#una città che non conosce la bellezza in un paese che non sa di avere in media due gambe e e due piedi
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deathshallbenomore · 1 year ago
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video tour di italiano che visita redacted, texas e manifesta stupore nel momento in cui trova altra gente che cammina. ti capisco, fratello
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cirifletto · 5 years ago
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Le 12 Scene Cult Del Cinema Di Federico Fellini
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Un ricordo del regista riminese, nell'anno del centenario della nascita, attraverso scene memorabili dei suoi capolavori Federico Fellini nasce il 20 gennaio 1920 e quest'anno ricorre il centenario della sua nascita. In questa occasione, per celebrarlo, vogliamo ripercorrere la sua filmografia attraverso una serie di scene che sono entrate nell'immaginario collettivo e rimarranno indelebili nella storia del cinema.
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Anita Ekberg che fa il bagno nella Fontana di Trevi, Gradisca in Amarcord sono alcuni esempi di scene indimenticabili. Ma il cinema di Federico Fellini è ricchissimo di momenti memorabili. Istanti che conservano intatto il potere dell'affresco di un'epoca e del sogno con visioni di un'umanità dolente e giocosa, che in pochi attimi manifesta la firma del genio. LEGGI ANCHE... Il Cinema Di Woody Allen In 10 Scene Indimenticabili
I VITELLONI (1953)
Sordi spaccone, che sbeffeggia i "lavoratori della malta" con pernacchia e gesto dell’ombrello. Poi la macchina si fermerà e lui dovrà darsela a gambe di fonte agli operai decisamente arrabbiati. Ma la scena, simbolo del film sui cinque nullafacenti di provincia, scritto da Federico Fellini, insieme a Ennio Flaiano, entra nella storia del cinema. E pure in quella del costume. https://youtu.be/jD45TQIfcoo Moraldo (Franco Interlenghi), il più giovane della combriccola dei cinque vitelloni, sceglie davvero di partire, di andare non si sa dove: "Non lo so! Debbo partire. Vado via". Alla stazione Guido (Guido Martufi), il giovanissimo ferroviere, interroga Moraldo sul motivo della sua decisione. Ma quest’ultimo non risponde, è evasivo. Nemmeno lui conosce le sue sorti, sa solo che dalla provincia bisogna andarsene: per cercare fortuna, per crescere, o magari, semplicemente, per combattere contro quei sentimenti asfittici, respirati per tanti anni, gli stessi che soffocano qualsiasi aspirazione, che piegano l’io senza possibilità di differenziarsi. Da un lato v’è dunque il Fellini delle partenze, colui che avrà bisogno della città, della grande metropoli per creare e comprendere. Dall’altro, invece, permane il Fellini della provincia, colui che saprà trasformare il luogo da cui più si è distanziato in inesauribile fonte d’ispirazione. Scena memorabile con il treno che parte e idealmente attraversa, come in un sogno, le camere dei suoi amici, quasi fosse un saluto onirico. https://youtu.be/I_vbmK75STg
LA STRADA (1954)
I finali erano una delle specialità di Fellini, e la spiaggia ovviamente è un elemento altamente simbolico per il regista riminese. Per questo il pianto disperato, e quasi redentore, della "bestia" Zampanò (Anthony Quinn) avviene proprio in riva al mare di notte, dopo che ha saputo della morte di Gelsomina (Giulietta Masina). La strada vinse l’Oscar come miglior film straniero e lanciò Fellini a livello internazionale. https://youtu.be/aIQ_h90BO0k
LE NOTTI DI CABIRIA (1957)
Quando Cabiria sembra non farcela a risollevarsi dall’ennesimo colpo basso della vita e pensa di suicidarsi, lungo una strada di campagna, incontra un gruppo di ragazzi che canta e suona in allegria e che le restituisce la gioia e la fiducia nel futuro. Giulietta Masina, compagna di vita e di set di Federico Fellini, non dice una parola, fa tutto con lo sguardo. E il resto lo fa Nino Rota con la sua musica. Secondo Truffaut, "il finale del film è un prodigio di potenza e di forza, nel senso più nobile del termine". Altro giro, altro finale e altro Oscar. https://youtu.be/u0rqhdx1154
LA DOLCE VITA (1960)
La scena simbolo del film, che è stata definita anche la scena simbolo del cinema italiano del XX secolo, e nella top ten di quello mondiale, è quella del bagno nella fontana di Trevi di Anita Ekberg e Marcello Mastroianni. La celeberrima e sensualissima scena, di un tre minuti circa, è entrata di diritto nell’immaginario popolare italiano e nel nostro patrimonio culturale. Si narra che, durante le riprese della celebre scena nella fontana di Trevi, Anita Ekberg non ebbe problemi a restare in acqua per ore, mentre Mastroianni, d’accordo con Fellini, per sopportare il freddo dovette indossare una muta sotto i vestiti e bere una bottiglia di vodka prima di girare. https://youtu.be/7_hfZoe9FHE Sì, ok, la scena della fontana con la fotonica Anita Ekberg, "Marcello, come here!" e tutto il resto. Ma il finale della Dolce Vita è uno dei più amaramente simbolici e poetici del cinema: l’occhio della manta gigante (il pesce mostro nasce da un ricordo di Fellini ragazzo) che guarda Marcello e, oltre il canale, la voce dell’innocenza che lo richiama, ma che lui non comprende, facendosi trascinare via dalla sua vita vuota. Memorabile. Ancora una volta, un finale sulla spiaggia. https://youtu.be/pIkFea5aO1g
8½ (1963)
La rumba della Saraghina (l’attrice americana Eddra Gale) sulla spiaggia è l’educazione sessuale del maestro da piccolo: i bambini scappati dal collegio pagano la prostituta perché si spogli. L’opposizione tra la sua figura – amore, sesso vissuto in libertà – e la Chiesa – repressione e limitazione – sta tutta in questa scena: tra la danza morbida della Saraghina e la rigidità dei due preti che arrivano a castigare il protagonista. https://youtu.be/_n2s5i2i2Jg
GIULIETTA DEGLI SPIRITI (1965)
Sandra Milo sull’altalena con il mitico costume creato per lei da Piero Gherardi, nel bel mezzo di un numero tra cavalli ed elefanti, apice barocco e visionario di Fellini. Nel ricordo raccontato da Giulietta, è la ballerina con cui il nonno della protagonista era fuggito. Ma la Milo incarna tutte le versioni della voluttà nel film che racconta la crisi del matrimonio secondo il maestro. https://youtu.be/63y30JttflE
ROMA (1972)
Roma, magnifico e visionario ritratto della Città Eterna visto attraverso gli occhi di un giovane riminese, è pieno di momenti cult – l’ultima apparizione sullo schermo di Anna Magnani, che chiude la porta in faccia a Fellini al grido di: “A Federi’, va a dormi’ va’”, oppure Mastroianni a cena, in una scena che è stata tagliata dal cut americano – ma noi scegliamo la sfilata di moda del clero davanti a un cardinale tronfissimo, mentre due suore all’organo accompagnano con musiche para ecclesiastiche rivisitate con sarcasmo da Nino Rota. Praticamente The Young e The New Pope, ma negli anni ’70. https://youtu.be/SS5RZqZXhiU
AMARCORD (1973)
Ciccio Ingrassia questo film non voleva nemmeno farlo: quello dello Zio Teo, il ruolo del parente matto che si arrampica su un olmo a gridare “Voglio una donnaaa!”, gli sembrava troppo marginale. E invece la scena dell’albero segnò la memoria degli spettatori nel film più autobiografico di Fellini e questo cameo di culto aprì definitivamente a Ingrassia le porte cinema d’autore. Durante una lunga pausa di lavorazione, la troupe si dimenticò dell’attore mentre stava appollaiato sui rami, in attesa del ciak. https://youtu.be/_dn63mQeO4E Nell’ampio catalogo delle ossessioni femminili di Federico Fellini, la "Gradisca", interpretata da Magali Noel in "Amarcord", rappresenta la bella di provincia, quella che avanza compiaciuta lungo il corso principale della città, scatenando fremiti di desiderio e, soprattutto, mostrandosi pronta a soddisfarli. Da qui il soprannome, diventato quasi aggettivo, per indicare uno stereotipo di donna universale, diffuso ovunque, ben oltre i limiti della provincia riminese. La scena clou del film era quella in cui, cappotto rosso e basco in testa, improvvisava da sola uno spogliarello, restava in sottoveste nera e fili di perle, poi entrava in un grande letto candido e, rispettosamente, si offriva alla massima autorità di passaggio in paese: "Signor Principe, gradisca". https://youtu.be/KfmwmEYP77A
LA VOCE DELLA LUNA (1990)
“Dopo aver tanto cercato, ho ritrovato Pierino. Proprio lui: leggero, buffissimo, lunare, misterioso, ballerino, mimo, che fa ridere e piangere. Ha il fascino dei personaggi delle fiabe, delle grandi invenzioni letterarie. Rende credibile qualunque personaggio e tutti può abitarli. Amico degli orchi e delle principesse, dei ranocchi che parlano. È come Pinocchio e Giovannin senza paura”, aveva detto Federico Fellini di Roberto Benigni nella sua ultima intervista. Per il suo canto del cigno ha voluto lavorare con lui (e Paolo Villaggio): “Questo film è anche il suo testamento sulla nostra società, sul nostro mondo di adesso. Fa vedere il nostro rimbecillimento, la volgarità, e addirittura la nostra fine. Era un amarissimo commento sui nostri tempi, ma fatto con la sua solita bellezza stilistica”, ha ricordato Benigni. https://youtu.be/opvLX71dBWM Un consiglio. Guardatevi i film interamente. Assaporerete verità e leggerezza ma anche sogno e fantasia. Qualità che si trovano sicuramente nel genio di Federico Fellini. Buona visione.... da Tommaso!! Vieni a visitarci sulla nostra pagina Facebook e Metti il tuo MiPiace! Salva Read the full article
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susieporta · 5 years ago
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IL CIELO CHE HO DENTRO
Fra i talenti che Lucio Dalla ha misteriosamente ricevuto in dono, c’era quello di saper scrivere testi al tempo stesso semplici e profondi, immediatamente comprensibili e infinitamente interpretabili: tanto popolari quanto leopardiani.
