrere l’intera penisola. Immaginiamo di vedere atrocità d’ogni tipo per le nostre strade, di rischiare stupri, rapine, assalti. A ogni passo la ragione ci chiederebbe se ha un senso andare avanti, se ha senso tentare di affrontare anche la crudeltà degli scafisti per raggiungere, in uno scenario apocalittico ribaltato, le coste libere, sicure e pulite della Libia. Immaginiamo di essere migranti e forse la nostra visione delle cose, in questi tempi spigolosi in cui la Francia ha invece rigettato ogni fascismo e razzismo, potrebbe capovolgersi. Questo piccolo testo, in cui ha sede la granitica ostinazione della vita, non racconta d’Africa: parla di noi, di cosa siamo diventati, di cosa rischiamo di diventare. I protagonisti – un uomo, una donna incinta e la loro bambina – attraversano le regioni italiane con il solo obiettivo di una vita migliore, che non è qui, tra le colline senesi e il sole magnifico della costiera amalfitana: è in Africa, dove i gabbiani virano ancora sugli scogli bassi del litorale. Queste tre figure senza nome, poiché portano il nome di ciascuno di noi, incontrano la paura e il dolore, “i sentimenti dominanti dei tempi nuovi”. I pochi uomini che restano li aggrediscono, tentano di ucciderli, li vendono per un posto su una barca, l’ennesima, che affonderà nel Mediterraneo.
Non c’è retorica nella prosa di Aloe, viceversa il lettore è investito da un’onda alta di speranza, commozione e fede. Come affidarsi a un Dio che permette ogni efferatezza? Un Dio che lascia morire come bestie, senza pietà? Che ha privato gli uomini di quella dote, detta empatia, più forte di qualsiasi udito per ascoltare il cuore di chi ci è accanto? È un mondo ingiusto e senza Dio, si pensa a un certo punto, in cui tutto è inghiottito dal caos e dal non-senso. Tra le pagine, per converso, pare che Dio agisca, che qui e là aiuti la sua creatura – una bambina, una forza femminile, da cui ogni sentimento gioioso e pacifico può nascere, rinascere e prosperare – a raggiungere la salvezza. Torna dunque il tema letterario della Provvidenza, che non ha più il volto angelico della Madre Santa o il dito puntato di un Dio dalla lunga barba: questa nuova spiritualità ha il volto provato, stanco e umano dell’amore paterno e materno. È una forma di sopravvivenza che passa attraverso la malattia, l’errore, l’ira, la morte interiore, la morte fisica, la resurrezione. Alla speranza, come unica proiezione futura della preghiera senza Verbo, si aggrappano la Donna, l’Uomo e la Bambina, che ricordano i protagonisti di Cecità: come nel capolavoro di Saramago, l’umanità ha perduto i suoi occhi fisici e morali. Non restano che quelli spirituali per chi riesce a elevarsi dagli istinti ferini del buio dell’anima e della ragione.
«Come fai tu a essere così sereno?» Chiede la Donna nel romanzo. L’Uomo risponde: «Non lo sono. Ormai nessuno lo è.» Siamo eroi in cerca di una serenità che ci hanno portato via bomba dopo bomba, in Europa, in Africa, in Medio Oriente. Il mondo è iniziato e finirà con una famiglia, con quel battito sacro che non può essere zittito. E la famiglia è una ed è stata chiamata “umanità”. Questo vuol ricordarci Francesco Aloe: non dimentichiamo che potremmo trovarci noi su una delle zattere disperate che collegano i due vasti continenti. Non dimentichiamo di essere grati e fortunati per quei piccoli lussi, come il vegetarianismo, che in altre condizioni sarebbero impensabili. Non dimentichiamo di condividere la fortuna di essere nati in una nazione antica e democratica facendoci carico dell’accoglienza. Dimentichiamo spesso che la vita altrove è merce di scambio e che i diritti dell’uomo sono violati in ogni istante. Dimentichiamo spesso che il mare grosso spaventa e non restituisce i suoi marinai, anche se coraggiosi. Questo romanzo dice: provate a immaginare insieme a me, proviamo insieme a cambiare la rotta di questi tempi. Affinché si salvi, l’umanità dovrà migrare nel cuore libero delle nuove generazioni. Scrive Aloe: «Cos’è successo al mondo?» Il padre risponde a sua figlia: «Non lo so.»
