#torino è casa mia
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Torino 2023
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RACCOGLIE 95.000 CICCHE DI SIGARETTE E VINCE LA SUA ANSIA
Circa 95mila cicche di sigarette raccolte a Piossasco, una piccola città in provincia di Torino, in quasi due anni. A ripulire le strade è un ragazzo, Marco Accattino, 32 enne piossaschese che ogni giorno svolge spontaneamente un servizio alla cittadinanza a titolo volontario per consegnare ai cittadini vie più pulite. Dietro alla raccolta c’è la storia personale di un giovane che, come tanti altri, si è ritrovato in una situazione difficile.
Cinque anni fa Marco ha iniziato ad avere attacchi di panico che sono peggiorati così tanto da non farlo più uscire di casa. In prenda all’ansia ha iniziato a seguire una terapia e a percorrere nuovamente i vicoli di Piossasco. “Mentre camminavo però – racconta – mi accorgevo che le strade erano piene di sigarette e mascherine e provavo fastidio a vedere la mia città così sporca. Così ho iniziato a raccoglierle e ho scoperto che mi aiutava a diminuire i livelli di ansia. Quindi ho proseguito, supportato anche dalla famiglia e dalla fidanzata”. Marco si è poi comprato il contapersone per conoscere il numero esatto di mozziconi raccolti e rendere palese a tutti quanti piccoli rifiuti ricoprono le vie della città. L’ansia non è sparita, ma Marco adesso la riesce a tenere sotto controllo ed è per questo che invita tutti coloro che non riescono a gestire gli attacchi di panico a concentrarsi su piccole azioni quotidiane ripetitive e semplici. Poi se queste azioni vanno anche a vantaggio di tutta la comunità e possono essere anche di esempio, ancora meglio.
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Fonte: Mezzopieno; foto per gentile concessione di Marco Accattino
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Nel ricordo di Marinella… Una scelta di volontariato
“Mi aggiravo tra la folla, attratta da quella moltitudine vociante, dalle bandiere e dai labari delle nostre città istriane, fiumane e dalmate. Era il 1997, si ricordavano nella piazza principale di Trieste i 50 anni dall’esodo, anche i miei cinquant’anni essendo nata nel 1947. Ma il mio pensiero era fisso su mio padre. Vedi – gli dicevo col cuore gonfio – finalmente parlano di noi. Ma lui era mancato qualche tempo prima senza smettere di sentirsi fuori dal coro, un alieno…”
Fu così che, durante quell’esperienza pubblica, Fioretta Filippaz, nata a Cuberton, esule a Trieste dal 1956, si rese conto di sapere ben poco della propria storia e del destino di tanta gente che come lei era stata costretta all’esodo dall’Istria.
Decise così di fare la volontaria?
“Quel ’97 fu per me uno spartiacque importante, i miei genitori non c’erano più ma le domande che avrei voluto rivolgere a loro, erano veramente tante. Allora presi informazioni e mi ritrovai all’IRCI che allora aveva sede in P.zza Ponterosso, nell’ufficio di Arturo Vigini, con lui c’era anche la figlia Chiara. Mi presentai e dissi che avrei voluto rendermi utile, partecipare dopo tanto silenzio. Non cercavo un lavoro di concetto, mi bastava anche semplicemente imbustare e affrancare gli inviti per le numerose iniziative dell’ente o per spedire la rivista Tempi&Cultura. Così ho cominciato”.
Una “volontaria”, oggi una del gruppo che segue l’attività dell’IRCI in via Torino, accoglie i visitatori delle mostre che si succedono numerose durante l’anno a cura di Piero Delbello e con il supporto del presidente Franco Degrassi, raccontando un esodo per immagini, attraverso i suoi personaggi, a volte famosi, a volte sconosciuti…
“Viene sempre tanta gente, chiede informazioni, racconta la propria storia, queste sale diventano un contenitore di tante vicende mai emerse, di tante storie familiari mai portate alla luce. Molti arrivano con fotografie, locandine, documenti per il museo. Per noi volontari è una responsabilità, ma anche un profondo desiderio di condivisione. Vede, questo documento alle mie spalle nell’ambito della mostra ‘Come ravamo’ è quello della mia famiglia, è lo storico dell’anagrafe dal quale hanno cancellato Marinella…”.
Chi è Marinella? È una delle storie emblematiche dell’esodo, quella di una bambina che non ce l’ha fatta, in quell’inverno polare del ’56. Aveva appena un anno e una polmonite se la portò via, “morta di freddo” sentenziarono i medici dell’ospedale che non furono in grado di salvarla.
“Ero già grandicella e Marinella me la portavo in braccio, le davo il biberon, la cambiavo, me ne occupavo per alleviare il lavoro di mia madre che doveva pensare a tutta la famiglia, al marito e ai cinque figli. I suoi occhi erano per me, con i sorrisi e i primi borbottii, una gioia infinita: non sono mai riuscita a dimenticarla, a farmene una ragione”.
