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#una botta di vita come questa era quello che mi serviva
gelatinatremolante · 5 years
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Chi avrebbe mai immaginato che dopo giorni e giorni passati dentro la mia stanza a soffrire tra le sudate carte, desiderando soltanto di spalmarmi sul pavimento e non fare, dire o pensare a niente e prima di passare altri giorni ancora esattamente nello stesso modo avrei invece passato il venerdì sera mangiando un gelato al cioccolato fondente e all'amarena e cantando e saltando a un concerto di Achille Lauro? Io no di certo. (Tranne la parte sul gelato, quella in effetti era abbastanza prevedibile).
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emmalynthewriter · 3 years
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Un’avventura e una nuova famiglia
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                               Un’avventura e una nuova famiglia
Era una mattinata gelida ad Arbora, e in una cavità di un albero nel fitto del bosco, un piccolo Pichu si stava svegliando. Aprì gli occhietti ancora cisposi e stanchi. Per lui dormire era diventato sempre più difficile da alcuni mesi. "Pichu" disse, che significava: "Buongiorno a me." Era un saluto triste, ma l'unico che poteva darsi. Non c'era nessuno, lì intorno, a parte tantissimi insetti che facevano sentire i loro versi. Pichu  vide una farfalla e prese a inseguirla, ma questa fu veloce e non si fece prendere. Uffa, non poteva nemmeno giocare. Tornò nella sua tana e scoprì, come sempre, che la mamma non c'era. Era morta. Il Pichu guardò se aveva qualcosa da mangiare, ma non possedeva più nulla. Le scorte di cibo che si era fatto per l'inverno erano finite e ora doveva andare a cercare qualcosa. Nonostante il freddo, ad Arbora crescevano molti frutti, ma prima c'era una cosa che doveva fare. Si avvicinò a una pietra. Lì sotto giaceva sua madre. Mamma Dragonair, un'amica della mamma di Pichu, l'aveva seppellita e lui e Dratini, il cucciolo di Dragonair, giocavano spesso insieme. "Buongiorno, Pichu. Come stai?" gli chiese mamma Dragonair nella loro lingua. Diversa per ogni Pokèmon, chiaro, ma fondamentalmente fatta di ripetizioni dei loro nomi, a volte spezzati, e altri versi, che nel caso di Dragonair e del suo piccolo non erano che mormorii. Lui abbassò lo sguardo e lei gli si avvicinò. "Lo so che ti manca la tua mamma" gli disse con dolcezza. "Ma lei vorrebbe che tu fossi felice." "Non lo sono. È passato poco tempo. Non ho nemmeno un allenatore" disse il piccolo, triste. "Hai bisogno di qualcosa? Hai mangiato?" "No, ma me la caverò. Dov'è Dratini?" "Sta dormendo. Se non hai bisogno di me, io torno da lui." "Vai tranquilla, a dopo." Il piccolo camminò nella neve fresca, caduta  quella notte. Gli piaceva correrci in mezzo, perché adorava il suo rumore ovattato. Arrivò davanti a un melo e, deciso a cogliere uno di quei succosi frutti, provò ad arrampicarvisi. Fu difficile, doveva stare attento a dove metteva i piedi, ma ci stava riuscendo, finché… boom, cadde giù dall'albero finendo con il sedere, e per fortuna non la testa, per terra. Rise di se stesso e riprovò, ma prima di salire sbatté la testa contro l'albero. Si mise una zampa nel punto che gli faceva male e andò nel ruscello lì accanto a rinfrescarsi la testa. La mamma gli aveva insegnato a fare così quando prendeva una botta, in quel modo non si sarebbe formato un bernoccolo. Il pensiero della mamma lo turbò talmente tanto che non volle nemmeno giocare con Dratini, che intanto si era svegliato e, senza aver mangiato niente, si ritirò nella sua tana. Se avesse trovato quel maledetto Skunkay, non sapeva cosa gli avrebbe fatto. Anzi sì, gli avrebbe tirato una scossa talmente forte da scioccarlo e così sarebbe stato libero da lui e dal suo veleno. Ma no. No, lui era solo un cucciolo, non era vendicativo né forte come uno Skunkay adulto e non voleva nemmeno vendicarsi. La vendetta non serviva a niente, avvelenava soltanto l'anima, gli aveva detto sua madre una volta. Lui non aveva capito cosa intendesse, e ancora non comprendeva, ma se la mamma gli aveva insegnato a non odiare e a non portare rancore, lui l'avrebbe fatto. Uscì dalla sua tana quando, per la fame, non ne poté più, e rinunciando alla mela si nutrì di alcune fragole che, stranamente, ad Arbora crescevano tutto l'anno, poi tornò indietro. Se non ci  fosse stata mamma Dragonair, sicuramente  il piccolo si sarebbe lasciato morire. Non aveva più la mamma, che senso aveva vivere? Certo ora non stava vivendo, sopravviveva, ma era abbastanza. Trascorsero alcuni giorni e Pichu conduceva la sua vita come sempre. Giocava con Dratini, anche se non era allegro come un tempo, e aspettava. Aspettava che un allenatore lo trovasse. Lui lo cercava, girava per la foresta, ma quelli che incontrava avevano già tanti pokémon o, a detta loro, non erano interessati a prenderne uno così piccolo. Durante una delle sue passeggiate, Pichu si affacciò alla cavità di un albero. Era vuota, forse  la tana di qualche animale. Era stanco per il troppo camminare e decise di entrarci per fare un sonnellino e riscaldarsi, ma quando si svegliò non riuscì più a uscire. Era incastrato. Gridò e gridò, ma non venne nessuno. Mamma Dragonair era troppo lontana per sentirlo. Da un'altra parte della foresta, una ragazza stava mettendo in ordine le sue sfere Poké in uno zaino. Si sistemò i capelli castani dietro le orecchie. Adorava lasciarli sciolti, ma a volte le davano fastidio. Era non vedente e per questo aveva affinato le sue abilità di tipo psico. Con il suo udito fine riusciva a catturare i Pokémon e con il bastone bianco si muoveva per la foresta, rendendosi conto degli ostacoli. All'inizio i suoi pokémon avevano avuto paura del bastone, ma poi ci si erano abituati. "Andiamo" disse Julie, mettendosi lo zaino sulle spalle dopo averlo chiuso. Era un'allenatrice molto brava. Vinceva spesso le battaglie e aveva catturato già ben quarantacinque pokémon. Voleva bene a tutti come fossero stati suoi figli. "Pichu! Pichu!" sentì gridare in lontananza. Forse un pokémon era in difficoltà e lei, pronta a dare sempre una mano tanto alle persone, quanto agli animali, quanto ai pokémon, prese a correre, per quanto il terreno accidentato e il bastrone glielo permettessero. "Pichu! Pichu pi!" Era anche una capo palestra, e battendo lei un allenatore otteneva una medaglia, di nome Idea, a forma di lampadina accesa. Ma tutto questo ora non le interessava. Corse e corse, passando a pochi centimetri da uno stormo di uccelli che volava basso. Attraversò un ruscello che, purtroppo, non aveva un ponte e si infangò le scarpe e le calze. Poco importava , si sarebbe cambiata una volta tornata alla sua palestra. Era sempre più vicina al pianto. "Pichu! Pi!" Poi quel grido si fermò. "E adesso che faccio?" chiese Julie. Ascoltò. Sentiva solo insetti e uccelli, nient'altro. Avanzò lentamente, cauta, ma scivolò su un sasso e rischiò di cadere. Il pianto riprese, più forte e straziante che mai, e alla fine anche arrabbiato. All'inizio Julie pensò che si trovasse su un albero, ma ben presto trovò la cavità dov'era incastrato. "Aspetta piccolo, ti aiuto io" gli disse, tirando più forte che poteva. Riuscì a farlo uscire. "Pi?" chiese il cucciolo. Quell'umana  - almeno credeva si trattasse di una specie del genere, non avendone mai vista una – lo incuriosiva e lo confondeva al contempo. Non sapeva come muoversi, né come fare per ringraziarla per l'aiuto. "Ciao, piccolo!" esclamò la capo palestra con la voce più dolce che poté. Il cucciolo indietreggiò alla vista del bastone. La ragazza se ne accorse dal suo movimento e lo chiuse subito. "Non voglio farti del male, solo giocare con te, se lo vuoi." Il Pichu si avvicinò a passi lenti e lei lo accarezzò. Il suo pelo era corto ma morbido. Doveva farci amicizia prima di catturarlo. Lei amava e rispettava i Pokémon, e non c'era stata nemmeno una volta in cui avesse  mancato di rispetto ai suoi. Prima li conosceva, poi, con il loro permesso e grazie alle sue abilità telepatiche, li catturava. "Come stai?" gli chiese. Come se avesse capito, lui disse un: "Pichu..." dal suono molto triste. "Che succede, piccolo? Hai fame?" Estrasse dalla tasca dei pantaloni alcune more e gliele offrì dalla sua mano. Lui mangiò, ma continuò a mantenere quell'espressione. "Che cosa ti è successo?" si chiese Julie fra sé e sé. Gli mise una mano sulla fronte e tutto le fu chiaro. Quella sera pioveva e Pichu e la sua mamma uscirono per cercare qualcosa da mangiare. A loro non piaceva bagnarsi, ma purtroppo il tempo era quello. Trovarono dei lamponi e dei mirtilli e tornarono alla loro tana sazi e con un ricco bottino. Ma ad aspettarli c'era uno Skunkay, che attendeva nell'ombra. Uscì solo quando li vide arrivare e attaccò la mamma di Pichu, che gli disse di correre nella tana. Lui lo fece e vi  si rifugiò in fondo, ma riusciva comunque a vedere ciò che stava accadendo e a sentire il tanfo dello Skunkay, che nessun  Pokémon sopportava. La mamma tornò indietro  e si accoccolò vicino a lui. "Va tutto bene, se n'è andato. Dormiamo, ora" gli disse. Lei fece finta di dormire, perché il giorno dopo il cucciolo provò a svegliarla in tutti i modi: le fece il solletico, parlò a voce alta, pianse, ma a nulla servì tutto questo. La mamma non respirava più e ciò significava una cosa sola: era morta. Julie tolse la mano dalla fronte fresca del Pichu. "Mi dispiace così tanto per la tua mamma, piccolo" mormorò, mentre lui si avvicinava di più e si lasciava accarezzare. "Se vuoi, da ora potrò essere io la tua mamma. Non sarò come quella che hai perso, ma sono  molto brava con i Pokémon." Gli rimise una mano sulla fronte e udì un timido: "Sì." Quando usava i suoi poteri di telepatia riusciva anche a capire la lingua dei Pokemon e questo la aiutava a comprendere se avevano qualche problema, come nel caso di Pichu. Il cucciolo alzò le zampe anteriori e la ragazza capì che voleva essere preso in braccio. Lo sollevò e se lo mise sulle gambe. Aveva freddo a causa del ruscello che aveva attraversato e se non avesse fatto presto si sarebbe ammalata, ma poteva restare ancora un po' lì. Poi cambiò idea e decise di andare nella sua palestra. Chissà se qualche altro allenatore l'avrebbe sfidata... "Vieni in un posto con me? Non è pericoloso" gli disse. Gli mostrò una sfera Poké. "Questa serve per catturare i Pokémon, per tenerli al sicuro. Posso catturarti? Non ti farò del male, te lo prometto." Lui rimase immobile e lei gli mostrò la sfera. Ancora incerto, il piccolo si avvicinò di qualche passo, e sfiorato con la zampa il bottoncino al centro della capsula, lasciò che una luce rossastra lo avvolgesse. Poco dopo, il pulsante prese a brillare di una più fioca, ma stranamente, la sfera non si agitò. A volte le succedeva, ricordava ancora gli sforzi che aveva dovuto fare per catturare Eevee, tanto piccolo quanto veloce e in tutto simile a un incrocio fra una volpe e un cagnolino. Cavolo, se correva, quel giorno. Testarda, lei non si era data per vinta, e dopo vari tentativi, c'era riuscita. E così ora era stato anche con quel piccolo orfanello, che aveva catturato quasi all'istante. Non volendo metterla subito con tutte le altre, per non spaventarlo, tenne in mano la sfera. "Andiamo." Riattraversò il ruscello e, dopo una mezz'ora di camminata, uscì dal bosco e arrivò alla sua palestra. Andò nelle sue stanze al piano di sopra e lì si lavò e cambiò, poi disse: "Pichu, tesoro, vieni fuori." Non era come tanti allenatori, che gridavano ai loro pokémon di uscire o che intimavano loro di farlo. Lei era sempre gentile con loro. Pichu uscì subito. "Ma ciao!" Julie gli fece il solletico al pancino e lui rilasciò un verso simile alla risata di un bambino, poi le saltò in braccio e cominciò a sfiorarle il viso con le zampine. "Ho capito, mi vuoi tanto bene, non servono tutte queste dimostrazioni." "Sì, te ne voglio. Posso stare con mamma Dragonair e Dratini qualche volta? Sono miei amici" capì la ragazza, usando sempre lo stesso potere. "Ma certo che puoi. Ti ci porto domani. Ora ti va di conoscere i Pokémon che ho già? Così fate amicizia.” "Sì" mormorò il cucciolo, intimorito e tremò. "Non ti faranno niente, te lo assicuro." Glieli presentò uno per uno: C'era Espeon, il primo vero compagno della ragazza in tutto simile a un gatto a due code dal pelo viola, con una sorta di gemma energetica incastonata sulla fronte, ottenuto dopo Misquit, lo starter regionale di tipo Erba con le fattezze di uno scoiattolo, non uno ma ben due Meowstic, un maschio e una femmina, il primo azzurro e l'altro bianco, entrambi simili a gatti capaci di stare in piedi su due zampe, Espurr, un altro con le stesse fattezze ma dal pelo grigio e con gli occhi grandi, il cui nome ricordava alla ragazza il costante mormorio delle fusa di un vero felino, Munna, creatura a metà fra una sfera e un acchiappasogni, Solosis, piccolo, verdastro e gelatinoso, letteralmente il nucleo di una cellula, Glameow il gatto dagli artigli affilati e la coda arricciata, e molti altri. Esitante ma felice, Pichu giocò con tutti, correndo con gioia sull'erba gelata da quel periodo dell'anno. E allora ne fu sicuro: in mamma Julie e nei suoi altri Pokémon aveva trovato una nuova famiglia.