Non sappiamo cosa sia successo in questi anni, dalla caduta delle Torri, ma sappiamo cosa sta accadendo oggi. Sappiamo che il flusso dei migranti non si arresterà e continuerà a rendere rosso il nostro mare. Sappiamo che le guerre generano rifugiati e che le crisi umanitarie sono la diretta conseguenza di orribili scelte politiche ed economiche internazionali. Sappiamo che molti preferirebbero starsene a casa propria, se non fosse stata distrutta, e che la Turchia incassa denaro da Bruxelles senza prendersi cura dei bambini siriani, i quali vengono sfruttati come manodopera a basso costo. E se fossero i nostri figli, i nostri nipoti? Se fossero i nostri, di bambini? Ciononostante, non abbiamo la forza di aprirci a queste esistenze, perché vogliamo custodire la quiete della nostra anima. Ecco perché le storie sono il solo mezzo per gettare sassi nella coscienza. Ecco per quale ragione questo breve gioiello di narrativa ambisce non soltanto a rivelare le terribili oscurità di un mondo alle porte della calda e assolata Sicilia, ma anche ad accompagnare ciascun lettore nel gigantesco faro dell’immedesimazione: se vivi il dramma, lo comprendi. Ogni dettaglio, in questa vicenda che dipinge un’epoca, ha il dovere di rendere verosimile ciò che altrove è reale. Ogni similitudine è un ulteriore strumento di comprensione, mai fine a se stesso ma indispensabile perché nessuna esperienza, la più atroce e la più bella, cada nel cesto dell’indifferenza. «Mi spiace», dice l’Uomo alla Bambina. E in questa battuta il mio cuore si è fatto sabbia, come se volessi scusarmi anch’io verso quella porzione di mondo che stiamo gustando, un cucchiaio per volta, come un dessert a fine pasto, ubriachi e gonzi. Ed è a questo punto della storia che quello scricciolo diviene una forza, come in Ladri di Biciclette: il bambino segue il padre, si dispera per lui, lo consola. Resistiamo, come ai tempi del film capolavoro di Vittorio De Sica, ed è nella piccola e media editoria che s’annida il racconto impavido di questi anni.
Ho letto L’ultima bambina d’Europa con passione, aggiungendo alla forza narrativa di Francesco Aloe la mia nota attenzione alla continua sciagura dei migranti e dei rifugiati. Vi suggerisco di fare altrettanto. Questo romanzo è utile a coloro che non hanno mai lasciato il proprio paese e non sanno cosa significhi affrontare l’ignoto e custodire dolci memorie. È utile a coloro che non immaginano cosa possa significare sopravvivere ed essere privati di tutto ciò che invade le nostre fortunate e rassicuranti quotidianità. Questo romanzo è utile a coloro che credono di avere molte risposte: qui troverete molte domande che faranno vacillare le vostre torri di sapone. Questo romanzo vi racconterà cos’è l’amore e quale volto ha. Infine farà crescere in voi la convinzione che una storia è un seme: porterà i suoi frutti e nasceranno nuove speranze.
Federica Piacentini
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Pietà Rondanini, Michelangelo Buonarroti, 1552-1564, marmo. La nuova composizione in verticale fu altamente innovativa e dimostrò le capacità inventive dell'artista ormai ottantenne. Nel gruppo si alternano parti condotte a termine, riferibili alla prima stesura, e parti non finite, legate ai ripensamenti della seconda versione mai compiuta. Le parti condotte a termine sono un braccio destro di Cristo, staccato dal resto del corpo e rotto a un'altezza poco sopra il gomito, le gambe del Redentore e tracce di un diverso orientamento del volto della Vergine. Le parti relative alla nuova elaborazione sono invece il nuovo volto e il corpo della Vergine, il torso magrissimo e la testa di Cristo. Tutta l'attenzione dell'artista è concentrata sul rapporto tra madre e figlio morto. Il torso del Salvatore, leggermente piegato in avanti, è schiacciato contro il corpo della Vergine quasi a formare un toccante tutt'uno, con una grande tensione emotiva. Maria infatti non sembra più reggere il figlio, ma i due sembrano piuttosto unirsi in un abbraccio che comunque non riesce a trattenere il corpo di Cristo, il quale sembra scivolare via inerme, come rivela la progressiva e inevitabile piega delle gambe. La stessa Maria mostra una figura aerea e senza peso, che non si sforza di trattenere il corpo del figlio. Se guardata di lato, la statua appare curva in avanti. Questa curvatura dà un senso di slancio verso l'alto come forse è dato intendere da un episodio come la morte di Cristo prossimo alla Resurrezione. La scultura è situata all'interno del Castello Sforzesco (Milano).
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Da Michelangelo a Laszlo Toth, il sedicente Messia che mutilò la “Pietà”: un racconto di Vincenzo Gambardella
Il centuplo
Era da molto che volevo scrivere un racconto su Michelangelo, e ora che sono nel tempo breve della pensione, forse ci riesco, con l’occhio dilatato (l’occhio sinistro, perché il destro è segnato da un buco nella retina), a cui ho sovrapposto una lente più forte, da orologiaio, per scrutare le carte del Maestro, finanche la calligrafia, l’inchiostro, e poi stampe, rotoli, pergamene, nonché le stesse riproduzioni d’arte, in volume o personali, di amici, studenti, colleghi.
Nonostante mi sia rifugiato qui da solo (in proprietà Sgrosso, sulla via di Amalfi), mi arrivano lo stesso i rimbombi di certi storici dell’arte, o meglio, personaggi televisivi; con la scusa della divulgazione si sprecano a dire quello che era degli altri, scoperta di altri, viceversa, il sottoscritto, sempre puntando, misurando quella lente al fuoco dei fatti, all’approfondimento del vero (che non è mai il vero assoluto, ma il vero di quell’atto, di quel documento), sta, per convinzione e fedeltà, all’indicazione: il reperto che spinge lontano, verso una nuova avventura filologica, ma nel solco del vero, dell’impossibile.