Per quanti anni siete vissuti in quella baracca?
“I miei genitori dodici anni, finché io e mio fratello non siamo riusciti a terminare le scuole nel collegio dove eravamo stati trasferiti per poter avere un’istruzione e migliori condizioni di vita”.
Vita?
“Quando la famiglia vive separata tutto è molto duro. Mio padre a Cuberton era un bravo contadino, da esule poté fare il manovale, la qualifica di profugo non era servita a nulla. Aveva sperato di entrare in fabbrica, ma nessuno ci aiutò. Ricordo che spesso diceva con convinzione, non sembrava neanche un lamento ma una semplice constatazione: ‘noi ne vol, proprio noi ne vol’ e così continuò per anni sentendosi fuori luogo, forse sconfitto. Quando ebbi diciannove anni, ci diedero una casa comunale, una sessantina di metri per la nostra famiglia numerosa, ma era comunque un miglioramento. Andai a lavorare alla Modiano”.
In che veste?
“Alle macchine per la stampa, ci ho lavorato fino alla pensione. All’inizio vista con sospetto, la nostra presenza di esuli a Trieste veniva ancora considerata un peso, ma noi istriani siamo lavoratori, disciplinati, vivaci, con il tempo mi sono conquistata le simpatie delle persone che hanno saputo apprezzare il mio impegno”.
E la famiglia?
“Mi sono sposata a 25 anni, per qualcuno era quasi tardi, per me anche troppo presto, vista la tragedia che avevamo vissuto in famiglia, non mi sentivo pronta”.
Non era solo per Marinella?
“Soprattutto per lei il cui sguardo non ho mai smesso di cercare, ma anche per tutto ciò che avevo visto al campo di Padriciano: la gente si lasciava morire, di disperazione, per mancanza di qualsiasi prospettiva, in quelle baracche dove non si poteva accendere un fuoco per scaldarsi. La mia casa era rimasta a Cuberton. Ci sono tornata per andare al cimitero. L’ho vista da lontano, diroccata, non ho avuto il coraggio di avvicinarmi”.
Nessuna assistenza psicologica in tutti questi anni?
“Nessuna. E ce ne sarebbe stato bisogno”.
Che cosa ha rappresentato il Giorno del ricordo?
“La possibilità di parlare, andando nelle scuole, fornendo testimonianza sui giornali, le televisioni. Gli italiani hanno iniziato a conoscere squarci della nostra vicenda. Ogni anno mi invitano a Cremona, in Umbria, nel Veneto, con le docenti è scattata un’amicizia importante. Dopo che Simone Cristicchi ha raccontato di Marinella nel suo spettacolo Magazzino 18, l’interesse è diventato maggiore, mi chiedono di raccontare. Lo faccio per i miei genitori, per restituire dignità a tanta gente, per rivivere il ricordo di Marinella, doloroso, ma necessario. I ragazzi delle scuole mi hanno omaggiato dei loro lavori di gruppo che custodisco gelosamente. È incredibile con quanta pietas abbiano saputo raccontare le nostre vicende, anche quelle più difficili. Mi fanno tante domande”.
E Padriciano?
“Ho accolto le scolaresche per tanti anni insieme a Romano Manzutto, finché l’associazionismo ha deciso di formare dei giovani perché raccontassero la nostra storia”.
In maniera più asettica?
“Certo hanno avuto modo di studiare, approfondire, possono rispondere a tante domande, non certo a quelle sull’esperienza diretta che rimane di chi l’ha vissuta veramente, ormai non siamo tantissimi, il tempo decide per noi”.
Dal campo di Padriciano molti partirono per gli altri continenti…
“Avevamo considerato anche questa ipotesi, ma cinque figli piccoli a carico erano una condizione che non favoriva il giudizio dell’emigrazione. Mio padre era una persona di grande cuore, certo avrebbe fatto fortuna, ma era convinto che nessuno avesse compreso che non eravamo venuti via se non perché fosse impossibile rimanere. Questa sensazione non lo abbandonava mai e forse gli toglieva la forza di tentare altre strade. Non ne abbiamo mai parlato successivamente. Ma mi accorsi del suo dolore quando giunti al cimitero di Cuberton, al momento di decidere di andare a mangiare qualcosa insieme, mi pregò di riportarlo velocemente oltre confine. La paura non li aveva ancora abbandonati e non l’avrebbe mai fatto fino alla fine”.
Di cosa avevano paura?
“Di restare e di tornare. In Istria tutto era cambiato e quindi non ritrovavano più la loro dimensione, c’era stata la dittatura che aveva spaventato tutti. In Italia avevano dovuto imparare a vivere il quotidiano, in Istria pagavano le tasse e basta, non erano abituati ad andare per uffici, fare domande, ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Quando Marinella morì nessuno venne a manifestare la propria solidarietà, non fecero che cancellare il suo nome dal nostro stato di famiglia”.
Quale spiegazione riesce a darsi oggi?