I suoi occhi si accendevano in un lampo, per qualche dettaglio che normalmente sfugge ai radar. Noi guardiamo un albero, per esempio, e ci sembra — quando pure lo notiamo — semplicemente un albero: ma «cosa sarà che fa crescere gli alberi»? La risposta non attiene alla botanica, anche perché Dalla cantava l’origine delle banalità come degli ideali: «Cosa sarà che fa crescere gli alberi e la felicità?». Questione tutt’altro che scontata, se è vero che la felicità — com’è evidente — potrebbe anche non crescere, bensì appassire: cosa sarà «che fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento?» (Cosa sarà).
La felicità, infatti, è sempre più in là di quell’albero, o di quella riva. Un ragazzo vive in un paese sul mare e sogna di diventare marinaio; ma sono nient’altro che sogni, appunto, da ragazzo: «una sera di gennaio» il padre, che come tutti fa invece il pescatore, lo porta su «una barca senza vela», gli mostra la rete e gli parla diretto: «Questa rete è la tua vita, manda a fondo tutti i sogni come un giorno ho fatto io». Il figlio si arrende alla saggezza adulta (la stessa che tanti non si stancano di sciorinare a figli, alunni e amici: lasciar perdere orizzonti troppo vasti e irraggiungibili, ché non siamo mica eroi). Crescerà pescatore: «Ogni sera torno a casa con il sale sulla pelle, ma negli occhi e nel mio cuore ho le stelle». Perché si può essere prigionieri su una barca, dentro una casa o un ufficio, ma il cuore continua a inoltrarsi fino alle stelle, quasi sentendosi marinaio pur mentre si piega a pescare (Sulla rotta di Cristoforo Colombo).
Quella riva di paese inizia a profumare d’oceano, così come una squallida cella può nutrirsi del sapore del mare. Anche chi non è stato in prigione conosce il senso di soffocamento di un’aula scolastica, di una stanza d’ospedale, di una situazione che ritorni identica. Ma dalla finestra della cella per fortuna si intravede «una casa bianca in mezzo al blu»; lì c’è perfino una donna, e per l’uomo che la osserva da lontano diventa la sua «compagna». Ovviamente il carcerato non sa nemmeno come si chiami: «Maria è il nome che le dava lui». Tra le sue quattro mura, avverte che non questa, ma «quella è casa mia»: tant’è che l’attesa — sebbene mai effettivamente compiuta — di poterle un giorno parlare, di girare con lei per la città gli fa addirittura respirare la libertà. È un uomo solo che si sente «insieme», perché fino all’ultimo sa quello che desidera: «vengo da te, Mari’» (La casa in riva al mare).
Del resto, «il pensiero come l’oceano non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare» (Com’è profondo il mare). Se anche adesso, incatenati dove ci troviamo, intravedessimo una Maria... ci sentiremmo liberi, come pescatori marinai. Anche la città, infatti, non è detto risulti, sebbene più larga, molto migliore di una cella: prendi «quello schifo di locale», «i falsi sorrisi e le vuote parole» di troppe sere, «obbligati tra la gente» (Soli io e te). Lei, Anna, non si rende conto che la stessa bellezza dei suoi occhi è ridente e fuggitiva, non sa del suo «bello sguardo, sguardo che ogni giorno perde qualcosa»; Marco, poi, non può sfuggire alla periferia «con sua madre e una sorella, poca vita, sempre quella». Dove potranno incontrarsi, la sera? «In un locale che è uno schifo», dove addirittura «c’è una checca che fa il tifo». Lo squallore, però, è inondato da una domanda sconfinata: «ma dimmi tu dove sarà, dov’è la strada per le stelle?» (Anna e Marco).
Lucio Dalla cercava le stelle anche nei locali, come la libertà nelle galere. Siamo puntini minuscoli, attraversati però dall’immenso: «A me piaceva andare / di notte ogni estate in riva al mare / camminare e poi fermarmi ogni tanto lì / e pensare a cose inutili / a come è grande il mare / a che distanza c’è tra qua e là / oppure com’è che è così strano il mondo / e come era strano esserci / confondermi e perdermi / sotto quel cielo e a tutte le stelle / perdermi, riperdermi / lontano da ogni cosa / su una stella luminosa / non esserci, non essere / non esser mai nemmeno nato / un punto solo, il più piccolo che c’è» (Là).
Le stelle ci sono, eppure a volte è il cuore a non esserci, a «stare lì in silenzio senza dir niente». Talmente inutile che non sappiamo cosa farcene: «Ho perfino pensato in questa notte d’ottobre di buttarti via». Inseguiamo continuamente «il potere e il denaro» e ce lo dimentichiamo, lasciandolo solo finché si accartoccia, «cinico e indifferente». Perciò «anche davanti a questo cielo nero di stelle / e ce ne sono stanotte di stelle, forse miliardi, cuore non parli?» (Apriti cuore). Rincorriamo quel che ci appare utile, e crepiamo di discorsi: «Bloccando il malcontento degli organi vitali / si riesce a teorizzare all’infinito / non ci si tocca mai nemmeno con un dito / così si va tranquilli tra la gente». A cosa serve fermarsi davanti «al brivido sottile di due occhi mescolati tra la gente?» (2009. Le cicale e le stelle). Cosa vuoi che siano, rispetto a tutti i nostri bei calcoli? Ci abituiamo alla nostra rete da pesca, alla nostra piccola cella quotidiana, ai nostri locali serali. E intanto ci perdiamo: «Anna non abita più qui / Laura se n’è andata via / Valerio non lo sento più / ci siamo persi un po’ per colpa mia / Ciao... poi uno se ne va, e se ne va per sempre» (Don’t touch me).
Le giornate si colorano di una tristezza profonda, che nulla può colmare: «Quale allegria / senza far finta di dormire / con la tua guancia sulla mia / sapere invece che domani “ciao come stai” / una pacca sulla spalla e via / quale allegria?». Posso «cambiar faccia cento volte per far finta di essere un bambino / con un sorriso ospitale ridere cantare far casino / insomma far finta che sia sempre un carnevale» (Quale allegria), ma dentro «qualcosa ci manca, e quel qualcosa ci stanca / Ci stanca avere tutte queste cose che ci mancano» (1983). Non riusciamo a trovare quello che cerchiamo, e allora «quale allegria / se ti ho cercato per una vita senza trovarti»? Neanche il successo rompe la monotonia («tanto oggi è come ieri»), neanche «fare un inchino a quelli che ti son davanti / e sono in tanti e ti battono le mani / senza allegria». «Non so cosa mi manca... Sarà che io ho così tutto... Che tutto è lì che mi manca... Non so cos’è che mi stanca, qualcosa che è nell’aria e mi sta chiamando... e mi sta cambiando. Non lo cerco ma lo sento, mi vede e mi scava dentro» (Io e la mia ombra, in Gli occhi di Lucio).
Lucio Dalla — come tutti gli scrittori veri — non ha avuto paura di guardare in faccia la felicità e la malinconia, la luna e le nuvole, le stelle e gli alberi. «I cretini di ogni età», invece, divorati da una miopia che li soffoca, aspettano che a cambiare siano le cose: che so, un albero di un colore diverso o una rete da pesca automatica. Oppure tutto quello che ci mettono in testa: «La televisione ha detto che il nuovo anno / porterà una trasformazione / e tutti quanti stiamo già aspettando / sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno / ogni cristo scenderà dalla croce / anche gli uccelli faranno ritorno / Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno / anche i muti potranno parlare / mentre i sordi già lo fanno / E si farà l’amore ognuno come gli va / anche i preti potranno sposarsi / ma soltanto a una certa età». La cantano tutti, L’anno che verrà, ma quanti ne colgono l’acume? L’unico cambiamento augurabile non riguarda le circostanze interne, ma il risveglio dell’io: «L’anno che sta arrivando tra un anno passerà / io mi sto preparando/ è questa la novità».
In cosa consiste questo cambiamento? Nel cuore che torna a farsi sentire: «Cambierò, tornerò come un tempo padrone di niente» (Apriti cuore). È l’uomo che si riprende «questa vita che passa accanto e con le mani ti saluta»: per esempio il regista, che «aspettava la star al ristorante / sembrava un morto con in mano un bicchiere», che d’un tratto rompe il gioco dei ruoli e, «stanco di aspettare, appena ha visto la star / l’ha mandata a cagare»; o il ragazzo, che «lavorava in un bar ed aspettava / che il padrone se ne andasse per potersi sedere», finalmente «ha lasciato lì di lavorare / e, agguantato un treno, è corso fino al mare» (Meri Luis). Oppure, come nella struggente L’altra parte del mondo, i protagonisti sono per varie ragioni bloccati, impacciati, disillusi, fin quando, «con due valige finalmente all’aeroporto / e il passaporto nella mano, Ciccio / aveva capito che non era un deficiente / che era meglio partire, senza cartoline sparire / andarsene lontano», mentre «Marta / e il suo amico / navigavano ancora diecimila metri sopra al mare / andavano a cercare qualcosa o qualcuno / o solo un posto per ricominciare».