E tengo a dire che gli studi non bastano, ci vuole l’esperienza, l’incarnazione, ci vuole l’esperienza incarnata del vivere. Allora io arrivo a spaccare un minerale per guardarci dentro, per capire com’è fatto, e vedo che è un mondo, un libro che si apre e si mostra; ci trovi l’essenza, lo spirito intatto… Michelangelo pensava che lì si trovava già la sua statua, nella pietra, e io m’azzardo a dire che si ospita, ha principio la verità, lì davvero assoluta, che non scompare, che ha sete: la sete, desiderio ardente delle creature animate che il cielo ammira, e che vengono da quello, per talento, e aggiungo, per grazia e per amore.
Adesso devo tener conto dello scalino, basta a sognare, è un demone il sogno!
Quando Michelangelo vide la rosa di cunei che puntellava tutt’intorno il blocco di marmo della Pietà (i cunei più grandi a destra, a sinistra e in alto, formando una croce, ché era una rosa e una croce), ebbe una premonizione, pensò a Laszlo Toth, sì, lo vide attraverso i secoli che colpiva il suo capolavoro, insieme a un grido. Laszlo dava un grido al suo capolavoro, il grido che gli mancava, nel giorno della Pentecoste, il 21 maggio 1972. Infatti la sua statua stava impassibile di fronte alla violenza di quell’uomo, rassegnata, e così pure, all’origine, quei cunei che spuntavano come gli aculei dei fichidindia, diffusi da queste parti; una corona di spine appunto, stretta alla pietra, percossa dai mazzuoli, che alla fine si arrendeva piombando nella polvere, disincagliandosi dalla sua materia, e rotolando fino a un ciglio che la fermava, e lì restava in un dondolio dolcissimo, come di bambino appena nato o prossimo ad addormentarsi, ma fra la polvere, i sassi, le schegge, la minuzia, e gli stessi cunei che erano saltati e giacevano qua e là, dove capitava, o nel segno dell’impronta che si era formata intorno al blocco non ancora smussato, ma che sembrava già ferito dalla sua nascita, di corpo staccato dalla madre montagna, o madre natura, pronto a ritornarci eterno in quel ventre profondissimo, Dio e fatto uomo, di carne e di marmo, dolcissimo, impareggiabile, trasfigurato, sovrano dell’amore e della morte, della vita e dell’amore.
Ecco l’inizio del racconto su Michelangelo che voglio scrivere:
Rosa viva degli animi, è un cuneo la Pietà, e battono, battono per staccarla dalla cava, dalla parete rocciosa.
Di seguito le quindici martellate di Laszlo, che Michelangelo – sono sicuro – intese, trasformandole in parole come se parlasse per bocca sua, del vandalo:
1) Cogli la supplica per la Tua misericordia. 2) Il mazzuolo pesa cinque chili soltanto. 3) Conosco il peso del mio male. 4) I am Jesus Christ, risen from the dead! 5) Mi ero preparato le parole, ma non capivo che lì c’era un canto. 6) Hanno recuperato i cinquanta pezzi, Vergine Santa, quelli del Tuo naso, della Tua palpebra, del Tuo braccio e del Tuo gomito. 7) Mi dichiaravo Gesù e mai potevo immaginarmi la Tua protezione, Maria. 8) Perciò non ho fatto i conti con Te. 9) Quando Ti ho colpita mi sono sentito finire. 10) Io che volevo distruggere, ho capito che avvaloravo l’Eterno. 11) Io finito, io finito, Pietà di me. 12) Ora Ti riconosco, Pietoso. 13) Io scompaio. 14) Sono un frammento dei cinquanta staccatisi. 15) Dunque raccoglimi, Sublime!
E da quel punto la Pietà s’infiamma, da quella percezione infallibile arriva fino a noi! Michelangelo accompagna il blocco di marmo diretto a Roma, compie il percorso intero per seguire, assistendo a tutte le operazioni delle corde, dei lacci, delle leve, con cinghie e sollevamenti di argani, e poi giù per i primi sgarrupi e i primi sentieri, ché erano allora le vie di comunicazione da attraversare, sempre pensando, lui, alla sua pietra, che già vedeva ritratta, scolpita, dall’inizio di quel cuneo, perciò forma piramidale, forma composta, semplice, di un triangolo solcato o intersecato dalla esse del corpo disteso di Cristo; le sue gambe magnifiche e abbandonate, levigate fino all’impossibile, in modo da permettere alla luce di scivolare, di veleggiare su quelle carni preziose, quei muscoli incantati, e la sua testa di figlio rovesciata all’indietro, sul braccio di Maria, e quel braccio che penzola nel vuoto, senza sostegno, quel braccio che ha segnato i secoli dell’arte (vedi La sepoltura di Cristo, dipinta da Caravaggio, oppure La morte di Marat, di David, la versione laica del martire!).
E chissà quante volte il Maestro si è fermato a bere, penso io, lungo una via immensamente alberata, un Maestro di soli 23 anni, e quante volte avrà guardato dentro alle nuvole per interrogarsi, per scoprire la loro forma mutevole, il loro destino, che poteva essere il suo. O avrà ammirato il paesaggio scosceso tra i fiumi, il monte piantato nel mare, le cui falde sono un disegno vaporoso di torcimenti e furori, di valloni ventilati, correnti contrarie che salgono; di pieghe, fenditure profonde, simili a panneggi regali. E’ stato in uno di questi momenti che mi sono fermato anch’io, sentendo bussare alla porta. “Chi è?” grido. “Maria” mi sento rispondere, ed ho avuto un soprassalto. “Maria, chi?” chiedo di nuovo. “Maria, quella delle pulizie, signore”. E già, perché qui mi trovo in un bed and breakfast, e occorre fare le pulizie, prima o poi.
