#testi autobiografici
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gregor-samsung · 1 year ago
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“ Immaginatevi un vasto cortile, di un duecento passi di lunghezza e centocinquanta circa di larghezza, tutto recinto all'intorno, in forma di esagono irregolare, da un'alta palizzata, cioè da uno steccato di alti pali, profondamente piantati ritti nel suolo, saldamente appoggiati l'uno all'altro coi fianchi, rafforzati da sbarre trasverse e aguzzati in cima: ecco la cinta esterna del reclusorio. In uno dei lati della cinta è incastrato un robusto portone, sempre chiuso, sempre sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle; lo si apriva a richiesta, per mandarci fuori al lavoro. Di là da questo portone c'era un luminoso, libero mondo e vivevano degli uomini come tutti. Ma da questa parte del recinto ci si immaginava quel mondo come una qualche impossibile fiaba. Qui c'era un particolare mondo a sé, che non rassomigliava a nessun altro; qui c'erano delle leggi particolari, a sé, fogge di vestire a sé, usi e costumi a sé, e una casa morta, pur essendo viva, una vita come in nessun altro luogo, e uomini speciali. Ed ecco, è appunto questo speciale cantuccio che io mi accingo a descrivere.
Appena entrate nel recinto, vedete lì dentro alcune costruzioni. Dai due lati del largo cortile interno si stendono due lunghi baraccamenti di legno a un piano. Sono le camerate. Qui vivono i detenuti, distribuiti per categorie. Poi, in fondo al recinto, un'altra baracca consimile: è la cucina, divisa in due corpi; più oltre ancora una costruzione dove, sotto un sol tetto, sono allogate le cantine, i magazzini, le rimesse. Il mezzo del cortile è vuoto e costituisce uno spiazzo piano, abbastanza vasto. Qui si schierano i reclusi, si fanno la verifica e l'appello al mattino, a mezzogiorno e a sera, e talora anche più volte durante il giorno, secondo la diffidenza delle guardie e la loro capacità di contare rapidamente. All'interno, tra le costruzioni e lo steccato, rimane ancora uno spazio abbastanza grande. Qui, dietro le costruzioni, taluni dei reclusi, più insocievoli e di carattere più tetro, amano camminare nelle ore libere dal lavoro, sottratti a tutti gli sguardi, e pensare a loro agio. Incontrandomi con essi durante queste passeggiate, mi piaceva osservare le loro facce arcigne, marchiate, e indovinare a che cosa pensassero. C'era un deportato la cui occupazione preferita, nelle ore libere, era contare i pali. Ce n'erano millecinquecento e per lui erano tutti contati e numerati. Ogni palo rappresentava per lui un giorno; ogni giorno egli conteggiava un palo di più e in tal modo, dal numero dei pali che gli rimanevano da contare, poteva vedere intuitivamente quanti giorni ancora gli restasse da passare nel reclusorio fino al termine dei lavori forzati. Era sinceramente lieto, quando arrivava alla fine di un lato dell'esagono. Gli toccava attendere ancora molti anni; ma nel reclusorio c'era il tempo di imparare la pazienza. Io vidi una volta come si congedò dai compagni un detenuto che aveva trascorso in galera venti anni e finalmente usciva in libertà. C'erano di quelli che ricordavano come egli fosse entrato nel reclusorio la prima volta, giovane, spensierato, senza pensare né al suo delitto, né alla sua punizione. Usciva vecchio canuto, con un viso arcigno e triste. In silenzio fece il giro di tutte le nostre sei camerate. Entrando in ciascuna di esse, pregava dinanzi all'immagine e poi si inchinava ai compagni profondamente, fino a terra, chiedendo che lo si ricordasse senza malanimo. Rammento pure come un giorno, verso sera, un detenuto, prima agiato contadino siberiano, fu chiamato al portone. Sei mesi avanti aveva ricevuto notizia che la sua ex-moglie aveva ripreso marito, e se ne era fortemente rattristato. Ora lei stessa era venuta in vettura al reclusorio, lo aveva fatto chiamare e gli aveva messo in mano un obolo. Essi parlarono un paio di minuti, piansero un poco tutti e due e si salutarono per sempre. Io vidi il suo volto, mentre tornava nella camerata... Sì, in questo luogo si poteva imparare la pazienza. “
Fëdor Dostoevskij, Memorie dalla casa dei morti [Testo completo]
 NOTA:  Questo romanzo, pubblicato negli anni 1861-62 a puntate sulla rivista Vremja, pur non essendo un resoconto è fedelmente autobiografico. Nel 1849 l'autore era stato condannato a morte per motivi politici e, dopo un'orribile messa in scena che tra l'altro peggiorò la sua epilessia, la sentenza di morte fu commutata in condanna ai lavori forzati a tempo indefinito; ottenne la liberazione per buona condotta nel 1854 ma le sue condizioni di salute erano ormai irrimediabilmente compromesse.
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micro961 · 3 months ago
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Talkin’ Chaos - Il nuovo singolo “Do I Care?”
Un grido di rabbia rivolto alle persone che giudicano
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La band Talkin’ Chaos pubblica il suo nuovo singolo “Do I Care?”, disponibile dal 20 settembre 2024 sugli stores digitali e nelle radio in promozione nazionale. Si tratta di un testo interamente in inglese, un grido di rabbia e disgusto verso quelle persone che fanno sentire inferiori di proposito, come se fossero sopra ad un piedistallo. La rabbia della band, poi, si trasforma in indifferenza, che fa rispondere con un semplice “I don’t care”.
Ascolta il brano
https://open.spotify.com/intl-it/artist/2e0aDR6SmZOfp3fhpynq2Qsi=ADlg_WKORkOmPne2c1pbMQ
Storia della band
Talkin’ Chaos è una band alternative-rock di 4 membri della provincia di Vicenza fondata nel 2018. La musica proposta è un connubio tra sonorità punk-rock, grunge e indie, con testi in inglese principalmente autobiografici e dalle note malinconiche. Talkin’ Chaos sono Tommaso Moretto (voce/chitarra), Giacomo Moserle (chitarra), Lorenzo Stella (basso), Jacopo Bidese (batteria). Tra le influenze principali ci sono band storiche come The Cure, Blink-182 e The Smashing Pumpkins, ma anche band della scena italiana come LA SAD e Naska. Nel 2022 pubblicano il loro primo EP “OK, Whatever” mentre, a maggio 2024, iniziano a rilasciare i singoli che faranno parte del loro primo album, in uscita nel 2025, ottenendo un discreto successo sulle piattaforme di streaming musicale. I primi due singoli “Sit in silence” e “Let me sleep” hanno superato 1k ascolti solo nella prima settimana dall’uscita su Spotify, entrando anche in svariate playlist, tra le quali Release Radar. Oltre ai vari live in provincia, durante l’estate del 2024 la band ha suonato al Hard Rock Cafe di Milano e un’altra data è prevista per Settembre.
Instagram: https://www.instagram.com/talkinchaosband
YouTube: https://www.youtube.com/@talkinchaos Facebook: https://www.facebook.com/talkinchaosband
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lucianopagano · 11 months ago
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Annarita Risola (PaiseMiu / «Visti da vicino») intervista Davide Morgagni a proposito dell’anteprima e dell’uscita della tetralogia “Il rifiuto” (Musicaos Editore)
(Il 23 gennaio 2024, sul Canale YouTube di «PaiseMiu» viene pubblicato il video, per la rubrica «Visti da vicino» a cura di Annarita Risola, dell’intervista a Davide Morgagni, sulla nascita e il senso della tetralogia «Il rifiuto», si riporta qui di seguito la trascrizione dell’intervista, disponibile integralmente qui:
youtube
“Visti da Vicino” incontra Davide Morgagni per parlare del suo ultimo romanzo: “Il Rifiuto” (Musicaos Editore - balbec 1 - 2023), presentato lo scorso 22 dicembre ’23, presso la storica sede di Astràgali Teatro a Lecce. In tale circostanza l’autore ha dialogato con Fabio Tolledi (Direttore artistico e regista di Astràgali Teatro), Simone Giorgino (Docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università del Salento, Presidente del Centro Studi Phoné e membro del Centro Studi “Vittorio Bodini”) e Luciano Pagano (Editore). “Il Rifiuto”, punto d’arrivo di un lungo percorso narrativo che Morgagni realizza in dieci anni di scrittura, ironica e libera, accoglie a sé tre dei suoi precedenti romanzi a cui si aggiunge l’inedito “Finché c’è rabbia”. Davide Morgagni nasce a Lecce nel 1977. Si laurea in filosofia. È autore, regista, scrittore e attore di numerose pieces teatrali. Pubblica “I pornomadi” (2014) e “Strade negre” (2017), entrambi con Musicaos Editore. “La nebbia del secolo”(Leucotea Editore-2019), “Finché c’è rabbia” l’inedito che termina il grande affresco narrativo: “Il Rifiuto” (Musicaos Editore -2023). [l'articolo completo e il video qui]
Annarita Risola - Benvenute e benvenuti, oggi siamo in compagnia dello scrittore, attore, regista, Davide Morgagni. Benvenuto.
Davide Morgagni - Buon Natale.
AR - Vorrei chiederle come nasce il suo amore per la scrittura.
DM - Non so se si tratti di amore, forse è più una forma patologica o forse un desiderio clinico, comunque certamente da ragazzino ho sentito questa forma di possessione che purtroppo ancora alla mia età mi perseguita.
AR - Il suo modo di scrivere è stato paragonato a quello di Joyce, Artaud. Come, da chi, e se, trae ispirazione?
