#la pioggia concilia
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È stato un sabato intenso, chiacchierato piacevolmente con una personcina squisita che ho conosciuto all'evento a cui avevo partecipato a Torino, ci troviamo in sintonia e chissà che nasca una bella amicizia, mi ha portato la collanina che attendevo e una volta arrivata a casa ed indossata, l'ho sentita subito mia. È perfetta.
Giorni diversi, scambio di parole tra menti estranee, che quasi mi han sorpreso, in maniera positiva ed è piacevole questa sensazione.
Stasera per cena ho mangiato la super torta salata cucinata da me medesima, soddisfatta e direi anche abbastanza piena, fuori diluvia, avrei voluto gustare del buon vino rosso alla festa di stasera inerente proprio al rosso di maggio ma questo tempo non ha voluto collaborare. Quindi eccomi già a casa, leggermente stanca ma assai serena.
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Giovepluvio, Manitù, o chi per lui, ha deciso di manifestarsi in tutta la sua potenza aprendo le cataratte del cielo, è la perturbazione che spazzerà via l'estate, ho già tirato fuori il plaid e l'erbapipa. È un tempo che concilia l'introspezione e la traduzione del Canto di Natale, che avevo giusto lasciato al momento della visita di Scrooge al suo impiegato Bob Cratchit e al piccolo Tiny Tim, il figlioletto storpio ma felice. La mia artrosi pronostica pioggia abbondante nei prossimi giorni, ma forse non è artrosi, forse ho sbirciato un po' le previsioni del tempo. Era meglio quando vaticinavamo il futuro dal volo degli uccelli, pathei mathos, in absentia praesentia, la troppa conoscenza è un cruccio che dobbiamo rimparare a dimenticare.
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...'sta cosa che la pioggia, la notte, concilia il sonno, mi sa che non funziona per me: ha piovuto tutta la notte ed io ho dormito pochissimo, sono fradicio ed infreddolito...non so se ci riproverò, ma la prossima volta almeno un ombrello me lo porto, qui in giardino...
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Che piacere sentire, disteso nel letto, il vento che infuria
e tenere la propria donna tra le braccia,
oppure, quando l'Austro invernale rovescia freddi scrosci,
cercare tranquillamente il sonno che la pioggia concilia.
Corpus Tibullianum
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Boh raga a me di solito la pioggia concilia lo studio ma oggi mi ha solo trasmesso un sacco di malinconia
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Pensieri di pioggia
Dei giorni di pioggia mi piace più o meno tutto. Amo il ticchettio ostinato di migliaia di goccioline e gocciolone sui tetti, sulle lamiere delle auto, sulla strada. Amo guardare il mondo riflesso sull'asfalto, le luci che rimbalzano e vengono rispedite frammentate verso l'alto. Adoro il ritmo rallentato che la pioggia impone, sconsigliando sport all'aperto e costringendo alla quiete domestica. Certo, beccarla in vacanza è una bella seccatura ma qui, dove comunque dovrei stare in questo tranquillo fine settimana, posso godermi quel dolce bussare che concilia il sonno, il riposo e invita alla calma, alla serenità. Qualcuno diceva che le famiglie felici si somigliano tutte, per me è così coi giorni di sole: mi sembrano tutti uguali, mentre ho l'impressione che non piova mai allo stesso modo, per quanto mi suoni buffo il solo scriverlo.
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“La poesia esprime il non-esprimibile e facilita l’illuminazione”: dialogo con Aldo Tollini sugli inafferrabili poeti giapponesi
Quando Yasunari Kawabata, il geniale scrittore giapponese, nel 1968, comincia a parlare, lascia sbigottiti gli accademici di Svezia. Per la prima volta un autore nipponico è insignito del Nobel per la letteratura e Kawabata comincia declamando una poesia. “In primavera i fiori/ in estate il cuculo e/ in autunno la luna./ Nel freddo inverno/ la neve chiara e pura”. La poesia s’intitola Il vero aspetto originale delle cose ed “è stata scritta dal maestro zen Dōgen (1200-1253), autore dello Shōbōgenzō, tra i testi imprescindibili del buddismo giapponese, tra i grandi libri del pensiero universale. Kawabata sembra dirci che l’atto letterario è sempre un preludio ad altro, all’abisso, che la letteratura è una pratica che scoscende verso l’aureo dell’uomo, che scrivere è un rischio e una conversione, che non c’è gesto estetico dissociato da una visione etica. Kawabata conclude il discorso, celebre (La bellezza del Giappone e io), tornando alla poesia con cui è partito: “Siamo giunti così al nulla, al ‘vuoto’ della tradizione giapponese ed estremo-orientale. È stato detto che le mie opere sono nichiliste, ma la parola occidentale ‘nichilismo’ non è appropriata. Penso che le basi spirituali siano diverse. La poesia di Dōgen… pur cantando la bellezza delle quattro stagioni è profondamente percorsa dallo spirito zen”. Il nulla occidentale – a meno che non lo si intenda come un epiteto di Dio e al suo volto pericolante – è diverso da quello orientale, l’esito difforme. Yukio Mishima, l’amico di Kawabata, si uccide pubblicamente nel 1970; neanche quattro anni dopo aver ricevuto il Nobel, nella stagione dei fiori, Kawabata piglia la stessa via, si toglie la vita. La raccolta delle Poesie di Dōgen, vorrei dire, appena stampate da Bompiani per la cura di Aldo Tollini (docente di lingua giapponese classica a Ca’ Foscari, ha pubblicato, tra l’altro, una Antologia del buddhismo giapponese; Lo Zen. Storia, scuole, testi; il più recente