La ragazza è dolcissima, entra con le sue scarabattole e mi sorride. E’ polacca, parla e dice: “Io questo direi che meglio mandare in lavanderia”, si riferisce a certa biancheria intima che ho lasciato sul tavolo, mescolata a disegni sgorbiati di nudi fatti per passatempo, a sanguigna, guardando le donne intorno alla piscina. “Io, questo direi di no”, dico io, e lei ride, le basta poco per ridere. Polacca di Cracovia, il paese di Papa Wojtyla, dal quale ha ricevuto il battesimo, una volta, da lui in persona, dice lei. La prima volta, penso io, l’unica. “E com’è andata”, le chiedo. “Oh, lui è fantastico, lui non ti fa pesare niente dei tuoi peccati… non so, se hai dei peccati, come si dice?…”. “Già a quell’età?”, chiedo io. “Oh, sì” dice lei. “Strano!?” dico io. “Niente strano, non c’è male con lui” dice Maria. “Davvero?” dico io. “No!, cioè, sì, sì!”. “Ma che mali può avere compiuto una bambina appena nata?”, insisto. “Non lo so” dice lei, poi guarda in basso il pavimento, come se fosse lì, per terra, il male, o dappertutto. E si china per raccogliere qualcosa, che mentre si china le si vede il costume celeste da sotto il camice. “Bene” dico io, e penso che per fortuna porta il costume. “Bene, Maria” le dico, e già un po’ le voglio bene, non so perché, forse per la sua timidezza, la sua dolcezza, che si vorrebbe proteggerla, abbracciarla, per tenerla sempre con sé. “Mària – dice lei, correggendomi – noi pronunciamo Mària, ma puoi dire Maria, tu”. “Maria o Mària” ripeto io.
I comodini sono ingombri di roba, e così pure la piccola scrivania, e il tavolo, le sedie, strapieni e sovraccarichi d’accumuli di ogni tipo, tanto che mi viene da chiedere come ho fatto a raccogliere una simile quantità trasbordante in pochi giorni (trasbordante, perché tocca l’incredibile, a causa della diversità degli oggetti, davvero fuori controllo, fuori misura, da elencare per una mania incoffessabile di mettere almeno un ordine di parole nel mezzo di quella spaventosa confusione, indiscriminata fino all’inverosimile), ma davanti alla finestra aperta da cui si ammira lo spettacolo della costa, luminosa, imponente, un monumento naturale, una sola grande scultura, marchiata a fuoco dalla luce d’estate, modellata dal vento. Mentre m’accorgo che i miei pensieri incominciano a diventare curvi proprio a modo di questi monti, e orizzontali verso la linea del mare, impervi, a somiglianza delle contrade in salita, vorticosi, a imitazione della strada, incisa sui cigli.
“E te lo ricordi?”, chiedo a Maria, per continuare il discorso, per non abbandonare l’occasione di parlare con qualcuno. “Che cosa?” chiede lei. “Il tuo battesimo!”. E lei scoppia a ridere, scoppia in una risata che trattiene per un fatto di convenienza. “Ma come faccio a ricordarmi?”. “Tu c’eri, no?”. Lei capisce che scherzo, che mi sto divertendo dietro a lei, e non so come dirglielo che una gioia o felicità incomprensibile mi ha attraversato il cuore, che non so nemmeno quale natura possa avere ‘sta cosa, che forma, se non il desiderio di tentare uno scherzo, d’inventarmi un equivoco, un’ingenuità, un’avventura: io, con la giovane Maria!
Quindi cerco un angolo di spazio, in mezzo alle cianfrusaglie del mio disordine, compio un equilibrismo assurdo, in bilico su un bracciolo di poltrona, per scrivere una breve poesia che mi scaturisce imprescindibilmente dentro, una grazia che non chiede permesso, che s’intrufola e s’afferma:
Non posso farmi vedere
più così innamorato,
mi snerva il desiderio,
mi offusca la vista,
di te che mi laceri
e mi rendi incerto,
diviso a me da me stesso.
E poi, quasi in continuità con quello che ho scritto, ecco un’annotazione, che non so che cosa c’entra, e se ha a che fare con la poesia, ma certamente ce l’avrà: Michelangelo errabondo, Michelangelo viandante.
Intanto, con un orecchio solo, sento Maria che elenca varie parti del corpo: “Prima la fronte, il Papa mi ha bagnato la fronte, cioè, la testa, voglio dire che l’acqua mi è venuta giù per gli occhi e sul naso, e forse sono stata immersa interamente, io credo che sono stata immersa nell’acqua, braccia, gambe, pancia, sedere, piedi e mani, tutta nell’acqua, per grazia dello Spirito Santo”.
“E qual è la parte migliore del corpo umano, secondo te?” chiedo a Maria, che arrossisce, stringe a sé il manico della scopa, guarda in alto, si confonde, si spreme le meningi a pensare. “Le braccia – dice lei, poi si corregge -, anzi no, le spalle”. Le chiedo il motivo di questa risposta, e lei: “Perché le spalle si abbracciano, e attraverso le spalle noi possiamo essere consolati o incoraggiati o non so… rispondo perché tu mi hai chiesto”.