Credits to the original author, crazy lion
https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3987558&i=1
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sandnerd · 4 years
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L’attacco dei giganti - Ep 67 - Proiettile assassino
IN ITALIA L’ANIME E’ DISPONIBILE GRATUITAMENTE SULLA PIATTAFORMA VVVVID! SUPPORTIAMOLA! ----> https://www.vvvvid.it/show/1414/l-attacco-dei-giganti-la-stagione-finale/1538/693909/proiettile-assassino
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Non la voglio commentare questa puntata, no, piango già ora, ho bisogno di fazzoletti, un rifornimento intero di fazzoletti. Aiuto. Cerchiamo di non pensarci altrimenti finiamo in una spirale di depressione infinita. La premessa riprende da dove l'avevamo lasciata, Gabi e Falco non la smettevano di urlare ed il povero Reiner, che stava finalmente vedendo la sua uscita è dovuto tornare sulla terra per salvare la situazione. In un certo senso ci riesce, strappa il gigante mandibola che tipo era partito per la tangenziale ad Eren, che se lo stava servendo con contorno di malvagità e patate (waaah le patateeeee non ce la faccio T.T). Il corazzato si becca anche un pugno che gli spacca la faccia, ma riesce nell'intento di estinguere le ultime forze di Eren, e quando quest'ultimo se ne va aggrappandosi a Mikasa, cade a terra stremato per davvero. 
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Il dirigibile è arrivato, ha raccolto i membri del corpo di ricerca e se ne sta andando, un salutone a casa, riuscendo in un'impresa che quel poveretto di Armin nel solo idearla si sarà sentito un matto psicopatico, ma a terra Gabi, vedendo che i Paradiani (?) si stanno ritirando, imbraccia il fucile e lo insegue, tallonata a breve distanza da Falco che prova a farla ragionare. Eren è riuscito a salire sul dirigibile, e lo sguardo di Armin è talmente deluso, triste e spento che mi sono vergognata io per Eren, che è stato capace di spegnere la luce di quegli occhi azzurri comportandosi come una cocuzza, al solito suo. Ad accoglierlo ci sono anche le gentili parole di Levi, che lo guarda disgustato come se non si lavasse da settimane e gli assesta un calcio sulle gengive facendolo andare a sbattere contro la parete di fronte. E può esser cambiato tutto ma il piacere di vedere Levi picchiare Eren (quando se lo merita) non cambia mai. E signore e signori, Eren è in arresto, di nuovo. Comincio a pensare che stare in gabbia gli piaccia a questo psicopatico. 
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Comunque potete stare tranquilli, dice Levi, tu e quell'altro che non vogliamo ancora inquadrare perchè il plot twist farebbe esplodere il cervello degli spettatori, è tutto andato secondo i vostri piani e noi stupidi siamo venuti fin qui per salvarvi la pellaccia. E' a questo infatti che serviva la lettera di Eren, ha spiegato dove si trovava e cosa avrebbe fatto, costringendoli a venirlo a prendere come fanno i genitori quando i figli si comportano male a scuola. Anche Jean è salito sul dirigibile, e Connie abbraccia lui e Sasha per la contentezza di essere sopravvissuti (too soon!!). Connie ma stai zitto che porti iella, mannaggia al Wall Maria! A terra intanto Falco corre ancora dietro a Gabi, stavolta letteralmente (eheh), e riesce per un momento a fermarla. Lei gli dice che ha visto morire un botto di persone, che quei demoni hanno ucciso innocenti e distrutto l'immagine di eldiani buoni che lei si stava impegnando tanto a costruire. Falco le dice, memore delle parole di Eren, che a quelli che loro vedono come demoni è successa la medesima cosa, anche loro hanno perso persone care a causa dei guerrieri e dei marleyani che andavano a far loro guerra su Paradis. E Gabi qui è più odiosa che mai, perchè invece di ascoltare Falco e rendersi conto che una guerra non inizia mai per colpa di una sola fazione ma di entrambe, gli chiede se lui le ha viste queste cose di cui parla. Dunque se non hai mai visto una cosa accadere sei legittimato a dire che non esiste. Ma certo Gabi, che ragionamento inoppugnabile, io non ho mai visto 6 milioni di ebrei trucidati, quindi se comincio a dire in giro che l'Olocausto non esiste ho ragione.
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E questo signori, è perchè non sopporto Gabi. Perchè una cosa è andare avanti, capire che sbagli e dichiararti colpevole e malvagio, come Eren, una cosa è capire di avere immensamente sbagliato, pagarne il prezzo ogni singolo giorno della tua vita, sviluppare addirittura una forma di schizofrenia a causa del senso di colpa, come Reiner, tutt'altra cosa è che vedi la guerra, vedi persone come te che per forza di cose sono tirate in mezzo a questa guerra e Falco ti dice che hanno subito cose ben peggiori di te (non ho visto mangiata la mamma di Gabi da un gigante, voi si?) e non cambiare di un millimetro le tue convinzioni. E porca miseria, Falco ha la sua stessa età, ha imparato le stesse nozioni, ma lui è capace di ragionare e di empatizzare, Gabi no. L'ho odiata fin dal principio, la sua forza, determinazione, ambizione, la sua superbia, me l'hanno solo fatta stare ancora di più sulle scatole, perchè all'inizio Eren magari poteva anche somigliarle, ma in lui c'è sempre stato il desiderio di proteggere i suoi amici e i suoi compagni (almeno finora), e Gabi se le avessero detto che doveva sacrificare Falco, Udo o Zofia per ereditare il corazzato l'avrebbe fatto senza battere ciglio. E mi ammorbidirò certamente nei suoi confronti verso la fine della storia forse, ma "Non è questo il giorno!!!". Ma andiamo avanti, sto parlando troppo di un personaggio che non merita il mio nervosismo. Gabi riesce con una botta di fortuna orba ad uccidere Lobov, che ancora penzolava come uno scemo dal dirigibile, e si aggrappa al cadavere mentre preme il grilletto del dispositivo di manovra tridimensionale. Ma Falco non ci sta ad essere lasciato indietro, ed entrambi arrivano al dirigibile. Il tutto accadde nel giro di pochi secondi, Gabi rotola dentro il dirigibile e spara non appena si ferma, colpendo Sasha in pieno petto. 
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Il tempo si ferma, Sasha sembra impiegare mille anni per cadere a terra, mentre i soldati riuniti lì vicino incarnano la nostra rabbia, e si avventano su Gabi e Falco picchiandoli come dei sacchi da boxe. Cominciano i pianti, e Jean nonostante la disperazione dimostra quanto sia maturato, perchè davanti a Gabi e Falco legati impedisce di buttarli fuori bordo, perchè, ciò non servirà a fermare questa strada piena di sangue. Quanto maturità in una sola frase. Torniamo brevemente a terra, per sapere da Pieck che lei aveva già visto il soldato che ha condotto lei e Porko in quella fossa, era un soldato che era stato inviato insieme a molti altri all'isola Paradis, tra quella quarantina di navi che non hanno più fatto ritorno, Pieck se ne ricorda bene perchè era un'assidua seguace di Zeke; e salutiamo quindi Yelena, contro cui Jean si scaglia perchè se avesse fatto un po' meglio il lavoro non si sarebbero trovati contro il gigante carro e mascella, motivo per cui Zeke ha dovuto fare finta di lanciare più massi contro il corpo di ricerca. Ed è proprio di fronte a Zeke che si trovano Gabi e Falco, a bordo del dirigibile, che parla amabilmente (si fa per dire) con Levi ed Hange sul fatto che il piano ideato per riportare Eldia alla libertà ha funzionato, salvo alcuni errori di calcolo, eccoli lì questi errori, uno si chiama Gabi e l'altro si chiama Falco. 
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I due errori di calcolo hanno il cervello che gli fuma, sentendo Zeke, che innanzitutto credevano morto, che parla di piani riusciti con quelli che a rigor di logica dovrebbero essere i nemici. Che goduria vederli sbigottiti, la dimostrazione di quanto siano piccoli e ingenui davanti alla realtà, convinti che la versione che conoscono loro sia quella giusta e invece si vedono sbattere in faccia la verità. Ma tutto passa in secondo piano, tutto, i piani, il corpo di ricerca, la battaglia, Eren e quella palla di peli di Zeke, Falco e quell'altra, perchè Connie entra nella stanza dicendo che Sasha è morta. Le lacrime spuntano da sole, mentre Mikasa ed Armin, che ancora non ne sapevano niente perchè non avevano assistito alla scena, corrono dalla compagna, e tentano invano di scuoterla mentre piangono disperati. Ma è finita, l'avevamo sempre sottovalutata, considerata come un personaggio comico, incapace di suscitare il pianto, ma ora che è stata uccisa sappiamo che lei era fondamentale, la serie non sarebbe stata la stessa senza di lei, senza il suo irrefrenabile desiderio di carne, senza la sua tontoloneria, insieme a Sasha se ne va una parte di tutti loro, la migliore, e sembrano già meno umani, da Connie a Levi ed Hange a Jean, mentre anche Eren si dispera sentendo che l'ultima parola di Sasha è stata "Carne". 