L’ideale della Via. Samurai, monaci e poeti nel Giappone medioevale, tutti per Einaudi), sono un crisma editoriale, uno dei rari momenti in cui l’editoria partorisce diamanti. Il libro, intendo, va ‘usato’, aperto a caso, lasciandoci falciare e fecondare dai versi fulminei del monaco zen (“Poiché il Dharma sta oltre/ le parole gettate al vento,/ non lascia neppure/ tracce, quando scrivo/ con il pennello”). E portano a un pensiero perfino banale: la poesia è sempre – per effervescenza grammaticale, per natura sintattica – un avvio all’oltre, un flirt con la vertigine, gestazione della follia o dell’illuminazione. Senza questa avventura avventata negli altri sensi, negli altri mondi, è recinzione retorica, didattica dei buoni sentimenti. “Quello che Dōgen ci insegna è imparare a liberarci dal condizionamento egoistico per cui le nostre azioni sono sempre legate al meccanismo del ‘dare per poi avere’, ossia all’azione come vantaggio personale”, scrive Tollini in una introduzione che ci fa entrare con agio nel mondo della poesia zen. Una poesia – si pensi agli esempi di Saigyo, di Basho, di Ryokan – liberatoria, libera dal carcere culturale, dall’egida asfissiante della ‘cultura’. La visione di un airone, come un abbaglio (“Nel campo innevato,/ dove non si vede neppure/ l’erba invernale,/ l’airone bianco/ nasconde il suo aspetto”; titolo esemplare: Prostrarsi con reverenza), basta a bucare l’effimero del giorno, a ridurre la cronaca umana a un bisbiglio. (Davide Brullo)
Dōgen è il geniale pensatore dello Shobogenzo: per lui che significato ha la prassi poetica? In Giappone, in effetti, da Saigyo a Ryokan, non è rara la figura del monaco-poeta; in Dogen, tuttavia, mi pare che il gesto lirico funga da traccia di una esperienza più ampia, di illuminazione, di via altra, aliena al mondo, è così?
La composizione di poesie era un’attività molto comune tra le persone colte dell’epoca di Dōgen, sia per esprimere sentimenti mondani, sia religiosi: aristocratici, letterati, uomini di governo, monaci e gente comune praticava la composizione poetica. Sulla base della sua produzione che comprende una notevole quantità di poesie sia in giapponese, ma ancor più in cinese, viene naturale pensare che Dōgen ebbe una forte attrazione verso la poesia che coltivò fino alla fine della sua vita, con esiti molto rilevanti. Ciò detto, si apre un quesito di notevole importanza e di difficile soluzione: in quanto maestro buddhista, quale fosse il suo rapporto con la poesia, e più in generale con l’attività letteraria. Nel suo pensiero religioso, il tema del distacco, del non coinvolgimento nelle cose del mondo, dell’abbandono delle passioni è sempre presente e costantemente riaffermato: solo lasciando cadere gli attaccamenti si può sperare di giungere al risveglio. In quest’ottica, va da sé che l’attività letteraria comporti coinvolgimento e passione, e che sia un aspetto tipicamente mondano. Come conciliare, quindi Via buddhista e composizione poetica? Se indaghiamo nei suoi testi, sia lo Shōbōgenzō, sia lo Zuimonki, soprattutto, ci si imbatte in chiare espressioni di ripudio che non lasciano adito a dubbi. Per esempio, si vedano i seguenti passi dello Zuimonki: “Durante la vita umana (così breve), quello che dobbiamo imparare e dobbiamo praticare è solo la Via del Buddha: si deve apprendere il Dharma buddhista. Le lettere e la poesia e simili sono del tutto inutili. È quindi logico che questa attività vadano abbandonate” (Yamazaki Masakazu, a cura di, Shōbōgenzō zuimonki, Kōdansha, 2003, p. 84. Capitolo 2-8). Tuttavia, Dōgen scrive poesie… Si pensi ai detti dei maestri zen quando hanno il flash dell’illuminazione, o ai kōan, espressioni verbali che aiutano ad abbandonare il terreno della convenzionalità e spingono a giungere ad un livello più profondo. È proprio un uso della lingua non convenzionale, creativo, personale, che nasce dall’intimo dell’animo, testimone del nostro io più vero, quello che esprime l’assoluto della buddhità, e la poesia, più di altre forme letterarie, possiede queste caratteristiche. La poesia è appunto il terreno più fertile per far crescere la consapevolezza del “cuore sincero”: comporre poesia è un esercizio di manifestazione della propria natura più genuina e come tale può rappresentare una pratica di purificazione interiore e di ricerca della propria “natura originaria” non contaminata e genuina.
Dōgen insiste sempre sulla pratica dell’abbandono. Anche i suoi gesti poetici, quasi tracce di luce sulla neve, devono essere abbandonati. “Io stesso fin da giovane mi sono dedicato alle lettere”, scrive Dogen, e riguardo ai suoi versi insiste: “ma siccome penso che non abbiano alcuna utilità, penso che siano da abbandonare completamente”. Come si concilia il creare con il distruggere, mi viene da dire, il fare con il dimenticare?
Dimenticare se stessi e lasciar cadere il proprio io sono i pilastri su cui si basa l’insegnamento del Maestro. La pratica ha proprio questo per scopo. Se la poesia non è fatta per divertimanto e ha uno scopo elevato, allora può essere un mezzo che conduce al distacco. Per es.
Il suono delle gocce di pioggia di Kyōsei
Mentre l’ascolto si disperde il mio kokoro: se pur esiste in questo mio essere, io non esisto più…
Comporre poesia può essere l’espressione della raggiunta illuminazione. È tradizione che coloro che hanno il flash dell’illuminazione compongano una poesia per esprimere la loro comprensione. Questa poesia normalmente viene poi sottoposta al maestro per l’approvazione.