Le metto una mano sulla spalla, e sento quant’è tornita, quant’è forte e che premura di vita c’è in lei, in quanto lei incarna tutte le Marie della terra, a incominciare da quella scolpita da Michelangelo, che per un attimo mi sembra di abbracciare quella Maria di marmo, ma nella carne viva di Mària.
“Mària” le dico, e di slancio le racconto di Michelangelo, di quando scolpì la Pietà, e se la portò appresso per tutto il viaggio, si portò il blocco di marmo per tutto il viaggio, da Carrara alla Città Eterna, l’accompagnò fino a Roma, la Pietà, quella Pietà non ancora scolpita, scortandola sovranamente.
“Ma perché mi dici queste cose?”, chiede lei.
E scuoto la testa, le metto di nuovo una mano sulla spalla, che lei prende e mi bacia.
“Un bacio?” dico io.
“Non ti piace?” dice lei.
“Sì”.
“E allora!”.
Sale una risata dal basso della piscina.
“Ora stendete le gambe, e cercate di toccarvi la punta dei piedi… su… solletico, vero?… ma va bene farsi il solletico… va bene… vuol dire che vi state toccando… stendete il più possibile… toccate la punta dei piedi del vostro compagno… cercate di arrivare a toccarlo…”.
Altra risata.
Sento questo linguaggio inutile, queste parole inutili, che ormai ci diciamo ogni giorno e per giorni e giorni, ci diciamo parole inutili, ecco il problema. Le sento a fianco di Maria, che le riceve anche lei (ma senza ansia, o, almeno, con molta minore di me), e penso, ho la forza di pensare, in quel momento così segnato dalla futilità, che se Michelangelo ritiene la statua già presente nella pietra, se in qualche modo la statua è preesistente, allora ogni cosa ha senso, ogni piccola o grande cosa contiene, è abitata dalla verità, che è la sua anima. La verità e la sua anima: ogni cosa è assoluta, la vita è un assoluto. Noi siamo delle formiche fra le zampe di un elefante, nel centro di una immensa foresta, sperduti nell’oceano dell’aria, fra migliaia di astri infiniti, di stelle brulicanti nel cielo, a distesa, d’infiniti mondi e infiniti astri in viaggio, nella mèta di un destino senza fine.
E ora sono io che mi piego, che mi tocco le punte dei piedi, raccogliendomi nella splendida posizione dell’arco. “Fallo anche tu” dico a Maria, e lei non se lo fa ripetere due volte, d’improvviso mi prende un piede e me lo morde. “Ahò, sei matta?” le grido. “Non ti piace?” dice lei, di nuovo. “Sì – dico io -, ma un po’ di decenza ci vuole!”. “Cos’è de-cen-zia…”. “No, decenza”, dico io. “Cos’è?”, dice lei. Io scuoto le spalle. “Tu non sai mai” dice lei. “Non è vero, so un sacco di cose, e comunque non si può sapere tutto; vedi? ti do ragione… Ma tu lo sai quanti anni ho io?” le dico. “Cinquanta?” chiede lei, ridendo eccitata. “No, diciamo di più, più in là di mezzo secolo!”. “Tu hai tutti questi anni, sì?” chiede lei, con un lungo grido nella voce, che è sorpresa, e poi riso, risata che le sale su per la gola e le fa tendere il collo meravigliosamente.
“Diventiamo vecchi per via della gravità – dico io -, la forza di gravità, quasi come se la terra fosse pronta ad accoglierci, e ci attirasse a sé, capisci?”.
“Cos’è questo discorso della terra?” chiede lei, facendosi seria.
“La terra – dico io -, dove stiamo adesso”. E le faccio vedere la posizione supina del diamante, e quella della rana e quella del pesce, con le gambe piegate e le piante dei piedi incrociate in alto, contro il pube, arcuando fortemente la schiena e gettando la testa all’indietro, in modo da formare un ponte fra bacino e spalle, e dilatando tutta la cassa toracica in un respiro, che unisce il nostro respiro all’universo, al Dio infinito che ci ama. E mentre mi risollevo, dopo cinque secondi, scorgo di nuovo le mutandine di Maria, che è rimasta là immobile, e io a chiedermi come è possibile che abbia potuto creare un simile incantamento in lei.
“Senti – le dico -, domani devo andare alla festa di un famoso regista, mi annoio terribilmente ad andarci da solo, ci stai ad accompagnarmi?”.
“Dove?” dice lei, riscuotendosi dalla sua posizione, rossa in viso e nelle mani.
“A Positano” dico io.
“Io e te?… con uno che è un vecchio?… Io non credo che tu hai più di mezzo secolo, mi prendi in giro, tu!… Tu non dimostri cento anni, non ce li hai è vero?.. è vero che tu non hai più di mezzo secolo?”.
“Quasi” dico io.
***
Prendiamo un taxi e Maria è portentosa, ha indosso un jeans attillato e sopra ha messo una maglietta a colori delicati, da acquerello, su cui spiccano dei brillantini. La guardo seduta di fianco a me, nel buio che si alterna alla luce dei lampioni, e vedo che si tocca le labbra, mi fissa, mi spia dal suo posto toccandosi le labbra. Stavolta sono io a baciarla, e lei mi rovescia i suoi capelli corvini intorno al collo, che è tutto invaso da quella carezza. L’abbraccio, la prendo per le spalle e in un passaggio di luce mi appaiono i suoi occhi celesti, bagliori anche quelli, sperduti nel buio immenso e stellato.