Si ricomincia quando si riapre il cuore. Il fischio con cui comincia Le rondini lo riapre. Non è facile resistere alla purezza di parole tanto limpide: «Vorrei entrare dentro i fili di una radio / e volare sopra i tetti delle città / incontrare le espressioni dialettali / mescolarmi con l’odore del caffè / Fermarmi sul naso dei vecchi mentre leggono i giornali / e con la polvere dei sogni volare e volare / al fresco delle stelle e anche più in là». Ancora le stelle in agguato dietro un caffè, ancora la semplicità del quotidiano e il mistero nascosto «più in là»: «Vorrei girare il cielo come le rondini / e ogni tanto fermarmi qua e là / avere il nido sotto i tetti al fresco dei portici / e come loro quando è la sera chiudere gli occhi con semplicità / E seguire ogni battito del mio cuore / per capire cosa succede dentro e cos’è che lo muove / da dove viene ogni tanto questo strano dolore / vorrei capire insomma che cos’è l’amore / dov’è che si prende, dov’è che si dà».
Lucio Dalla aveva gli occhi tipici del genio, capaci di angoli d’osservazione alla portata di tutti eppure mai raggiunti, svelati per la prima volta dal nitore del suo linguaggio e dall’imprevedibilità stralunata della sua musica. Ha cantato, cioè, il mistero del mondo: «Un mondo / che... /senza pietà / cancella tutto e se ne va / rimaniamo a bocca aperta / lui ce la chiude e se ne va / come un bambino gioca e si nasconde / lo cerchiamo dappertutto / lui chiude gli occhi e si nasconde / passa vicino, lo chiami e non risponde / lo trovi addormentato per la strada / sdraiato sulle onde / poi di colpo apre gli occhi / e ci frega ci confonde / nell’incanto della notte» (L’altra parte del mondo).
Alla sua domanda «apriti cuore», gridata alle sue tonalità siderali, si direbbe che la vita abbia risposto, ricambiando il suo slancio e forse prestandogli sguardo e voce. Quando si fermava ad ascoltare «le cicale delle stelle», sapeva ridarcene poi i silenzi, le nostalgie: «Ah felicità / su quale treno della notte viaggerai / Lo so.. / che passerai... / ma come sempre in fretta / non ti fermi mai» (Felicità). Ancora risposte urgenti e da acchiappare, ancora notti stellate, come osserverà in un’intervista del 2009: «Ho sempre cercato di interpretare l’aspetto più umano, più legato agli uomini, quindi, per forza di cose, legato a Dio. Io, personalmente, mi sento dentro un’ampolla che mi connette con l’esterno. Di notte, ad esempio, vado a concentrarmi sulla terrazza di casa mia a Bologna. Non c’è niente che mi divide dal cielo, neanche dal cielo che ho dentro. Le cose mi ronzano intorno: il fischio di un treno lontano, l’abbaiare dei cani, la sirena di una croce rossa, suoni e visioni. Non vorrei essere sacrilego: comincio con le preghiere classiche, dopo viene questo “mantra”. È una unione di segni che mi danno una grande piacevolezza e pienezza di spirito, è il momento artistico. Hai capito? E ciò parte dalla convinzione che dentro ogni uomo c’è Dio. Non è un dubbio, è una certezza. Dentro di me c’è il mio Dio».
Intuizioni vertiginose: «Dio è in me, non è metallo... è polvere celeste. Il mio pregare non è “quà quà” di anatra, coda di tuono e candela che hanno fine. È muro di roccia, muro di castello, colonna d’Ercole, è frana di parola vera, non di stile. È amore spremuto di Dio. È inizio di pranzo affamato... È voce e scoppola di madre. Oh, amor perduto... Dio. Amore perduto, cercato e ritrovato. Oh, goccia di pianto dei santi in mia mano aperta. Io mi pento, Cuore mio! Che m’hai abbandonato. Rosso corallo ferito e insanguinato, non cercare la tua morte ma la mia resurrezione» (Gli occhi di Lucio).
Forse Dante ha dovuto aspettare settecento anni dalla folgorante chiusura della Divina Commedia sull’«amor che move ’l sole e l’altre stelle» per trovare una domanda così esplicita, potente e speculare: «Vorrei sapere chi è / che muove il mondo e dov’è / e cosa resta di me, di noi». Ci volevano «tante stelle da star male» (Vorrei sapere chi è), quando «il cielo è così pieno di stelle da doversi vergognare», quando «puoi ascoltare il buio e vedere il silenzio», come scriveva di una notte del Gargano. Le stelle tuttavia non bastano: «I ciechi e i muti di anima sono gli uomini distratti, quelli che non sentono nemmeno il rumore delle stelle». Riecheggiando Chissà se lo sai, faceva confessare a un lupo con gli occhi sgranati verso la luna che, «se mi guardi come mi guardi, diventano belli anche i miei» (Gli occhi di Lucio). Non è sufficiente la bellezza, infatti: serve un cuore aperto, un «cuore dove tira sempre il vento» (Cara). Il vento che attraversa le sue canzoni, fino all’ultima dell’ultimo album, Controvento: «Navigando controvento / non sai cosa troverai / ma se hai qualcosa dentro / capirai / Certo / se vuoi stare in pace / così serve navigare / Se vuoi solo star tranquillo, basta galleggiare». Torna una barca, ancora più povera di quella «senza vela» della Rotta di Cristoforo Colombo: «Gesù Cristo era un pezzente / tutto meno che potente / nudo e sporco e sulla croce / per non diventare re / non aveva in tasca niente / per camminare sopra il mare / non seguiva la corrente / ed i venti da sfruttare».
Quanto bisogno abbiamo di tornare ad avere in bocca una sola, semplicissima scoperta: «Però la vita com’è bella / e come è bello poterla cantare» (Meri Luis).
di Valerio Capasa. 29 febbraio 2020
http://www.osservatoreromano.va/it/news/il-cielo-che-ho-dentro
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pangeanews · 5 years ago
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In questo tempo moribondo mi innamoro perdutamente di Rubem Alves…
L’aria del complotto fa starnutire le spie. Sta tornando il tempo libero, come un tornado, come una corrente d’aria che contagia anche questo tempo, si ammala, non quello meteorologico che diventa brutto e cattivo, no, quello relativo, cronos e kairos, di un male di vivere alla giornata, di una febbre da domenica pomeriggio, quando la malinconia assurge a tristezza, sgomento inspiegabile, vecchiaia dentro. Mentre allo stereo alterno Dalla alla Bossanova mi resta una domanda per la quale non ho risposta. Mi è stato chiesto se credo in Dio? Ho risposto con un verso non mio, di Chico Buarque: saudade è il contrario del parto. È preparare la camera per il figlio morto. Qual è la madre che più ama? Quella che prepara la camera per il figlio che non farà ritorno o quella che prepara la camera per il figlio che farà ritorno. Sono un costruttore di altari. Li costruisco sulla sponda di un abisso scuro e silenzioso. Li costruisco con poesia e musica. I fuochi che su di essi accendo mi scaldano le mani e m’illuminano il volto.
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In questo tempo moribondo m’innamoro perdutamente di Rubem Alves, un intellettuale brasiliano morto ottantenne da poco, fu psicanalista, filosofo, storico, poeta, pedagogista, cultore di cucina, pastore presbiteriano e, come teologo, è stato il primo a scrivere in modo approfondito sulla teologia della liberazione. Viene poi accusato di condotta sovversiva dalle autorità ecclesiastiche presbiteriane e perseguito dal regime militare. Per questo abbandona il Brasile e si rifugia negli Stati Uniti. Educatore, teologo, psicanalista, ma anche (o soprattutto) poeta, scrittore di racconti per bambini, amante della cucina. È un mago della parola e possiede uno stile inconfondibile. Ha scritto su temi che spaziano per gli universi della sociologia, della psicanalisi, della filosofia e della teologia. colui che ha coniato il termine “Teologia della liberazione”. Ma più di ogni cosa, Rubem è – come ha avuto modo di sottolineare Antonio Nanni – “Un suscitatore di sensazioni, di emozioni, di fantasie e riesce a risvegliare in chi lo ascolta un mondo di sogni e fiabe che si è addormentato con la fine dell’infanzia in ciascuno di noi”. È uno degli intellettuali più conosciuti e rispettati del Brasile. Autore di una vastissima opera (la sua bibliografia enumera più di 50 titoli), con forte connotazione autobiografica, Alves è uno dei più luminosi artefici della lingua portoghese, la cui plasticità ha toccato nei suoi testi forme cangianti ed espressioni di rara e sempre sorprendente singolarità. Negli anni ’90, giunto alla pensione, diventa proprietario di un “particolare” ristorante nella città di Campinas, dove potrà dare libero sfogo al suo amore per la cucina. Il direttore della Scuola da Ponte (Portogallo) ha detto di lui: “Rubem è un appassionato della vita, un compulsivo fruitore della vita. Ancora non ha scritto tutti i testi e tutti i libri che la sua mente contiene, ancora non ha sentito, amato, giocato e riso abbastanza, ancora non ha risposto a tutte le lettere e messaggi degli amici, ancora non ha raccontato alle sue nipotine tutte le storie che esse sarebbero capaci di indovinare, ancora non ha fatto esperienza di tutte le assenze e di tutte le nostalgie, ancora non ha spiato tutti i misteri del mondo e di se stesso… Al tema dell’educazione associa spesso la metafora del “sogno” e del “giardino”: «Le scuole si dedicano ad insegnare i saperi scientifici, dal momento che la loro ideologia scientifica proibisce di avere a che fare con i sogni (cosa romantica!). Mi spaventa l’incapacità delle scuole di creare sogni! Soprattutto oggi che i mezzi di comunicazione – specialmente la televisione – che conoscono bene la psicologia degli esseri umani, seducono le persone con i loro sogni piccoli, spesso grotteschi. Mi spaventa la capacità dei mezzi di comunicazione di creare sogni! Ma da sogni piccoli e grotteschi può solo sorgere un popolo di idee piccole e grottesche, che ignorano che l’essenziale nella vita di un paese è l’educazione». E altrove: «La mia passione per l’educazione ha dei paesaggi e i paesaggi che mi commuovono adesso non sono gli stessi che mi parevano tali quando ero giovane: esiste un mondo che avviene grazie allo svolgersi logico della storia, in tutta la sua crudezza e insensibilità, ma c’è un mondo ugualmente concreto che nasce da i sogni: La Pietà di Michelangelo, Il bacio di Rodin, le tele di Van Gogh e Monet, le musiche di Tom Jobim, i libri di Guimarães Rosa e di Saramago, le case, i giardini, i cibi: essi sono esistiti come sogni prima di esistere come fatti. Quando i sogni prendono forma concreta sorge la bellezza. Zarathustra diceva che era giunto il tempo per l’uomo di piantare le sementi della sua più alta speranza. È questa l’immagine che si forma attorno alla mia passione per l’educazione: sto seminando le sementi della mia più alta speranza, non cerco discepoli cui comunicare saperi, i saperi già vagano a disposizione di chi li voglia catturare. Io cerco discepoli per piantare in essi le mie speranze».