Insomma, la poesia, se non è mondana, è un veicolo di illuminazione, in quanto esprime il proprio vero volto, o con le parole delo Zen, “il proprio volto originario”. Infine, va ricordato che nello Zen si usano mezzi non convenzionali per andare oltre il dualismo e sfondare la barriera della razionalità che ci imbriglia, e la poesia, se ben usata, è capace di fare questo.
…tuttavia, i versi di Dōgen resistono, addirittura come la quintessenza del pensiero lirico giapponese, non a caso Yasunari Kawabata cita i suoi versi (e quelli di Ryokan, se non erro) dal palco del Nobel, dunque in un contesto pubblico e ‘occidentale’. Che forza hanno in sé questi versi?
Sono versi che, in gran parte, attraverso le descrizioni della natura vogliono giungere a descrivere la realtà così com’è, nella sua semplice perfezione. L’illuminazione non è altro che la corretta visione della realtà, per quello che è, senza il filtro dell’io che crea l’illusione. Quindi, in modo obiettivo, cioè come l’essere che è quello che è, senza attaccamenti né colorazioni egocentriche. Per questo la poesia citata da Kawabata durante il ricevimento del premio Nobel è la quintessenza della sensibilità di Dōgen e dei giapponesi: una descrizione della realtà in modo estremamnete essenziale, ma che porta il lettore (o l’ascoltatore) a percepire l’essenza della realtà spoglia di connotazioni. È una poesia che descrivendo la natura, esprime in modo mirabile la dimensione dell’illuminazione.
In un passo che lei riporta Dōgen insegna: “quando esprimiamo l’esprimibile, stiamo esprimendo il non-esprimibile”. Mi pare un tipico paradosso: d’altronde, aggiungo, lo smottamento linguistico proprio della poesia, che frantuma la grammatica in gioco, è attuato per dire l’unica cosa degna di essere detta, il non-esprimibile. Possiamo dire così?
Solo con mezzi linguistici non convenzionali possiamo esprimere il non-esprimibile. La lingua convenzionale esprime l’esprimibile, ma quella non convenzionale (poesia, kōan, ecc.) può farlo. Essa travalica la convenzionalità e sa giungere in terreni che stanno oltre, dove anche l’illuminazione si trova. La frase che lei cita, “Quindi, quando esprimiamo l’esprimibile, stiamo esprimendo il non-esprimibile. Anche quando siamo consci di starci esprimendo con l’esprimibile, se non ci rendiamo conto che ancora non stiamo esprimendo il non-esprimibile, quello non è ancora l’aspetto dei Buddha e dei patriarchi, non è ancora le loro ossa e il loro midollo” (Dōgen, Dōtoku). Significa che solo l’espressione del non-esprimibile è il vero Buddhismo. Solo giungendo oltre si coglie l’illuminazione. Bisogna fare questo con tutti i mezzi possibili, lingua, gesti, groda, ecc. L’espressione che per Dōgen è dōtoku non a caso ha il doppio significato di 1. Riuscire a esprimersi e 2. Di ottenere l’illuminazione: quindi saper esprimere (il non-esprimibile) significa ottenere l’illuminazione. “Laddove il significato è esaurito e i concetti finiscono, una sola parola riempe tutte le dieci direzioni, senza smuovere neppure un capello. Non è forse questo il vero insegnamento di Buddha e patriarchi?” (Zazen yōjinki).
A suo avviso, nella lirica occidentale ci sono stati degli epigoni, degli esecutori della poesia di Dōgen, che intendano la poesia come estasi, come tentativo di illuminazione, come ‘pratica’?
Certo. La poesia dei mistici cristiani è un ottimo esempio. La ricerca dell’“assoluto” o della “realtà ultima”, qualunque nome gli si voglia dare nelle varie tradizioni religiose (l’illuminazione per lo Zen), usa la poesia come veicolo privilegiato per manifestare il proprio slancio verso dimensioni che stanno oltre. Essa serve anche come “pratica”, cioè un modo per cercare quella dimensione, ossia per cercare di renderla concreta anche dentro di sé. L’azione ha sempre una ricaduta o effetto dentro di sé: anche il poetare mistico. Dōgen dopotutto è a modo suo un mistico. Mentre i mistici cristiani rivolgono il loro slancio mistico verso l’esterno (Dio), Dōgen lo rivolge dentro di sé, alla ricerca del proprio io-nulla (o io-assoluto).
Su quest’ultimo punto vorrei ancora interrogarla. La poesia può essere una ‘pratica’, una via, prima ancora che una estetica, vita prima che letteratura? Non sarebbe salutare la poesia come prassi per tutti, anche come disciplina ‘politica’, per una politica migliore?
Dipende sempre da come si intende la poesia. Ci sono tanti tipi e forme di poesia. Se essa viene praticata per purificare il cuore o per esprimere la propria illuminazione, o come pratica, o come forma mistica, è un conto. Altro è se è praticata per diletto, o per mostrare abilità letteraria. Penso che la poesia abbia davvero tante possibilità, anche quella di esprimere le proprie emozioni in modo genuino e autentico. Questo tipo di poesia dovrebbe essere una pratica estesa e diffusa, utile per tutti, a senconda delle prioprie possibilità. Si ricordi che ogni azione pura, genuina, gratuita e sincera si ripercuote dentro di noi svuiluppando queste qualità.
*In copertina: una fotografia di Felice Beato (1832-1909) dal Giappone ottocentesco
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Scrivo solo di notte perché di giorno quello che ho intorno mi distrae: un messaggio, una voce, una canzone, la gente.