DM  - Ma, credo che l’ispirazione nasca non solo da Joyce che è un classico, insomma, di tutto il secolo precedente fino a oggi, con Artaud sicuramente c’è un profondo legame rispetto al processo di scrittura. Stiamo parlando comunque di una letteratura che nonostante anche Joyce sia un classico, appartiene comunque a una letteratura minore, quindi a un concetto di letteratura minore come diceva il grande pittore, “la letteratura appartiene al popolo”, e poi, quale popolo, il popolo, che non sono gli spettatori, quindi diciamo una letteratura minore e se posso citare, per esempio, c’è un bellissimo testo di Deleuze e Guattari che appunto si intitola proprio “Per una letteratura minore”, dove Deleuze come anche in altri testi riprende alcune frasi di Artaud riguardo la scrittura proprio lì dove Artaud dice, io scrivo, cioè bisogna scrivere per gli analfabeti, dove quel per gli analfabeti è un po’ come lo stesso concetto di “per una letteratura minore”, cioè dove quel “per” vale non tanto “a favore” o “dalla parte”, ma più che altro “al posto”, in questo caso “al posto degli analfabeti”, e in francese à la place…
AR - … dando voce…
DM - … ripeto, in francese è proprio à la place, quindi è veramente un movimento attoriale, che è un movimento che appartiene allo scrittore, ma appartiene all’artista tout court secondo me.
AR - Nei suoi romanzi descrive luoghi, persone… reali… autobiografici?
DM - Beh, io penso appunto che, si è già detto che ogni biografia è immaginaria…. diciamo che c’è una sorta di ritornello, una sorta di protagonista, che attraversa tutte le pagine di tutti e quattro i libri, che compongono in questo caso «Il rifiuto», l’ultimo romanzo, dove più che altro è una sorta di esploratore, ecco, che attraversa degli spazi dei campi lisci o degli spazi striati, metropolitani, e quindi ne fa, diciamo, di questo attraversamento, ne appunta, ecco, descrive un po’ questo passaggio da un punto di vista veramente clinico, quindi tutti i personaggii luoghi incontrati e attraversati appartengono, ahi noi, a qualcosa che ormai è scomparso, cioè la realtà.
AR - Lei lo ha appena citato e parliamo de «Il rifiuto», da poco pubblicato con Musicaos Editore, è il suo ultimo romanzo, una tetralogia che comprende i suoi precedenti lavori, I pornomadi, Strade negre, La nebbia del secolo, e l’inedito Finché c’è rabbia. Io partirei proprio dal titolo, perché ha scelto di chiamarlo «Il rifiuto».
DM - Allora questa è un’operazione editoriale… io sono molto grato all’editore Luciano Pagano per aver compreso quando gli ho consegnato l’ultimo romanzo Finché c’è rabbia, il legame tra i quattro libri, il legame tra i quattro libri naturalmente era un’operazione editoriale che io personalmente speravo accadesse, magari dopo la morte, è vero ma è così, nel senso che è un’operazione un po’ inedita, solitamente non accade, però Luciano ha una mente molto molecolare, brillante, intuitiva e quindi abbiamo deciso insieme di fare questa operazione del Rifiuto. Che cos’è «Il rifiuto», per dirla in breve, direi che è una questione che riguarda… è una questione etica, «Il rifiuto» è una questione etica, una questione etica intendo proprio da un punto di vista anche estetico, assolutamente diciamo spinoziana, ecco, nel termine proprio più preciso del termine, cioè è un’operazione dove c’è un’etica che rifiuta la morale, rifiuta un certo tipo di morale, forse tutta la morale, rifiuta tutti i moralisti, che in questo attraversamento di queste pagine sono anche gli scrittori, le scrittrici, le poetesse, i poeti, le attrici, gli attori, gli artisti tout court un po’ tutti. Ecco, un po’ tutti i moralisti… di questo moralismo c’è un rifiuto totale che appartiene appunto a una filosofia del rifiuto un po’ flaianiana direi, perché è molto ironica e comica quindi direi quasi porno. 
AR - Diciamo che il suo è un romanzo non propriamente da leggere in una notte, però, molto molto interessante e benché abbia una scrittura anche molto particolare, approfondisce dei temi anche molto forti legati allo scarto, perché lei non ha voluto sottolineare che il termine rifiuto è anche legato a un suo modo di concepire la vita e di parlare attraverso questi romanzi anche di un certo tipo di società.
DM - Sì, questa è una scrittura un po’ fuori dalle righe, è una scrittura, non so in quanti ne carpiranno diciamo delle tracce teatrali, nel senso che è una scrittura fatta di intensità, di densità, che dà spazio alle voci, allo spazio, alla luce, e c’è proprio un movimento intensivo, ecco, in questo lavorio sulla lingua… qual era la domanda?
AR - Mi dovrebbe parlare degli strati sociali in particolare che lei vuole mettere in luce.
DM - Ripeto, ho parlato prima di etica, e quindi non tanto di antimoralista, assolutamente, ma di non concepire un certo moralismo, che è anche politico, certamente, riguardo appunto gli strati sociali, non so se chiamarli proprio strati sociali, forse dovremmo cominciare a usare parole nuove che ancora non esistono, forse delle analisi meno sociologiche. Finché c’è rabbia per esempio è un romanzo, dove appunto parla di una rabbia che è un po’ in certi momenti vista appunto come la rabbia di Gesù, è come la rabbia di un Gesù stremato che vaga fra gli stremati. Ecco in quel senso è sempre…
AR - … legata anche agli ultimi…
DM - Sì, se vogliamo chiamarli ultimi, sì più che altro è legata, diciamo, a una macchina che non ne vuole sapere di cambiare le sue dinamicità. Al di là diciamo delle propagande politiche, è una macchina che non… uff, che bella domanda…
AR - … mi permetto di dire che ho utilizzato il termine ultimi, semplicemente in riferimento al suo, che ha citato Gesù…
DM - … sì, sì, sì, però più che altro è con Gesù appunto che dice, il regno dei cieli è dentro di noi, è un “al di qui” che comunque viene celebrato e anche sottolineato, cioè, Finché ci rabbia attraversa anche gli ultimi anni che abbiamo vissuto un po’ tutti…
AR - …legato al Covid, nel periodo del Covid…
DM - … legato in questi ultimi anni dove ci sono stati degli stravolgimenti politici, economici, c’è stata anche tanta indifferenza, è venuta a galla un po’ l’idea di futuro che hanno i nostri politici, o i vostri politici.
AR - A proposito di futuro volevo chiederle, quali sono i suoi progetti futuri?
DM - Beh, progetto diciamo più certo, sicuramente la morte.
AR - Benissimo…
DM - … e poi, continuerò…
AR - … prima della morte magari…
DM - … sì, prima della morte c’è qualche idea, sì, diciamo ancora, lavoro sul teatro ormai da parecchio tempo, quasi 15 anni che tento di smettere quotidianamente, e quindi si continuerà a lavorare su quel versante teatrale.
AR -  Lei ha concluso nel 2021 una residenza con la presentazione di un progetto teatrale,«Il mucchio», una residenza svolta con Astràgali Teatro, avete altri progetti insieme da realizzare?
DM - Sì, «Mucchio» è stato un lavoro su Samuel Beckett, che come tutti sanno è un autore che non si può affrontare per i prossimi quarantasei anni per motivi di diritti, se non affrontandolo nell’integrare, quindi non si possono fare delle operazioni teatrali su quel testo, noi comunque ce lo siamo permesso, me lo sono permesso comunque, con Astràgali Teatro ci sono state tantissime collaborazioni in questi ultimi anni, conosco molto bene il direttore Fabio Tolledi, è una delle menti più colte del Teatro del Sud Italia, non a caso ho avuto, anche, appunto questo tipo di rapporto, perché per me il teatro è stato sempre un qualcosa legato alla dimensione filosofica, alla dimensione religiosa, alla dimensione del corpo inteso come appunto un corpo in preghiera, un corpo in trance… quindi negli ultimi anni sì, mi è capitato di scrivere molto per il teatro… forse un progetto
AR - … siamo riusciti 
DM - … non so se possiamo dire…
AR - … diciamolo dai…
DM - … non so, forse meglio, ok, lo diciamo, anzi no, un progetto per esempio, una cosa che mi piacerebbe un giorno magari quando riuscirò ad avere un po’ più di chiarezza, su alcuni punti, avendo sempre scritto per il teatro in questi ultimi anni, mi piacerebbe scrivere magari sul teatro, questa è sicuramente un’idea che ho, sono un accanito studioso, io dico sempre che ho cominciato a studiare dopo l’università, dopo la laurea, quindi ho una ricerca persistente in questi decenni, mi piacerebbe un giorno, diciamo avere il tempo, la possibilità di scrivere un testo sul teatro.
«Il rifiuto» (Musicaos) di Davide Morgagni, sul sito della casa editrice Musicaos Editore
«Il rifiuto» (Musicaos) di Davide Morgagni, su Amazon
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atomheartmagazine · 1 year ago
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Nuovo post su Atom Heart Magazine
Nuovo post pubblicato su https://www.atomheartmagazine.com/balade-nuovo-singolo-alien-kills/
Alien Kills torna con un nuovo singolo che mescola Parigi e Torino
Alien Kills: “BALADE in francese significa passeggiata, il pezzo é nato appunto mentre camminavo per Madrid ed esprime pensieri personali e autobiografici“.
Chi è Alien Kills
Luca Saffiotti in arte Alien Kills è una giovane promessa del rap Torinese classe 1997.
Nel 2019, spinto dall’assenza di opportunità e la voglia di affermarsi si trasferisce a Parigi dove inizia a coltivare la sua musica insieme al producer Wokem Bemo pubblicando nel 2021 il sui primi due singoli “Compro Oro” e “Level Up” che ottengono un ottimo riscontro.