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Io sono svuotata, lo scorso episodio la malvagità di Eren mi ha devastato, ora la morte di Sasha mi ha tolto quel poco che mi era rimasto. Lo sapevo naturalmente, da lettrice del manga, ma non oso immaginare per chi non lo legga come può essere stato questo episodio. Non si sono nemmeno curati di spiegare molto la situazione, gli spettatori non lettori avranno il cervello in fumo, al pari di Gabi e Falco, ma arriverà il tempo delle spiegazioni, era giusto dedicare molto tempo a Sasha, glielo dovevamo, e lo studio MAPPA ha creato un altro episodio perfetto, capace di farti passare dallo sbigottimento al  pianto nel giro di pochi secondi. E dalle anticipazioni sembra proprio che il prossimo sarà un episodio di spiegazioni, dunque state ben attenti, che la situazione è ancora più complicata di quello che sembra! A presto! -sand-
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beavakarian · 5 years
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MORE THAN A TRICKSTER - ATTO XVI [ITA]
Autore: maximeshepard (BeatrixVakarian)
Genere: Mature
Pairing: Loki/Thor
Sommario: questo è il mio personale Ragnarok. Si parte e si finirà alla stessa maniera, alcune scene saranno uguali, altre modificate, altre inedite. Parto subito col precisare che qui troverete un Loki che non ha nulla a che fare con il “rogue/mage” in cui è stato trasformato in Ragnarok, e un Thor che si rifà a ciò che abbiamo visto fino a TDW.
Loki e Thor sono stati da sempre su due vie diverse, ma quando il Ragnarok incomberà inesorabile su Asgard, le cose cambieranno. Molte cose cambieranno.
Capitoli precedenti: Atto I - Atto II - Atto III - Atto IV - Atto V - Atto VI - Atto VII - Atto VIII - Atto IX - Atto X - Atto XI - Atto XII - Atto XIII - Atto XIV - Atto XV
@lasimo74allmyworld @miharu87 @meblokison @piccolaromana @mylittlesunshineblog
GROSSA PREMESSA: sono viva. Scusatemi.
Allora, è successo un po’ di tutto... Tra salute ed Endgame, la mia ispirazione, o meglio, la mia concentrazione sia mentale, che fisica, è andata a farsi benedire. Ho avuto quello che si chiama il “blocco”. Sono caduta nel “buco”, per citare Black Mirror - Bandersnatch. 
Se la terapia che faccio per i miei problemi fisici mi porta molte difficoltà nel concentrarmi, Endgame mi ha dato proprio la botta finale. Ho passato giorni, sia prima, che dopo il film, con il pc sulle ginocchia a fissare il foglio bianco. Alla fine mi sono presa una pausa, perché era inutile continuare. 
Però... La scorsa settimana sono andata a conoscere Simo. E lì... Mi sono sfogata, un po’ di tutto. Mi sono svuotata le tasche... E l’ispirazione è come rifiorita, tanto da farmi finire questo benedetto capitolo incominciato due mesi fa. Mi serviva come l’aria. 
Grazie, Simo. E grazie a tutte voi per il supporto che mi date, non solo per questa fic, ma anche con il mio blog personale e il side degli Odinson. ^^
Prometto che stringerò i denti. Non manca molto alla fine, ma ho bisogno di calma per dare il giusto peso a determinati eventi in conclusione.
Ed ora, buona lettura! 
*COFF*unpo’diThorki*COFF*maleggeroleggero*COFF*comecepiaceanoi*COFF*vipromettocheprimaopoi*COFF*INSOMMACESIAMOCAPITE*COFF.
Sti malanni di stagione...
- ATTO XVI -
Gli era bastato sfiorare le ferite per rimarginarle con estrema semplicità. E aveva anche proposto a Thor di ridargli le sue precedenti sembianze – quei meravigliosi ciuffi lunghi e biondi – ma suo fratello aveva gentilmente stretto la sua mano e l’aveva portata al suo cuore.
“No” aveva semplicemente esalato, quasi in un sussurro, guardandolo con quel suo unico occhio rimasto quasi velato dalle lacrime. Loki stinse le labbra e abbassò lo sguardo, non riuscendo a sostenere quel vortice azzurro di emozioni.
Per quanto avesse cercato di ironizzare, a suo modo, quella situazione, entrambi si sentivano come reduci da una grande e sanguinosa battaglia. Entrambi erano distrutti, sia nel corpo che nello spirito – Thor si sentiva a pezzi, Loki avvertiva un mal di testa martellante, il quale non gli concedeva tregua da più di un’ora, ormai.
“Fammi vedere quello” indicò, in un secondo momento, l’orbita oculare devastata da quella terribile cicatrice. Thor si sporse leggermente – le gambe che penzolavano giù dalla scrivania sulla quale si era seduto per farsi medicare – ritraendosi di scatto non appena Loki poggiò le dita.
“Ti fa così male?” chiese, sorpreso.
“Un po’…”
“Un po’” Loki sottolineò l’ovvio, con un sopracciglio alzato, guadagnando una flebile risata da parte del fratello. “Non morirò per questo” citò le sue stesse parole, al che Loki portò gli occhi al cielo e gli bloccò il viso a livello del mento, esaminando la ferita.
Quando la luce verde si esaurì, Thor passò un braccio attorno alla sua vita, stringendolo a sé e nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. Loki non potè far altro che portare le mani alla base del collo di suo fratello, giocherellando per qualche istante con quelle ciocche corte e avvertendo un sordo dolore in fondo al suo cuore.
“Grazie” bofonchiò Thor nel tessuto ormai stracciato dell’abito di Loki, il quale sorrise, osservandolo dall’alto e si lasciò andare in un lungo sospiro, massaggiando il retro della nuca di Thor delicatamente.
“Andiamo a riposare un po’?”
 Thor si risvegliò con il volto affondato in quei riccioli corvini, scompigliati dagli eventi appena vissuti e dalle quattro, cinque ore di sonno appena passate. Si ricordava chiaramente di essersi addormentato accanto a lui, appoggiando la mano sulla sua, in un caldo e rassicurante contatto.
Non erano ritornati sul discorso, se non per rimandare la questione, amaramente, per questioni di forza maggiore. Avevano semplicemente bisogno di riposarsi, fermarsi per un istante e respirare. Tutto il resto poteva attendere.
In quel breve sonno non aveva sognato, probabilmente però si era mosso diverse volte e si era avvinghiato a suo fratello, inglobandolo in quell’abbraccio sicuro, ricercando nel calore del suo corpo un briciolo di serenità. E da quel gesto, Loki non era fuggito: si era svegliato, sentendo il corpo di Thor riversarsi sul suo – come non accorgersene? Si era voltato leggermente a guardarlo, passandogli il dorso della mano sulla fronte, impercettibilmente e contando i suoi respiri, per capire se fosse sveglio o stesse dormendo.
Si raggomitolò quindi in quell’abbraccio, facendosi letteralmente sommergere. Un lungo sospiro, le dita intrecciate con quelle della mano libera di Thor, che era andata ad appoggiarsi al suo torace – a stringerlo a sé.
 Inspirò profondamente in quei morbidi ciuffi, sentendo Loki muoversi sotto di lui e sfiorare la mano sul suo petto e spingendo un poco il capo indietro, come se stesse cercando più contatto. Poi lo sentì immobile, se non per l’indice della sua mano sinistra che scivolava su e giù sul dorso della sua mano.
“Perché non me l’hai mai detto?”
Quelle parole sussurrate, parvero assordanti alle orecchie di Loki. Aprì gli occhi, lucidi a prescindere, osservando la parete di quella stanza grigia e asettica e poi spostando lo sguardo nello spazio cosmico e nella sua oscurità.
“Perché non mi avresti dato retta” sussurrò in replica alla domanda del fratello. Thor inspirò col naso, scuotendo la testa.
“Dovevi obbligarmi a farlo. A costo di farmi male”.
Loki si voltò piano, rigirandosi nell’abbraccio e puntò quei meravigliosi occhi verdi dritti in quello di Thor – uno sguardo serio e determinato, ma anche disperato.
“E’ proprio per questo che ho taciuto” rispose, appoggiando la fronte al mento del fratello. Si concesse un sospiro lungo e silenzioso, per poi aggiungere “Non volevo che nessun’altro ne fosse coinvolto, tu in particolar modo. Asgard e tutto il resto”.
Sentì la mano di Thor appoggiarsi sul suo capo e sorrise amaramente.
“Non so nemmeno io cosa tentassi di fare per evitare le implicazioni di New York… Mi è sfuggito tutto di mano, come al solito. Volevo solo sparire”. Le sue unghie graffiarono leggermente il suo petto, lasciando flebili segni rossastri. Per quanto affrontare quel discorso fosse difficile, il calore di quell’abbraccio era tale da lenire quell’inquietudine in lui sempre così viva ed inesorabile.
Sentì le labbra di Thor appoggiarsi sulla sua fronte e chiuse gli occhi.
“Non permetterò che ti faccia altro male, Loki” sussurrò, strofinando le labbra leggermente, alla base dell’attaccatura dei capelli. Loki sollevò piano il viso e i loro sguardi si incrociarono: Thor rivide il terrore nei suoi occhi e quell’immagine di suo fratello così vulnerabile, gli spezzò il cuore.
Loki in quel momento aveva abbassato tutte le difese. Non vi erano bugie, non vi erano maschere, non vi erano armature atte a nascondere punti deboli. Lui era lì, in tutta la sua disperazione, con quel viso proteso verso di lui, alla ricerca di un appiglio.
Gli ricordò lo sguardo di quella volta, appeso a Gungnir, sul baratro, mentre Odino teneva salda la caviglia del suo primogenito.
Si trovò a desiderare quelle labbra con tutto sé stesso e quel pensiero lo colpì nel profondo. Si trovò a desiderare di stringere suo fratello così forte, quasi ad inglobarlo dentro di sé e vivere della sua essenza, celarlo all’universo, proteggerlo da qualsiasi cosa, persona, destino.
“Ti ucciderà, Thor…”
La voce di Loki tremò. La mano di Thor salì lungo la sua guancia e il suo pollice si fermò all’angolo della sua bocca, accarezzando le labbra delicatamente, mentre l’azzurro di quell’occhio diventava lucido, ma allo stesso tempo carico di determinazione.
“Non ti fidi delle mie capacità…?” sussurrò Thor in risposta, abbassando lo sguardo su quelle labbra sottili e avvicinandosi lentamente. Loki lo guardò in preda alla confusione e alla disperazione, accorciando però ulteriormente la distanza tra loro due.
“Conosco quel pazzo e so di cosa è capace” replicò, sfiorando la punta del naso contro la guancia del fratello. Il respiro si fece più greve, il battito del suo cuore più incalzante.
“Non deve toccarti. Mai più”.
Le dita di Thor andarono a posarsi salde sulla sua mandibola, alzandogli il mento e portandolo verso di sé e Loki non porse resistenza. Chiuse gli occhi, quasi in apnea.
Nell’esatto istante nel quale le loro labbra si sfiorarono, tre rapidi colpi alla porta chiusa della loro camera li fece trasalire.
Era Brunhilde.
 Loki si guardò allo specchio, passando distrattamente le dita sulla pelle di quell’abito trovato nell’armadio della camera adiacente: non era esattamente di suo gusto, come modello, ma era meglio del vestito stracciato che teneva ormai addosso da troppo tempo. Per lo meno i colori erano accettabili e non avrebbe avuto distrazioni a mantenere un glamour decente con la magia. Essa serviva ad altro, ora come ora.
Si era fatto finalmente una doccia, dopo che Thor l’aveva preceduto per raggiungere gli altri nella sala comando della nave. Si era preso il suo tempo, passando diversi minuti a districare i riccioli neri arruffati, a massaggiarsi la spalla, a lavarsi e rilavarsi più volte, per togliersi di dosso non solo lo sporco di quei giorni, ma anche gli orribili pensieri.