La notte mi sdraio e ho sotto il letto, sopra il tetto legnoso e lo sguardo che riesce a vedere le stelle fuori dalla finestra. Quando piove non riesco a dormire, ma solo perché il ticchettio si amalgama bene con i miei pensieri e li concilia, riuscendo a sbrogliarli molto meglio che il sole.
Perché poi la gente preferisce il bel tempo? Pioggia e neve sono solo proiezioni di quello che ognuno ha dentro: nessuno ha sempre dentro il sole, al massimo compare un po' più spesso, ma alla fine è solo una palla infuocata che interrompe solo l'essere proprio dell'universo, il buio.
Il freddo aiuta, mantiene la gente distante, tutti vogliono solo rientrare nella propria casa, i formalismi dettati solo dalle buone maniere scompaiono e tutti si palesano per come sono.
Inutile mentire. Si sta meglio d'inverno, da soli a fissare le stelle e scrivere sproloqui senza senso, che manco Joyce.
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Ed ecco che pure la pioggia è arrivata ad allietare questo inizio di settimana... Si, lo so: vado decisamente contro corrente ma questo tempo mi concilia l’azione, mi aiuta a fare quello che devo mentre il caldo mi butta addosso una fiacca assurda e finisco per non combinare nulla di concreto...! Ed io ODIO sapere di perdere tempo...! 🍁🍁🍁🍁🍁🍁🍁🍁🍁🍁🍁🍁▪️▪️▪️▪️▪️▪️▪️▪️▪️▪️▪️▪️ • • 💻 #blogger #bloggerlife #bloggerlifestyle #mylife #bloggerfashion #bloggers #lifestyle #lifestyleblogger #vloger #bloggergirl #bloggersgetsocial #vloggers #vlogging #vloglife #vlogger #vloggerlife #blogpost #vlog #blogueira #thehappynow #blogs #bloggerslife #vlogs #blogdemoda #blogueiras #bloggerlove #travelblogger #fitnessblog #follow #bloggerslife (presso Voltri, Liguria, Italy) https://www.instagram.com/p/Bn0ng6Vgpw4/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=bxrw98pa4zu
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In un girone che non spicca certo per tifoserie blasonate e interessanti da vedere, per i tifosi romanisti la trasferta di Londra col Chelsea conserva forse una piccola aurea di fascino rispetto alle altre due (sebbene quella col Qarabag sia stata spettacolare per la sua unicità e la sua particolare ubicazione geografica). Se non altro perché Stamford Bridge, a differenza dell’Emirates Stadium ad esempio, non è un impianto ultra moderno nella sua concezione e la tifoseria blues si porta dietro un’ormai anacronistica fama. Insomma, niente per cui stropicciarsi gli occhi, ma varcare la Manica dà sempre una motivazione in più.
I tagliandi riservati ai sostenitori capitolini sono 2.300 e, come immaginabile, sono stati velocemente esauriti in prevendita.
Non mi soffermerò per scelta su tutti i rumor che hanno preceduto e seguito questa gara. Fantasticando, descrivendo, blaterando e, perché no, anche ricamando su presunti incontri tra romanisti e napoletani. Non lo farò innanzitutto perché da sempre mi è impossibile descrivere un qualcosa che non vedo (e questo dovrebbe essere comune a tutti quei giornaletti da quattro soldi che per tre giorni consecutivi hanno tentato di spammare la notizia per ingrossare del 50 percento il proprio misero traffico).
Ma non lo farò soprattutto perché una delle poche regole del movimento ultras a cui ancora credo – e a cui crederò fermamente per tutta la mia vita – è quella del silenzio e della discrezione. Dispiace sapere che molti, oggigiorno, si siano fatti plagiare dalla tecnologia e utilizzino social, whatsapp e quant’altro senza comprenderne la potenza e, giocoforza, la pericolosità. Lo sviluppo multimediale è un bene prezioso per tutti. Diventa a dir poco mortale quando se ne fa uso improprio.
E qui chiudo.
Manco a dirlo è una giornata fredda e piovosa ad accogliermi una volta arrivato all’aeroporto di Stansted. Per me che porto ancora addosso i 26 gradi di Roma e la relativa maglietta a maniche corte è un colpo duro da digerire. Figuriamoci poi se ciò si concilia con un periodo della mia esistenza in cui ho iniziato a odiare il freddo e la pioggia manco fossero i miei nemici giurati.
Mentre l’autobus della National Express si immerge nel classico caos che preannuncia l’ingesso nella capitale inglese, cerco di pensare a quello che ho sempre invidiato a questa città: la moltitudine di squadre disseminate in ogni quartiere. Ognuna con la sua identità e il suo seguito. Ognuna col suo stadio e i suoi particolarismi. C’è chi viene a Londra per ammirare l’Arsenal, il Tottenham e il Chelsea. C’è stato un periodo della mia vita in cui ogni volta che vi ho messo piede ho velatamente sognato di rivedere giocare il Wimbledon risorto dalle ceneri di quel fetido mostro chiamato Milton Keynes o fare una puntatina allo stadio del Brentford.
Eppure, a differenza di altri miei desideri calcistici, questi non li ho mai assecondati fino in fondo. Chissà, forse manca quella spinta propulsiva che mi fa passare due o tre notti fuori casa, dormendo poco e vivendo alla giornata, per vedere un Dinamo Zagabria-Hajduk Spalato o uno dei tanti derby italiani. Mancano gli ultras da queste parti. E per me è una discriminante fondamentale. Sebbene ammiri la passione che i sudditi di Sua Maestà ripongano attorno alla sfera di cuoio. Del resto “l’hanno inventata loro” e, anche se di vittorie – almeno a livello di Nazionale – ne hanno viste proprio poche da (e pure dubbie, gol di Hurst docet), l’amore paterno che le riservano è innegabile.