“Lo dico spesso e l’ho anche scritto: fummo accolti con fastidio e indifferenza, eravamo un corpo estraneo che tentava di inserirsi in un tessuto sociale che non voleva intrusioni”. Dire che la storia si ripete è anche troppo ovvio.
Intervista di Rosanna Turcinovich Giuricin a Fioretta Filippaz per La Voce del Popolo, 5 gennaio 2020
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Nell'estate 1950, nei giorni che precedettero il suo suicidio nella camera dell'albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, avvenuto nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1950, Pavese trascorse le vacanze a Bocca di Magra, vicino a Sarzana, in Liguria, meta estiva di molti intellettuali, dove instaurò una relazione con l'allora diciottenne Romilda Bollati sorella dell'editore Giulio Bollati, appartenente alla nobile famiglia dei Bollati di Saint-Pierre (da qui il soprannome Pierina) conosciuta nelle settimane prima tra i corridoi della casa editrice Einaudi. I due si innamorarono, come testimoniano i manoscritti dello scrittore, e in particolare una lettera d'amore indirizzata alla giovane, ma questo "guizzo" non bastò a tenere accesa la fiamma della "candela" ormai "bruciata dai due lati".
"Cara Pierina, ma tu, per quanto inaridita e quasi cinica, non sei alla fine della candela come me. Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello che ero io a vent’otto anni quando, risoluto di uccidermi per non so che delusione, non lo feci – ero curioso dell’indomani, curioso di me stesso – la vita mi era parsa orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda ma che io ne sono tagliato fuori, per merito tutto mio, e che questa è una futile tragedia, come avere il diabete o il cancro dei fumatori. Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo?
E ricordarti che, per via del lavoro che ho fatto, ho avuto i nervi sempre tesi e la fantasia pronta e decisa, e il gusto delle confidenze altrui. E che sono al mondo da quarantadue anni? Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata tutta da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto. Tutto questo te lo dico non per impietosirti – so che cosa vale la pietà, in questi casi – ma per chiarezza, perché tu non creda che quando avevo il broncio lo facessi per sport o per rendermi interessante. Sono ormai aldilà della politica. L’amore è come la grazia di Dio – l’astuzia non serve. Quanto a me, ti voglio bene, Pierina, ti voglio un falò di bene. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela. Non so se ci vedremo ancora. Io lo vorrei – in fondo non voglio che questo – ma mi chiedo sovente che cosa ti consiglierei se fossi tuo fratello. Purtroppo non lo sono. Amore."
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Da molti anni al 31 dicembre scrivo alcuni pensieri su quanto successo nell'anno che si conclude. Sinceramente il riassunto di questo anno si può racchiudere in poche parole (rabbia, paura, odio, si ho provato anche quello, malattia e dispiaceri). E' stato un periodaccio, dal nipote di Maurizio che pretendeva casa tutta per se e ci ha fatto dispetti a tutto andare fino alla divisione praticamente imposta e forzata della casa di Maurizio, imposta perché abbiamo dovuto concedere alcune parti della casa per non dover litigare, alla sottrazione anche quella forzata del cane Simba di cui ci siamo occupati per un anno, solo perché il nipote si è trasferito in un'altra casa lasciando del tutto questa. Del cane non si sono occupati per un anno intero, solo andando via si sono ricordati che era il cane del padre di lei.. Poi la tremendissima notizia del tumore di Maurizio purtroppo più brutto e grave di quel che si pensava.. Tra le belle cose e i ricordi da serbare nel cuore ci sono i nostri giretti e passeggiate al lago Maggiore o al mare e in montagna. Il più bel ricordo di quest'anno è la "gita" a Torino a trovare il mio amico Valerio (non ti taggo ma spero che leggerai) per comprare da lui il suo calendario e un bellissimo quadretto (al più presto lo appendiamo, promesso!). Per quest'anno non mi auguro granché, solo che il mio amore Maurizio possa stare bene e che possiamo stare assieme ancora tanti e tanti anni, questa è la mia paura, perderlo troppo presto.. Un altro piccolo sogno è comprarmi una macchina fotografica di qualità migliore di quella che ho attualmente ma temo che dovrò cambiare prima il pc portatile..😟e quindi rimarrà l'ennesimo sogno nel cassetto 🤷♀️, tranquilli è cosi da sempre (mannaggia a me che sono povera!) A tutti voi amici auguro un anno sereno e che vi porti tante cose belle e che realizzi tutti i vostri sogni! Un abbraccio! (mio testo scritto su Facebook)
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Sprechen Sie Deutsch?