Successivamente si trasferisce a Madrid ed attualmente è a lavoro al suo primo mixtape ufficiale, da cui viene estratto il primo singolo “Balade”, prodotto dal crew Burnt Youth, uscito con un video ufficiale girato a Parigi l’1 dicembre 2023.
BALADE, il nuovo singolo di Alien Kills
“BALADE in francese significa passeggiata, il pezzo é nato appunto mentre camminavo per Madrid ed esprime pensieri personali e autobiografici. Da piccolo scoprii il rap per puro caso e sono subito stato rapito dal sound, dell’energia dei beat e delle voci, senza preoccuparmi molto del significato; crescendo i testi son diventati parte fondamentale come ascoltatore ma successivamente anche come artista, per cui è nata una continua ricerca di nuovi vocaboli e connessioni di immagini sonore con cui esprimere il mio flusso di coscienza“. Afferma Alien Kills.
BALADE – Il video
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Credits
“Balade” è stata scritta da Alien Kills, prodotta da Bluesquare e Burnt Youth. È stata registrata da Davide Dell’Amore e mixata da Matteo Scarchilli presso Elefante Bianco Studio di Roma. Il master è a cura di Burnt Youth. L’artwork della copertina è stato curato da Alixs. Photo by Daniele Pace. Il videoclip è stato diretto da Lorenzo Tricase e montato da Valerio Coccia per Alixs.
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djs-party-edm-italia · 1 year ago
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Bettanini, il 7/11 a Milano la presentazione alla Libreria della Natura
"L'Icona di San Pietroburgo" (Il Canneto, Genova, 2023) di Antonio Bettanini verrà presentato il 7 Novembre, alle ore 18:00 a Milano, alla Libreria della Natura di Via Achille Maiocchi 11. 
L'autore presenterà il suo libro insieme a Livia Pomodoro, Presidente Spazio Teatro No'hma, e Giannino della Frattina, capo cronista de Il Giornale  La lettura dei testi sarà curata dall'attore e regista Marco Carniti. 
L'ICONA DI SAN PIETROBURGO, DI ANTONIO BETTANINI
(IL CANNETO, GENOVA, 2023)
Il protagonista è sempre e ancora lui, Brando Costa; dopo aver attraversato gli anni delle stragi di mafia, poi dell'attacco terroristico al cuore dell'Europa infine dello scollamento tra Russia e Nato: in questo terzo libro, "L'Icona di San Pietroburgo"-Il Canneto, Genova 2023, Antonio Bettanini sceglie infatti come sfondo la crisi georgiana, tra complotti, intrighi e tacite alleanze che attraversano una relazione, quella tra Russia e Italia, destinata a conoscere le prime frizioni, dopo la decisione di dar vita ad un fronte comune antiterrorismo (celebrata nel 2002,  in Italia, a Pratica di Mare con il protocollo Russia-Nato) . Il pretesto del racconto non è così distante dalla realtà, in un ponte ideale che collega episodi autobiografici dell'autore e fantasie dello scrittore che rivela, ma non svela.
E' una storia avvincente, che evoca le atmosfere del mondo letterario russo e che torna a celebrare, in Pietroburgo, la Prospettiva Nevskij, vero e proprio teatro di  un racconto che parla di una Professoressa italiana mandata dal nostro  ministro degli Esteri a dirigere una sezione della Dante Alighieri e improvvisamente sparita, a Mosca , in circostanze misteriose. L'imbarazzo di Russia e Italia, le cui delegazioni si scoprono attraversate da alleanze opache dedite al traffico di icone, è decisamente grande. La "colpa" della Professoressa è di aver scoperto questo "mercato nero" scatenando l'inevitabile reazione. Tocca a Brando, quindi, raggiungere Mosca e da lì Pietroburgo alla ricerca della Professoressa scomparsa e forse rapita. Incidenti e colpi di scena, incontri istituzionali e incontri segreti disegnano la missione di Brando che gioca su diversi piani narrativi.
Il racconto Si snoda su tre piani di narrazione, l'oggi rappresentato da un giovane diplomatico che si rivolge a Brando Costa, al passato della sua esperienza ed al presente della sua importante testimonianza, alla ricerca della pistola fumante che serve al suo ministro per riesumare una vicenda opaca per i Russi - appunto il rapimento della Professoressa che ha scoperto un traffico di icone e opere d'arte- e farsi bello con gli Stati Uniti. 
Siamo infatti, come anticipato,  ai primi segnali della rottura tra Russia e Occidente, dopo la luna di miele della lotta comune al terrorismo. Lo ieri: alimento, cuore e origine della storia di cui  Brando è stato appunto testimone e protagonista: su incarico del suo ministro ha infatti dovuto raggiungere Pietroburgo, via Mosca, alla ricerca della Professoressa. Uno ieri che Brando riporta a galla su richiesta del giovane funzionario . Ricorrendo, però, ad una memoria selettiva perché se il suo intento, almeno in parte, è certamente quello di aiutare il diplomatico di cui è stato collega, per un'altra e grossa parte, di custodire gelosamente tutti gli artifici ed i patti cui è ricorso per tenere in piedi e tessere il telaio della diplomazia e della relazione con la controparte russa. Alla ricerca di un difficile lieto fine. Ed è qui che si nasconde quello che potremmo definire come un importante altro ieri narrativo.
Russia e Italia, ieri e oggi.
  Il contesto mobile de L'icona di San Pietroburgo ricostruisce fedelmente nei tre tempi- passaggi che abbiamo evocato una simpatia e un'attitudine indubbie al dialogo con il mondo russo, che l'Italia ha sempre avuto e che hanno attraversato le alternanze di governo della seconda Repubblica, ma che già affondano le proprie radici nel capitalismo italiano tra le due guerre e naturalmente nel mondo politico della sinistra comunista e democristiana dell'Italia repubblicana. Dobbiamo all'autore la difficile tenuta - quella, sembrerebbe, di un tennista che non molla mai - di un amore e di un rispetto per il mondo russo che va certo oltre la seduzione di Pietroburgo e il suo incanto pur così contestato. Dagli stessi Russi (da ultimo con Stalin).  La guerra in Ucraina e gli orrori dell'oggi sembrano infatti voler rovesciare il cannocchiale della memoria e rendere sempre più sfocati e lontani, relazioni e sentimenti che ora - allo sguardo della cronaca  - sembrano appunto del tutto immotivati quasi a configurare una sorta di "intelligenza con il nemico" in chi si accosti con empatia al mondo culturale russo. Un mondo che ha, in San Pietroburgo, importanti radici italiane proprio a cominciare dai gioielli della sua architettura che prima Pietro e poi Caterina vollero, per aprire,con la nuova città, "una finestra sull'Europa" . Un mondo che ancora recentemente è stato celebrato nelle parole del Santo Padre, Papa Francesco, che, al rientro dal suo viaggio in Mongolia, ha voluto ricordare e ribadire, rispondendo ad una polemica di parte ucraina, che: "La cultura Russa non va cancellata per motivi politici"; la cultura russa è d'una bellezza, di una profondità molto grandi. L'eredità russa è molto buona e molto bella nel campo
delle lettere, della musica, dell'arte". 
La città. Il libro accompagna e affascina il lettore anche nella scelta dei luoghi: narrati e descritti con dovizia di particolari.  Eccone alcuni, a cominciare da Il cavaliere di bronzo , il grande monumento equestre che celebra lo zar Pietro I il Grande (1682-1725). Si trova nella piazza del Senato o dei Decabristi a San Pietroburgo, opera dello scultore francese Étienne Maurice Falconet e anche titolo di un poema dedicato alla statua, scritto da Aleksandr Sergeevič Puškin nel 1833 e pubblicato postumo nel 1837. Considerato tra le opere più significative della letteratura russa, il poema in virtù del suo successo finì per dar nome alla statua e ne fece uno dei simboli della città. 
Il Taleon Imperial Hotel - qui si rifugia Brando alla ricerca della Professoressa - con le sue facciate avvolgenti, neoclassiche, bianche e rosa, un edificio d'angolo, morbido, pastello,all'intersezione tra il fiume Moika e la Prospettiva Nevskij, la grande arteria che attraversa la città, resa celebre da Nikolaj Gogol' nei suoi Racconti di Pietroburgo (1836). Non mancano Palazzo Stroganoff, il museo in cui opera segretamente la Professoressa, che si affaccia  sul ponte Aničkov. Poi soprattutto, Ulica Rossi
la via del teatro Aleksandrìnskij, strada/gioiello dell'architettura neoclassica, realizzata tra il 1828 ed il 1834, in soli 3 mesi e mezzo, grazie alla posa di 18 milioni di mattoni. E' intitolata al grande architetto italiano  Carlo Domenico Rossi.  Ma il racconto ci accompagna poi ancora sulla Prospettiva: a Casa Singer (art nouveau e metallo, uno schiaffo all'architettura tradizionale autorizzato da Nicola II), all'Eliseyev Emporium, gioiello glorioso di art nouveau ed in molti altri luoghi magici.  