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Come si vede, Rubem – con il suo stile peculiare e d’impatto – porta delle severe critiche al sistema educativo. Ma chi lo conosce da vicino, sa che le sue critiche sono la manifestazione di un desiderio profondo di offrire ai nostri alunni un’educazione più giusta, grazie alla quale il professore stesso possa realizzarsi nella sua vocazione di maestro. Pensieri sull’educazione «L’atto di educare si rivela nell’atto di fare l’amore. Chi impara dagli amanti diventa un migliore educatore. Gli alunni conosceranno, concepiranno e daranno alla luce». «Ogni esperienza di apprendimento inizia con un’esperienza affettiva». «Non esiste niente di più pernicioso per il pensiero che l’insegnamento delle risposte esatte. Le risposte ci permettono di camminare su terra sicura. Ma solo le domande ci permettono di entrare nel mare sconosciuto. Per questo esistono le scuole: non per insegnare le risposte, ma per insegnare le domande». «Educare è mostrare la vita a chi ancora non l’ha vista. L’educatore dice: Guarda! E così dicendo mostra. L’alunno guarda nella direzione indicata e vede ciò che non aveva mai visto ancora. Il suo mondo si espande e lui diventa più ricco interiormente, e diventando più ricco interiormente, può provare più gioia e dare più gioia, che sono le ragioni per le quali viviamo. Il miracolo dell’educazione avviene quando vediamo un mondo che non si era mai visto».
* I suoi libri, in Italia pochi e introvabili, sono pietre preziose, miliari, monili di gemme brillanti, rubini di Rubem che riguardano soprattutto la religione, trattata in modo moderno, rivalutata nella gioia e nel corpo, nel gioco e nell’arte, dall’etica all’estetica, piena di guerrieri teneri (lotta meglio chi ha bei sogni) che combattono con le armi della speranza per liberare finalmente l’uomo che non avanza. Congratulazioni a Marco dal Corso, che lo ha portato in Italia facendoci così conoscere questo cristiano brasiliano che non è cattolico ma protestante, che si presenta al consiglio ecumenico della Chiesa a Ginevra raccontando storie per bambini (l’ostrica felice non produce perle e il gallo che cantava per far nascere il sole sono le due più belle); che invitato a tenere una conferenza per persone della terza età esordisce così: signore e signori, siete arrivati finalmente a quell’età meravigliosa in cui potete concedervi il lusso di essere totalmente inutili. Tutti iniziarono a mormorare, ma lui voleva soltanto intendere che fossero messi nello stesso baule dove c’erano i giochi, ben sapendo che qualunque paradiso diventa inferno quando un adulto vi entra. In un poema di Alberto Caeiro all’entrata dell’Eden non c’è san Pietro con il libro contabile di Dio, ma una bambina che apre un baule enorme, dove sono custoditi tutti i giochi inventati e da inventare, e chiede svelta: scegli, vuoi giocare? Entra solo chi sta al gioco e diventa felice. Ma molti si arrabbiano, portano valige di opere buone da presentare a un superiore, sono persone serie, sono andati a scuola per imparare il mestiere di vivere. Mi dispiace, ma qui non sarete promossi, resterete fuori, tornate quando sarete ridiventati bambini e avrete imparato a giocare.
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Più scoprite Alves e più gli interrogativi aumentano, ben sapendo che la vita è la risposta che cerca la domanda. Dà sempre una bella risposta chi pone una domanda ancor più bella. Cummings. Offro solo risposte a domande che nessuno ha posto. Rosa. Rubem usa metafore e storie, poesia e magia, ragni e ragnatele, per parlarvi d’insegnamento e di apprendimento, va sempre a togliere, a levare, come volesse farvi disimparare. Insegnare deve essere un atto di allegria, un dovere fatto di passione ad arte. Si è come dei pagliacci che salgono sul palco tutti i giorni con la stessa missione e con la stessa parte: divertire gli altri, distrarli dalle loro vite per inoculargli la loro vocazione. Rubem è un grande affabulatore, come tutti i sudamericani, infatti si allaccia spesso a Garcia Marquez e Guimarães Rosa, adatta il Vangelo ai giorni nostri, nutrendolo di nuovi significati. Ma come può un uomo che tra le sue fonti cita Marx e Nietsche portarci alla radice di Dio? Infatti fonda la teopoesia: Dio è un poeta. Se potessi fare una nuova traduzione del testo di Giovanni “e il verbo si fece carne” metterei “e un poema si fece carne”. Mi piacerebbe che la teologia fosse fatta di parole che rendono visibili i sogni e che, quando sono pronunciate, trasformassero la valle di ossa disseccate in una moltitudine di bambini. Fuori dalla bellezza non c’è salvezza. Rubem Alves, guerriero poeta profeta, amico di Mario Quintana, poeta bambino, venerato in patria, sconosciuto qui vicino, che ha come epitaffio sulla tomba “io non sono qui”, e che gli scrive così: tutti quelli che stanno ad ingombrare il mio cammino, essi passeranno, io passerò; amico di Cecilia Meireles, stessa identica sorte del precedente, che cita nuovamente: rimango a meditare se dopo molto navigare si approdi infine in qualche luogo, forse ancora più triste, ne’ barche, ne’ gabbiani, appena sovrumane compagnie, da lontano intravedo l’orizzonte, molto prossimo e senza possibilità, che pena che la vita sia solo questa. Lettore di Valery: che sarebbe di noi senza l’aiuto di quello che non esiste; di Pessoa: Dio vuole. L’uomo sogna. L’opera nasce. Se potessi vivere la mia vita nuovamente cercherei di commettere più errori, correrei maggiori rischi, viaggerei di più, contemplerei di più i tramonti, ma io sono dove sono perché tutti miei piani non hanno funzionato. Sembra una cosa triste quando invece c’è da piangere di gioia. A un certo punto parlando di poesia cita suor Juana Ines de la Cruz: Facciamo silenzio non perché non abbiamo niente da dire, ma perché non sappiamo come dire tutto quello che ci piacerebbe dire. Milton Nascimento dalla radio ha proprio ragione: La terra va in calore, essa ci desidera. Solo diventando dei giardinieri potremmo riappropriarci e gustarci il giardino dell’Eden. Tornando al nostro Alves, in un suo libro ci imbattiamo in un verso di Rilke: chi mai ci deformò, chi ci stravolse così, che sempre ripetiamo il gesto di prender congedo? Contagio? Resto aggrappato al vaccino di Rubem, salvezza in Alves, e alla grande fortuna e occasione di aver conosciuto in questo periodo sfiduciato e sfidato, di amore e psicosi, questo enorme uomo delle amazzoni che ci parla di Dio dal trespolo di un giullare e non ha paura di dichiarare che Descartes si sbagliava, l’essenza dell’uomo è il desiderio. La fantasia crea la Ragione. Lascia che la Bellezza, senza parole e neppure catechismo, evangelizzi il mondo. Dio è bellezza.
* Grazie Rubem per avermi ammalato con cura, con devozione e premura, pazienza che non dura. Questa guerra invisibile, fatta da nemici anemici, ci insegnerà l’incertezza, l’imprevedibilità, la serendipità, e il distacco ci farà mancare le persone care… Non siamo preparati alla guerra fisica, pensa un po’ a quella interiore. I politici e i medici danno l’impressione di brancolare nel buio come capi tribù e stregoni voodoo, di dire tutto e il contrario di tutto come chi deve imbonire un pubblico pagante e non dovuto, venendo a patti col diavolo, tentatore e divisore. Perché la verità (che non va confusa con la realtà) è essenzialmente poetica. “La verità dei poeti – ha scritto Marina Cvetaeva – è la più invincibile, la più inafferrabile, la più indimostrabile e insieme convincente (…) Una verità irresponsabile e priva di conseguenze, una verità che –  Dio ce ne scampi! – non bisogna neanche cercare di inseguire (…) La verità del poeta è un sentiero su cui le tracce vengono subito nascoste dall’erba (…) Non è una tra le innumerevoli verità, ma uno degli innumerevoli aspetti della verità (…) Gli aspetti ogni volta diversi e irripetibili della verità. Semplicemente – una puntura al cuore. Trafittura dell’eterno”.