Da Paddington a King’s Cross, passando accidentalmente per Piccadilly Circus, sono tante le sciarpe sangue e oro che sin dalle prime ore del pomeriggio sfilano all’impazzata. Se volessimo paragonare le trasferte europee a quelle italiane potremmo inserire Londra nella classica scampagnata a cui un po’ tutti vogliono partecipare. I prezzi più che accessibili per raggiungerla e l’impostazione mentale ormai abituata al viaggio dentro al continente hanno fatto il resto. Oltre a quello che accennavo in precedenza: il mito che resiste (almeno per me inspiegabilmente) attorno al pubblico britannico.
La Tube si inerpica lentamente fino a Fulham Broadway. La District Line è quanto di peggio ti possa capitare a Londra. “Sembra la Linea B!” sussurro tra il serio e il faceto a mio fratello. Effettivamente non ci va molto lontana in quanto a efficienza. Ovviamente è un’eccezione a un sistema di trasporti che fa impallidire quello romano, ma è un’imperfezione che fa piacere sottolineare. Solo per il gusto di smontare, a ogni minima occasione, questo alone di perfezione con cui molti italiani descrivono tutto quello che avviene da queste parti.
Più lo stadio si avvicina e più l’assembramento di steward si fa massiccio. A breve capirò che qua, ancor più di altri stadi visti Oltremanica, sono veramente loro a gestire il tutto. Nel bene e nel male.
Un commento voglio riservarlo all’ubicazione di Stamford Bridge: letteralmente incastonato tra i palazzi. Nel nostro Paese spesso si alzano polveroni e si creano problemi facendo riferimento alla difficoltà nel gestire l’ordine pubblico in stadi simili. Ecco, se vogliamo confrontare i due modelli e smentire le tante dicerie esistenti su quello inglese, potremmo cominciare proprio da qui: penso che finora a nessuno sia venuto in mente di smantellare la casa del Chelsea per un simile motivo. Ma, ancor meno, a nessuno è venuto in mente di vietare una trasferta o limitare l’accesso ai tifosi ospiti per carenze strutturali (in Italia avrebbero partorito anche questo lampo di genio, stiamone certi).
Mentre a destare la mia sorpresa è anche il prezzo applicato dalla società londinese agli ospiti: 35 pounds. Circa 40 Euro. Un passo indietro che rispecchia gli ultimi anni di contestazione serrata portata avanti dai tifosi locali contro il caro biglietti. Negli ultimi mesi, infatti, la Federazione ha imposto un tetto massimo di 40 pounds per i tifosi ospiti. Una scelta saggia, che arriva dopo anni caratterizzati da un progressivo ma inesorabile allontanamento della working class dalle gradinate. Una decisione che è praticamente opposta a quanto succede da noi in questo periodo storico. Basti pensare ai 40/50 Euro richiesti per tanti settori ospiti della Serie A. Senza dimenticare, ovviamente, che quando parliamo di Inghilterra dobbiamo tener conto di salari e costi della vita differenti. 35 Sterline per un biglietto potrebbero esser paragonate ai nostri 20/25 Euro richiesti in settori ospiti come quelli dell’Olimpico di Torino. Anche facendo un rapido rapporto qualità prezzo/qualità stadio. Ognuno tragga le proprie conclusioni.
Prima della partita c’è da registrare qualche problemino tra tifosi giallorossi e polizia in zona Kensington. Ne farà le spese un supporter italiano, arrestato dai bobbies.
Tornando sulla petulanza degli steward, invece, segnalo diversi problemi a far entrare alcune pezze, ritenute da loro “non conformi alle misure consentite”. Mentre appare ormai ai limiti del ridicolo il messaggio presente sui biglietti: “Persistent standing is not allowed” (non è permesso stare in piedi continuamente). Basta guardare la Matthew Harding Stand e buona parte dello Shed End riservato ai londinesi per capire come ormai tale prescrizione non sia rispettata nemmeno più dagli inglesi. Del resto quella del ripristino delle standing area è una delle richieste più discusse da queste parti. Club e istituzioni sembrano essere pienamente favorevoli e l’ufficializzazione di questi spazi sembra sempre più prossima. Intanto lo Shrewsbury Town ha adibito una zona del proprio stadio a stending area e ciò fa ben sperare per le altre tifoserie, che auspicano un veloce effetto domino. Del resto anche la ferrea mentalità britannica conosce la logica. Che in questo caso è sicuramente quella del business (stadi più caldi costituiscono senza dubbio un maggiore spettacolo). Ma sempre meglio ciò che imposizioni assurde e bigotte. Stare in piedi non c’entra un bel nulla con la violenza. Sarebbe quasi superfluo ribadirlo, ma in questo mondo di moralizzatori e tuttologi mai entrati in uno stadio, val bene ricordarlo.
La casa del Chelsea al suo interno risponde alle classiche caratteristiche degli stadi inglesi. Ed è ovviamente molto bella a vedersi proprio perché – come accennavo in precedenza – è un impianto funzionale e perfetto per il calcio ma non scade nel pacchiano e nell’artefatto tipico degli stadi moderni. Ha una sua anima e una sua conformazione. Quanto basta per renderlo simbolo di un’identità. Lo sanno bene a pochi chilometri da qua quanto perdere questo sia deleterio e controproducente. Ovviamente mi riferisco al West Ham e al suo insensato e pessimo passaggio dallo storico Upton Park al dispersivo e inanimato stadio Olimpico.