Una curiosità.  Brando scopre - sono i suoi contatti russi a metterlo sull'avviso - di assomigliare moltissimo ad un famoso anchor man della tv russa, Vladimir Pozner. Scoperta questa sua somiglianza cercherà di avvalersene per facilitare contatti e relazioni. Fino ad un certo punto però...
bio Autore Tonino (Antonio) Bettanini (Genova, 1946) dopo la Laurea in Filosofia e un inizio di attività come ricercatore in Sociologia del Linguaggio, interrompe nel 1990 la sua carriera universitaria per diventare esperto di comunicazione e relazioni istituzionali, temi ai quali ha dedicato numerose pubblicazioni. Ha attraversato le istituzioni italiane della Prima, Seconda e Terza Repubblica: dalla Presidenza del Consiglio alla Presidenza del Senato. Ha lavorato presso la Commissione Europea e ha insegnato all'Università degli Studi di Roma La Sapienza. Ha pubblicato per il Canneto editore Contro tutte le paure (2021), Bruxelles, la Pelouse des Anglais (2022). Questo è il suo terzo romanzo.
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sounds-right · 1 year ago
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Bettanini, il 7/11 a Milano la presentazione alla Libreria della Natura
"L'Icona di San Pietroburgo" (Il Canneto, Genova, 2023) di Antonio Bettanini verrà presentato il 7 Novembre, alle ore 18:00 a Milano, alla Libreria della Natura di Via Achille Maiocchi 11. 
L'autore presenterà il suo libro insieme a Livia Pomodoro, Presidente Spazio Teatro No'hma, e Giannino della Frattina, capo cronista de Il Giornale  La lettura dei testi sarà curata dall'attore e regista Marco Carniti. 
L'ICONA DI SAN PIETROBURGO, DI ANTONIO BETTANINI
(IL CANNETO, GENOVA, 2023)
Il protagonista è sempre e ancora lui, Brando Costa; dopo aver attraversato gli anni delle stragi di mafia, poi dell'attacco terroristico al cuore dell'Europa infine dello scollamento tra Russia e Nato: in questo terzo libro, "L'Icona di San Pietroburgo"-Il Canneto, Genova 2023, Antonio Bettanini sceglie infatti come sfondo la crisi georgiana, tra complotti, intrighi e tacite alleanze che attraversano una relazione, quella tra Russia e Italia, destinata a conoscere le prime frizioni, dopo la decisione di dar vita ad un fronte comune antiterrorismo (celebrata nel 2002,  in Italia, a Pratica di Mare con il protocollo Russia-Nato) . Il pretesto del racconto non è così distante dalla realtà, in un ponte ideale che collega episodi autobiografici dell'autore e fantasie dello scrittore che rivela, ma non svela.
E' una storia avvincente, che evoca le atmosfere del mondo letterario russo e che torna a celebrare, in Pietroburgo, la Prospettiva Nevskij, vero e proprio teatro di  un racconto che parla di una Professoressa italiana mandata dal nostro  ministro degli Esteri a dirigere una sezione della Dante Alighieri e improvvisamente sparita, a Mosca , in circostanze misteriose. L'imbarazzo di Russia e Italia, le cui delegazioni si scoprono attraversate da alleanze opache dedite al traffico di icone, è decisamente grande. La "colpa" della Professoressa è di aver scoperto questo "mercato nero" scatenando l'inevitabile reazione. Tocca a Brando, quindi, raggiungere Mosca e da lì Pietroburgo alla ricerca della Professoressa scomparsa e forse rapita. Incidenti e colpi di scena, incontri istituzionali e incontri segreti disegnano la missione di Brando che gioca su diversi piani narrativi.
Il racconto Si snoda su tre piani di narrazione, l'oggi rappresentato da un giovane diplomatico che si rivolge a Brando Costa, al passato della sua esperienza ed al presente della sua importante testimonianza, alla ricerca della pistola fumante che serve al suo ministro per riesumare una vicenda opaca per i Russi - appunto il rapimento della Professoressa che ha scoperto un traffico di icone e opere d'arte- e farsi bello con gli Stati Uniti. 
Siamo infatti, come anticipato,  ai primi segnali della rottura tra Russia e Occidente, dopo la luna di miele della lotta comune al terrorismo. Lo ieri: alimento, cuore e origine della storia di cui  Brando è stato appunto testimone e protagonista: su incarico del suo ministro ha infatti dovuto raggiungere Pietroburgo, via Mosca, alla ricerca della Professoressa. Uno ieri che Brando riporta a galla su richiesta del giovane funzionario . Ricorrendo, però, ad una memoria selettiva perché se il suo intento, almeno in parte, è certamente quello di aiutare il diplomatico di cui è stato collega, per un'altra e grossa parte, di custodire gelosamente tutti gli artifici ed i patti cui è ricorso per tenere in piedi e tessere il telaio della diplomazia e della relazione con la controparte russa. Alla ricerca di un difficile lieto fine. Ed è qui che si nasconde quello che potremmo definire come un importante altro ieri narrativo.
Russia e Italia, ieri e oggi.
  Il contesto mobile de L'icona di San Pietroburgo ricostruisce fedelmente nei tre tempi- passaggi che abbiamo evocato una simpatia e un'attitudine indubbie al dialogo con il mondo russo, che l'Italia ha sempre avuto e che hanno attraversato le alternanze di governo della seconda Repubblica, ma che già affondano le proprie radici nel capitalismo italiano tra le due guerre e naturalmente nel mondo politico della sinistra comunista e democristiana dell'Italia repubblicana. Dobbiamo all'autore la difficile tenuta - quella, sembrerebbe, di un tennista che non molla mai - di un amore e di un rispetto per il mondo russo che va certo oltre la seduzione di Pietroburgo e il suo incanto pur così contestato. Dagli stessi Russi (da ultimo con Stalin).  La guerra in Ucraina e gli orrori dell'oggi sembrano infatti voler rovesciare il cannocchiale della memoria e rendere sempre più sfocati e lontani, relazioni e sentimenti che ora - allo sguardo della cronaca  - sembrano appunto del tutto immotivati quasi a configurare una sorta di "intelligenza con il nemico" in chi si accosti con empatia al mondo culturale russo. Un mondo che ha, in San Pietroburgo, importanti radici italiane proprio a cominciare dai gioielli della sua architettura che prima Pietro e poi Caterina vollero, per aprire,con la nuova città, "una finestra sull'Europa" . Un mondo che ancora recentemente è stato celebrato nelle parole del Santo Padre, Papa Francesco, che, al rientro dal suo viaggio in Mongolia, ha voluto ricordare e ribadire, rispondendo ad una polemica di parte ucraina, che: "La cultura Russa non va cancellata per motivi politici"; la cultura russa è d'una bellezza, di una profondità molto grandi. L'eredità russa è molto buona e molto bella nel campo
delle lettere, della musica, dell'arte". 
La città. Il libro accompagna e affascina il lettore anche nella scelta dei luoghi: narrati e descritti con dovizia di particolari.  Eccone alcuni, a cominciare da Il cavaliere di bronzo , il grande monumento equestre che celebra lo zar Pietro I il Grande (1682-1725). Si trova nella piazza del Senato o dei Decabristi a San Pietroburgo, opera dello scultore francese Étienne Maurice Falconet e anche titolo di un poema dedicato alla statua, scritto da Aleksandr Sergeevič Puškin nel 1833 e pubblicato postumo nel 1837. Considerato tra le opere più significative della letteratura russa, il poema in virtù del suo successo finì per dar nome alla statua e ne fece uno dei simboli della città. 
Il Taleon Imperial Hotel - qui si rifugia Brando alla ricerca della Professoressa - con le sue facciate avvolgenti, neoclassiche, bianche e rosa, un edificio d'angolo, morbido, pastello,all'intersezione tra il fiume Moika e la Prospettiva Nevskij, la grande arteria che attraversa la città, resa celebre da Nikolaj Gogol' nei suoi Racconti di Pietroburgo (1836). Non mancano Palazzo Stroganoff, il museo in cui opera segretamente la Professoressa, che si affaccia  sul ponte Aničkov. Poi soprattutto, Ulica Rossi
la via del teatro Aleksandrìnskij, strada/gioiello dell'architettura neoclassica, realizzata tra il 1828 ed il 1834, in soli 3 mesi e mezzo, grazie alla posa di 18 milioni di mattoni. E' intitolata al grande architetto italiano  Carlo Domenico Rossi.  Ma il racconto ci accompagna poi ancora sulla Prospettiva: a Casa Singer (art nouveau e metallo, uno schiaffo all'architettura tradizionale autorizzato da Nicola II), all'Eliseyev Emporium, gioiello glorioso di art nouveau ed in molti altri luoghi magici.  
Una curiosità.  Brando scopre - sono i suoi contatti russi a metterlo sull'avviso - di assomigliare moltissimo ad un famoso anchor man della tv russa, Vladimir Pozner. Scoperta questa sua somiglianza cercherà di avvalersene per facilitare contatti e relazioni. Fino ad un certo punto però...
bio Autore Tonino (Antonio) Bettanini (Genova, 1946) dopo la Laurea in Filosofia e un inizio di attività come ricercatore in Sociologia del Linguaggio, interrompe nel 1990 la sua carriera universitaria per diventare esperto di comunicazione e relazioni istituzionali, temi ai quali ha dedicato numerose pubblicazioni. Ha attraversato le istituzioni italiane della Prima, Seconda e Terza Repubblica: dalla Presidenza del Consiglio alla Presidenza del Senato. Ha lavorato presso la Commissione Europea e ha insegnato all'Università degli Studi di Roma La Sapienza. Ha pubblicato per il Canneto editore Contro tutte le paure (2021), Bruxelles, la Pelouse des Anglais (2022). Questo è il suo terzo romanzo.