“Chi è questo regista?” di colpo chiede lei.
“Zeffirelli, lo conosci?”.
“Davvero tu conosci Zeffirelli?, tu conosci lui?” dice Maria, ed è un canto la sua voce nella meraviglia.
Si stacca da me e mi interroga continuamente su chi sono e cosa faccio e quando e come ho conosciuto lui, e che rapporti intercorrono fra lui e me. Ma più le spiego e più mi sale alla gola (ma che dico, nel petto, mi arriva nel petto, lo avverto nel torace, e lì ristagna) una sorta di paura immotivata, ho come delle botte di panico, degli attacchi, che mentre il taxi svolta o accelera dopo una curva, mi aggrediscono l’anima, mi fermano il respiro, diffondendo una fiacchezza fenomenale per tutto il corpo. Poi non so come la scena si rasserena, cerco di non dare a vedere che sono in difficoltà e che la cosa mi preoccupa. E pensare che, prima di uscire, avevo letto The story of a panic, di Forster, che è ambientato a Ravello, e adesso mi scopro nei panni del narratore, mi sento preso da quella storia e dai personaggi, insomma dall’atmosfera, e più la scaccio da me più mi ritorna con le sue spire invisibili, suggestionandomi enormemente. Possibile che quella lettura mi abbia condizionato a tal punto? Ma si tratta proprio di panico?
La macchina ci ha scaricato vicino a un cancello sulla statale; poco lontano, stagliate nella conca, le luci di Positano, disposta nel teatro magnifico delle sue gradinate, e dei suoi giardini. Il tassista ci chiede del ritorno, e io balbetto qualcosa che non riesco nemmeno ricordare, mi mancano le parole. Maria si fa dare il numero di telefono su un biglietto da visita e poi mi corre incontro, giacché io mi sono allontanato, cercando una tregua nel buio.
“Così possiamo andarcene quando vogliamo” dice lei, che sembra felice, eccitata, direi che pare non accorgersi di me, del mio disagio, della mia angoscia. E nell’angoscia affronto gli scalini che portano giù alla villa; le cime delle palme e dei pini marittimi salgono e io discendo, discendo nella mia apprensione, finanche il vocìo della festa mi da fastidio, mi tiene sulle spine, ché provo il peso del mondo sulla mia schiena, lo sento pesante sul mio corpo, che preme e mi piega: io, diventato piccolissimo, senza misura e senza forze.
Mi viene in mente Atlante (nella mitologia: l’eroe smisurato), ma io sono meno di lui, molto meno, un minuscolo uomo, curvo e inquieto, e se quello del mito doveva fare una bella fatica a portare la volta del cielo, figuriamoci io. Intanto scendo, accostandomi alla parete, che è calda, e penso che quella parete ha la febbre, è la dimostrazione che tutto il mondo soffre di una febbre che non conosco. Sono le parole inutili che ci diremo, penso io, che dovrò ascoltare ancora una volta, le parole inutili che mi troverò a dover dire e quelle che dovrò ascoltare, le parole che ci diciamo oggi, comprese quelle dei critici d’arte. Chissà quanti ne incontrerò, il mondo è diventato pieno di critici d’arte, o di storici dell’arte, o di specialisti di non so cosa, gente che vuole sapere che cos’è l’arte, senza chiedersi prima chi è lui, anzi: chi sono loro. E nella calca degli invitati che si addensa intorno al buffet, stordita dalla musica, sebbene soffusa, e in giro per il vasto giardino, e lo spazio davanti al mare, separato dalla spiaggia che dorme nel buio, da cui proviene il fruscio delle onde (quanto l’amo, quanto l’amo!), mi appare di sfuggita l’amico Zeffirelli, saettante e in piena forma, una sagoma splendente, di capelli d’oro e denti perfetti, bianchissimi, luminosi.
“Vecchia quercia – mi fa lui -, come ti va la vita?”.
Mento: “Bene”, poi mi fermo girandomi verso Maria, in modo da spostare l’attenzione su di lei, perché io non ce la faccio, non ce la faccio proprio. Se gli altri sapessero quanto deprime lo spettacolo della loro salute, o l’esibizione tronfia del proprio star bene, se gli altri sapessero, forse si vivrebbe meglio, la vita sarebbe più umana a cominciare da questo.
Ma il regista insiste, ostenta il suo charme, rivolgendosi a Maria in varie lingue.
“E tu – dice Zeffirelli -, stai scrivendo?”.
“Come lo sai?” dico io, e un po’ mi rianimo.
Ecco l’ennesima prova che io sono un vetro trasparente, l’ho sempre pensato, fin da quando ero ragazzo, guardavo a terra e tutti si accorgevano di me, di cosa mi circolava nella testa, di ciò che avevo dentro. Sì, ma banalizzandolo, rendendo banale il mio dolore, e schiaffeggiando la mia sensibilità, come a dire che non lo sapevo di che razza d’illusione era la vita?, di quale fregatura incredibile ci si trova a vivere fra capo e collo?, con l’artrosi che già ti fa scricchiolare le ossa e il carattere malinconico che incomincia a farsi più intransigente, che diventa tutto, tutto il mondo diventa il tuo io, vale a dire: carattere maniaco depressivo, ovvero incompreso, irrealizzato, perciò frustrato, perché nessuno capisce tu chi sei, o non sei stato abbastanza capace di farti capire, di darti agli altri.