I tifosi della Roma cominciano a farsi sentire già in fase di riscaldamento mentre quelli di casa sin da subito mostrano tutta la propria pacatezza/apatia. A tal merito evado immediatamente il commento su di loro: difficile giudicare un silenzio di almeno 87 minuti su 90. Veramente un ambiente inesistente, non me ne voglia nessuno. Ogni volta che metto piede in uno stadio inglese ne esco forgiato e rinfrancato pensando alle tifoserie italiane. Spesso ci lamentiamo (giustamente) del calo di passione e spettatori. Ma paradossalmente anche un nostro stadio mezzo vuoto produce più rumore di questi silenziosi templi. È vero che in Inghilterra non è mai esistito un qualcosa di simile al movimento ultras (hooligans è assai differente e a mio avviso non paragonabile al nostro tifo organizzato) e non c’è mai stata una vera e propria entità in grado di concepire un tifo continuativo e non spontaneo. Ma qua parliamo proprio di 40.000 manichini. Se qualcuno ancora osa parlare di “maestri inglesi” ne rimango davvero sconcertato. Se questi sono i maestri preferisco rimanere analfabeta a vita!
Di contro, ovviamente, sono gli ospiti a recitare il ruolo dei leoni. In uno stadio dove anche un sussurrio genera rumore amplificato è facilmente immaginabile come canti, manate e cori a rispondere possano rimbombare veementi. Volendo dare un giudizio più “tecnico” c’è da dire che il settore ospiti parte un pochino a rilento, impiegando un po’ di tempo per sistemarsi e prendere le misure del proprio spazio. Forse, mi permetto di dire, il posizionamento dei gruppi nell’anello superiore avrebbe giovato di più alla coordinazione del tifo (se non altro perché il secondo anello era occupato da più persone). Di certo l’avvio catastrofico della Roma non aiuta molto. I giallorossi dopo 37 minuti sono già sotto per 2-0 grazie alle reti di Hazard e David Luiz. Ci pensa un gran gol di Kolarov prima dell’intervallo a riaccendere le speranze e far mettere definitivamente in moto il settore ospiti.
Nella ripresa è infatti un monologo romanista. In campo e sugli spalti. Una Roma autoritaria riesce addirittura a ribaltare il risultato con una doppietta di Dzeko, provocando due tra le più belle esultanze viste negli ultimi anni. Hazard pareggia nel finale, stabilendo il risultato sul 3-3. Ma ormai il sostegno vocale dei supporter capitolini è lanciatissimo e non ne risente. Si vede che la conformazione dello stadio fomenta e inietta nelle vene la voglia di cantare e urlare. Si percepisce che lo stare attaccati al terreno di gioco può influire ancor più sull’andamento della partita. E non ci si fa sfuggire l’occasione.
A fine gara gli applausi sono tutti per la squadra allenata da Eusebio Di Francesco, che va a raccogliere i complimenti dai propri tifosi ancora impegnati nell’esecuzione di “Don’t take me home”, hit del momento per la Curva Sud.
Tempo di respirare le ultime sensazioni, mentre lo stadio si è completamente svuotato e i giardinieri sistemano meticolosamente le zolle, e anche per me è tempo di lasciare Stamford Bridge.
Mi imbatto in una coda infinita davanti all’entrata dell’Underground. Tanto da optare per un autobus. Ci sono ancora tanti tifosi italiani in giro sebbene la pioggia abbia iniziato a bagnare copiosamente Londra. Devo attendere l’alt di Giove Pluvio per potermi incamminare verso Finchley Road e riprendere un autobus in direzione aeroporto. È notte fonda e per le strade ormai non v’è anima. Posso soltanto frazionare il mio sonno tra pullman e aereo prima di rimettere piede sul suolo patrio. Dove fortunatamente mi accolgono sole e caldo.
Simone Meloni.
Chelsea-Roma, Champions League: la fame di stadio contro l’oblio dei “maestri” In un girone che non spicca certo per tifoserie blasonate e interessanti da vedere, per i tifosi romanisti la trasferta di Londra col Chelsea…
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Esperimenti di scrittura 5/7 IN AUTOSTRADA Il “scrivere”, per quanto si possa pensare (e pretendere battendo i piedi, capricci da scrittore) che si elevi al di sopra dell’umana condizione verso la dimensione iperuranica dell’arte pura distillata ed ideale in accordo con la musica delle sfere, in alcuni casi non si discosta dalla più pratica delle cose. Alla guida, così come non si deve armeggiare con il cellulare oppure mangiare il gelato, non si deve scrivere. Se invece il “scrittore” è seduto dal lato del passeggero – posto che ci sia qualcuno al posto di chi guida e dunque l’automobile sia mobile – possiamo parlare del “scrivere in autostrada”. L’accordo iniziale con chi conduce la vettura è fondamentale: che stia zitto; che possa parlare; oppure che debba alternare silenzi a considerazioni; a seconda che il “scrittore” sia nel novero di quelli che hanno bisogno di totale silenzio, di totale rumore di fondo, oppure di una certa dose di disturbo casuale durante il “scrivere”. Accordo facile da prendere nel caso di conducenti parenti o amici, meno nel caso in cui il “scrittore” sia salito a bordo di un’automobile casuale, magari r-accolto durante l’autostop; ma è dalla metà degli anni ottanta che non vedo più autostoppisti ai caselli, perché? E’ vietato (siamo diventati rispettosi della legge), oppure è pericoloso (con quello che si legge sui giornali), oppure siamo più ricchi (abbiamo tutti una macchina), oppure ancora non viaggiamo più on the road (bye bye beat generation). Seconda cosa: occorre inventare un neologismo per quel suono di viaggio in autostrada, un’orchestra composta da ruote sull’asfalto, motore, cambi di marcia, frizione, finestrino abbassato, freccia a sinistra e poi a destra in caso