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letteratitudine · 1 year ago
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La prima settimana del Catania Off Fringe Festival edizione 2023, anticipata da una spumeggiante presentazione al galà del 17 sera al Teatro Sangiorgi praticamente sold-out, è giunta a conclusione registrando un efficace afflusso negli spazi in cui chi c’è stato ha potuto assistere ad un girotondo di esibizioni ciascuna di enorme pregio drammaturgico e recitativo. Spaziando dai vantaggi di una non nascita, di una inadeguatezza genitoriale; raccontando di un pomeriggio in una sala var, ricordando un writer famoso, così tanto che fu fatto sparire; la performance muta della muta di un rettile, ricostruzioni di crimini mafiosi e politici, valori e cose che si perdono per strada, reinterpretazioni della commedia dell’arte, enorme tela bianca come uno specchio digitale, teatro danza che fugge da Mozart, Amleto punk che ha molto da dire al mondo dello spettacolo, metateatro ed interazione, spazi in cui il gioco creativo fa esistere tutte le cose, il giardino di Alice che diventa ospedale, cicli della vita in cui chiunque può identificarsi; danza, parole mute, gesti eloquenti, tributi musicali, musica generata da strumenti quasi magici.
La prima settimana del Fringe a Catania ha portato una ventata di freschezza (sebbene le temperature si mantengano su medie estive) e promette un interessante secondo segmento di programmazione da giovedì 26 a domenica 29 ottobre, ultimo turno alle h. 22,00. Trentatré gli spettacoli in scena in undici spazi performativi catanesi: CUT - Centro Universitario Teatrale, Piccolo Teatro della Città, Zō Centro Culture Contemporanee (Sala Grigia e Sala Verde), OPEN - Creative Work Space, Le Stanze in Fiore, I.O.S. Angelo Musco (scuola), Sala Hernandez, Piazza Scammacca, Teatro "Sala De Curtis", Salmastra, Four Points by Sheraton. Tre scelte orarie che permettono di pianificare tranquillamente la propria serata e l’incastro con altri impegni; la rotazione che dà agio di recuperare laddove il progetto di assistere a quasi tutto non possa essere portato a temine nella stessa giornata. Il Fringe non ha solo il merito di produrre e supportare quei validi lavori indipendenti che si collocano nell’orlo, nel margine, ma anche di offrire alle strutture di essere scoperte da chi non avesse ancora avuto l’occasione di conoscerle. Dunque, restano pochi giorni ancora per concorrere all’aumento dei livelli di Felicità Interna Lorda, per chiudere l’estate che ancora non se ne va con una scorpacciata proficua ed edificante di teatro diffuso ed arti performative, comicità intelligente, che sì fa ridere ma anche riflettere; testi impegnati, musicali e clowneschi; storie vere per mantenere vigile la memoria collettiva su fatti storici e storie contemporanee, testi autobiografici o immaginari. Tanti anche gli eventi collaterali al Village del SAL di Via Indaco.
La nostra città risponde, la curiosità per questa seconda edizione del Catania Off Fringe Festival cresce.
Il programma completo con tutti gli eventi e gli spettacoli è pubblicato sul sito: www.cataniaoff.com.
Aspettiamo tutti i Catanesi, certi del loro interesse già risvegliato dalla prima settimana di programmazione.
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tempi-dispari · 1 year ago
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Les Longs Adieux, underground è tutto ciò che rifugge il conformismo
La pubblicazione del primo disco dei Les Longs Adieux sancisce un risultato che ha atteso diversi anni. Periodo di sperimentazione, ricerca, analisi per ottenere esattamente il sound desiderato. Il risultato è un cd variegato, con molte influenze differenti, cantato rigorosamente in italiano. In questa intervista la band si racconta attraverso le parola della cantante Federica Garenna. Una lunga chiacchierata ricca di interessanti spunti di riflessione. Tutta da leggere.
Una presentazione per chi non vi conosce, nome e ruolo:
Federica Garenna: voce, synth e programmazione, missaggio e autrice e compositrice principale; Frank Marrelli, chitarre, basso; Trinity, synth, cori gestione programming live; Valerio Michetti, batteria.
Come è nata la band?
Io e Frank, all’epoca amici di vecchia data, ci siamo incontrati nel 2020 appena dopo la prima fase di lockdown con l’intento di scrivere musica originale ispirata alla darkwave anni ’80, straniera ma soprattutto italiana. Complice quel frangente di clausura, entrambi ci eravamo appassionati all’home recording e unendo le competenze di entrambi ci siamo divertiti a fare qualche cover per ambientarci nel nuovo genere.
Parallelamente, i pezzi originali si sono sviluppati in fretta, ma abbiamo deciso di aspettare anni per pubblicare il nostro primo album, sapendo che prima ci sarebbe piaciuto esplorare e sperimentare, cambiando spesso direzione. Dopo 5 singoli un po’ lontani dalla proposta attuale, una raccolta di cover e un ep, “Veleni Dalla Corte Del Re”, si sono inseriti Trinity e Valerio Michetti, membri anche de La Grazia Obliqua, il Ciclo di Bethe e altri. Una volta raggiunto il sound che sognavamo, eccoci qua a proporvi la nostra creatura.
Suonare è una necessità o solo uno sfogo?
Una necessità e uno sfogo. Non riesco a scrivere senza implicare tante cose intrappolate dentro che non riuscirei a esternare in nessun altro linguaggio. Personalmente trovo la composizione la miglior terapia possibile se si è disposti a lasciarsi un po’ andare.
Ho trovato il vostro disco molto interessante per la scelta stilistica. C’è dentro un po’ di tutto con una forte influenza della musica italiana di nicchia. Scelta o casualità?
Effettivamente di tutti i nostri ascolti, numerosi e variegati, la parte “italiana di nicchia” è quella che abbiamo studiato più a fondo dalla nostra nascita in poi. Non mi meraviglia che il nostro album sveli queste influenze, ma soprattutto è un onore sentirselo dire.
Perché cantare in italiano?
Perché penso in italiano e non sarei mai capace di scrivere qualcosa di credibile in una lingua non mia. Poi mi piace molto la cadenza e la durezza delle consonanti, che cerco addirittura di enfatizzare, a costo di calcare troppo. La lingua italiana è piena di aggettivi, avverbi… lo stesso concetto può essere espresso in mille modi diversi e, in questo senso, nessun’altra lingua al mondo offre altrettante possibilità.
I testi in un disco sono importanti?
Dipende dal tipo di disco. Nel nostro sono importantissimi. Non abbiamo mai usato il termine “cantautorale” per un fatto di umiltà ma la proporzione tra l’importanza della musica e l’importanza dei testi è quella propria del cantautorato per noi.
I vostri da dove nascono?
Trovo i testi criptici una soluzione “paraventa” per non sentirsi troppo “a nudo” ma dire ciò che si vuole. I testi sono quasi tutti autobiografici, parlano tra le righe di infanzie tristi, bocconi mai digeriti, relazioni tossiche, depressione e via dicendo.
La musica ha ancora un compito ‘sociale’ o è diventata solo social?
Voglio credere che la musica avrà per sempre un compito ‘sociale’, aggregativo e spero che i social vengano via via riprogrammati, resi utili per gli artisti ma anche per gli utenti che si interfacciano con gli artisti. Invece di esasperare la competizione, infondere in tutti il dovere di stare al passo e al centro dell’attenzione in modi, tempi non sostenibili per tutti, si potrebbe fomentare l’ascolto piuttosto che il giudizio, si potrebbe premiare lo scritto invece che l’immagine, e così via.
Quanto contano i live per voi?
Conterebbero ancora di più se potessimo suonare sempre per un pubblico aperto mentalmente, ma il più delle volte non è così. Per il momento suoniamo live principalmente perché ci divertiamo sul palco insieme e perché ci piace proporci agli altri, anche quando ci snobbano. Di recente abbiamo suonato in Spagna e l’accoglienza ricevuta ci ha sorpreso, non ci siamo abituati.
Una band per cui vi piacerebbe aprire?
Assolutamente i Diaframma. Sono rimasta profondamente commossa sentendoli dal vivo e inoltre sia Sassolini che Fiumani sono i miei riferimenti principali per le parti cantate. Magari ci capitasse!
Una che vorreste aprisse per voi?
Di solito la band d’apertura risulta minore agli occhi degli altri…quindi piuttosto che una band mi piacerebbe aprire con una performance diversa. Per esempio una di quelle proposte da Aldo Sehmenuk, per intenderci il performer del monologo contenuto ne “La Magara”. Una versione snellita per l’occasione del suo spettacolo “Offline” mi piacerebbe e arricchirebbe un’eventuale serata.
Il vostro concetto di underground?
Underground secondo noi è tutto ciò che rifugge il conformismo, la moda, il marketing, il guadagno, l’interesse per l’aspetto economico PER DAVVERO. Adesso il rischio di trasformarsi in “alternativi conformi” è più alto visto che il successo sociale e social è l’unico traguardo raggiungibile a un livello come il nostro. Se mancano denaro da investire, occasioni gratificanti e mordente per proseguire ci si attacca a tutto e si cade più facilmente nei meccanismi dei conformi.
La sua ‘malattia’ peggiore? La cura?
La mia? La bassa autostima messa in un physique du role sbagliato che mi fa sentire impacciata. La cura è scrivere musica che mi piace e sapere se tocca le corde di qualcuno.
Una band underground che consigliereste?
Per contenuti ma anche per mentalità appunto underground, oltre a La Grazia Obliqua che citavamo più su, i Sacred Legion. Con testi in inglese, un approccio deathrock e una grande attitudine, restano veramente impressi dal vivo.
Una mainstream che ancora vi stupisce?
Di recente abbiamo visto all’Olimpico il nostro bistrattato Vasco e sono rimasta sbalordita. Io, come tanti, apprezzo i vecchi dischi fino all’89 ma devo ammettere che non avevo mai visto nessuno instaurare un rapporto così profondo con un pubblico così affettuoso e numeroso. Non pensavo che nel 2023 avrei mai visto insieme 6000 persone tutte d’accordo su qualcosa, è stato cruciale per me esserci. Mi dispiace che si parli tanto male di Vasco.