Invece sei sempre lo stesso.
Mi guardo intorno e vedo un tizio che in quanto a capigliatura non scherza, pare la caricatura del regista, con i suoi capelli ultra luminosi, vistosamente tinti, di un rosso fuoco che dà il capogiro, soprattutto perché si nota dovunque, nonostante sia di statura bassa, ma quel colore e quella vaporosità non si possono ignorare, risultano carismatici. Lui va dietro a una spilungona; anche lei con la sua acconciatura non scherza, è ossigenata, e cammina sopravanzando l’uomo, a volte ridendo, altre volte annuendo in piena comprensione di lui, dei suoi discorsi.
“Chi è quello?” chiedo io.
“Gregory Corso – dice Zeffirelli -, il poeta della beat generation, l’amico di Kerouac, di Ginsberg, non lo conosci?, fra scrittori non vi conoscete?”.
“Ma io non sono uno scrittore” dico freddo, e vorrei dire che non sono nessuno, non sono nemmeno quello che credo di essere, un presuntuoso, che crede di essere un professore, che crede di far conoscere il senso dell’arte, ovverosia della cultura, ma in realtà un illustre nessuno, che sta morendo di angoscia per la vita che se ne va, che non ha più niente da dire, dall’alto di un mezzo secolo e oltre, a sentire parole fruste, già dette e ripetute, nella gran parte pronunciate pensando che sono già state dette e di nessuna importanza.
Appena il poeta si avvicina, lasciandosi precedere dalla Barbie (una specie di rompighiaccio, che spacca e attraversa la folla gelida, cattiva, incurante di me, di noi, di tutto), ecco che il poeta prende la parola, ed è un tuono acuto la sua voce: “Alt, alt!, voglio dirvi una cosa – dice in inglese, tenendo il suo bicchiere in mano, rigorosamente di carta, e creando un cerchio di curiosi intorno a sé -… voi dovete pensare una cosa, che gli Stati Uniti sono la più bella invenzione di ogni tempo, davvero…”.
Fischi, e il poeta si compiace. Sembra di assistere a uno di quei reading in cui si leggevano versi gridando, in genere con molto alcol in corpo.
“Questo secolo – continua -, che volge alla fine, preserva molte sorprese, e l’America è diventata il mondo, il mondo!, gli Stati Uniti d’America sono la vera sorpresa di questo mondo, dunque tutto è America”.
E dondolando, biascicando, dice che anche lui ha comprato una carta di credito, un bancomat, o come diavolo si chiama, che adesso tira fuori dalla tasca mostrandola al pubblico.
“In America – dice lui – oggi va di moda questa, se non ce l’hai sei finito, sei fuori, il mondo intero finirà per pagare a questo modo, senza più monete, eccetera eccetera, e sostituendo il povero vecchio denaro con questa cosa qui, di conseguenza tutti avremo una carta, prima o poi”.
Resisto, il male mi attanaglia, sto per crollare, non pensavo di finire così, sotto i colpi di un poeta beatnick.
“La quantità di cose che ha inventato gli Stati Uniti è indescrivibile – dice lui -, dalla costituzione al computer, dalle riserve degli Indiani, all’energia atomica, e poi metteteci voi il resto, visto che di resto non ce n’è più, mi spiego?”.
Ride. A ogni pausa ho l’impressione che guardi me, che mi abbia preso di mira, che intuisca che io sono la sua preda, il capro espiatorio della cerimonia.
“Dunque mi trovavo a Manhattan – continua a dire – senza un soldo, e vado a uno di quei bancomat per prelevare il mio minuscolo gruzzolo da niente, che avevo ancora… Sante banche, dovevate avvertirmi che lì avrei incontrato il mio uomo, voglio dire: l’uomo della provvidenza”.
E lascia andare un verso che mi fa rabbrividire: giiiaaaaaaaa… Un “già” prolungato, che s’insinua nel mio cervello provocando un’inquietudine spaventosa, demoralizzante.
“Sante banche – urla -, sante, io nomino la vostra grandezza, attraverso di voi io mi ritrovo il centuplo, il centuplo di quello che avevo e che adesso non ho più, perché in un modo o nell’altro, il senso della mia vicenda è proprio questo, state a sentire”.
Dio mio, aiutami, fammi morire, io sono in balia, e ascolto poco e male la storia di questo poeta, per quanto inventata o di pura fantasia o simbolica, che m’interessa e non m’interessa, o rappresenta il confine ultimo fra il mio malessere e questo luogo, una sorta di catarsi che frulla nella mia coscienza, che sta per franare verso la conclusione.
“L’uomo – dice lui, sospendendo la voce -… del destino si avvicina a me e pretende di conoscermi, in effetti sapeva ogni cosa di me, per non dire che conosceva ogni sfumatura della mia vita, ogni particolare, ogni mia frase o verso o comportamento o emozione o o o…”.
Silenzio panico, interrotto solo da qualche brusio soffocato, ma sono io che soffoco, quindi mi aggrappo a Maria, e sudo freddo.