Rimase poi immobile sotto il getto d’acqua tiepida, gli occhi chiusi, la schiena appoggiata alla parete metallica. Una mano risalì lenta verso il suo viso, l’indice sfiorò le labbra e ripensò a ciò che era successo poco prima.
La sua mano tremò, assieme al suo petto: aprì gli occhi, incurante dell’acqua. Il respiro di Thor sulle sue labbra, la sua mano stretta attorno alla sua mandibola, la sua barba a solleticargli il viso.
Erano sensazioni… Si scoprì a desiderare quell’occasione negata, interrotta sul più bello. Si scoprì a desiderarla con tutto sé stesso e ciò, per quanto lo terrorizzasse, non lo sorprese. Affatto.
 Ed ora, davanti a quello specchio, si ritrovava a fissare la sua espressione pensierosa, acconciandosi accuratamente i capelli, cercando di capire il motivo per il quale il suo cuore si sentisse così leggero e così pesante, tutto d’un tratto.
Aveva confessato a Thor tutto quello che era successo. Thor aveva visto attraverso la sua mente ed ora sapeva. Per quanto Loki avesse tentato di risolvere da sé quella situazione, doveva ammettere che confessarlo a suo fratello era stato come togliersi un macigno dal petto.
Sebbene… Sebbene ora Thor fosse diventato un bersaglio quanto lui.
Le ultime parole scambiate tra i due riguardarono la promessa di parlarne a dovere dopo il combattimento contro Hela, dopo che Asgard fosse stata riconquistata, dopo… Sempre che ci fosse stato, un dopo.
Parlare. Quella di Thanos era solamente la questione più urgente, la prima voce di quella lunga lista di cose non dette tra loro due.
Sospirò lungamente, riportando deciso gli occhi sulla sua immagine riflessa: avrebbe dovuto fare una scelta, presto o tardi. E forse infrangere una promessa, aggiunse mentalmente, sorridendo amaramente all’ironia della sorte.
  Quando i suoi occhi si abituarono alla luce intensa, non poté non notare con orrore i piccoli corpicini ai suoi piedi, inermi, in una pozza di sangue. Poco più in là, su quello che appariva come il trono di Asgard, quasi completamente distrutto, fatta eccezione per una parte della seduta, Volstagg giaceva riverso sulla pietra. Lo guardò con la morte negli occhi e nel cuore.
Un fiotto di sangue scivolò dalle sue labbra, quando chiamò le sue bambine e quelle non risposero. I suoi occhi, ormai spenti, si posarono su Thor: vi era rassegnazione, paura e dolore.
E una muta accusa. Non disse nulla, esalando il suo ultimo respiro, ma il suo sguardo si volse in un punto indeterminato alle spalle di Thor, prima che le porte della sala si sgretolassero e Surtur si presentasse con la sua mole e il fuoco di Muspelheim tutto attorno a lui – il magma che, inesorabile, penetrava nelle fondamenta del palazzo. Avvertì quel calore insopportabile bruciargli la pelle. E di nuovo la luce intensa.
 Si svegliò di scatto, avvertendo una mano sul suo petto. La mano di Loki. Thor si mise a sedere – il cuore in gola – mentre suo fratello lo osservava preoccupato e si scusava per averlo fatto trasalire in quella maniera.
Thor scosse la testa, appoggiando la mano sul suo avambraccio.
“Non è colpa tua, stavo sognando” mormorò, per poi passarsi la mano sinistra sul viso e stropicciarsi gli occhi. Fece per tirarsi indietro i capelli, ma quel gesto andò a vuoto, riportando la mente a quella precisa realtà.
Loki strinse le labbra, accomodandosi accanto a lui: la sua mano salì verso il mento di Thor, facendolo voltare verso di lui. Accarezzò la guancia con il pollice, delicatamente.
“Dobbiamo prepararci. Manca solo più un’ora al wormhole e i motori stanno progressivamente accelerando” spiegò Loki, misurando il tono in modo che Thor riprendesse fiato e si calmasse.
Thor scosse lievemente il capo in un gesto d’assenso, abbassando l’occhio, ma la mano di Loki non gli permise di abbassare anche il viso: riprese contatto con il suo sguardo, con un’espressione interrogativa.
“Sono con te” fu la risposta di Loki, trafiggendo il fratello con quegli occhi verdi come smeraldi. L’espressione sul viso di Loki era di determinazione, ma tradiva anche apprensione.
Thor sorrise flebilmente, portando il polso del fratello alle labbra e lasciando un lieve bacio sulla parte interna.
  - Due minuti al contatto - fece eco la voce del pilota automatico.
Thor osservò Loki al suo fianco, il quale annuì brevemente. Il suo occhio si spostò poi in direzione di Brunhilde, atta a sistemare la spada celeste nel fodero appeso alla sua cintura.
“Puoi ancora cambiare idea” commentò, ma la Valchiria fece cenno di tacere. I suoi occhi osservavano l’immensità nero rossastra del portale galattico.
“No” sussurrò, per poi schiarirsi la voce “E’ giusto così. Loki conosce come le sue tasche la zona ove Heimdall ha trovato rifugio. Scenderò io sul Bifrost, con te e Banner”.
Thor portò lo sguardo avanti a sé, sorridendo con orgoglio. Brunhilde avrebbe lottato al suo fianco.
“Una volta entrati nel sistema di Asgard, prenderò il comando manuale della nave e voi vi sgancerete con lo shuttle. Noi saremo esattamente dietro di voi” prese parola Loki, rivolgendosi poi a Rekis.
“Faremo il giro dalla parte opposta al Bifrost, alzando il sistema di occultamento e atterreremo nei pressi della base della montagna. Una volta messi al sicuro gli abitanti, decollerete con la nave e rimarrete in orbita. Io mi unirò a Thor nel più breve tempo possibile” concluse, appoggiando le mani allo schienale della poltrona di comando. Rekis annuì e così fecero gli uomini di Brunhilde.
- Venti secondi. -
Presero i posti a sedere, allacciarono le cinture.
- Dieci secondi. -
Loki si voltò leggermente verso Thor e posò la mano su quella del fratello, seduto accanto a lui. Thor intrecciò le dita con le sue.
- Cinque. -
“Li vendicheremo…” sussurrò Loki.
Thor inspirò bruscamente con il naso, annuendo con convinzione. Strinse la mascella.
- Tre. -
“Non farti ammazzare”.
- Due. -
Thor sogghignò.
“Nemmeno tu”.
- Uno. -
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ame-r-chaucer · 6 years
Text
Metamoro Yacht!Au
Ebbene, questa è la prima storia? Fanfiction? A punti che scrivo! Devo dire che mi sono divertita parecchio a buttare giú questa prima parte. xD
Niente, qualche giorno fa io e @generaleferri -che tra l'altro ringrazio fortissimo per avermi aiutato a stilare sta cosina- siamo passate davanti al porticciolo di Genova e, come tutte le volte che passiamo davanti a quel dannato porticciolo, abbiamo plottato una Metamoro dove Ermal, ricco sfondato, ha uno yacht ed Fabrizio lavora nel locale che sta esattamente davanti a dove è ormeggiato.
Eeeee niente, buona lettura 💜
• Non si direbbe ma è difficile essere un ventenne che vive su uno yacht. Soprattutto se si passa l’esistenza a navigare di porto in porto, rimanendo fermo in un posto solo per qualche mese, avendo quindi l’incapacità di stringere un rapporto duraturo con chicchessia.
• È ancora più difficile se quel ventenne che vive su uno yacht si chiama Ermal Meta.
• In realtà la prospettiva di vivere su una barca non gli dispiace per nulla, insomma da grande amante del mare non può che essere felice di poter passare h24 a stretto contatto con l’acqua.
• No questo davvero non gli pesa.
• Il problema inizia a sorgere quando esattamente davanti alla sua casa galleggiante vi è un locale. Un locale di quelli da ricchi -di quelli da persone come lui-, di quelli dove ci puoi andare solo se indossi una camicia che costa più di uno stipendio medio e un paio di scarpe -brutte- che si possono indossare solo senza calzini.
• E a Ermal piace molto vivere la sua vita su uno yacht, ma gli piace un po’ meno dover entrare in contatto con il mondo dei “Ricchi proprietari”.
• E il tutto diventa drasticamente difficile da sopportare quando tutte le volte che ti alzi la mattina e ti affacci a respirare il profumo del mare, quello che ti si para davanti è un simil-Briatore con il suo Rolex da venti carati e una donna di plastica seduta al suo fianco che sfoggia una collana di diamanti con la stessa semplicità con cui si indossa un paio di mutande. E che ti sorride. E ti saluta. E tu vorresti solo sputare nello champagne da cinquecento euro che sta bevendo.
• Ermal non sa perché quell’anno sua madre ha deciso di fare porto proprio in una città così dannatamente turistica.
• O per meglio dire: lo sa.
• Perché lei glielo ha detto che durante l’estate avrebbe dovuto trattare con degli importantissimi clienti russi e americani e che, sicuramente, le ci sarebbe voluto /tanto/ tempo.
• Ma Ermal ha interpretato quel “Tanto Tempo” con un misero “due settimane se proprio va male” e non di certo “quattro mesi”.
• E quindi, nell'ignoranza totale e riversando troppa speranza sul mondo finanziario in cui bazzica sua madre, Ermal ha beatamente declinato l'invito di trascorrere quei mesi estivi per i fatti suoi.
• Magari con qualche amico. (E c'è da badare bene che sua madre non ha fatto alcun riferimento ai fratelli, visto che uno ha deciso di farsi a piedi tutto il Perù e l'altra, invece, ha optato per una romantica vacanza con il suo fidanzato storico.)
• Ma risulta difficile riuscire a trovare un amico quando gli unici che hai lavorano proprio su quello yacht su cui passi la maggior parte del tempo, e di certo non possono permettersi quattro mesi di vacanza nemmeno se sei disposto a pagargli vitto e alloggio. Insomma saranno pure amici, ma lavorano.
• E quindi, Ermal, ha deciso di affrontare il mare anche quell'anno, con al fianco il fidato Marco -l'amico che lavora-, una pila di libri da leggere -e rileggere- e la solita indomita curiosità per l'ignoto.
• Curiosità che è morta non appena i suoi occhi si sono posati sul molo stracolmo di gente.
• Sui negozi di marche troppo costose per delle tasche normali.
• Sui locali sbrilluccicanti e per niente accoglienti.
• E quindi niente, si è arreso al fatto che avrebbe trascorso le sue vacanze estive rimanendo chiuso su quella casa galleggiante, cercando di ridurre al minimo ogni tipo di contatto con l'esterno.
• Ha provato, sotto obbligo di Marco che non ne poteva più di vederlo poltrire su ogni superficie orizzontale, a raggiungere qualche spiaggetta della costa, sperando che fossero troppo poco chic per i milionari che popolano la piccola cittadina, ma le sue speranze sono risultate vane.
• Sono dei fottuti formicai che profumano di Chanel.
• E così si è arreso alle vacanze di reclusione.
• È l'alba del tredicesimo giorno quando Ermal, durante le sue letture quotidiane, sente un rumore che non sa bene come definire se non “molesto”.
• Già non può scendere da quel luogo che sta iniziando a diventare una lussuosissima prigione dorata, ci manca solo il rumore spacca-timpani.
• Complimenti karma, hai vinto.
• Ermal sarebbe potuto rientrare, avrebbe potuto mettersi le cuffie e tornare ad ignorare il mondo circostante come aveva fatto nell'ultimo periodo, poteva persino decidere di diventare un po' -meno cagacazzo- più buono e fregarsene di quel momentaneo disturbo della sua sacra quiete.
• Ma invece no.
• Ermal si alza dalla sua poltrona a poppa, quella che ormai ha la forma del suo sedere, e si sporge appena oltre il parapetto, così da poter cazziare con il garbo raffinato di un ventenne, il rompicoglioni che sta disturbando il suo affrontare le vacanze con spirito indomito.