La mia battaglia con la lingua tedesca cominciò a metà ottobre e durò quasi tutto l'anno accademico. In quanto figura di maggior rilievo degli studi hitleriani in nord America, era da molto tempo che cercavo di nascondere il fatto che non conoscevo il tedesco. Non lo parlavo e non lo leggevo, non lo capivo e non sapevo neanche da che parte cominciare per mettere su carta la frase più elementare. I più scarsi fra i miei colleghi in Hitler lo sapevano un po', altri o lo parlavano bene o sapevano usarlo in maniera ragionevole a fini di conversazione. Nessuno poteva specializzarsi in studi hitleriani, al College-on-the-Hill, senza un minimo di un anno di tedesco. In breve: vivevo ai margini di un territorio di ampia vergogna. Il tedesco. Carnoso, distorto, sputacchione, porporino e crudele. Ma bisognava finalmente affrontarlo.
D. DeLillo, [White noise, 1985], Rumore Bianco, Torino, Einaudi, 2006 [Trad. M. Biondi]
Se il personaggio di DeLillo è quello di un professore universitario che tiene un corso di Studi Hitleriani senza conoscere minimamente il Tedesco, alcune storie di cui sono a conoscenza abbassano, tragicamente, il senso di ironia e sarcasmo del libro perché ci sono, ahimè, vicende simili realmente accadute.
La prima è una cronaca di un amico di famiglia che, appena laureato in Legge, accettò a occhi chiusi l'incarico di insegnante di Tedesco in una scuola di un paesetto quasi sperduto, ringraziando Dio per la fortuna che lo avessero prescelto. Di Tedesco non sapeva assolutamente nulla, mentre se la cavava piuttosto bene con il Francese, lingua che gli risultò poi molto utile durante la lunga carriera diplomatica; raccontava di aver studiato, in quel primo anno, come non mai e di non aver fatto una figura particolarmente brutta.
La seconda storia, più recente, ce l'ha raccontata, durante una ristretta riunione di amici, uno scrittore che vanta ottimi editori nazionali; lui, laureato in Lettere ma con provenienza da un Liceo Scientifico (dove, se va bene, si impara un po' di latino), piuttosto che fare la fame, accettò il suo primo incarico di insegnante a centinaia di chilometri da casa, in un Liceo Classico dove gli fu assegnato il corso di Greco, per lui fino a quel momento una lingua assolutamente ignota.
Infine, io stesso mi sono trovato a insegnare Laboratorio di Misure Elettroniche, senza aver mai avuto all'università la possibilità di metter mano a un banco per i test e agli strumenti di misura.
E sì, è vero che all'inizio si studia come pazzi (io mi ero anche attrezzato in casa un piccolo laboratorio) e ci si creano competenze impensabili ma come poteva permettere un Ministero della Pubblica Istruzione che accadessero fatti simili? Si spiegano molte cose sulla Scuola, anche se di qualche decennio fa, no?
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Comunque mia madre mi sta odiando tantissimo per questa scelta, nonostante fossero mesi che dicevo di volermi trasferire a Roma, nonostante fossero altrettanti mesi in cui dicevo se mi molla vado a Torino, raga, MESI, davvero, gliel’ho sempre detto ripetuto e stra ripetuto eppure lei non lo accetta, si è messa a piangere prima perché mi ha chiesto se ero disponibile il 22 gennaio a tenere il loro cane nevrotico perché ha una visita, l’ho guardata e gli ho detto mamma ma che cazzo ne so cosa faccio da qui ad un mese, e lei si è incazzata, pianti, “NON VOGLIO PARLARTI SARA”, non capisco come alcuni genitori odino l’idea di un figlio altrove anche quando ci vanno d’accordo, anche quando sanno che non è per scappare da loro; ho spiegato come nemmeno ad uno psicologo a mia madre filo e per segno perché sono così e faccio certe scelte e perché sono una persona diversa da signorina di provincia che fa la contabile nell’azienda di bulloni di Glorie 9-5 torna a casa dai suoi è fidanzata da quando ha 15 anni (rigorosamente tradendosi) e il massimo della vita è andare a mangiare fuori e fare aperitivo tutte le sere (mia cugina), lei sa benissimo che quella non è la mia vita eppure entrambi i miei darebbero 10 anni a testa per farmi essere così, per girargli attorno fino alla fine, per restare qua per sempre trovarmi un giovane baldo romagnolo patacca del cazzo, sistemarmi e mettermi l’anima in pace; non accadrà mai neanche avessi il peggior caso di esaurimento nervoso nella storia degli esaurimenti, mi sveno nel bagno mentre fumo una canna e mi ascolto i Botch piuttosto
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una donna è stata denunciata dalla polizia di Torino per mancanza di assistenza famigliare. avrebbe lasciato il figlio di 6 anni da solo a casa per il tempo di recarsi al mercato. la polizia ha trovato il bambino seduto a cavalcioni sulla finestra di casa e la casa in disordine.
io non so se voi siete cresciutɜ in famiglie bene ma vi posso assicurare che questa scena avrebbe potuto essere una fotografia della mia infanzia (e anche quella dellɜ miɜ compagnettɜ di scuola).