“Lui – di nuovo fa sfoggio della sua retorica -… è il mio biografo, mi racconta la mia vita, lui a me, e io che dovevo fare, ditemi voi che dovevo fare se non fidarmi, non era giusto fidarsi?”.
Come è lontano ora Michelangelo, i quaderni che ho scritto per lui, più di mezzo secolo tramonta dentro quelle carte, svanisce in me con il Maestro dei maestri, considerato, in vita, superiore persino ai greci. La terra mi attira, questa beata terra di giardini, profumata di limoni, fiorita di anemoni, e di vigneti, di palme, che tanto avrebbe amato Michelangelo. Il mio Michelangelo finisce qui, anche se non c’è mai stato in questo luogo, ma sono io che l’ho portato con me, e da me si diparte: non scriverò mai il mio racconto!
“E a un certo punto – dice il poeta – lui mi parla di mia moglie, che aveva recitato per un periodo con il Living, perciò pensai che era il suo amante, sapete com’è… E poi mi parla di quando sono finito in carcere per quella roba che prendevo e che mi avevano trovato addosso dopo la rapina, e dei libri che avevo letto là, di Dostoevskij, di Rimbaud, di Dickens, dei Salmi che amavo tanto, del prete che mi ha fatto leggere tutte queste cose, e sia benedetto lui, padre Ralph, che mi ha dato la possibilità di istruirmi, di diventare un poeta, di farmi capire qual era la mia strada, che passava tramite i libri, in quanto io ero destinato a scrivere libri, poesie… Sapete che cos’è la poesia?, ebbene io nemmeno la conoscevo, voi sì, siete istruiti, ma che ne potevo sapere io, un ladruncolo come me che ne sapeva di poesia, e che io ero fatto per quella, che avrei sfondato il mondo con la mia poesia”.
Sento arrivare la fine del suo racconto come la fine della mia vita, e mi accascio per terra, totalmente arreso alla terra, al fruscio lontano delle onde, all’estate che terminerà senza di me, ma proprio in questo momento il poeta insiste nel suo grido, nel suo finale che non vuole lasciare incompiuto, ha deciso che non sarò certo io a impedirgli di concludere, a strappargli l’applauso.
“Che ne potevo sapere, gente, chi era lui, l’uomo del destino, che mi aveva fermato vicino al bancomat, che avevo conosciuto nei pressi di un bancomat; ma ora lo so, signori, eccome se lo so, perché quando finì la nostra conversazione e io arrivai a casa, ero di nuovo a casa e la mia mogliettina, sapete com’è, mi chiese dove avevo messo i soldi, che le servivano per la cena, e per la luce, la benzina, il telefono, il gas, l’acqua, e non so per quante cose ancora ci servivano, servono a tutti, così come stiamo messi nel tempo attuale, ebbene io mi frugai le tasche davanti a lei, e non ci trovai più niente, le tasche erano vuote, e la mia testa era vuota allo stesso modo delle parole del tizio che mi avevano ingannato, ma ebbi il coraggio di quella furia della mia mogliettina, la stessa furia che in genere sfodera lei, di dirle che quello era il centuplo, sì, come mi aveva insegnato padre Ralph, quando mi disse che quello che perdevo era proprio il centuplo di quello che avrei guadagnato un giorno… Sì, cento volte tanto, un giorno, qui sulla terra e lassù, proprio questo ho detto alla mia bella mogliettina, sebbene lei fosse desolata”.
Ora, per una frazione di secondo, mi sento sollevare e abbassare, e poi ripormi e adagiarmi la testa (la mia povera e inutile testa!), e prendermi per le braccia e per le mani; mi prendono le mani, mi stringono i polsi, sento forte la stretta dei polsi, che avverto come se me li tagliassero, o me li lacerassero con gran dolore, e poi ancora mi risollevano, mi tastano, e per un’altra frazione di secondo vedo un salone ampio con ampie conchiglie, immense conchiglie di marmo appese ai muri, che sembra di stare in un set di Hollywood o in un film surreale, e mi chiedo che cosa ci faccio io in quel film, e poi dico alla mia giovane compagna di tirarmi fuori di là, l’invoco di tirarmi fuori. Lei mi tiene per le spalle (le spalle che vogliono essere accolte!), e più di mezzo secolo mi viene incontro. Addio, sono nelle braccia di Maria. Grazie al cielo.
Vincenzo Gambardella
Vincenzo Gambardella è nato a Napoli nel 1955, e attualmente vive a Milano. Suoi racconti sono apparsi sulle riviste letterarie Nuovi Argomenti, il Racconto, clanDestino, Achab, oltre che su alcune antologie di nuovi narratori italiani. Ha pubblicato i romanzi: “Seduto sulla tempesta” (Marietti editore, 2006), “Il cappotto istriano” (Marietti editore, 2008), “Vinicio sparafuoco detto Toccacielo” (Ad Est dell’Equatore, 2014), il romanzo per ragazzi “Celestino sospeso” (Piccola Casa Editrice, 2015), “Splendore dei randagi” (Ad Est dell’Equatore, 2016), il volume di racconti “Scricchiolii” (Iemme edizioni, 2017), e il monologo “Soffio placentare” (Edizioni Ensemble, 2017).
L'articolo Da Michelangelo a Laszlo Toth, il sedicente Messia che mutilò la “Pietà”: un racconto di Vincenzo Gambardella proviene da Pangea.
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