• Non l'avesse mai fatto.
• Non sa dire se il tentato omicidio della sua persona, condotto dalla sua saliva e dalla gola improvvisamente divenuta il deserto del Gobi, sia colpa di quel paio di braccia tatuate, rese tese dallo sforzo di sollevare casse di non-importa-cosa, oppure da quella pelle abbronzata, che brilla illuminata dal sudore e dalla luce del sole, o addirittura da quel volto adornato da una barbetta appena incolta e da una marea di lentiggini.
• Nel dubbio, Ermal decide che la colpa per la sua quasi-dipartita è da affibbiare alla figura intera di quel ragazzo.
• È bello.
• Vergognosamente bello.
• Bello proprio di quel bello che piace a Ermal.
• Non sa per quanto tempo rimane a fissarlo, appoggiato al bordo dello yacht, con gli occhiali da sole che sono leggermente scivolati giù sul naso, e le labbra sigillate nella vana speranza che la sua gola ritorni ad umidificarsi quel tanto che gli basta per non morire.
• Lo guarda fino a quando il ragazzo non finisce di portare dentro il locale quelle scatole e, nel mentre, spera che arrivino tuttevinsieme le consegne della settimana per poterlo rivedere mentre si piega e si rialza innumerevoli volte.
• E questo mica perchè ha un culo che canta.
• E dei bicipiti da urlo.
• No macché.
• Ma, ahimè, i suoi desideri non vengono esauditi e di quel ragazzo non c'è più nemmeno l'ombra. Ermal si vede quindi costretto a tornare ad adempiere ai suoi sfiancanti doveri.
• -Alla poltroncina era quasi mancato il suo sedere-.
• Ora, la faccenda sarebbe sostanzialmente morta lì -circa- se il bel ragazzo non avesse deciso che lavorare per vivere proprio in quel locale era l'idea geniale che serviva al mondo per continuare a girare.
• Probabilmente in quel locale ci lavora da sempre, ma l'attentissimo Ermal, accortosi della sua presenza solo qualche giorno prima, adesso non può fare a meno di notarlo in continuazione.
• Mentre serve ai tavoli.
• Mentre chiacchiera con le sue colleghe.
• Mentre scarica e carica barili e casse.
• Mentre si arrotola le maniche della camicia bianca del completo da cameriere.
• Mentre si piega a sollevare pesi, si china a novanta sui tavolini, fa la pausa sigaretta appoggiato alla ringhiera con lo sguardo rivolto al mare.
• Mentre sorride.
• Ed è così che Ermal si ritrova a passare le ore a fissare quel ragazzo senza nome, un po' nascosto dietro le pagine di un libro, un po' senza alcun ritegno chinato oltre il bordo dello yacht.
• D'altro canto, il giovane cameriere, non si è accorto di nulla.
• E continua a lavorare come se niente fosse, ad affrontare le giornate svegliandosi la mattina con la sveglia che suona sempre tre volte prima che Fabrizio trovi la voglia di spegnerla e di alzarsi.
• E, sempre ignaro di essere /quasi/ costantemente spiato arriva al locale in cui lavora -per fortuita botta di culo. Conosceva un tipo che era amico di un'amica dell'amante del proprietario, e via discorrendo...- e fa il suo dovere, sorridendo cordialmente persino a quelli a cui uno sputacchio nello champagne l'avrebbe lasciato con piacere.
• Ma, insomma, le mance sono troppo buone per lamentarsi, e anche lo stipendio non è male.
• Ogni tanto gli capita pure di incontrare qualche soggetto interessante.
• Per non parlare delle valanghe di signore di mezz'età che ci provano senza remora alcuna.
• Ma danno la mancia migliore, quindi perchè lamentarsi?
• Insomma, alla fine della fiera vivere in una città che in estate si popola di ricconi sfaccendati e pronti a pagare per ogni minimo comfort ha anche i suoi pro.
• E niente, Fabrizio sarebbe rimasto ignaro probabilmente per sempre di questa situazione, se non fosse per una sua collega che con fare ammiccante gli indica con un cenno del capo e un assolutamente privo di fronzoli “Fabbrì, c'è uno che ti fissa da una settimana” il povero Ermal colto con le mani nel sacco.
• E Fabrizio si volta a guardare il diretto interessato.
• E non può fare a meno di pensare che “Però mica male il piccolo stalker”.
• E prima ancora che se ne accorga Fabrizio gli sta sorridendo ed è quasi tentato di rivolgergli anche un saluto quando, in risposta, non riceve niente se non una smorfia dalla dubbia interpretazione.
• E Fabrizio rimane a fissarlo mentre gli da le spalle e se ne torna all'interno dello yacth, inciampando malamente su qualcosa -nei suoi piedi forse?- ed aumentando poi la velocità del passo.
• Che tipo strano.
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gerteheike · 4 years
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.                  _________                 【 -`🩰  】                    𝗧𝗥𝗜𝗦𝗧𝗔𝗡​ ﹠ 𝗚𝗘𝗥𝗧𝗘 ❜❜                            ↳ ❛❛ 𝖯𝖱𝖨𝖣𝖤 𝖠𝖭𝖣 𝖯𝖱𝖤𝖩𝖴𝖣𝖨𝖢𝖤 ; 𝖱𝖠𝖵𝖤𝖭𝖥𝖨𝖱𝖤​                    _________                                                                            #𝘳𝘢𝘷𝘦𝘯𝘧𝘪𝘳𝘦𝘩𝑢𝑛𝑡𝑒𝑟𝑠 ; ₁₉.₀₂.₂₁       Era la seconda festa cui partecipava: doveva preoccuparsi? Stava scoprendo un lato di sé più festaiolo e non sapeva se fosse una cosa positiva o no; tuttavia non escluse la possibilità che fosse semplicemente l'alcol ad animarlo. Eppure, stavolta non aveva bevuto e nessuna forza esterna l'aveva costretto a partecipare, anzi, c'era andato di sua iniziativa per fare una sorpresa a qualcuno di speciale che avrebbe pescato per certo tra la folla. Non aveva spiccicato parola sulla festa o su una sua possibile partecipazione, tralasciando volutamente l'argomento per coglierla in flagrante e bearsi di quella sua faccetta sorpresa; tutta in ghingheri per l'occasione in quell'abito il doppio di lei.       Rubò una rosa bianca dalle maestose decorazioni – nessuno avrebbe notato la mancanza di una singola rosa bianca – che nascose dietro la schiena, e slittò tra la folla per raggiungere la fata di spalle. Si sistemò marsina e capelli, eccezionalmente in ordine per l'occasione, e si chinò all'altezza del suo orecchio: « Boo! »
Gerte Heike A. Ivanova
Una musica leggera si udiva nella residenza dei Ferguson totalmente adibita a festa. Sentiva il vociare tipico delle feste, tipico di quell'ambiente che faceva sentire la fata sempre a proprio agio, ma quando decise di partecipare una punta di panico sembrò manifestarsi in lei. E se fosse stata come la festa di Halloween? Impossibile era non trovare qualche similitudine, eppure il bisogno della Ivanova di trovare ancora se stessa, la spingeva a mettersi nuovamente in gioco. Sbatté le palpebre un paio di volte prima di aggirarsi per la sala con il suo abito lungo finemente ricamato in pizzo, ricordando il tema della serata. Un fremito giunse all'improvviso nell'udire la voce dell'amico. Teatralmente Gerte portò una mano all'altezza del petto, prima di voltarsi in direzione di Tristan. Il cuore cominciò a battere furiosamente eppure mostrò solamente un accenno di sorriso. « Mi hai spaventata a morte, lo sai? E guardati, sembri davvero un damerino. »
Tristan Macleod
« Sai cosa sono, spaventare fa parte dei miei doveri! Sorpresa gradita? » fece l'occhiolino alla fata e sottovoce aggiunse: « Poi, sognavo di fare "boo" a qualcuno da un bel po' » e rise soddisfatto del proprio lavoro. Erano questi i momenti in cui apprezzava appieno la sua nuova natura: chi meglio di un fantasma può fare "boo"? Inoltre, aveva raggiunto il suo obiettivo egregiamente: Gerte era stata più teatrale del solito con quella mano!        « Se fossi un vero damerino non avrei colto una rosa solo per te » non era necessario che Gerte sapesse che Tristan non l'avesse esattamente "colta", contava il gesto; dunque, approfittò del momento per svelare la rosa e porgerla alla fata.
Gerte Heike A. Ivanova
Mettere in scena espressioni teatrali non era cosa della fata, in fondo era molto pragmatica nella vita di tutti i giorni, eppure non poteva non amare l'espressione del fantasma nel vederla portare una mano al petto. Ridacchiò la giovane dai capelli dorati prima di ritrovare un battito cardiaco regolare, dopo lo spavento di poco prima. Osservò la rosa che le stava mostrando, così regale, così perfetta, semplicemente così eterea che sembrava quasi irreale. In qualità di fata, Gerte apprezzava ogni aspetto della flora di Ravenfire, mangiava cibi solamente di origine vegetale, ed apprezzava la natura in ogni sua manifestazione. « Una rosa... » Mormorò lentamente come se lo dicesse a se stessa piuttosto di rispondere al Macleod. Il vestito panna che indossava ricordava vagamente il tema della serata, ma tutto sembrava perfetto, il vestito, l'ambiente, la persona accanto a sé e ora perfino il fiore. « E' perfetta, sai? Sembra che tutto sia perfetto, ogni cosa... Mi chiedo se debba aspettarmi qualcosa di davvero brutto. Comunque... Scommetto che, questa volta, non avrai da ridire sul mio abito, almeno non come quello della festa di settimana scorsa... »
Tristan Macleod
Non serviva un disturbo della personalità per leggere negli occhi della fata che qualcosa la turbasse più di quanto volesse far credere. Analizzò dubbioso le parole pronunciate dalla donna, mentre rigirava lo stelo della rosa tra le dita, incerto ma attento: cosa poteva andare storto? Fino ad ora, eccetto qualche parlottio di troppo o spintoni da parte di ballerini provetti, la serata sembrava stesse svolgendosi per il meglio o "perfettamente", riprendendola. Fosse stato qualcun altro Tristan avrebbe volentieri preso la palla al balzo e affossato l'argomento a favore di quello nuovo, meno personale e più frivolo; ma questo non era questo il caso.       « Sì, lascia molto più alla fantasia. Lo apprezzo; ma: "Aspettarmi qualcosa di davvero brutto"? » ripeté e mantenne il contatto visivo.       « Cosa credi possa andare male? Se pensi che i tacchi possano farti male o che ti si rompano durante le danze cercherò di fare uno sforzo per portati di peso in macchina » sdrammatizzò per smorzare la tensione, sebbene fosse più serio di quanto gli sarebbe piaciuto essere.