Di Rubem, in Italia, c’è troppo poco. Punto.
Luca Gaviani
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sportpeople · 7 years ago
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Due mesi dopo la mia prima visita, decido di tornare in Marocco. Il derby di Casablanca è stato un antipasto lussuoso per scoprire gli ultras del regno sceriffiano. Mi son subito innamorato dello spettacolo proposto e della gente, ma una partita, soprattutto quella più importante della stagione, non può essere presa come unico e attendibile banco di prova per giudicare gli ultras marocchini. Per questo decido dunque di tornare e capire meglio cosa succede nelle curve locali. Sarà di nuovo il calendario di calcio la mia bussola. Per aiutarmi, devo essere sincero, c’è anche un amico marocchino che ha dovuto subire il mio stalking via Whatsapp. Fortuna mia vuole che la sua pazienza sia molto maggiore di quella del nostro benamato direttore. E cosi questa volta decido di andare alla scoperta della parte settentrionale del paese dove si giocano tre partite, tra le quali due a Tetouan. Il caro Ismael mi dice che gli ultras locali son una bella realtà e che vale la pena andarci, poi la città è carina secondo lui, per cui lo prendo in parola.
Prima tappa a Tangeri, dove arrivo nella notte. Il freddo è terribile e mi fa capire che il nord del Marocco, a fine marzo, non è molto diverso rispetto al Europa occidentale: ovviamente, la camera che ho prenotato non ha riscaldamento… Ma lo spettacolo che scopro la mattina mi ripaga lasciandomi a bocca aperta: dalla finestra del salone riesco a vedere l’Europa, una visione quasi irreale che mi fa rimanere lì per oltre mezz’ora in silenzio. Il nostro continente visto da sotto non è solo affascinante, ma pensando a queste maledette miglia di mare che hanno visto morire speranze e soprattutto essere umani alla ricerca di dignità, fa sinceramente riflettere ai privilegi che si hanno nel nascere al di qua o al di là di quella cortina di blu. 
La città di Tangeri mi piace molto, devo dire che sembra quasi svizzera, talmente appare pulita e ordinata. Dopo due giorni decido di spostarmi a Tetouan, altra grande città del nord del Marocco, in virtù dell’arrivo di un amico napoletano. Un taxi collettivo ci porta lì in neanche un’ora, ottimo affare visto che, come al solito, sono in ritardo. Il paesaggio che scorre è fantastico con delle colline verdissime che mi ricordano un po’ la zona al confine tra Romagna e Marche. L’autista non ha voglia di parlare e ci va bene cosi.
Da “grande” viaggiatore che non porta mai una guida turistica e altra roba simile, decido di scendere prima perché la stazione di pullman e taxi collettivi è lontana dal centro. La partita è fra un’ora e mezza, penso così di raggiungere prima il mio alloggio con un altro taxi privato che può portarmi a destinazioni differenti da quelle prestabilite dei taxi collettivi. Dopo più di venticinque minuti ancora non ce n’è uno che si possa prendere, così provo a fermarne uno in mezzo alla strada, visto che l’ansia pre-partita comincia a salire e che non ho ancora avuto risposta per l’accredito stampa. Forse sembrerò uno straccione perché anche in questo caso non c’è nessuno che mi voglia prendere a bordo. A questo punto capisco che non c’è altro da fare e vado a piedi. Per mia (s)fortuna, viaggio sempre con un borsone da “paesà”: sembro tornare da una visita al paesello e porto ogni volta come minimo 25 chili di cose, la maggiore parte delle quali ovviamente inutili. Ma la cosa più bella è la salita pazzesca e i tre chilometri che mi separano dalla mia meta
Appena comincio il mio cammino di fede e speranza, noto già il primo murales degli “Ultras Los Matadores” e già tanta gente con la sciarpa al collo o la maglia del MAT, il Mogreb Atletico Tetuan: almeno son sicuro di essere sulla giusta strada. Dopo dieci minuti e avendo perso almeno un litro di sudore, decido di chiedere a una macchina di passaggio qualsiasi di portarci in centro. Ci prende un ragazzo alla guida di un autocarro. Nel bel mezzo del traffico, il suo amico ci cede i due posti nella cabina anteriore e si butta nel vano posteriore con i nostri due bagagli. Non vediamo niente dei nostri borsoni e non sappiamo dove ci stiano portando. Tra due parole di spagnolo che mischio con il mio italiano ed un po’ di francese chiediamo di portarci verso il centro. Ci tocca avere fiducia perché è l’unica soluzione per arrivare allo stadio. Per il pallone queste situazione ci stanno, ma sopratutto per gli ultras questi rischi si possono prendere e dopo una decina di minuti, veniamo premiati ritrovandoci a poche centinaia di metri dal nostro alloggio.
Per fortuna il proprietario della camera ci aspettava e possiamo abbandonare tutto e partire subito con un altro taxi allo stadio, Ovviamente il nostro stomaco è vuoto e alla mia età, con le mie fissazioni per il cibo avrei già fatto una scenata isterica, in un’altra situazione, ma il richiamo dello stadio fa dimenticare ogni altro problema di ordine fisiologico.
Le schiene dell’ultima fila
Mancano venti minuti al fischio d’inizio quando arriviamo allo stadio “Saniat Rmel”. Devo ammettere che nutrivo forti dubbi prima di venire a Tetouan: la squadra locale è penultima e la partita si gioca di martedì alle ore 16. Se faccio duemilaquattrocento chilometri non è per vedere una partita con cinquanta ragazzi dietro uno striscione che contestano la loro squadra, ma secondo Ismael, mio amico marocchino, sottoposto ad una pressione intensa di messaggi stupidi in cui chiedevo dieci volte la stessa cosa, sarà ancora meglio con la squadra messa così male in classifica. Questa logica mi sfugge, conoscendo il contesto europeo, dove il tifo diventa penoso con la squadra quinta o sesta e con contestazioni dopo neanche cinque giornate di campionato per mancanza di risultati. Lo spettacolo allo stadio mi fa capire che Ismael aveva ampiamente ragione. Ci sono code di spettatori fuori con tantissima polizia. E da fuori si nota la curva è pienissima, vedendo centinaia di schiene dell’ultima fila di “curvaioli”.
Cerchiamo il nostro accredito ma nessuno sa dove sia. L’unica soluzione è agganciare l’addetto stampa. Per entrare mostro un vecchio accredito di Casablanca che ci serve da “laisser-passer” per due persone. Passiamo come portoghesi i controlli e siamo dietro la tribuna dello stadio. Dopo pochi minuti troviamo il nostro “messia” e lui, ovviamente, dice di non aver ricevuto la nostra richiesta formale. Ma qua l’elasticità mentale e l’opposto della nostra ingessatura burocratica e in pochissimi minuti si prende la responsabilità e ci butta in campo. Le pettorine si fanno trovare da sole, come per magia: abbiamo addirittura un’altra decina di minuti davanti a noi. Un lusso fenomenale se ripensiamo alla nostra pessima situazione di un’ora e mezzo prima.
Lo stadio è davvero piccolo, conterrà sì e no 15.000 posti, ma è pienissimo ad eccezione del settore ospite, dove trovano posto un centinaio di tifosi e di ultras venuti da El Jadida, che si trova a quattrocentosettanta chilometri: che bellezza… già così devo solo ringraziare Ismael, per il consiglio.
Dopo neanche qualche secondo, il tifo inizia già. Ci sono tre, quattro ragazzi di fronte alla curva stracolma, sono proprio sul campo e capisco essere i lanciacori. Non hanno l’ombra di un megafono o microfono, come si può ancora vedere in alcuni paesi dell’Est Europa: questi strumenti risultano superflui perché la curva conosce tutto il repertorio e subito riprende i canti.
Pirotecnica MAT ad inizio gara
Sono in estasi e spero che questo miracolo duri per tutta la partita. Mi permetto di presentarmi ad uno di loro, per spiegargli che “Sport People” è una rivista di livello internazionale, che neanche il “New York Times” ha le capacità per mandare due persone a Tetouan per questa partita. Ovviamente non menziono tutti questi dettagli, ma essendo gli unici due coglioni (o europei, scegliete voi il termine più giusto) allo stadio, per cui mi permetto questa confidenza per scattare le foto con calma senza destare sospetto. I ragazzi così ci danno subito il benvenuto, non rompendoci i maroni come altri ultras in alcuni paesi che hanno guardato troppo “Football Factory” o fiutato sostanze che fa venir loro la paranoia…
Non ci sono striscioni in curva perché in Marocco vige difatti una repressione fortissima. Le attività degli ultras sono state proibite per quasi due anni e solo da pochissimi giorni il governo, secondo alcune condizioni, ha autorizzato di nuovo il tifo organizzato. Ma sono tante voci e poche certezze e ovviamente bisogna sempre riflettere su questi “dietro front” ricordando che i vari governi hanno sempre interessi e sguardi più lunghi dei tifosi. Non a caso il 13 giugno 2018 si deciderà chi tra il Marocco o la triade Canada-Stati Uniti-Messico organizzerà la prossima Coppa del Mondo. Il Marocco, come avrete dedotto, è un paese affamato di pallone, nella stessa Tangeri non potevo dormire perché dei ragazzi stavano giocando a calcio su un campo sintetico di fronte alla mia camera… fino alle due di notte! E oggi, un giorno lavorativo, con una squadra penultima in classifica, lo stadio è quasi completamente esaurito. 