Ieri l’idea, oggi il disco, e domani…
E domani tantissimi altri dischi. Registrare dischi per il solo piacere di farlo è la vita.
Una domanda che non vi hanno mai posto ma vi piacerebbe vi fosse rivolta?
Che tipo di ascoltatori vorreste raggiungere? Sarebbe una domanda interessante visto che noi per primi abbiamo difficoltà a definirci e lo troviamo un aspetto positivo. Tuttavia ci siamo resi conto che usando le definizioni darkwave, new wave, mediterranean goth, abbiamo creato un tipo di aspettativa che non ci appartiene del tutto. Io e Frank abbiamo suonato hard rock, metal e altri generi per anni. Trinity e Valerio hanno influenze ancora diverse, dal prog al jazz all’elettronica e suonano a servizio della musica senza asservirsi ad alcun cliché.
Una domanda che avresti sempre voluto rivolgere all’altro?
Come abbiamo fatto a non suonare insieme per 38 anni?
Se foste voi ad intervistare, ipotizzando di avere a disposizione anche una macchina del tempo, chi intervistereste e cosa gli chiedereste?
Franco Battiato solo per il gusto di starlo ad ascoltare! Lui avrebbe reso interessante anche la ricetta della panna cotta e probabilmente gli avrei fatto una serie di domande da cretina proprio per constatare di persona che una grande mente come la sua avrebbe innalzato anche le argomentazioni più sciocche.
Un saluto e una raccomandazione a chi vi legge
Prima di tutto a te che ci hai dato modo di raccontarci. Un saluto e un ringraziamento a chi ci legge raccomandandogli di tenere aperta la sensibilità anche a quello che c’è adesso. Chi propone qualcosa in questo momento storico ha comunque qualcosa da dire e fa una grande fatica a confrontarsi con un pubblico diffidente, pieno di pregiudizi, educato dai talent a giudicare, a valutare solo gli aspetti superficiali, a pensare di saper fare meglio. C’è ancora tanta gente che vuole comunicare e non essere solo un argomento di conversazione.
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goodbearblind · 4 years ago
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"New York, 15 aprile 2001. Joey Ramone, pseudonimo di Jeffrey Ross Hyman, cantante dei Ramones, scompare a causa di un tumore al sistema linfatico, poco prima di compiere cinquant'anni, mentre stava ascoltando il brano 'In a Little While' degli U2. La voce di Joey è stata considerata la voce del punk rock in America. E pensare che iniziò la sua carriera come batterista. L'identità dei Ramones era rafforzata dal look, che divenne identico per tutti: giubbotti di pelle nera, jeans stracciati, t-shirt e scarpe da ginnastica, il prototipo del metallaro anni '80. Le capacità tecniche dei Ramones erano piuttosto limitate, al ché suonarono sin da subito brani originali, scritti da loro stessi ed adatti ai loro limiti, con testi spesso autobiografici. I Ramones sono stati fondamentali per l'esplosione del punk britannico nella seconda metà degli anni '70, e rappresentano, ancora oggi, un logo fashion per il merchandising di magliette." #accaddeoggi #joeyramone [Fotografie ROCK] https://www.instagram.com/p/CNrhCIcFTLD/?igshid=mv7ludvymwih
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gazemoil · 4 years ago
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I 50 MIGLIORI ALBUM DEL 2020
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Il quarto ed ultimo articolo della nostra List Week dedicata alle classifiche musicali di fine anno vede come sempre protagonisti gli album, il classico ed intramontabile lungo formato al quale siamo tanto affezionati. Ecco i nostri 50 Migliori Album del 2020. 
50.  Fleet Foxes - Shore (Anti, 2020)
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VOTO: 70/100
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49. Arca - KiCk i (XL, 2020)
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VOTO: 70/100
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48. Black Thought -  Streams of Thought, Vol. 3: Cane And Abel (Passayunk Productions, 2020)
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VOTO: 70/100
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47. Kelly Lee Owens - Inner Song (Small Town Supersound, 2020)
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VOTO: 70/100
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46. HMLTD - West Of Eden (Lucky Number, 2020)
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VOTO: 70/100
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45. Porridge Radio - Every Bad (Secretly Canadian, 2020)
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VOTO: 70/100
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44. Oneohtrix Point Never - Magic Oneohtrix Point Never (Warp, 2020)
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Psichedelia, elettronica, futurismo, avanguardia e tantissime altre sfumature dentro l'ultimo disco di Oneohtrix Point Never, l'onnivoro progetto di Daniel Lopatin, che durante la pandemia ha deciso di dare forma alla nostalgia per il passato ripercorrendo i suoi ultimi dieci anni di musica e mettendoli dentro Magic Oneohtrix Point Never. Il disco è assemblato per ricordare un programma radio dove le voci spesso si sovrappongono e la continua oscillazione tra un canale ed un altro alla ricerca di un suono decifrabile tra le interferenze talvolta fa emergere dall'etere canzoni da mondi distanti. Non è facile sintetizzare e reinventare un progetto artistico così complesso e borderless che negli anni non si è mai accomodato in nessun genere, ne nell'ambient, né nell'IDM e neppure nell'elettronica progressive, ma Lopatin lo fa in maniera abbastanza accessibile prendendo in prestito elementi dal linguaggio pop e continuando il suo lavoro di ricerca sul suono, scandagliando, trasformando e traducendo. Il risultato è un totale ibrido di influenze diverse. 
Tuttavia non è un disco facile, non manca la sperimentazione, le cacofonie barocche, contrapposte a momenti di totale minimalismo elettronico ipnagogico. Per quanto filosofico ed hippie possa sembrare, l'unico modo per spiegarlo è dicendo che non ci si può addentrare in Magic Oneohtrix Point Never con la testa, bisogna lasciarsi trasportare dal tappeto sonoro di Lopatin e della sua squadra, tra cui notiamo sicuramente Caroline Polachek, fidarsi delle proprie sensazioni ed imbarcarsi nella navicella spaziale che sorvola pianeti marziani e città iper-tecnologiche saccheggiate da una qualche catastrofe causata dall'uomo stesso. Non è tanto strano immaginarsi visioni assurde mentre si ascolta il disco, dato che Lopatin ha usato la fantasia per creare i suoi personaggi ed ambientazioni, talvolta giustificando i testi con storie improbabili, al limite tra la science-fiction e la distopia. Non è però tutto sensazioni e suoni astratti, a volte ci offre qualcosa di più palpabile, seppur non concedendosi troppo alla classica formula-canzone, in momenti come la power ballad No Nightmares con The Weeknd inconfondibile in veste di guest vocal, oppure Long Road Home. 
VOTO: 70/100
di Viviana Bonura
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43. Le sacerdotesse dell’isola del piacere - Alle Onde (V4V / Cloudhead, 2020)
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Alle Onde è il ritorno, quasi in sordina, de Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere, una delle migliori band del sottobosco italiano che da anni tiene accesa la fiaccola dell’emo rock percorrendo una traiettoria tutta in salita, soprattutto dopo il gioiellino Interpretazione dei sogni che attraverso riferimenti letterari da Freud a Kafka ha fatto tornare in vita un immaginario ben preciso per tracciare delle suggestioni e tradurle su un piano emotivo dentro una sfera molto personale. Ed è quello che continuano a fare nel terzo disco, immergendosi dentro altri libri e scrivendo ancora ricordi biografici tra le righe. Questa volta ad ispirarli è il mare e la natura, quello della Woolf, di Shakespeare e di Conrad, quindi elementi tutt’altro che pacifici ed idilliaci, ma tempestosi ed irrequieti, incontrollabili come i tumulti degli esseri umani, ma molto più grandi e permanenti dell’essere umano. Tornano le chitarre tra lo slowcore, l’emo e l’indie rock, gli anni ‘90 dei Dinosaur Jr. e delle band internazionali di oggi che si ispirano a quel sound, ma aumentano le distorsioni e gli assoli - e si vede anche nella durata dei brani. Tutto registrato per la maggior parte in presa diretta con un risultato che può piacere o meno, che non lascia molto spazio per le aggiunte stilistiche, l’innovazione su un piano musicale e compositivo, sulla costruzione del suono, ma gioca tutto al contrario sull’estemporaneità e sulla voglia di fare un disco rock dove la soddisfazione è proprio quella di poterlo suonare con immediatezza. Un disco sicuro non molto nuovo ma che funziona.
VOTO: 70/100
di Viviana Bonura
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42. The Microphones - Microphones in 2020 (P.W. Elverum & Sun, 2020)
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VOTO: 70/100
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41. King Krule - Man Alive! (True Panther, 2020)
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VOTO: 70/100
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40. Taylor Swift - folklore (Republic, 2020)
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VOTO: 70/100
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39. Run the Jewels - RTJ4 (Jewel Runners / BMG, 2020)
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VOTO: 70/100
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38. Pinegrove - Marigold (Rough Trade, 2020)
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VOTO: 70/100
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37. Kevin Morby - Sundowner (Dead Oceans, 2020)
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VOTO: 70/100
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36. Deftones - Ohms (Reprise, 2020)
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VOTO: 70/100
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35. Oliver Tree - Ugly Is Beautiful (Atlantic, 2020)
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VOTO: 70/100
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34. The Weeknd - After Hours (XO / Republic, 2020)
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VOTO: 70/100
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33. Dua Lipa - Future Nostagia (Warner, 2020)
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VOTO: 70/100
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32. Wilma Archer - A Western Circular (Domino, 2020)
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VOTO: 75/100
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31. Holy Fuck - Deleter (Last Gang, 2020)
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A distanza di quattro anni dal loro ultimo album tornano gli Holy Fuck, una band sui generis a cui piace giocare secondo le proprie regole, unendo la tensione del rock e dell’elettronica in melodie estatiche su cui lasciare danzare l’inconscio. Il loro quinto e squisito ritorno si chiama Deleter, un disco di nove tracce fatto di mimesi elettronica distorta e punk, realizzata senza l’ausilio di computer ed altre moderne tecnologie, ma solo da strumenti reali come loro tradizione. Proprio per questo particolare gusto nell’approccio musicale, il disco sfugge agli schemi ed è estremamente liberatorio da ascoltare. Prende in prestito dai paesaggi musicali astratti della micro-house e dal mondo del clubbing, ma li spezza con chitarre elettriche e batterie che pur essendo fortemente elaborate in post-produzione mantengono quel carattere estraneo alla musica che stiamo sentendo, e per questo il risultato è accattivante.