Gerte Heike A. Ivanova
Qualcosa dentro di lei, almeno a livello inconscio, continuava a farle ricordare ciò che era successo mesi prima, qualcosa che aveva segnato non poco la giovane dai crini biondi. Le conseguenze di ciò che era capitato erano ancora ben tangibili in lei, ma in quel momento e con quella battuta, Gerte ridacchiò. Si concesse il privilegio di godersi quel profumo di rosa che portò al naso prima di allontanarla, almeno inizialmente. Scrollò poi le spalle la fata, prima di continuare a ridacchiare con un leggero cenno del capo. « Sarebbe divertente se accadesse. Soprattutto perché scommetto che mi prenderesti in spalla come un sacco di patate... Sbaglio? » Domandò quasi retoricamente mentre alzò un sopracciglio assumendo così un'espressione incuriosita. Sapeva che il fantasma sarebbe stato più che in grado di compiere un gesto del genere e tutto sommato quell'idea fece perfino allontanare la mente della fata da pensieri decisamente più nefasti. « E' una sensazione che mi sembra di avere... L'ultima volta è stato ad Halloween, e che Dio me ne scampi se voglio vivere un'altra situazione come quella. »
Tristan Macleod
Quella risata, oltre ad essere la conferma della battuta andata in porto, per Tristan ebbe il ruolo di balsamo per i nodi della tensione: vedere Gerte stessa "allentarsi" sollevò non poco il fantasma; e sebbene non avesse estirpato il problema alla radice, aveva fatto un passetto avanti. Ora, bastava continuare. « No; ci hai preso alla grande! Ma saresti il sacco di patate più elegante di sempre » ricambiò il riso e concluse con un occhiolino.       Superato il "botta e risposta", Tristan si rifece poco più serio e analizzò attentamente le parole pronunciate dalla fata, mantenendo il contatto visivo. Si stava esponendo un po', lo sapeva, non voleva e non doveva giocare con il fuoco rischiando così d'esserle tutt'altro che d'aiuto; ma avrebbe sopportato, sarebbe riuscito a incanalare l'empatia e tenere tutto sotto controllo senza inciampare in quelle sensazioni negative e straripare. Doveva farlo, soprattutto ora. Inspirò. Doveva scegliere tra due strade e avrebbe lasciato la scelta a Gerte stessa: « Non so cosa sia successo a Halloween, ma se parlarne può esserti d'aiuto ti ascolto; oppure, ti offro una distrazione » non avrebbe costretto mai nessuno a parlare, soprattutto se il disagio era evidente, ma la possibilità c'era, come c'era quella di sviare.
Gerte Heike A. Ivanova
Ogni volta che la fata si trovava in compagnia dell'amico, ovunque loro fossero, si creava l'occasione perfetta per raccontare qualcosa che entrambi custodivano in modo profondo. Era tanto tempo che Gerte non raccontava la sua esperienza passata ad Halloween, e farlo con Tristan avrebbe segnato di certo un punto di svolta in lei come nelle sensazioni che ancora oggi possedeva. Si limitò così ad un semplice cenno del capo la fata, gli occhi improvvisamente guardarono altrove prima di inspirare sonoramente. « Non so se hai avuto modo di sapere che cosa è successo, ma ciò che hanno definito comunemente come un incidente è stato qualcosa che ha fatto rischiare la vita a molti... » Confessò abbassando la voce quel tanto che non potesse dare nell'occhio. Sapeva che raccontare determinati fatti durante una festa come quella era un rischio, ma doveva comunque farlo. « Diverse persone hanno avuto conseguenze più o meno gravi, alcuni sono finiti in ospedale, ma durante questa festa al resort dei Maffei, tutti sembravano impazziti... Gente che correva, una folla che ha travolto chiunque trovasse sulla propria strada, ed altri invece che hanno cominciato ad aggredire chiunque avessero davanti... Ma non è stato nemmeno questo a farmi paura, quanto il fatto che non avessi più controllo sui miei poteri, il dolore che provavo sembrava causato da tizzoni ardenti, fino a quando lo svenimento sembrò essere l'unica strada. »
Tristan Macleod
Gerte aveva fatto la sua scelta e Tristan l'accettò come tale: se la chiave per il suo bene era parlare Tristan l'avrebbe ascoltata, come aveva fatto lei stessa con lui per quattro lunghi anni. Chiaro che il fantasma avrebbe accettato qualsiasi cosa, pure il silenzio, ma non poteva negare la presenza di quella piccola briciola di felicità che gli faceva capolino nel petto per la fiducia che Gerte riponeva in lui. Un giorno avrebbe dovuto ringraziarla per bene. Così, non gli restava che avvicinarsi poco più vicino alla donna, non volendo condividere la conversazione con chicchessia, fare silenzio e ascoltarla.       Analizzò tutte le informazioni ricevute riuscendo a creare un quadro generale della situazione. Tristan non aveva chiaro l'evento cui Gerte si stava riferendo, ne aveva scoperto l'esistenza solo ora ed era assurdo che molti avessero addirittura rischiato la loro vita a una apparente festicciola; non doveva essere stata la festa di Halloween che tutti s'aspettavano, sebbene debba aver messo effettivamente "paura" come la tradizione richiedeva. Evitò il commento sarcastico, era davvero preoccupato per la donna e la parte finale del racconto l'aveva scosso non poco. « Che intendi— impazziti? Ti sei fatta male, ti hanno soccorso, no? E cosa era successo ai tuoi poteri? » s'era sbarazzato d'ogni possibile delicatezza.
Gerte Heike A. Ivanova
Confessare qualcosa di cui raramente parlava, era una cosa seria per la fata, ma del fantasma si fidava completamente. Erano sempre stati sulla stessa lunghezza d'onda, nonostante il loro battibeccare, sapevano di trovare nell'altro un punto di riferimento, ed era questo il motivo che aveva spinto Gerte a parlare. Inspirò sonoramente la fata prima di distogliere lo sguardo per un istante che sembrò durare un'eternità. « Intendo dire che alcuni hanno incominciato ad aggredire le persone, come se fossero sotto l'effetto di droghe, e sappiamo esattamente quale sostanza sia... » Alzò lo sguardo per scoccare una lunga occhiata all'amico, ben sapendo che avrebbe compreso senza dover scendere nei dettagli, tuttavia le sembrava doveroso farlo riguardo ai propri poteri. « Sembrò che il mio corpo andasse a fuoco, guidato da un dolore così profondo che non sapevo come fermarmi, ma soprattutto mi sono trasformata davanti a tutti ed è stata la sensazione peggiore che potessi subire... Fino a quando non svenni per il dolore e non mi portarono in ospedale. Ecco che cosa successe ad Halloween. »
Tristan Macleod
Tristan annuì, annuì e basta. Non c'era altro da aggiungere, gli stessi attimi d'esitazione e voluto silenzio carichi di parole non dette, ma chiari come se avesse urlato, furono più di quanto Tristan s'aspettasse. La donna aveva risposto ai suoi dubbi, ed era quello che voleva e aveva esplicitamente chiesto; s'era confidata con lui e Tristan sapeva di doverne essere grato, e lo era! Non poteva essere più felice della cieca fiducia che la fata riponeva su di lui, ma questo non impediva a Tristan di non provare fastidio: fastidio per quelle ultime parole. Fastidio per quello che le era successo, perché era ingiusto, fastidio perché era stata impotente, perché non le rimaneva che compire il ruolo della succube di se stessa; fastidio per un sacco di cose, fastidio perché non aveva avuto modo di aiutarla. Non era il momento di perdersi in certi tipi di pensieri.       Tristan inspirò, non voleva aggiungere nulla, nulla di tutto quello che gli era passato per la testa, nulla che la fata non avesse detto, perché questo era quello che Gerte voleva dire e bastava. « Non so bene che parole usare ora, non so se esista una qualche combinazione di parole che possa essere più efficace di un'altra, forse sì; ma quel che mi viene da dirti è banale perché mi dispiace, mi dispiace e basta. Spero che nulla di tutto questo possa riaccaderti e che ora, in questo momento, qualsiasi cosa succeda sono accanto a te » e le sorrise. Tutto quello che Tristan, ora, potesse volere per la fata era un po' di pace e divertimento a quella festa.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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len-scrive · 6 years
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Questa serie di storie brevi che non ha fine, nel senso che ogni tanto ne esce qualcuna ancora oggi, trae la sua origine dalla necessità di cambiare alcune scene del telefilm.
Non perché le scene già esistenti non mi piacessero, ovvio, ma perché alcune avevano del potenziale in termini di Hannibal e Will si amano e facciamolo notare un po’ di più, per favore che andava esplorato.
Così ho cominciato a piegare al mio volere alcuni dei momenti in cui durante la visione del telefilm mi ero ritrovata a pensare che sarebbe stato bello se…
E parte di queste storie, siccome brevi, sono state anche tradotte da Ashley tra un capitolo di A Cooperative Patient e l’altro.
Alternatively
Quando scrivo, ormai da anni, accade che scrivo in italiano ma penso in inglese. Nel senso che penso a come suonerebbe ogni frase tradotta in inglese.
Non conosco l’inglese così bene da scrivere, ma so molto della cultura dietro. Quindi se devo usare detti, modi di dire, espressioni particolari, prima mi accerto che di quello italiano ne esista un corrispettivo uguale se non identico in inglese.
Non lo faccio perché penso che ciò che scriverò sarà tradotto, vorrei essere chiara su questo punto. Lo faccio come esercizio mio personale, perché ho trascorso la mia vita a leggere Stephen King tradotto e quando ho cominciato a leggerlo in inglese ho scoperto che chi consideravo un maestro dell’arte dello scrivere è in realtà una divinità.
La traduzione cambia tutto, perciò se si parte con l’idea che qualcosa sarà tradotto e si cerca di facilitare la cosa fin dall’inizio il lavoro sarà mille volte più scorrevole. È qualcosa a cui nessuno che scrive in inglese penserà mai, che sia giusto o meno, perché l’inglese è la lingua conosciuta per eccellenza; in quel caso a nessuno importa il gioco di parole intraducibile o il modo di dire che in italiano non significa nulla.
Però io continuo a pensare alle traduzioni di Harry Potter e mi viene male. A Tom Orvoloson Riddle e a tutte quelle cose che necessariamente devono subire un drastico cambio. E non mi piace così come non mi piace sentir cambiare i nomi di paesi e città. È Venezia, non Venice. Ed è Wales, non Galles.
Comunque tutto ciò per dire che tra l’altro qui si tratta di Hannibal e Will, quindi di due creature che non solo parlano in modo fuori dal comune, ma in modo fuori dal comune in inglese.
Cerco sempre di stare attenta a che le espressioni siano molto poco italiane. Come quelle dialettali o tipiche di certe zone. Mi viene in mente il pirla che io dico costantemente, ma che non ha traduzione, e in bocca ad un personaggio che non è italiano non funziona.
E le frasi su cui rimango per ore a riflettere perché devo tradurle dall’inglese in un italiano che abbia senso non si contano. Ricordo un Buon Appetito in La Seduta è Finita, Will che era inteso come Have your meal ma che in italiano non si poteva tradurre letteralmente perché sarebbe stato ridicolo.  
O tutte le dannate S di Hannibal frutto della meravigliosa pronuncia (e meravigliosa bocca) di Mads e che mi tocca controllare ci siano nelle frasi dall’italiano tradotte in inglese, altrimenti non ha senso. Perché io scrivo i dialoghi in italiano, ma i personaggi stanno parlando in inglese.
Quindi Hannibal può dire tutte parole italiane che non hanno la S, ma se in inglese ce l’hanno Will le sentirà in inglese. Macchinoso, spero abbia senso.
Poi non è che mi riesce sempre; certe volte il botta e risposta è più importante di qualsiasi altra cosa, per dare musicalità ad una frase o per dare un bel ritmo al paragrafo, che anche se l’espressione non risulta in inglese la lascio ugualmente.
Tipo l’italianissimo Che ti ridi? della prima storia della serie; sono quasi certa che non sia la vera traduzione italiana di quella frase di Will. Ma mi serviva così per dare quell’accenno indisponente che non avrebbe avuto se l’avessi tradotta con Perché stai sorridendo?
  Che ti ridi?
What are you smiling at?
Questa è nata in particolare per il divertente gioco che si faceva nel fandom all’epoca sul far dichiarare Hannibal la mattina in cui portava la colazione a Will in motel.
A dire il vero in quel periodo si scrivevano intere fic in proposito, ed io mi cimentavo nei miei edit scemi sui Marriage Problems, addirittura con Hannibal che gli faceva una proposta di matrimonio.
Qui mi sono limitata a fargli solo dichiarare i suoi intenti.
Che poi se Will stesse attento è proprio quello che Hannibal fa nella serie.  