Ma il “problema” del Marocco è che il pubblico, al contrario degli ultras, è molto volatile: per le partitissime lo stadio si presenta esaurito, per altre ci sono solo i fedeli, cioè gli ultras. Poi, dall’aprile del 2016, quando hanno deciso di proibire le attività degli ultras, a seguito degli scontri che hanno causato due morti e 54 feriti a una partita del Raja, dopo una zuffa interna alla tifoseria verde, i locali si son organizzati in un fronte unico ed hanno deciso per cinque giornate di boicottare gli stadi. Il governo dunque, per dare una bella immagine degli spalti, ha deciso di autorizzarli di nuovo. Perché i semplici tifosi saranno forse più calmi, ma a livello di tifo e di colore sugli spalti è come fossero del tutto assneti. I gruppi non son caduti nella trappola e hanno deciso di mantenere in certo qual modo viva la protesta: solo stendardi, niente striscioni e zero scenografie d’impatto, ma solo tifo massiccio. 
Corisiti dirigono il tifo da bordocampo
Oggi sia i “Siempre Palomas” che “Los Matadores” portano diverse pezze. I nomi dei due gruppi sono chiaramente di origini spagnole: non è solo la prossimità geografica (Tetouan è a poche decine di chilometri della Spagna) a spiegare quest’uso della lingua di Cervantes. Il Marocco fu doppiamente vittima della colonizzazione: il 27 novembre del 1912, francesi e spagnoli firmarono un accordo per accaparrarsi questa terra con la scusa di proteggerla. Qualche mese dopo, nel febbraio del 1913, gli spagnoli presero il controllo di Tetouan. Ma serviranno una decina d’anni agli spagnoli per poter controllare le cinque provincie del Nord del Marocco che si erano aggiudicati. Dal 1921 al 1926 ci fu un conflitto terribile, la guerra del Rif. La resistenza fu ad appannaggio dell’emiro Abd el-Krim che fino al 1924 andò di vittoria in vittoria, costretto poi ad un accordo dai militari francesi e spagnoli i quali, per riprendere il controllo della situazione, ricorsero all’ausilio di pesanti incursioni dell’aviazione o armi chimiche come i gas che furono uno dei mezzi preferenziali dei terribili crimini di guerra sul campo da parte delle nazioni europee cosiddette “civilizzate”. 
Bisogna aspettare il 1956 e l’indipendenza del Marocco per vedere il paese riconquistare la sua sovranità e gli spagnoli lasciare Tetouan. Le conseguenze del colonialismo si possono anche notare nel campo sportivo. Le due prime società di calcio locali nascono infatti per volontà di militari spagnoli nel 1922: lo Sporting de Tetouan e l’Hispano-Marroquì. L’anno dopo, le due società si fusero nell’Athletic Club Tetouan. Il logo prescelto ricalcava quello dell’Atletico Madrid perché tra i fondatori c’erano tifosi di questa squadra, così come i colori sociali e la divisa di gioco. Questa società, come le altre delle cinque province del Nord del Marocco, presero addirittura parte al campionato spagnolo di calcio. Ma l’Athletic Club Tetouan diviene il vero simbolo del calcio locale, arrivando a giocare nella “Segunda”, la serie B spagnola e nel 1951 ottiene addirittura la promozione nella Liga. Su questo stesso campo dove mi trovo oggi, son venuti sia il Real (3-3) che il Barça e il fratello maggiore dell’Atletico di Madrid, dove giocava il più grande giocatore marocchino del tempo, Larbi Ben Marbek, ma che dovette cedere all’Atletic di Tetuan che si impose per 4-2, vittoria prestigiosa visto che i madrileni vinsero poi il campionato. Queste gloriose imprese sportive non permisero però ai biancorossi di Tetuan di rimanere nella “Primera”, che invece retrocessero alla fine della stagione, anche se resta questo un piccolo grande miracolo sportivo: fu infatti la prima e l’unica volta in cui una squadra africana giocò nella massima serie di un campionato europeo.
Nel 1956, con l’indipendenza del Marocco, la società mutua il suo nome in uno più arabo, diventando il Moghreb Athletic Tetouan. Maghreb è un termine arabo per indicare il ponente e designa anche tre paesi arabi (Marocco, Algeria e Tunisia). Da lì iniziò un’altra era per questa società, soprattutto in serie B marocchina (per 34 stagioni) con solo 27 apparizioni in “Botola”, la massima espressione del calcio professionistico locale. Ma nel 2012, per la sua prima volta nel post-indipendenza il MAT vince uno scudetto. Un trionfo che si ripropose due anni dopo, con un altro campionato vinto all’ultima giornata. Ma i tempi gloriosi sembrano lontani e oggi l’Athlétic si ritrova a disputare una partita per non retrocedere. Anche per questo il popolo biancorosso si è mobilitato, proprio per spingere i propri beniamini a dare il tutto per tutto.
La curva dei locali è molto giovane. L’eta media è di vent’anni e l’entusiasmo è alle stelle. Ci sono una decina di pezze sulla recinzione con scritte in arabo, in inglese, in spagnolo ma anche in italiano. In quest’ultimo caso con uno slogan diventato famoso su tutto il pianeta ultras: “No al calcio moderno”. Ma quello degli ultras arabi sarà l’ennesimo copia/incolla, come alcuni sostengono? No, perché anche in Marocco il calcio sta cambiando e ovviamente la direzione non è quella che i tifosi auspicherebbero, bensì una via puramente commerciale. Le società di calcio marocchine, secondo una legge di modernizzazione, stanno trasformando il proprio status in vere e proprie S.p.a.
“Gloria a chi ha resistito (alla repressione)”
Gli stendardi con le scritte in arabo mi piacciono di più. Su uno di questo c’è scritto proprio “Siempre Palomas, l’orgoglio del Nord”. Spettacolari con la grafia originale. Non manca la bandiera palestinese, una causa indissolubile della cultura ultras del mondo arabo.  I “Siempre Palomas” son un po’ defilati alla mia destra, invece i “Los Matadores” hanno la loro pezza “ULM” (Ultras Los Matadores) al centro. Il simbolo che usano è quello del “Frente Atletico”, la “signora con la falce” che esce dal simbolo del MAT.  Dietro questo stendardo, c’è “Gate”, ovvio riferimento alla porta d’ingresso al loro settore, dove montano anche tre tamburi.
Tre quarti dei curvaioli hanno la maglia della loro squadra e offrono un effetto cromatico molto interessante. Ad un certo punto un personaggio arriva dalla metà campo e comincia a far cantare tutto lo stadio. Intuisco che è un ragazzo dei “Siempre Palomas”. Le squadre fanno ingresso sul prato verde. Nella curva vengono accese una decina di torce e fumogeni verdi, mentre sventolano alcune bandiere biancorosse. I “Los Matadores” issano uno striscione in arabo con scritto in bianco su sfondo nero: “Gloria ai resistenti”; messaggio che fa parte della dialettica ultras per auto-congratularsi di aver sorpassato i due anni di divieti anti-tifoserie organizzate. 
Il tifo è subito una bolgia. I lanciacori di fronte alla curva saranno sempre tre o quattro ragazzi dei due gruppi. Anche se nel passato ci sono state diatribe tra le due anime della tifoseria, oggi per il bene del MAT si cerca di coalizzarsi in una sola voce e la coordinazione del tifo risulta impeccabile. Ci saranno anche attimi di tensione, ma solo per la causa sportiva. La gente qua vive di calcio e non è solo una metafora, visto il tifo, ma lo dimostrano anche alcune piccolissime pause su alcune azioni che rapiscono l’attenzione di tutti. Dopo appena otto minuti il MAT segna: è un’esplosione di gioia e il tifo può proseguire con ancora più grinta. Scopro poi alcuni battimani mai visti in alcuno stadio, con le due braccia che fanno un movimento un po’ strano che non saprei descrivere, ma che danno un tocco di originalità al tifo, sulla base di una canzone molto araba nel ritmo. 
Verso la fine del primo tempo decido di andare a vedere anche gli ospiti, perché mi è impossibile sentirli. Hanno diversi striscioni, il principale indica “007” per l’anno di fondazione degli “Ultras Cap Soleil” (che sarebbe appunto il 2007).  Appaiono divisi in due gruppi, l’altro si raccoglie dietro la sigla “DK XII” per “Dos Kallas XII” e in casa ognuno occupa una curva diversa. Il loro tifo non è spettacolare, ma rimango solo due minuti sotto il loro settore, perché l’arbitro fischia la fine del primo tempo e non posso esprimere un giudizio completo su di loro, visto che per il restante tempo della partita mi porto nuovamente sotto il settore di casa.
Approfitto dell’intervallo per cercare qualcosa da mangiare, ma l’addetto stampa ci invita nella sede della società dove c’è un piccolo buffet molto gradevole. Sui muri tanti gagliardetti di società del mondo intero, ma soprattutto di squadre spagnole, risultato di diverse amichevoli estive. Spiccano anche tutti i trofei della società, tra cui i due scudetti o “Botola”, del 2012 e del 2014.
Panoramica ospite
È tempo di tornare in campo e subito la curva si riscalda con una specie di sciarpata. I canti riprendono alla grande, la motivazione sugli spalti è sempre alta e bisogna dire che il MAT gioca bene. La curva capisce benissimo il suo ruolo e i lanciacori non hanno bisogno di fare troppo, ma sanno dare la giusta motivazione e il ritmo per proseguire sulla via giusta. Devo dire che è come essere in un sogno, son di fronte alla curva e la sua energia la percepisco nettamente dentro di me. 