di sorpasso (e di conducente diligente), in alcuni casi pioggia dunque tergicristalli. Orchestra guidata (fantastico, Marinetti Balla Boccioni Russolo approverebbero) dal conducente. Lo chiamerei viaggìo, con l’accento sulla i. Dunque il “scrittore” che si accinge al “scrivere in autostrada” fa i conti immediatamente con il suono/rumore di viaggìo, che in larga parte è considerato una buona colonna sonora per il “scrivere”, concilia il raccoglimento, scioglie i nodi della mente, una sorta di mantra contemporaneo che tutto sommato rilassa, mi chiedo se non contenga anche un retrogusto amaro, velenoso, di civiltà delle macchine. Se e quando il conducente decide un sorpasso, c’è un momento preciso e abbastanza breve in cui il “scrittore” può gettare uno sguardo dentro l’abitacolo della vettura sorpassata, un’istante di invasione della privacy, chi sa che non possa dargli ispirazione per quello che sta scrivendo. Altra cosa è il sorpasso di autoarticolati oppure mezzi pesanti, assolo rombante e leggera ansia finché non ci si è allontanati. Dipende dalla macchina, ma le vibrazioni e del motore e dell’asfalto rendono la scrittura a mano meno precisa, gli spostamenti laterali della vettura inducono ad attendere un attimo prima di appoggiare di nuovo la penna sul foglio, così come lo scalare delle marce – ma dipende dall’abilità del conducente, che a questo punto dovrebbe aver capito di avere un ruolo di responsabilità nei confronti del “scrittore” – e si spera sempre di non fare esperienza di frenate brusche, lo spavento non si addice al raccoglimento necessario al “scrittore”. Se il “scrittore” interrompe momentaneamente il “scrivere”, per riflettere su un’idea, e guarda fuori dal finestrino, vede le cose vicine passare veloci e le cose lontane invece lentamente, e quelle lontanissime ferme. Scatenatevi pure con le metafore, ma resta il fatto che si tratta di una questione di vettori e di prospettiva che si danno la mano. A latere delle condizioni atmosferiche, il “scrittore” che scrive durante un viaggìo fa esperienza di: caselli autostradali (sicuramente), lavori in corso (quasi sicuramente), autovelox (dipende dalla tratta), gallerie (dipende sempre dalla tratta), autogrill (dipende dalle scelte del conducente), incidenti stradali (si spera di no). Tutti questi incontri possono interrompere fatalmente il “scrivere” oppure dargli nuovo impulso. Un amico mi raccontò di un malato terminale di cancro che si fece trasportare in viaggio sulle autostrade francesi, senza mai uscire ai caselli, visitando gli autogrill come se fossero moderne cattedrali/musei. Forse si trova qualche filmato su Youtube. Ricordo anche di cartelli autostradali con le lampadine che si illuminano e servono a formare frasi di senso compiuto, per avvisare di varie cose gli automobilisti, ed in particolare cito: “Proteggi i tuoi bambini con la cintura di sicurezza” (e la nonna che si arrangi, aggiungo io); “Avvistato animale girovago” (ero stato io, a telefonare a quelli delle autostrade per avvertirli che c’era un cane che trotterellava tranquillo sulla corsia di emergenza, avevo provato a recuperarlo ma era fuggito in direzione opposta a quella di marcia; perché generalizzare con “animale girovago” invece che “cane”? Non si fidavano della mia percezione dei fatti? Pensavano che avessi scambiato per cane un cinghiale? Un procione?) L’ultima considerazione riguarda il “scrivere” e la lunghezza del viaggio. Finché c’è benzina, e finita la benzina finché ci sono soldi per rabboccare il serbatoio, il viaggio e il viaggìo proseguono. Il “scrittore” sta tornando a casa? Sta andando via di casa? Credo che questo faccia qualche differenza nel “scrivere”. Sa dove è diretto? Non sa quanto durerà il viaggio? L’uscita dall’autostrada, l’ultima curva prima dell’arrivo, concedono che – affrettando la scrittura – si possa terminare la pagina in modo coerente? Capita mai che si finisca il “scrivere” prima dell’arrivo, e allora per il resto del viaggio come si può impiegare il tempo? Si può trovare un conducente abbastanza empatico da capire quando basta, è il momento di cessare il viaggìo e quel che è stato è stato che va bene così? E forse tutto si riduce al pensare se il “scrittore” possa restargli amico, nonostante sia il conducente a deciderlo.
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Che sia baciata dal sole o battuta dalla pioggia intermittente degli autunni inglesi, Manchester ha carattere. È indubbiamente una delle città più carismatiche della Gran Bretagna e un centro cosmopolita variegato, e lo si vede sin dall’architettura: Manchester mescola tinte vittoriane e liberty, che si riflettono nei profili dei palazzi e nelle sinuose piazze circolari su cui si affacciano le vie del centro, con ambientazioni post industriali sapientemente riqualificate, e perfino esempi di architettura moderna che saltano agli occhi inaspettate come la Betan Tower, un grattacielo iconico della città.
Manchester, che ha vinto ripetuti premi per l’efficienza del suo aeroporto (ad appena quindici minuti di treno dalla stazione centrale), e vanta collegamenti che la rendono straordinariamente accessibile e agevole, offre ai visitatori attrazioni per tutti i gusti, dai musei ai teatri fino ai luoghi di ritrovo più caratteristici per gli amanti del football, passando in rassegna ristoranti e pub di ogni genere, librerie antichissime, laboratori d’arte e altre innumerevoli scuse per trattenersi un giorno in più del previsto.
Il nostro viaggio nel Regno Unito #OMGB si conclude proprio a Manchester e questi sono i nostri consigli su cosa fare e vedere in città.