  Adorabile Molesto
Adorably Maddening
Perdonatemi i leitmotiv, ve lo chiedo per favore, ma io Will ubriaco e disinibito non lo lascerò mai andare. Ne ho ancora di fic con lui così, me le sto tenendo perché sono monotematiche, ma non posso farne a meno. Lo amo soprattutto quando fa cose idiote da moccioso e Hannibal non lo ammazza perché Will è adorabile, punto.
  Contatto con la realtà
Anchor to Reality
Quella scena l’ho riscritta quante volte? Forse venticinque. Sì, perché a Hannibal sta sulle palle che Will ha baciato Alana, c’è poco da fare. Si vede dalla sua faccia in quella scena, da come gira indispettito la crema nella scodella, dalle frasi che dice. Solo che nella serie l’hanno dovuto contenere per amore della pace.
Che poi Hannibal si è contenuto così tanto che ha spedito Will da Tobias.
Baci Alana?
Ed io ti indirizzo verso un altro serial killer, così impari.
Sto facendo dell’ironia, chiaramente, non un meta della serie. Passatemela.
  Non mi mancherai
I’m not going to miss you
  Anche qui. Digestivo è la mia morte. Ancora più che Mizumono.
Digestivo è Will che prende il cuore di Hannibal, gli dà una strizzata, lo sbatacchia contro un sasso e poi  lo scartavetra contro una grattugia.
Ed io volevo cambiare questa cosa, volevo che Will avesse la sua giustissima soddisfazione nel pestargli il cuore, ma che poi andasse a riprenderselo perché era quello che voleva fare fin da quando è partito per l’Italia.
Oh, insomma, se non erano quelle le intenzioni di Will doveva essere più chiaro in proposito.
  Reazione immediata
Immediate Reaction
Credo che ucciderò Jack ancora così tante e tante volte nelle mie storie che il povero personaggio finirà per chiedermi che cosa mi ha fatto di male.
Ed io gli risponderò “Me lo chiedi anche?”
No, davvero, per me il primo da cercare una volta emersi dalle acque è lui, non Bedelia.
  Visita inattesa
Altro leitmotiv, Hannibal che si prende cura di cani per far contento Will.
Tra l’altro nasce dalla necessità di rendere Hannibal accomodante e pronto ad assecondare l’amore della sua vita, ma in realtà Hannibal ama da morire gli animali, cosa che emerge da Hannibal Rising, e quindi forse sarebbe più propenso di Will a tenere cani in casa. Non lo fa nella serie perché ha troppe cose a cui badare e lui sa che se ti prendi un cane devi esserci per lui.
Non è che ne prendi sette e poi finisce che ti arrestano e i cani rimangono lì come degli stronzi.
O non è che torni dal tuo marito serial killer e lasci i cani con Molly che chiaramente se ne frega e non solo fa loro mangiare merda, ma poi si mette d’accordo col figlio per non dirti niente, mica che te la prendi.
Molly è riuscita a darmi più fastidio di Francis in quella puntata. E sì che era stato Francis ad avvelenare i cani.
  La seduta è finita, Will
La scena della scala.
Vi dico solo che è in assoluto il primo screenshot che ho visto del telefilm nel 2013 quando ho pensato Aspetta che adesso questo telefilm lo guardo.
E poi ho aspettato sì, tre anni.
Questa storia è altrimenti detta: cos’ho comprato questa scrivania a fare, Will? E perché credi che ti lascio come ultimo appuntamento ogni volta? Rifletti.
  Scomoda Indulgenza
Altro esempio di come è difficile tradurre le tipiche frasi di Hannibal in italiano. E di come mai voglio rifarmi alla vera traduzione italiana, perché è importante per me dare la mia interpretazione; mentre scrivo voglio che emerga come io vedo la serie.
Ecco, qui volevo che fosse Hannibal a pentirsi amaramente di ciò che aveva fatto. Un altro dei momenti salienti che avrei tanto voluto vedere sviluppato in altri modi.
  Contrattempo
Tra un affare urgente da sbrigare e Will in distress a cosa sceglierà di dare attenzione Hannibal? La mia risposta in questa storiella.
Storia altrimenti detta: se al posto di ammazzare qualcuno posso mettere le mani addosso a Will…
  Perdono
Storia che nasce da uno dei primi suggerimenti che mi è stato dato da una lettrice. Amo avere una linea da seguire e stare lì a vedere cosa suggeriscono i personaggi per approfondire l’argomento.
E questa è un’altra delle scene che è bello poter cambiare. Hannibal e Will che si ritrovano dopo mesi, nei sotterranei della Cappella, soli…
  Invito a cena
Anche questo gran bel suggerimento che ha prodotto una storia.
La meravigliosa scena a cui pensa Will dopo Mizumono, la scena mai accaduta in cui lui e Hannibal uccidono Jack. Qui accade.
No, non è che se vedete Jack nelle mie storie è certo che morirà, non succede sempre.
Succede.
Storia altrimenti detta: siediti qui, Jack, qui. Controlla se la lampada ti illumina bene che serve a me e Will per vederti meglio… Will? Ce la fai ad accoltellarlo da lì? Cosa? No, Jack, non ce l’avevo con te, non ti immischiare sempre in cose che non ti riguardano.
  Sapere che ci sei
Quei due erano preoccupati l’uno per l’altro dopo l’attacco di Tobias nello studio di Hannibal.
Quei due si sono guardati ringraziando il cielo che l’altro fosse vivo.
Certo uno dei due aveva anche mandato l’altro a morire, d’accordo, ma si sa che Hannibal con Will fa le cose e poi dopo le pensa.
  Interessante
Altro suggerimento e altra versione di
Hai baciato Alana? Ma sei scemo? Ed io cosa sono qui a fare?
  Il corso degli eventi
Sia questa che quella dopo sono le storie più recenti scritte per questa serie e sono diventata mano a mano più esigente. Se cambio, cambio in grande. Qui ho usato quel mio costante pensiero di sottofondo che ho quando guardo e riguardo la serie.
Che è questo: Will, ma davvero non capisci un cazzo di quello che sta succedendo?
E qui ho cercato di far rispondere a Will: no, no, ho capito, lasciami fare…
  È tutto molto semplice
Il Mason della seconda serie alle prese con Hannibal e Will ma nel contesto del loro ultimo incontro, a tavola, nella terza serie, a fare battute a sfondo sessuale di dubbio gusto.
Offerta di pace
Perché chi non avrebbe voluto piazzare Will al posto di Bedelia in ogni singola scena dell’inizio della terza serie? Io ovviamente avrei fatto scappare Will e Hannibal in Italia senza né se e né ma.
Ma in particolare questa cena avrei voluto vederla con Will a tavola.
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giangig-blog · 8 years
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Tutte le donne sono pazze ( Capitolo 4 Martina)
"Ho imparato che nella vita bisogna saper soffrire prima di diventare ciò che siamo destinati ad essere.
Per pochissime persone la vita è tutta in discesa, in pochissimi hanno il privilegio di nascere felici, vivere felici senza problemi e morire felici senza rimpianti.
Io per esempio da quando sono nato sono stato messo alla prova ogni fottuto giorno e da queste esperienze del cazzo ho capito solamente che per riuscire a fare una cosa devi sbagliare mille volte, alla millesima ti verrà bene.
E ricordati quando pensi che tutto stia filando liscio stai attento, la prossima prova è proprio dietro l'angolo. La vita non ti farà mai e poi mai stare tranquillo.
Sarebbe molto più facile morire, che continuare a lottare per sopravvivere.
Non avere paura della morte, è la vita la vera bastarda..."
MARTINA
Stavo avendo la mia grande occasione, avevo accettato il lavoro di autore di testi per una cazzo di casa discografica a Genova. Mi avrebbero pagato per ogni canzone scritta più i vari diritti d'autore. Sapevo benissimo che la paga faceva cacare e che anzi probabilmente non avrei guadagnato un cazzo, ma era pur sempre un inizio.
Da qualche parte si dovrà pur cominciare.
Inoltre le cose economicamente alla mia famiglia non stavano andando bene, mio padre aveva perso il lavoro e io non davo una mano finanziaramente a casa.
Allora decidemmo di aprire una nostra attività, una paninoteca. Mio padre avrebbe cucinato e io avrei servito e gestito il locale.
Non era male come lavoro, nei tempi morti della giornata potevo concentrarmi sullo scrivere e a volte venivano anche delle belle ragazze in negozio con cui potevo fare il piacione.
E' una delle poche cose che ho eridato da mio padre il saperci fare con le donne.
Per tutto il resto siamo due persone completamente diverse.
Non è colpa mia o colpa sua, ho preso il carattere di mia madre.
Tra l'altro ero incredibilmente stressato in quel periodo. I problemi e le preoccupazioni si susseguivano in turbinii emozionali.
Di solito la sera, dopo la chiusura del negozio, andavo con i miei amici a bere una birra o a sfasciarmi di alcol.
Una di quelle sere mi invitarono ad una festa in un vecchio casolare rurale in montagna, sperduto tra gli ulivi e i cipressi e l'unica strada per raggiungerlo era un viottolo pieno di sassi e polvere. Non so se avete presente le classiche case dei film horror dove una compagine di cinque/sei persone vengono uccise in modi ridicoli. Assomigliava ad una cosa simile.
Ero già stato a feste del genere, l'alcol scorreva a fiumi ed erano presenti persone più o meno conosciute della città.
Era inizio settembre, la sera non faceva freddissimo, ma il maglione era meglio metterlo.
C'era un sacco di gente e ci furono un sacco di presentazioni inutili con persone di cui non ricordo il nome.
Iniziai a bere, era rum. Lo odiai al primo shot, ne feci un altro e poi un altro ancora. Arrivai a sei shot. La testa mi girava già e le persone stavano cominciando a rimanermi tutte simpatiche e io simpatico a loro. Era questa la cosa strana.
Presi un'altro shot, uscii fuori e lo bevvi tutto di un fiato, il freddo era sparito per merito dell'alcol.
Mi appoggiai ad una parete perchè le gambe iniziarono a cedere. Succede sempre quando sono ubriaco la prima parte del corpo di cui perdo il controllo sono le gambe.
Guardai in lontananza alla ricerca di qualche faccia amica, ma l'unica cosa che riuscii a vedere era un gruppetto di quattro ragazze intente a fumare.
Le loro figure erano tutte parzialmente sfuocate, tranne una che attirò la mia attenzione.
Era una ragazza molto magra. Indossava un vestitino largo nero che scopriva delle gambe secche. Non so per quale motivo, ma mi arraparono tantissimo quelle gambe.
Aveva i capelli castani mossi, un bel visetto da brava ragazza, occhi verdi tendenti all'azzurro e un sorriso che mi conquistò subito.
Aveva un po' l'aria snob, ma mi sembrò bellissima.
Non sapevo però se lo era veramente o se era l'alocol a renderla così a i miei occhi.
Quando sono ubriaco sono molto più intraprendente rispetto al me sobrio e le varie denunce per disturbo della quiete pubblica o atti osceni in luogo pubblico lo confermano.
Cercai di raccogliere quel minimo di dignità che mi era rimasto, ripresi possesso delle mie gambe e mi avvicinai a quelle quattro ragazze.
Con mia grande sorpresa in realtà erano tre ragazze e un ragazzo, certamente gay, ma pur sempre un ragazzo anche se indossava una maglia che gli arrivava sotto il ginocchio. La moda moderna non la capirò mai.
Mi fissarono per qualche secondo stranite, non dovevo avere un bel aspetto.
Presi la parola rivolgendomi alla ragazza che aveva attirato la mia attenzione: "Scusa, ma ti devo dire una cosa..." cercai di focalizzarla strizzando gli occhi "...sei bellissima."
La ragazza diventò rossa e sorrise "Grazie..."