io a 6 anni avevo già due fratelli più piccoli a cui badare. i miei non si potevano permettere unɜ babysitter che ci accudisse mentre loro cercavano di incastrare i turni dei loro lavori, i nostri orari di scuola sempre diversi e le varie attività extrascolastiche che iniziano a prendere piede. non abbiamo mai avuto il lusso di avere vicinɜ di casa giovani che potessero accudire me e i miei fratelli per il tempo della spesa, né nonnɜ che potessero farci compagnia e aiutarci con i compiti nel dopo scuola. la casa era un disastro. io ricordo benissimo di essere sempre stata arrampicata in cima ai mobili per da dove potevo osservare tutta la stanza.
ricordo nettamente quando ci siamo potuti permettere una babysitter. io avevo 12 anni. mi sentivo già adulta, avevo fatto da madre ai più piccoli per tutta la mia infanzia e ora un'altra donna voleva venirmi a dire cosa fare e cosa non fare mentre i miei genitori erano assenti. ricordo che mi sgridò perché sedevo sui mobili, e io non capivo dove fosse il problema.
è facile fare le leggi e giudicare quando si vive nel privilegio. è facile accusare famiglie e genitori di cattiva genitorialità. anche i miei genitori sono stati pessimi da questo punto di vista. eppure hanno fatto del loro meglio per campare e farci campare nel migliore dei modi.
il bambino è stato allontanato dalla famiglia. mi chiedo se anche lui sia stranito perché ai suoi occhi non c'era nulla di strano o pericolo nel dondolarsi dalla finestra come ogni giorno cercando di intravedere la mamma che torna dal mercato e quindi poter correre ad aprirle la porta prima che tirasse fuori le chiavi.
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Ma tu dove hai casa adesso esattamente?
Ogni volta che qualcuno mi fa questa domanda non so mai cosa dire. È quell'avverbio – "esattamente" – che mi ammutolisce, e non solo perché io una casa esattamente non ce l'ho, ma anche perché non sono sicura che la casa rientri nel novero delle realtà esatte.
Se per casa si intende il posto in cui arrivano le multe dell'auto, in cui faccio le lavatrici e in cui il gatto mi riconosce, allora casa mia è Cabras, è Torino, è Roma. Se invece per casa si intende quell'approdo da dove anche chi parte per mille destinazioni ha la tendenza segreta a ritornare, allora l'esattezza va del tutto a farsi benedire e subentra la molteplicità, la sovrapposizione, l'abbraccio tentacolare di mille familiarità.
Perché casa mia è una donna con un rossetto da ragazza che sforna una torta al cioccolato prima di uscire con me, ancora profumata di lievito e vaniglia. È una signora di settant'anni che scova in un armadio un caftano mai messo e se lo infila, perché crede che di feste nella vita gliene spettino ancora. È un gruppo di whatsapp dal titolo surreale che mi regala leggerezza proprio quando il mondo fa di tutto per portarmi a fondo.
Casa mia è un treno che si ferma a Oristano e la donna che scende col cappello rosso lo fa per me. È un amico timido che mi manda sms preziosi, perché un “ti voglio bene” così vero si può confessare solo se non lo sente nemmeno chi lo dice. È una coppia di amici in moto che viaggia verso il mare di notte per fare un bagno con te, nudi come trent'anni fa, lasciando a casa figlie, nipoti e cane.
Casa mia è un fratello capace di prendere in mano il posto che si è divorato la sua adolescenza e trasformarlo nel giardino in cui far fiorire le piante grasse, la sua maturità e i sogni dei suoi figli. È una bambina bionda che mi si addormenta addosso perché non conosce altri modi di dirmi che per lei io sono un luogo sicuro. È la chiave di un appartamento dove un gatto grigio può decidere che, in assenza dei padroni, nel letto gli vado bene pure io.
Casa mia è un amico che ride e canta gli U2 a squarciagola al mio fianco mentre corriamo brilli per le strade della Marmilla. È una donna che sa insegnare alla sua bimba che crescere significa anche accettare di essere misurate da chi ti ama. E' una scritta temeraria col gessetto lasciata di nascosto su una lavagna da una mano che aveva fretta, ma il tempo per quello l'ha trovato.
Soprattutto è l'uomo amato che si sveglia in un'alba di Salisburgo e sa che la sua casa ovunque resto io.
Non c'è niente di esatto in tutto questo ed è meglio così.
Infatti non è utile che mi chiediate dove ho casa.
Io so dire solo in chi.
Michela Murgia
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“Ma tu dove hai casa adesso esattamente?”
Ogni volta che qualcuno mi fa questa domanda non so mai cosa dire. È quell'avverbio – "esattamente" – che mi ammutolisce, e non solo perché io una casa esattamente non ce l'ho, ma anche perché non sono sicura che la casa rientri nel novero delle realtà esatte.
Se per casa si intende il posto in cui arrivano le multe dell'auto, in cui faccio le lavatrici e in cui il gatto mi riconosce, allora casa mia è Cabras, è Torino, è Roma. Se invece per casa si intende quell'approdo da dove anche chi parte per mille destinazioni ha la tendenza segreta a ritornare, allora l'esattezza va del tutto a farsi benedire e subentra la molteplicità, la sovrapposizione, l'abbraccio tentacolare di mille familiarità.