Tappa a Old Trafford e un salto da Cafe-football
Per gli amanti del calcio, Old Trafford è certamente un nome ricorrente. Si tratta del prestigioso stadio che ospita le partite “in casa” del Manchester United, una delle squadre più forti e acclamate d’Inghilterra. L’Old Trafford, che risale ai primi del Novecento ed è stato cornice di importanti eventi di profilo mondiale, calcistici e olimpici, seppure si trovi nella periferia del centro urbano, è facilissimo da raggiungere coi mezzi pubblici.
Anche se non si è particolarmente amanti del calcio, una visita a questo stadio è consigliata a tutti, anche solo per vederne le dimensioni e visitare zone solo accessibili a giocatori e addetti ai lavori, come spogliatoi e tunnel di ingresso al campo, aree vip e centri stampa. L’unica zona non accessibile è il terreno di gioco, una parte “sacra” dello stadio, tenuta con cura maniacale per ovvi motivi.
Per immergersi a pieno nell’atmosfera, è imprescindibile una tappa al Cafe Football Manchester, un bizzarro ristorante a tema, in cui ogni elemento riflette lo spirito del gioco: dal menù ai programmi sportivi che scorrono real-time nei 13 schermi al plasma che arredano le pareti.
National Football Museum: il museo sul calcio più grande al mondo
Ebbene sì, il museo sul calcio più grande e importante al mondo è a Manchester. Si tratta di una maestosa struttura di architettura contemporanea che ha visto la luce nel luglio 2012 e oggi ospita una collezione di oltre 140.000 oggetti che spaziano dalle tipiche calzature ai classici palloni, passando per quadri, cartoline e ceramiche, fino ala prestigiosa collezione FIFA. Ma c’è di più: al National Football Museum l’esperienza sportiva prende letteralmente vita attraverso progetti, installazioni e mostre temporanee interattive sorprendentemente realistiche.
Northern Quarter, una piccola Camden Town
È qui che si concentra la vita notturna di Manchester: Northern Quarter è un’area post-industriale che ricorda, nello stile urbanistico e nelle abitudini, le suggestioni di Camden Town, uno dei quartieri più vivaci ed espressivi di Londra. Questa parte della città, amata dagli hipster, è costellata di negozi, ristorantini e laboratori che mescolano arti e mestieri: barber shop dal sapore antico, esposizioni colorate di vinili usati e non, abbigliamento vintage e tante altre piccole meraviglie fra cui rovistare.
In questo quartiere si potranno ammirare anche gli scorci che hanno incantato diversi registi che proprio qui hanno ambientato le loro pellicole, come Alfie (2004) e il blockbuster Capitan America.
Centro di Manchester
Nel centro città si trova una delle biblioteche universitarie più antiche e prestigiose del paese, la John Rylands Library, in cui vale la pena anche solo far finta di sfogliare uno dei quattro milioni di libri e manoscritti, magari in quella bellissima sala di lettura del 1600 che ospita spesso anche bellissime mostre temporanee d’autore. Questa biblioteca fu lo straordinario omaggio che la vedova di John Ryalands volle dedicare alla memoria del marito, celebre imprenditore e filantropo del 1800.
E quando la fame inizia a farsi sentire, non resta altro che percorrere Whitworth Street West fino ad arrivare al “Gorilla” locale famoso per i suoi brunch serviti fino alle 4 del pomeriggio. Menu molto ricco e a prezzi modici. Per il nostro ultimo branch in Inghilterra abbiamo optato per il classico “full english breakfast”: si tratta un piatto unico con salsicce, uova in camicia, fagiolini, bacon, pane, funghi e salse varie. A molti un piatto del genere fa storcere il naso, invece devo dire che è un pasto completo, appetitoso anche se non salutare. Ogni tanto ci può stare, magari accompagnato da un succo d’arancia, caffè o una pinta di birra.
Altra particolarità di questo locale è la musica: spesso e volentieri è presente un deejay che propone musica di vario genere, in base alle giornate e agli orari. Durante il nostro branch due deejay donne, hanno proposto un repertorio di musica anni 70-80, direttamente da giradischi con dischi in vinile. Altro che mp3 o cd, qui siamo ancora allo stato puro della musica pre millenio.
Casatelfield, per concludere in relax
Prima che faccia buio è d’obbligo una passeggiata alla scoperta del quartiere di Casatelfield. Casatelfield è un ex forte romano di cui sopravvivono alcuni tratti del vecchio muro di cinta. Sull’onda della rivoluzione industriale, questa parte di Manchester divenne la sede in cui si concentravano cantieri navali e ferrovie.
Oggi, dove un un tempo c’erano le industrie, sorgono appartamenti, e nei caratteristici canali circostanti, dopo un’attenta opera di bonifica, galleggiano placidi una serie di battelli-abitazioni che tanti abitanti di Manchester hanno scelto per vivere. Questa tappa, infine, si chiude in verde: all’Urban Heritage Park, dove la memoria storica del luogo si concilia con la quiete della natura.
Dalla parte opposta di Castlefield Park si trova il MOSI (Museum of Science and Industry), uno dei luoghi simbolo della città, costruito sugli spazi dove sorgeva l’antica ferrovia che collegava Manchester a Liverpool, una delle prime ferrovie al mondo all’epoca della Rivoluzione Industriale. Proprio qui fu costruito il primo prototipo del moderno computer, qui fu scisso per la prima volta l’atomo, e sempre qui personalità e intellettuali di spicco, fra cui Marx e Engels, frequentarono la Chetam’s Library, la biblioteca più antica di Inghilterra.
Insomma, Manchester è una città tutta da scoprire e il video che segue da un’idea di quello che vi aspetta in questa moderna e vibrante città.
Vedere Manchester per chi ama il calcio, la cultura, il verde: i nostri consigli di viaggio Che sia baciata dal sole o battuta dalla pioggia intermittente degli autunni inglesi, Manchester ha carattere. …
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