"Ti posso offire qualcosa da bere?" dissi singhiozzando, stavo comunque riprendendo lucidità.
Il tizio gay disse qualcosa con voce altezzosa: "E' un open bar, tu non paghi niente...facile offire così..." mi guardò disgustato.
Gli tirai un'occhiataccia, anche se non avevo capito un bel cazzo di quello che aveva detto.
"Si okey andiamo" disse la ragazza con gli occhi verdi tendenti all'azzurro, buttando la sigaretta per terra.
Guardandola da vicino mi accorsi che era davvero magra, ma aveva un bel sorriso.
Rientrammo dentro il casolare e ci dirigemmo verso il bancone.
Da bere lo serviva un mio amico, un mezzo alcolizzato che non distingueva la birra dall'acqua.
Ci chiese: "Cosa vi do ragazzi?".
La ragazza disse: "Uno shot di rum per me". Cazzo ancora il rum no.
"Fanne due" confermai io.
"Come hai detto che ti chiami?" chiesi incuriosito.
"Non l'ho detto...comunque sono Martina" sorrise di nuovo.
Presi i due shot e gliene porsi uno.
"Alla tua Martina!" e bevemmo quel schifo di rum.
Martina fece una faccia schifata e io arrivai ad un passo dal culmine.
"Ne volete un altro ragazzi?" chiese il barista
"Si certo" rispose lei.
Maledicetti entrambi e bevvi l'ennesimo shot.
Ero arrivato al limite, capii che dovevo smettere.
"Andiamo a ballare" le dissi
"Ma non c'è la musica..." rispose Martina mentre la tiravo per un braccio fuori dal casolare.
Uscimmo e lei mi gurdò negli occhi ridacchiando timidamente e dondolando incerta su quelle gambe secche.
"Che c'è?" le chiesi.
"No scusa..."  ridacchiò  "Quando sono ubriaca rido senza motivo, non reggo molto l'alcol".
"A chi lo dici"
"Ti posso fare una domanda?" chiese lei.
"Certo"
"Hai mai visto un elefante?"
Cazzo di domanda era?
"Penso di sì, di sicuro mia zia è grassa come un elefante...ma perchè me lo chiedi?"
"Curiosità" capì che era completamente ubriaca.
"Ti posso fare una domanda io?" le chiesi.
"Dimmi"
"Ti posso baciare?"
In realtà non aspettai la sua risposta. Le andai in contro e la baciai.
Lei sgranò gli occhi e si scansò di lato.
"Ma che fai?" urlò. Un gruppetto di persone che erano vicino a noi si voltò per guardarci.
Feci un cenno con la mano per tranquillizzarli.
"Volevo solo baciarti" ribattei.
La ragazza ci pensò un paio di secondi e poi disse: "Okey!"
Fu direttamente lei ad infilarmi la lingua in bocca.
Pomiciammo per un po', poi mi guardò sorridendo.
"Devo vomitare"
Si sporse vicino ad un albero e vomitò.
"Fai pure cara...vuoi una mano?" dissi dolcemente preoccupato per la sua situazione.
Ma come mi mossi verso di lei, le miei stramaledette gambe decisero di rimanere piantate.
Crollai in avanti andando a sbattere la testa sull'albero.
Un dolore cane.
Martina continuava a vomitare, ignorando il fatto che fossi caduto come un coglione.
Chiusi gli occhi un attimo per riprendermi, invece...black out.
Mi risvegliai nel mio letto, ancora con i vestiti della sera prima addosso, con un malditesta assurdo, gli occhi gonfi e l'urto del vomito che incombeva. Scesi dal letto e corsi in bagno a vomitare.
Fu orrendo, vomitati anche il pranzo di due giorni prima. Mi lavai il viso e la persona che vidi nello specchio non sembravo nemmeno io. Notai che avevo qualcosa ai polsi.
Su quello destro una sorta di garza rossa piena di sangue e su quell'altro un braccialetto dell'ospedale con il mio nome sopra.
Non riusivo a ricordare un cazzo!
Presi il telefono e chiamai la prima persona che mi venne in mente che era presente la sera prima. Il barista che mi aveva dato da bere. Mi rispose al quarto squillo e gli chiesi: "Cosa cazzo è successo?"
Disse che una ragazza era venuta a cercare aiuto perchè avevo sbattuto la testa ed ero svenuto. Dopo avermi soccorso, mi hanno portato all'ospedale e mi hanno fatto una flebo (ecco il perchè della garza e del bracciale). Mi hanno dimesso, riaccompagnato a casa e infilato direttamente nel letto.
Provai a sforzarmi, ma l'ultima cosa che ricordavo era il sorriso di una ragazza che stava vomitando e poi io che sbattevo la testa contro l'albero.
Chiesi il nome della ragazza che avesse chiesto aiuto al barista e lui rispose: "Mmmm...mi sembra Martina..." Si cazzo Martina!
Chiesi anche se avesse il suo numero di telefono, volevo ringraziarla.
Mi disse che poteva recuperarlo.
Dopo un decina di minuti mi arrivò un messaggio con il numero della tizia.
Le scrissi subito: "Ciao Martina, sono lo strano tipo che ieri è andato a sbattere la testa contro l'albero. Ti volevo chiedere scusa per il disturbo e per la figura di merda e ringraziarti per esserti preoccupata per me".
Inviai.
Mi rispose dopo otto minuti.
"Ehi! Come stai? Avevo chiesto tue notizie e mi hanno detto che eri finito in ospedale...ti sei ripreso? Comunque figuati non devi scusarti per niente! ".
Le riscrissi: "Sto come uno che ha una sbornia allucinante e ha preso una botta in testa. Per il resto tutto apposto. Come posso sdebitarmi per averti rovinato la serata".
Rispose dopo due minuti e mezzo
"Anche io sto malissimo e non mi hai rovinato niente te l'ho detto! Comunque se vuoi possiamo vederci per bere qualcosa. Cosomai niente di alcolico (faccina che ride)".
"Assoultamente d'accordo con te! Ci vediamo oggi in centro?".
Fissammo un appuntamento per quel pomeriggio verso le 17:30, il tempo di riprendermi e riavere un aspetto decente.
Arrivai al bar prestabilito alle 17:27, sono una persona precisa. Martina arrivò con 10 minuti di tirardo.
Indossava un prendisole nero,  occhialoni scuri e una borsetta di pelle marrone.
Me la ricordavo si e no. Era molto più magra che nei miei ricordi sfucati, ma gli occhi verdi tendenti all'azzurro e il sorriso erano li stessi. Aveva un atteggiamento snob nel camminare, ma ormai le danze erano cominciate ed era meglio ballare.
Mi guardò stranita, forse anche lei si ricordava qualcosa di meglio e sicuramente non avevo un bel aspetto. Avevo vomitato l'anima e sotto gli occhi avevo delle occhiaie che arrivavano fino al mento. Non che fossi una bellezza mozzafiato di solito, ma non sono sgradevole allo sguardo. Forse dovrei tagliarmi la barba più spesso.
Ci sedemmo ad un tavolino.
"Cosa prendi?" iniziai io la conversazione.
"Un caffè macchiato grazie" andai al bancone e ordinai il caffè e un thè. A me il caffè fa schifo.
Tornai al tavolo con le bevute.
"Allora come è stato il risveglio?" chiese mentre girava lo zucchero nella tazza.
"Come se qualcuno mi avesse tirato una martellata in bocca"
Rise.
"A te com'è andata?"
"Ho vomitato ieri sera, stamattina e prima di venire qui".
Risi io.
"Cosa fai nella vita?" chiese lei per fare un minimo di convenevoli.
"Ho da poco aperto una paninoteca". Non le dissi delle canzoni che scrivevo, non mi fidavo ancora. "Tu che fai?"
"Studio lingue all'università di Firenze".
"Oh figo!" dissi io e ci furono alcuni secondi di silenzio dove entrambi bevemmo le nostre bevande calde. Poi continuammo a parlare.
Scoprì che aveva fatto il liceo classico (mi erano sempre stati sul cazzo quelli che facevano il classico), che aveva un gatto ( mi stanno sul cazzo anche i gatti, ne sono allergico), che guardava un sacco di serie tv, in particolare Game of Thrones (quella serie è tutto il mio mondo) e che le piaceva Bukowski (punto a favore).
Mi accorsi che era una vera e propria snob, ma non troppo. Che viveva la sua vita alla SexandtheCity o alla Gossip Girl, ma a volte si ricordava di essere una nerd patentata. Bevava vino di solito, io birra scura.
Mi chiese: "Parli francese?"
"Certo che no"
"Se oggi non sai il francese non sei nessuno"
Bevemmo.
Viveva nella Castellina, la zona ricca della città, io ero di San Paolo, il quartiere dove spacciano e rubano le biciclette. I genitori erano operai e si facevano il mazzo per mantenere una vita agiata. Anche mio padre era operaio e non mi ha mai fatto mancare niente, ma nella vita esistono due tipi di persone: le fortunate e le sfortunate. La mia famiglia faceva parte degli sfigati.
I suoi amici erano tutti universitari, vestivano con cappotti lunghi di raso e ogni sera andavano a fare un aperitivo in centro. Alcuni dei miei amici erano alcolizzati e non sapevano neanche leggere.
Non riuscivo a decifrare quella ragazza. Non capivo se mi piacesse o meno.
Anche sul suo aspetto fisico avevo opinioni contrastanti. Era completamente l'opposto della tipica donna che piace a me, ma aveva un sorriso particolare.
Le dissi che suonavo e mi disse che le sarebbe piaciuto sentirmi suonare.
La invitai a casa mia. Accettò. Pagò lei il conto del bar e glielo lasciai fare, sono per la parità dei sessi. Ce ne andammo.
Arrivati da me le suonai qualcosa. Sembrò piacerle.
Poi posai la chitarra e mi sedetti accanto a lei sul mio letto.
La baciai, lei si scansò.
Mi chiese: "Possiamo solo scopare?"
"Non chiedo di meglio"
Si sdraiò sopra di me e mi toccò l'uccello.
"Non ce l'hai ancora duro?" domandò sorpresa.
"Non abbiamo neanche iniziato" replicai io.
Che cazzo pretendava.
Continuammo a pomiciare e non riuscivo ad arraparmi. Allora cercai di pensare a qualcosa di eccitante. Pensai a Jennifer Lawrence che slinguazza con Scarlett Johansson. Mi venne subito duro.
"Oh finalmente!" esclamò lei.
Rimasi basito. Ma mi dissi: "prima finisce e meglio è".
Le sollevai il vestito nero e le scansai da una parte le mutande.
La toccai ed era leggermente bagnata. Meglio di niente.
Glielo misi dentro.
Martina cominciò a muoversi sopra di me, ma non riuscivo a sentire niente, era come scopare il vento.
La rigirai ed ero io sopra di lei. Cominciai a pompare, ma lei mi gurdava fisso con quegli occhi verdi tendenti all'azzuro inquietanti.
Lei non godeva, io non godevo.
Dovevo trovare un modo per uscirne. Per mia fortuna ce l'avevo ancora duro. Chiusi gli occhi e pensai a Jennifer Lawrence che la lecca a Scarlett Johansson. Venni subito.
Smontai da lei e mi misi a sedere sul letto.
Peggior scopata di sempre.
Martina si alzò, non ebbe nemmeno bisogno di rivestirsi perchè non si era neanche spogliata. Non si era tolta neanche le mutande.
Disse: "Io vado, ci sentiamo?"
"Certo" come no.
La guardai mentre se ne andava.
Non riuscivo a capire se mi piacesse o meno, non avevo mai scopato così male in vita mia.
E' fondamentale del buon sesso in una realzione? O si può anche stare insieme e divertirsi in altri modi senza scopare?
Ci pensai 30 secondi buoni fermo sul letto.
Si è fondamentale.
Okey, Martina non mi piaceva.
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