Al terzo fischio dell’arbitro, lo stadio esplode di gioia: vittoria importante, anche se il MAT è ancora penultimo in classifica, ma la gente riconosce, psicologicamente, l’importanza di questa partita. È la seconda vittoria di seguito e permetterà a fine stagione al MAT di salvarsi. I giocatori ringraziano i tifosi, ma non a distanza come succede da noi, per paura forse di mischiarsi alla “plebaglia”, bensì proprio arrampicandosi sulla recinzione che separa la curva del campo. Per alcuni minuti c’è una comunione di intenti e di emozioni bellissima, poi restano per un po’ tutti in pausa di fronte allo striscione in arabo con la scritta “Gloria ai resistenti”.
La nostra partita finisce qua, non ci resta che riconsegnare le nostre pettorine e ringraziare l’addetto stampa, ma arrivati alla sede del club ci fanno visitare la stanza del presidente e ci presentano l’allenatore. Poi, prima di partire, ci omaggiano entrambi con una maglia ufficiale della squadra. Alcuni cliché su l’ospitalità araba sembrano esagerati, ma devo dire che in termine di trattamento, credo sia la più bella accoglienza mai ricevuta. Quando torniamo in taxi verso il centro storico di Tetouan mi ritrovo a raccogliere dentro di me tutte queste emozioni. Alla fine 2400 chilometri sembrano quasi niente di fronte a ricordi come questi che per forza di cose custodirò sempre dentro di me come piccoli tesori. Chouckran chebab!
Sebastien Louis
Le schiene dell’ultima fila
Pirotecnica MAT ad inizio gara
“Onore a chi ha resistito (alla repressione)”
Corisiti dirigono il tifo da bordocampo
Panoramica ospite
Moghreb Tétouan-Difaa El Jadida, Marocco: Chouckran chebab! Grazie ragazzi! Due mesi dopo la mia prima visita, decido di tornare in Marocco. Il derby di Casablanca 
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idrotermica-blog · 8 years ago
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10, le cose da fare nel percorso 1 o 2 giorni a Verona, One Two Frida
Anche questo luogo ha un fascino speciale, circondata da palazzi Scaligeri uno più bello dell'altro: Palazzo della Ragione (quella della Torre dei Lamberti), Palazzo del Podestà, la Loggia del Consiglio (che in questi giorni, purtroppo, era in fase di ristrutturazione). Le tombe sono gotica e stand di fronte alla chiesa di Santa Maria Antica. Tra di loro Mastino II che, a giudicare dal nome, doveva essere un tipo tosto.
Appena sotto il balcone è l'ingresso al museo che permette di visitare le stanze della casa e soprattutto per guardare fuori sul balcone. Il nostro viaggio inizia da qui, in questa bella piazza fiancheggiata da molti ristoranti e piccoli bar uno accanto all'altro in Liston. una serie di edifici di epoche diverse, uno è il migliore. 2) l'Arena. chi non conosce l'Arena di Verona? L'Arena si trova in Piazza Bra e ci fa tornare alla romana che il famoso su questo sito abbiamo organizzato combattimenti dei gladiatori. "Massimo, Massimo!" Sai?
6) Torre dei Lamberti. una volta arrivati ​​in Piazza Erbe, non si può andare male a identificare la Torre dei Lamberti, che si trova proprio accanto. Dal ponte a piedi in 10 minuti sei di nuovo in piazza Bra, pronto a ricominciare. Una costola di balena. 10 cose da fare a Verona Ecco un itinerario cotto e mangiato per scoprire la bellezza di questa città: 10 cose da vedere che può essere visitata nel corso di un giorno o si sviluppa su due giorni.
Ad esempio, ho rotto questo percorso tra Sabato pomeriggio e Domenica mattina.
Uno Due Frida
San Valentino si avvicina e che questa è la settimana più romantico dell'anno come posso non menzionare il città degli innamorati. Avendo più tempo è possibile includere altre fermate del percorso, compresa la consulenza di San Zeno e la Cattedrale. Verona è la città romantica per definizione, incastonato in una baia dell'Adige, con i suoi palazzi medievali, piazze, ristoranti, strade pedonali ... è un vero gioiello. Percorrendo via Mazzini fino alla fine si arriva in Via Cappello, facendo qualche passo fino alla porta della casa di Giulietta. 10) Ponte di Castelvecchio. con il ponte del vecchio castello è possibile attraversare l'Adige proprio come farebbe il Della Scala, in effetti mi sono sentito un po 'Can Grande e un po' Mastino. Dopo aver lasciato l'autostrada, si raggiunge il centro in 5 minuti netti. Nel centro della piazza statua di Dante Ma che risale alla seconda metà del 800, ma in quei giorni si trovava su una bella gigante cuoricione. Non posso resistere, perché ero in Verona solo questo fine settimana e mi è piaciuto molto. Che dire di questo posto, tranne che bisogna vederlo? La Piazza ha una zona di forma strana, l'eredità del Medioevo, anche se la sua costruzione risale all'epoca romana (si può dire la costruzione di una piazza?) E su di essa si affacciano edifici medievali, epoca comunale o barocca. Ed ora, per concludere tutto questo romanzo, vi lascio con un mare di baci verdi. Una volta che si visita l'Arche, consiglio di nuovo in piazza Erbe, e poi prendere Corso Porta Borsari leader # 8211; indovina un po '? # 8211; Porta dei Borsari. Una volta superata la porta con tutto l'amore scritto che ora sono state coperte con strati e strati di note, si arriva nel cortile si affaccia il famoso balcone. Il castello è visitabile senza biglietto, ma entrando il museo si può vedere una vasta collezione di statue, sculture e dipinti (tra cui Tiepolo, Mantegna, Veronese, e, naturalmente, chi se non lui?), Così come scalare le pareti che circondano il castello. 3) via Mazzini. prendere Via Mazzini, la via pedonale dello shopping che passa proprio accanto alla Arena. Dalla cima della torre si trova un Bel paesaggio i tetti rossi di Verona e domineranno le due piazze sottostanti Piazza Erbe e Piazza dei Signori. 8) Scaligero. proseguendo oltre la piazza si arriva alla Arche Scala, complesso funerario dove sono sepolti alcuni dei membri di spicco della famiglia Scala. Dalla piazza si passa sotto un arco in cui una nervatura balena è appeso. Proseguendo lungo Corso Cavour, si arriva a Castelvecchio. E ', e sembra essere lì da molto tempo da quando è stato trovato un '700 quadro che la ritrae proprio lì. Questa è una zona molto bella. 1) Piazza Bra. Più che i nomi dei vari edifici, colpisce l'atmosfera medievale in modo autentico e così ben conservato, tanto da far pensare che possano essere ancora così lontano. Ho detto che passa sotto un arco ed è l'ingresso alla torre. 5) Piazza delle Erbe. uscire da casa di Giulietta è di nuovo in Via Cappello e, dopo aver superato via Mazzini, vi trovate nella spettacolare Piazza delle Erbe. 7) Piazza dei Signori. Piccolo suggerimento: poiché la torre sono collocati campane gigantesche, meglio tenere d'occhio l'orologio per evitare di prendere un infarto: le campane suonano ogni mezzo. 9) Castelvecchio. Ahhhh, l'amour. La scala del simbolo è chiaramente visibile sui cancelli che proteggono la zona. Nel caso qualcuno è interessato a fare shopping. Maggiori informazioni qui. Per completare il percorso descritto ci ho messo tre ore di Sabato oltre 3 ore di Domenica, ovviamente, molto dipende dalla scelta se andare a visitare i musei e il tempo necessario a far loro visita. 4) Casa di Giulietta. visto che stiamo parlando di fare i romantici, la casa di Giulietta è una destinazione. Se si vuole risparmiare soldi per i biglietti acquistati il Verona Card (15 € e 20 € per 24 ore a 72 ore), che consente l'ingresso gratuito a molte attrazioni, tra cui l'Arena, la Casa di Giulietta, la Torre di Lamberti e Castelvecchio.
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Visitare Verona su Segway 
  Ciao, siamo Segway Verona una società innovativa istituito dalla giovane per tutti. Usiamo nuovo veicolo chiamato Segway / Ninebot che è auto-bilanciamento e elettrico per muoversi in città e permettere a tutti chi ha poco tempo per vedere gran parte della città.
Si tratta di un servizio di noleggio assistita, uno dei nostri ragazzo sarà il vostro accompagnatore lungo una pianificata percorso che può tak una o due ore, in aggiunta si può anche fermare per scattare qualche foto anche con l'aiuto del vostro accompagnatore.
Abbiamo scelto di inviare con voi una terza persona per una maggiore sicurezza, sia vostro che il nostro avendo qualcuno locale che sa come trattare con strade affollate di Verona è una certezza in più, oltre che agirà per l'aumento di qualsiasi difficoltà. Tutto questo per garantire un'esperienza indimenticabile.
www.segwayverona.com
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pangeanews · 5 years ago
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“Vivevo quello che mi raccontavano i libri, quella fu la mia vita segreta, invisibile”. Incontro fatale con Sylvia Iparraguirre (e brandelli del suo romanzo su Munch)
Giugno 2019. Via Ottaviano. Roma. Incontro Sylvia Iparraguirre di cui avevo avuto modo di leggere e tradurre alcune sue belle interviste per Pangea. Viene da Madrid dove ha presentato il suo ultimo libro La vida invisible (Ampersand, 2018) e fa tappa a Roma prima di proseguire verso Firenze e infine Genova, alla ricerca della casa natale dei suoi avi. Suo bisnonno partì proprio da Genova nel 1859 alla volta dell’Argentina, era un abile produttore di carta da generazioni. Una figura piuttosto misteriosa, mi confessa lei.