Perché casa mia è una donna con un rossetto da ragazza che sforna una torta al cioccolato prima di uscire con me, ancora profumata di lievito e vaniglia. È una signora di settant'anni che scova in un armadio un caftano mai messo e se lo infila, perché crede che di feste nella vita gliene spettino ancora. È un gruppo di whatsapp dal titolo surreale che mi regala leggerezza proprio quando il mondo fa di tutto per portarmi a fondo.
Casa mia è un treno che si ferma a Oristano e la donna che scende col cappello rosso lo fa per me. È un amico timido che mi manda sms preziosi, perché un “ti voglio bene” così vero si può confessare solo se non lo sente nemmeno chi lo dice. È una coppia di amici in moto che viaggia verso il mare di notte per fare un bagno con te, nudi come trent'anni fa, lasciando a casa figlie, nipoti e cane.
Casa mia è un fratello capace di prendere in mano il posto che si è divorato la sua adolescenza e trasformarlo nel giardino in cui far fiorire le piante grasse, la sua maturità e i sogni dei suoi figli. È una bambina bionda che mi si addormenta addosso perché non conosce altri modi di dirmi che per lei io sono un luogo sicuro. È la chiave di un appartamento dove un gatto grigio può decidere che, in assenza dei padroni, nel letto gli vado bene pure io.
Casa mia è un amico che ride e canta gli U2 a squarciagola al mio fianco mentre corriamo brilli per le strade della Marmilla. È una donna che sa insegnare alla sua bimba che crescere significa anche accettare di essere misurate da chi ti ama. E' una scritta temeraria col gessetto lasciata di nascosto su una lavagna da una mano che aveva fretta, ma il tempo per quello l'ha trovato.
Soprattutto è l'uomo amato che si sveglia in un'alba di Salisburgo e sa che la sua casa ovunque resto io.
Non c'è niente di esatto in tutto questo ed è meglio così.
Infatti non è utile che mi chiediate dove ho casa.
Io so dire solo in chi.
Michela Murgia
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Torino. 2022
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Punti di vista.
Stamane mentre prendevo il caffè, in realtà una mezz'ora fa :D, sono passati dei tizi con un camioncino e dal megafono dicevano "Raccolta ferro vecchio, qualsiasi cosa di ferro la prendiamo", giorni fa più o meno la stessa cosa ma non l'ho visto è passato l'arrotino, ho sentito un megafono che annunciava "Arrotino, ammola fobbici e cutedda" (traduco, arrotino affila forbici e coltelli), penso che era dalla fine degli anni 70 che non sentivo tale annuncio, quando vivevamo al borgo e i tempi erano estremamente diversi. Lavori che tornano in auge in un periodo di crisi, come un caro amico che vive a Torino ed è diventato calzolaio, si torna all'arte di arrangiarsi visti tempi.
Ieri ho passato una giornata fuori, prima ad aiutare mio zio che aveva problemi ad inviare alcuni documenti urgenti via whatsapp e via mail (ha 86 anni ed è tanto che è tecnologico), pranzo da loro e poi inizio a camminare, incontro un amico e passo parte del pomeriggio con lui, poi ricevo un messaggio di un'amica che mi invita ad unirmi a lei e il fidanzato per vedere una jam session, non torno neanche a casa, mangio un arancino ed una cipollina e li raggiungo. Poi visto che anche loro erano a piedi, vado a prendere il bus che teoricamente doveva partire alle 23:06, è arrivato dopo un'ora ed è partito a mezzanotte e mezza, normale amministrazione in una città poco puntuale come questa, oppure forse sono troppo abituato agli orari precisi che ci sono negli altri paesi (Estonia e Londra), alla fine sono tornato a casa comunque anche se ero quasi partito per farmi questa lunga camminata tutta in salita verso casa, poco male.
Stamane sono stato svegliato da un sogno orribile, già, le paure nonostante la giornata passata in relax mentale e compagnia non vanno via in una giornata, ma ci sto lavorando su e penso di aver trovato la strada giusta, almeno credo. Oggi? Non so, c'è una bellissima giornata di sole, magari faccio un giro zona mare che mi rilassa il suono delle onde.