VOTO: 75/100 
di Viviana Bonura
recensione - ascolta
30. Blu & Exile - Miles (Fat Beats, 2020)
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VOTO: 75/100
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29. Ichiko Aoba - アダンの風 (Windswept Adan) (Hermine, 2020)
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VOTO: 75/100
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28. Fontaines D.C. - A Hero’s Death (Partisan, 2020)
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VOTO: 75/100
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27. Colapesce & Dimartino - I Mortali (Sony Music, 2020)
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VOTO: 75/100
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26. Slow Pulp - Moveys (Winspear, 2020)
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VOTO: 75/100 
ascolta 
25. Pufuleti - Catarsi Awa Maxibon (La Tempesta Dischi, 2020)
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Pufuleti, nome d’arte di Giuseppe Licata, ad ogni ascolto mi sembra sempre di più il fratello perduto di Slowthai. I punti in comune ci sono: immigrato, voce fuori dal coro, liriche irregolari, flow stralunato e atmosfere un tantino surreali da farti sentire a disagio ma anche farti spuntare un ghigno d’approvazione in viso. Di origini siciliane, ma trapiantato in Germania da piccolo, con Catarsi Awa Maxibon è al secondo disco in studio sotto il nome Pufuleti, ma è attivo nella scena rap tedesca da più di una decade come Joe Space.
Forse è anche per l’esperienza del rap in un’altra lingua che quando Pufuleti decide di impadronirsi dell’italiano lo fa con un’approccio del tutto anticonvenzionale - oltre a non porsi problemi nel mischiarlo con tedesco e inglese. Nelle dieci tracce hip-hop un pò lo-fi del suo secondo disco infilza rime assurde ed ogni tanto pure oscene, dal fascino sgangherato e spigoloso, su basi che omaggiano la vecchia scuola americana ma in cui risuonano anche tutti quegli elementi bizzarri e freschi della nuova ondata alternativa italiana, grazie pure ai continui esilaranti riferimenti alle televendite fine anni ‘90 e inizio 2000 che ci piacciono tanto. Catarsi Awa Maxibon è fantastico perchè è assurdo, delirante, geniale nell’adozione di nuove vie semantiche “che diventano ricerca affannosa di un assurdo che dia senso alle piccole cose”. Certe atmosfere visionarie e un pò malate sono impossibili da ignorare, e questo fin dal primo ascolto che si rivela subito dirompente ed inarrestabile grazie alle tracce dalla breve durata cucite come un pezzo unico di una trasmissione televisiva.
VOTO: 75/100
di Viviana Bonura
recensione - ascolta
24. Helena Deland - Someone New (Luminelle, 2020)
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VOTO: 75/100
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23. Thundercat - It Is What It Is (Brainfeeder, 2020)
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VOTO: 75/100
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22. Touchè Amore - Lament (Epitaph, 2020)
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VOTO: 75/100
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21. Hayley Williams - Petals For Armor (Atlantic, 2020)
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Con Petals For Armor Hayley Williams debutta da solista senza i Paramore, band storica dalla fama leggendaria e storia travagliata da vicende personali che la frontwoman non ha sempre trovato modo di affrontare e canalizzare. Il suo primo disco è il risultato artistico di un lavoro profondo e personale di ricanalizzazione. A volte bisogna proprio ripartire dall'inizio, anche da adulti, ed è quello che ha fatto la Williams concettualmente, facendosi custode dell'esperienza artistica di quindici anni di carriera per diventare la custode della sé più giovane e bambina, quella che ha assimilato modelli di affettività tossici senza volerlo e li ha riproposti nella sua vita sentimentale che ad un certo punto è diventata di dominio pubblico. Scava nei suoi traumi per la prima volta da sola ed utilizza la musica per parlare alla sé del passato e ricostruire la Hayley del presente. I brani sono pieni di riferimenti autobiografici, abitati da atmosfere paranoiche, rabbie tranquille, erotismo e femminilità, metamorfosi che passano attraverso stati contorti e mostruosi, prendendo la forma dei propri demoni per poterli esorcizzare. Musicalmente sperimenta con un pop ed un rock raffinato tra St. Vincent ed i Radiohead, l'elettronica ed il jazz.
VOTO: 75/100
di Viviana Bonura
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20. Grimes - Miss Anthropocene (4AD, 2020)
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Specialmente in questi ultimi anni Grimes, nome d’arte di Claire Bucher, ha vissuto in un mondo tutto suo. La producer, cantante e multistrumentista è sempre stata un personaggio sui generis, ma con una vita privata che ultimamente si lega sempre di più a quella pubblica è inevitabile che la sua personalità fuori dagli schemi si scontri con i canoni dell’essere una figura sotto ai riflettori, dunque confrontarsi con l’essere messa in discussione, ma ancora di più per il suo stile di vita e delle idee davvero bizzarre, spesso per gli altri non comprensibili. Ed è su questo precario e non ben definito equilibrio tra l’essere visionari e l’avere una fantasia piuttosto spiccata che nasce l’album più importante della sua carriera, Miss Anthropocene. Invece di rispondere al fuoco incrociato che l’ha vista protagonista di polemiche e critiche ha deciso di allontanarsi ancora di più dalla mondanità costruendo un universo inventato parecchio più inquietante e contorto di quello reale, dove il disastro climatico si intreccia a malvagie divinità aliene che desiderano soggiogare l’essere umano e mandare il mondo in rovina. La parte strumentale è quasi ambiziosa tanto quanto il concept - ma al contrario di quest’ultimo funziona sicuramente meglio ed è eseguito con più chiarezza - e vede Grimes ampliare ancora la sua palette sonora, rivelando una raffinata e lineare evoluzione del suo interesse di vecchia data verso la nostalgia della cultura rave e l’allettante musica pop dalle varie parti del mondo. I territori esplorati sono davvero tantissimi e l’eclettismo dell’artista è il punto forte di un disco che nel bene e nel male si è conquistato il diritto di guidarci verso le nuove rotte della musica pop.
VOTO: 75/100
di Viviana Bonura
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19. Lido Pimienta - Miss Colombia (Anti, 2020)
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VOTO: 75/100
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18. R.A.P Ferreira - Purple Moonlight Pages (Ruby Yatch, 2020)
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VOTO: 80/100
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17. Phoebe Bridgers - The Punisher (Dead Oceans, 2020)
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VOTO: 80/100
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16. Shabaka and The Ancestors - We Are Sent Here By History (Impulse! Records, 2020)
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VOTO: 80/100
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15. Ghemon - Scritto Nelle Stelle (Carosello Records, 2020)
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Hit dopo hit, ma senza rinunciare all’identità, in Scritto Nelle Stelle si sente tutta la ricerca nel suono fatta da Gianluca Picariello, in arte Ghemon, negli ultimi anni per conciliare il pop con l’hip-hop, l’Italia con le influenze della black music. La formula perfetta si trova in mezzo, giocando sul modern soul e l’rnb in un contesto pop raffinato e a volte vagamente pop-funk, a metà tra l’elettronico ed il suonato, con un risultato dalla grande musicalità - anche nei momenti in cui si sente la sua formazione hip-hop - un groove costante ed un cantato super caldo. Gioca ancora con le rime e la tecnica, ma il contesto è più rilassato, luminoso, frizzante e sembra che anche le riflessioni di Ghemon abbiano trovato riconciliazione e liberazione dentro questo sound ibrido dalle vibrazioni buone che gira attorno al mainstream, ma lo rielabora in chiave artistica con decisioni da musicista che tiene gli occhi aperti sul panorama internazionale piuttosto che da hitmaker come possono fare i colleghi Ghali o Achille Lauro, o ancora da fenomeno indie sulle righe di Carl Brave o Franco126. Scritto Nelle Stelle è un disco con un sound personale, che in Italia in questo momento ha pochi termini di paragone, vario ed omogeneo allo stesso tempo. Ghemon unisce gli opposti con stile - e non vediamo l’ora di sentirlo a Sanremo per la seconda volta.