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Notte romana: Sylvia Iparraguirre con Mercedes Ariza
Mossa dal candido romanticismo con cui si visita Roma per la prima volta, Sylvia resta senza fiato dinanzi a una (insolita) recondita Piazza San Pietro, complice il silenzio di una calda e tarda notte romana. Lungo via della Conciliazione mi parla dei suoi progetti, del suo passato, del suo amore per l’Italia e di questo viaggio voluto da tempo. Un incontro voluto dal fato, lo stesso fato che mi ha portato a tradurre la grande Dama della letteratura argentina, Liliana Heker. Ci accomunano parecchie cose a me e a Sylvia: sangue spagnolo (basco) e italiano nelle vene, un misto di nostalgica devozione/repulsione verso il proprio paese, l’Argentina, che ha saputo accogliere tante genti e culture e che tanti problemi ha avuto e continua ad avere senza soluzione di continuità.
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Giunte a Castel Sant’Angelo, Sylvia si ferma all’improvviso, pensa e dice: “Ecco i pini marittimi, sì, sono i pini marittimi dei quadri del Cinquecento, sono proprio quelli, meravigliosi davvero”. Questa sua Profonda sensibilità artistica e amore per il bello trasudano in ogni pagina del suo Encuentro con Munch (Alfaguara, 2013) che mi regala l’indomani e la cui lettura mi rapisce immediatamente in un vortice di emozioni; l’arte come libertà, rivelazione e ricerca della bellezza. La cronaca di un viaggio che la stessa autrice intraprende nel 2000 e nel quale affiorano ricordi dell’infanzia, sapori e odori del passato, un passato felice nella casa dei nonni lontana dal frastuono della grande città.
Perfeziono il piacere del ricordo, ritorno a lui, al suo centro luminoso di persistenza, da quando si apre l’androne del freddo esterno fino alla calda luce dell’interno. Somma felicità, una felicità che non conosce sé stessa; una felicità che solamente si sente, facciamo zigzag verso la cucina, sussurrando, quasi al buio: la sala, la biblioteca, la scrivania, il soggiorno, l’enorme cucina con due credenze, la tavola apparecchiata per quattro, tovaglie, portatovaglioli. A casa mia non si usavano i portatovaglioli ma a casa di mia nonna ce n’è una gran varietà come vi è una gran varietà di fodere per le borse dell’acqua calda, questi e altri dettagli collocano la casa di mia nonna in una dimensione superiore, quasi magica. Mi sento importante nella manovra di togliere il tovagliolo arrotolato dall’anello argentato. I miei genitori parlano sottovoce, gli altri dormono distribuiti nelle enormi stanze. Io e mia sorella riusciamo a malapena a stare ferme sulla sedia e non smettiamo di chiedere dei nostri cugini. Le mie zie, con l’accortezza delle fate madrine, servono la cena tenuta calda a fuoco basso, il primo piatto raggiunge mio padre, il minore, il prediletto delle sue molte sorelle. Ma non perché sia il prediletto bensì perché a casa di mia nonna vige ancora il protocollo patriarcale e così è stato con mio nonno, che non abbiamo conosciuto, e coi suoi figli maschi. Mia sorella si addormenta, la faccia appoggiata sul tavolo, accanto al piatto. Ai miei genitori tocca la camera accanto al bagno grande; io e mia sorella nel grande stanzone dove i letti dei bambini si susseguono uno accanto all’altro come allegri spettri proiettati negli specchi degli armadi. C’è tanto da fare. Ritorna un profumo della mia infanzia con una tale forza che non riesco a credere che possa perdurare nella mia memoria e che possa raggiungermi in questo luogo impersonale e meccanico: è l’aroma di mia nonna, quello dei suoi fazzoletti di stoffa: acqua di Alibour. I cassetti con i suoi vestiti e le sue camicie da notte profumano di canfora, di acqua di Alibour. A otto anni non so cosa significa l’amore, nessuno mi ha parlato di lui ma io sento amore per mia nonna. Così era il mondo, una casa grande, con cortili e bauli reconditi; così era il mondo, di una candida credulità, di una immediata allegria e così persiste nel ricordo. Ci chiedono di raddrizzare le poltrone e di allacciare le cinture. Era possibile, quindi, che fosse stato nella biblioteca a casa di mia nonna, nella Espasa Calpe e molto probabilmente durante il pisolino pomeridiano, dove avevo visto per la prima volta una riproduzione della Danza della vita o chissà della Notte a Saint Cloud. Le illustrazioni Espasa: conchiglie degli abissi marini, orchidee della selva, uccelli, illustrazioni ricoperte da un foglio di carta velina. E riproduzioni di quadri. Sul foglio di carta velina restava impresso in modo sbiadito una sorta di fantasma dell’illustrazione. Ma è impossibile, penso con gli occhi chiusi, mentre ascolto la voce della hostess che ci informa che tra venti minuti atterreremo all’aeroporto Charles De Gaulle e ci fornisce la temperatura locale e sento nel corpo la discesa dell’aereo, è impossibile per la semplice ragione che quella della Espasa Calpe doveva essere una edizione del 1913 o 1915, quando i miei nonni fecero costruire la casa. In quegli anni, Edward Munch non era approdato ancora nelle enciclopedie e men che meno in quelle spagnole. O era un pregiudizio? Mancava ancora affinché Munch fosse Munch. E ora un fatto evidente per me: nonostante il quadro sia precedente a quella data, era evidentemente troppo moderno per la Espasa Calpe. Quindi, non era possibile che io avessi visto per la prima volta a casa dei miei nonni una riproduzione della Danza della vita. Come tutti, avevo visto L’urlo centinaia di volte ma la sensazione di nebbioso vuoto attorno alla Danza della vita come di un ricordo remoto da dove proveniva? Era strano, adesso che ci pensavo, questo aspetto di Munch, la sua persistenza. Dei pittori non era quello che più mi era piaciuto o quello che più mi commuoveva”. (Encuentro con Munch, Ampersand, 2013: pp. 25-27, traduzione di Mercedes Ariza per Pangea, concessione dell’autrice).
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La stessa infanzia felice e spensierata che custodisco io nei miei ricordi; ricordi che nessuno sarà mai in grado di strapparti, ricordi nitidi e profondi che solo chi è stato trapiantato in un altro continente-emisfero-paese sa custodire assieme alla sua lingua. Sylvia è incuriosita dalla mia storia, dalla mia parlata, dalla mia presenza qui e ora a Roma con lei, dal nostro incontro. E io voglio congelare questi momenti di pura magia; le parole per Sylvia sono importanti, sempre, e lei riesce a incasellarle ingegnosamente una dopo l’altra. Donna di una cultura straripante e compagna di Abelardo Castillo, uno dei grandi scrittori argentini con cui ha condiviso tutta una vita invisibile, come lei stessa racconta: “Siamo stati molto fortunati: abbiamo avuto quella fortuna che hanno alcune coppie che condividono lo stesso mestiere o la stessa professione che amano. Se vi fu un segreto fu proprio questo: non ho mai cercato di addomesticarlo; né lui è mai interferito nella mia indipendenza. La nostra è stata una storia d’amore profonda e di concessioni reciproche. Con Abelardo la vita invisibile si rese visibile e fluì fino a trasformarsi in un dialogo continuo. Se la biblioteca della casa di mia nonna costituisce la prima scena del mio romanzo personale come lettrice, nella biblioteca di Abelardo, nel nostro appartamento di Pueyrredón, ebbe inizio la mia educazione letteraria” (La vida invisible, Ampersand, 2018).
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Sono passati due mesi dal nostro incontro e ci sentiamo spesso; dal freddo australe, poco fa Sylvia mi ha raccontato dei suoi progetti, dei suoi seminari letterari all’università e di una conferenza attesissima che terrà a Buenos Aires nella sala dorata del Teatro Colón a settembre. Prima di chiudere ricorda così il suo incontro con l’Italia: “Un’esperienza unica, impossibile di descrivere, bella, profonda e perturbatrice dal punto di vista storico e monumentale. A forza di non poter dire quello che ti produce, sprofonda nel luogo comune”. A ricordare che le parole sono importanti, sempre, ma a volte possono risultare totalmente vane.
Dedizione e credulità. Vivevo quello che mi raccontavano i libri, immaginavo scene in cui partecipavo come l’eroina nel momento cruciale: salvavo quelli che stavano per precipitare in un burrone, riscattavo i prigionieri da una fortezza, o decifravo, per l’ammirazione degli scienziati, l’ubicazione di una tomba faraonica. A volte, di notte, ero testimone di morti agghiaccianti: cristiani mangiati dai leoni, io stessa perseguitata nel deserto da una tarantola gigante. O semplicemente morivo di tubercolosi, come il personaggio di una ragazza della mia età di un libro ora dimenticato. Mi emozionava fino alle lacrime verificare il dolore dei miei genitori dinnanzi alla mia morte prematura. La vita invisibile era mille vite e mentre la mia parte esterna compiva i riti della scuola e le richieste della vita diurna, restavano sempre in attesa le possibilità rinnovate di un libro da aprire, di una vita segreta da vivere. Le fantasticherie della pubertà sono le più forti della vita; sono lì, in potenza, la nostra capacità di immaginare, di erotizzarci, di atterrirci, di creare storie. (La vida invisible, Ampersand, 2018).
Mercedes Ariza
L'articolo “Vivevo quello che mi raccontavano i libri, quella fu la mia vita segreta, invisibile”. Incontro fatale con Sylvia Iparraguirre (e brandelli del suo romanzo su Munch) proviene da Pangea.
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