Un amico argentino, che vive qua a Catania, un cantante molto bravo tecnicamente e con una bella voce, peccato si sia trasferito qua, posta un video di Geolier o come si scrive, il rapper napoletano, che canta senza base, o almeno dal video si vede che ha i celentanini (gli auricolari da palco, come li denominava Fiorello anni fa), ma il risultato è afono e dimostra scarsa tecnica e una voce poco intonata, copio e incollo il mio commento "La mediocrità c'è sempre stata in ogni campo artistico e in ogni periodo storico, la differenza forse che ora è accettata perché così la massa si può avvicinare a quello che gli artisti fanno, mentre una volta per noi gli artisti erano inarrivabili." Beh ci sarebbe tanto da dire sia sul video che sul mio commento, lo so, ma sto fortemente pensando di aprire il famoso blog dove parlo solo di musica, in ogni caso penso che ci siano così tante distorsioni sul mondo dell'arte in generale in questo periodo storico e tanti che si innalzano a sapientoni o esperti del settore che è anche difficile intavolare un dialogo aperto senza poi finire in un litigio, cosa che trovo molto infantile soprattutto quando si parla d'arte che è soggettiva, come per esempio la jam session jazz di ieri, si bravi per carità, ma dopo 3 brani basta, l'interesse si perde se non c'è innovazione anche nella performance che diventa un'auto celebrazione di scale e assoli poco improvvisati triti e ritriti, almeno per me. Fino ad ora e per quel poco che ho sentito, dal vivo, il migliore resta Palumbo, il tizio un pò dadaista che ho postato un pò di tempo fa e che mi è veramente piaciuto in toto dai brani alla performance in se, nonostante la scarsa preparazione tecnica che cade in secondo piano quando si hanno degli argomenti migliori di fare vedere quanto si è bravi a fare le scale.
La giornata è lunga e troppo bella per chiudersi in casa, quindi faccio la mia routine per il fisico ed esco, buona giornata.
youtube
P.S. Si lo so, devo aprire il blog musicale.
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È stato un sabato intenso, chiacchierato piacevolmente con una personcina squisita che ho conosciuto all'evento a cui avevo partecipato a Torino, ci troviamo in sintonia e chissà che nasca una bella amicizia, mi ha portato la collanina che attendevo e una volta arrivata a casa ed indossata, l'ho sentita subito mia. È perfetta.
Giorni diversi, scambio di parole tra menti estranee, che quasi mi han sorpreso, in maniera positiva ed è piacevole questa sensazione.
Stasera per cena ho mangiato la super torta salata cucinata da me medesima, soddisfatta e direi anche abbastanza piena, fuori diluvia, avrei voluto gustare del buon vino rosso alla festa di stasera inerente proprio al rosso di maggio ma questo tempo non ha voluto collaborare. Quindi eccomi già a casa, leggermente stanca ma assai serena.
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Per l'ultima volta ho attraversato l'ingresso dell'ospedale di Torino e mi sono diretto verso casa: il mio tempo qua è giunto alla fine. Mentre camminavo lentamente attraverso il centro della città sabauda, mi sono soffermato in più momenti a coglierne i dettagli; ho posato lo sguardo sui soffitti dei portici, su come essi cambino in base alla zona, sui merletti dei palazzi, sulla larghezza delle vie pedonali e sui fili del tram che mi sono sempre apparsi come enormi ragnatele intessute sulla superficie delle nuvole. E mi è sembrato di star passeggiando in un posto nuovo e sconosciuto, ancora pieno di segreti e sottili, meravigliosi misteri.
Nella vita mi è successo spessissimo, purtroppo, che mi rendessi conto della preziosità di un'esperienza solamente quando essa stessa era ormai trapassata e già archiviata in un lontano cassetto della memoria. Tuttavia negli ultimi tre mesi non è stato così, e ho assimilato con feroce avidità tutto quello che potevo e ho fatto mia, malgrado le solite pare psicologiche, ogni vivace emozione che mi capitava a tiro. E ora, riesco a pensare esclusivamente a quanto sia bella un'esistenza che in qualche modo, improvvisamente, riesce a splendere e ad arginare le scie dei periodi oscuri.
Torino è stata la mia casa. E questo squarcio temporale è stato il mio squarcio temporale. Per cui addio mio amato pezzo di cuore, anche se sarai lontano ti terrò sempre con me.
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l’unica cosa di cui sento sempre la mancanza di casa casa è il mio letto
mamma mia raga questo materasso è favoloso mi sembra di stare su una nuvola
e il cuscino? wow io questo me lo porto a Torino
nella mia futura casa *pretendo* un materasso simile
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Condivido questo post di Marco Frigerio.
Da più di dieci anni è attivo un CERCHIO DI UOMINI presso il nostro centro fondato da me e ora condotto da alcuni anni dal nostro Claudio Agosti .
Sono estremamente felice che si spendano queste parole e che la necessità di " fare cerchio" tra pari sia sempre più sentita e testimoniata.
Grazie Silvia Gadda per avermelo segnalato.
"Ho visto ieri sera su Rai 3 “Nel cerchio degli uomini”, documentario di Paola Sangiovanni. Avevo prenotato la televisione, puntato la sveglia, preannunciato la visione in casa; tanta aspettativa non è andata delusa. Se doveste trovarlo su Rai Play ( https://www.raiplay.it/dirette/rai3/Nel-cerchio-degli-uomini-9f284ffc-9816-410a-8735-f9e2ef44a633.html ) non perdetelo.
Cosa sarà mai, vi chiederete. E in fondo me lo chiedo anche io: cosa c’è di strano e straordinario in un gruppo di maschi che si mettono in cerchio e parlano di sé, dei propri trascorsi nelle relazioni, matrimoni, incontri con le donne della propria vita, della violenza agita o subita? Eppure straordinario lo è.
Forse perché c’è un gesto, non visibile e totalmente inusuale: prima di sedersi nel cerchio c’è uno svestirsi dalla corazza e deporre le armi che è totalmente inedito nei rapporti tra maschi. Non esagero. Isabella, che lo stava vedendo con me – e quanto è insolita una visione del genere perché lei mi abbia chiesto “ti dispiace se lo vedo anche io”? – a un certo punto ha detto “pensa, quanta sensibilità”.
Io sono convinto che quella sensibilità, che di solito associamo al genere femminile, ci sia in tutti i maschi: nascosta sotto un monolite di pietra costruito nei millenni dal patriarcato, e nei decenni dall’educazione alla quale i maschi sono sottoposti. E’ curioso come, durante un incontro filmato nel documentario con un gruppo di studenti e studentesse, tre gruppi – uno solo maschile, uno misto e uno femminile – chiamati a elencare cinque caratteristiche che si associano e rendono l’uomo e la donna conformi a quelle che sono le aspettative della società, abbiano dato sostanzialmente le stesse risposte: su tutte forza e dominanza per i maschi, sensibilità e capacità di accudire per le donne.
E’ ovvio ed evidente il valore aggiunto alla società che potrebbe venire da uomini, magari, perché no, forti, ma anche sensibili e capaci di cura. Ma semplicemente l’eventualità non viene presa in considerazione, in un binarismo forzato in cui al valore oggettivo dell’essere forti E sensibili, capaci di leadership E di cura, si preferisce un apparire sterile e previsto dal copione dei ruoli: forte se sei uomo, sensibile se sei donna, uomo che comanda, donna che cura. Caratteristiche in sé neutre, creano divisione se poste in una tabella rigidamente binaria: non è l’oggetto, ma la riga che divide maschile da femminile che rende quelle caratteristiche potenzialmente un fattore di accettazione sociale o di discriminazione.
Ho segnato un sacco di spunti su alcuni post it. Spunti che sarebbero da discutere in un cerchio degli uomini. Ho partecipato più volte a incontri così, non in modo continuativo (bravi a Torino a continuare per anni, in questo Maschile Plurale ha una costanza ammirevole) al di là della mia volontà. Ogni volta è un momento bellissimo di confronto integralmente e totalmente umano, senza sovrastrutture né prevaricazioni, o censure. Un momento, anche in un singolo incontro, che rende palese che un altro tipo di maschile è possibile. Mi ha fatto sorridere vedere affrontati alcuni temi (la pornografia a esempio) già incontrati, e dei quali si è parlato in modo diretto, pulito, etico direi. Tra uomini sensibili. Non violenti, con una non violenza che non è riferita solo alle donne, ma in generale a tutti i rapporti e le relazioni, principalmente a quelle tra maschi.
Ecco, mi è piaciuta l’immagine della relazione tra maschi (negli spogliatoi, sul lavoro, nella comunità, nella quotidianità) sempre fatta a cono. Un cono che nel cerchio degli uomini si appiattisce per diventare cerchio, senza che nessuno provi a prendere un lembo di quella rete che si crea tra i partecipanti e a portarlo in alto, a creare uno squilibrio, qualcuno più in alto a dominare – virilmente – gli altri. Bisogna essere capaci di ascoltarsi e condividersi, e non è semplice. E anche di lasciare che chi vuole tendere la rete per avere una posizione di prestigio se ne vada per conto suo: mollare gli ormeggi della base per lasciare uno straccio vuoto di sé a chi non conosce altra logica che l’affermazione del privilegio. Qualcuno diceva nel documentario che il cerchio degli uomini come strumento di contrasto alla violenza rischia di dimenticare la critica al patriarcato come necessità fondamentale; personalmente, a pelle, mi sembra che il cerchio degli uomini sia in sé una pratica anti patriarcale per come costruisce relazioni.
Mi rendo conto che sto andando in ordine sparso. Forse riuscirò ad essere più puntuale e coerente quando lo rivedrò. Mi porto un po’ di delusione (diciassette sul palco a Torino, una dozzina negli incontri che ho fatto a Milano pre-covid, sei o sette negli incontri bergamaschi) ogni volta che vedo quanti pochi maschi hanno la possibilità di vivere un’esperienza così liberatoria e portatrice di felicità. E mi porto anche, chissà, la voglia di diventare counselor e lavorarci un po’, in futuro, su questo magnifico strumento di trasformazione maschile."
Marco Frigerio
➡️ se volete saperne di piu della nostra iniziativa ecco il link:
https://centrodivenire.net/attivita/percorsi-di-sviluppo-personale/cerchi-degli-uomini/
Gloria Volpato
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