VOTO: 80/100
di Viviana Bonura
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14. Fiona Apple - Fetch the Bolt Cutters (Epic Records, 2020)
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Fiona Apple è una di quelle che scrive canzoni perché ne ha bisogno per vivere e sopra ci ha costruito un’intera carriera senza farsi distrarre dalle attenzioni dell’industria discografica, anche a costo di essere guardata male e boicottata da tutti.  Il suo quinto album, Fetch The Bolt Cutters, arrivato dopo ben otto anni di attesa testimonia che le cose non sono cambiate perché quel fuoco brucia ancora ed è il fuoco di chi è nato per fare musica. Non si può non parlare tuttavia di evoluzione artistica, perché se le motivazioni che spingono la Apple a fare musica sono sempre le stesse, di certo non si può dire lo stesso per le modalità. Adesso c’è anche la maturità di un’artista che nel suo continuo sperimentare, scavare e ricercare le soluzioni meno ovvie, vedere dove nessun altro guarda, mette in tavola la propria anima adulta ma non invecchiata con una visceralità spiazzante. La Apple ripercorre il proprio vissuto, dall’infanzia fino all’età adulta, con la consapevolezza di chi sa che l’obiettivo finale non è l’assoluto controllo o la comprensione delle cose, per questo non perde i modi di fare di chi ha ancora da scoprire, da cadere e da imparare giocando o facendosi male e di riflesso la vivacità compositiva della musica è impressionate. La Apple ci dice che la parola “equilibrio” può significare cose ben diverse da persona a persona e lei lo ha trovato dentro un sottile spazio di convivenza dove all’interno ci saranno sempre e comunque i traumi terribili del suo passato e problemi di salute mentale con cui fare continuamente i conti, insieme ad un desiderio bruciante di vita. La vita e la morte, infondo, sono cose che si possono provare allo stesso tempo dentro alcune emozioni ed in questo Fetch The Bolt Cutters è assolutamente un trionfo.
VOTO: 80/100 
di Viviana Bonura   ascolta
13. clipping. - Visions Of Bodies Being Burned (Sub Pop, 2020)
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VOTO: 80/100
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12. Sevdaliza - Shabrang (Twisted Elegance, 2020)
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VOTO: 80/100
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11.  Charli xcx - how i’m feeling now (Asylum, 2020)
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Nel bel mezzo della pandemia ed a pochi mesi di distanza dal suo ultimo ed acclamatissimo disco, la regina - indiscussa - del nuovo pop Charli XCX ci ha raccontato come se la stava passando con una raccolta di undici tracce messe insieme di fretta e furia, neanche del tutto finite, che spiegano perfettamente come ci si sente ad essere presi alla sprovvista. how i’m feeling now è stato un fulmine a ciel sereno un pò come tutta la situazione che abbiamo vissuto, un progetto per nulla confezionato che incapsula il recente passato musicale dell’artista attraverso getti d’ispirazione istintivi suggestionati dalla sua sfera emotiva in una situazione di isolamento ed alienazione. Il risultato è davvero eccentrico e spigoloso, molto personale e riflessivo, ma al contempo bello per intrattenersi con del buon pop d’avanguardia. Vanta tra le produzioni quelle di Dylan Brady (100 gecs) che satura ancora di più tutto l’universo accelerato di Charli, fondendo il bubblegum pop della prima con l’elettronica sperimentale del secondo.
VOTO: 80/100
di Viviana Bonura
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10. Idles - Ultra Mono (Partisan, 2020)
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VOTO: 80/100
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09. Adrianne Lenker - songs (4AD, 2020)
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Non sempre la semplicità corrisponde alla facilità e songs di Adrianne Lenker - frontwoman dei Big Thief - ne è la testimonianza. Il suo è un disco semplice fino all’osso, solo voce e chitarra acustica, ma non è spoglio, perché dentro la cantautrice e musicista esplora, anzi distilla, i temi dell’amore e della perdita, inteso sia come lutto sia come fine di una relazione, con disarmante e struggente frontalità, nella più totale e vulnerabile sincerità. Un dolore palpabile, sulle corde gentilmente accarezzate della sua chitarra, dentro la voce naturalmente comunicativa e dal timbro indimenticabile, nella scrittura vivida e presente dei brani guidata dal suo modo intuitivo di esprimere le emozioni e la spiritualità. Sembra tutto fatto senza sforzo, ma sedersi su una sedia e registrarsi senza interruzioni ed omissioni, lasciarsi trasportare, fare i conti con sé stessi e guarirsi è tutto fuorché ordinario e lo si capisce in momenti come la conclusiva my angel o come che raggiungono picchi emotivi altissimi. Il suono della pioggia, lo scricchiolio delle sedie, i respiri, sono tutti i segni di un qualcosa che non si nasconde, di un qualcosa di integrale e di integro. La Lenker ci fa vedere tutto e ci fa immaginare. Le montagne sulle quali si è appartata per scrivere il disco, il freddo della rugiada, le passeggiate, i colori, i letti di morte, la solitudine, lo sguardo della donna di cui è innamorata, l’esitazione dentro un accordo preso un secondo dopo. Fare un disco che sembra un disco con così pochi elementi non è cosa facile, ma la Lenker ci è riuscita. Le canzoni di songs hanno tutto il potenziale per potersi evolvere e diventare cavalli di battaglia indie-rock dei Big Thief, ma anche così sono finite, complete e bellissime. 
VOTO: 80/100
di Viviana Bonura
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08. Yves Tumor - Heaven To A Tortured Mind (Warp, 2020)
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Un’altra personalità che ha intenzione di riscrivere le coordinate del pop a modo suo è il misterioso Yves Tumor che emergendo dalle viscere scure del post-industrial e della musica noise completa la sua metamorfosi in falena affascinante dell’rnb e dell’art rock, abbandonando i detriti sperimentali da brivido e lavorando invece sulla sua sorprendente capacità nel rendere orecchiabile ed armonico qualcosa di fondamentalmente dissonante e pure disturbante. S’illumina di una trasognata attitudine pop il nuovo disco Heaven To A Tortured Mind, senza tradire il bisogno di essere fluido e trasgressivo, ma sicuramente meno dilagante e disorientante. Lui è un artista che avevamo già intuito essere sulla buona strada per il successo col disco precedente, ma stavolta stupisce davvero per la maturità. Astratto, ma ora anche molto più concreto, Heaven To A Tortured Mind trova l’occasione per schiacciare l’occhio a sensualità jazz e psichedeliche, regalandoci ballate al buio trasversali.
VOTO: 80/100
di Viviana Bonura
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07. The Strokes - The New Abnormal (RCA, 2020)
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Quella degli Strokes è una carriera leggendaria e lo sappiamo benissimo tutti. Per una band che ha influenzato in maniera indelebile il primo decennio degli anni duemila ed ha vissuto quasi tutto il successivo sopra le spalle dei loro brani immortali non deve essere stato facile ritornare con un nuovo disco inedito. Più volte abbiamo creduto che l’intenzione di Casablancas fosse quella di continuare a fare musica con il suo side-project The Voidz e che con gli Strokes non ci fosse più la scintilla di un tempo - vedi il ritorno a mani basse con l’EP Future Present Past del 2016 - ma a smentirci, fortunatamente, c’è The New Abnormal dove la band è animata da un’energia tutta nuova. Con la produzione di Rick Rubin il disco riesce a spingere alcuni limiti della band ed offrire delle tracce stravaganti, creative e dalle strane scelte, al contempo ritrova quel brio chiassoso dei primi lavori che ne sporca i suoni e riporta alle origini del loro rock da garage. I riferimenti agli anni ‘80 ci sono, dalla copertina fino ai rimandi musicali, ma The New Abnormal non è un disco vecchio o prevedibile, anzi estremamente orecchiabile, classico ed audace. Sì, gli Strokes continuano ad essere rilevanti anche vent’anni dopo.
VOTO: 80/100
di Viviana Bonura
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06. Against All Logic - 2017-2019 (Other People, 2020)
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Anche questo per Nicolas Jaar sembra essere un anno d’oro. Il poliedrico produttore americano-cileno vive un periodo particolarmente prolifico e la musica registrata sotto lo pseudonimo Against All Logic è interessante tanto quanto quella con il suo nome di nascita, se non di più. Tanto è vero che a finire sulla nostra lista non c’è Cenizas, ma 2017-2019 che segue l’eccellente disco di due anni fa in cui si avventura sui territori meno battuti della musica techno con un approccio innovativo fuori dal comune. Quello di 2017-2019 è un suono distorto e duro che fa da controparte all’avvolgente e calda musica house del debutto, ma è ugualmente eccentrica ed ambiziosa. Il mix è ipnotico, caotico ma incredibilmente diretto, le successioni dei brani sono fluide ed i ritmi sempre serrati, centrati su bassi profondi spesso al limite della trama sonora, strane percussioni e melodie accattivanti.
VOTO: 80/100
di Viviana Bonura
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05. Moses Sumney - græ (Jagjaguwar,2020)
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L’arioso e tentacolare secondo disco della gemma dell’art-pop Moses Sumney è un tripudio di sfumature emotive e musicali. Diviso in due parti (la prima uscita in versione digitale all’inizio dell’anno) esplora gli spazi grigi - “grey areas” - tra la musica, le parole e soprattutto nell’individuo, mettendo in discussione la nostra esistenza binaria. Momenti strumentali organici che spaziano dal jazz al soul si susseguono elevando il linguaggio del disco e schiarendone le ombre, insieme a distorsioni elettroniche ed arrangiamenti sperimentali che ne intrecciano la traiettoria. Anche questa volta il collante è la splendida ed anamorfica voce dell’artista, intenta a spezzarci letteralmente il cuore. Sebbene la paura della solitudine di Sumney definisca ancora gran parte dell'album, il suo abbracciare questi spazi di mezzo apre nuove possibilità di auto-determinazione e attualizzazione. Spirituale, sperimentale, vivido e dolce sono le parole per descrivere græ.
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VOTO: 80/100
di Viviana Bonura
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04. Rina Sawayama - SAWAYAMA (Dirty Hit, 2020)
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E’ davvero un coraggioso nuovo mondo quello che si sta creando la musica pop negli ultimi anni e Rina Sawayama vi sta contribuendo a pieno, mostrandoci esattamente come nel suo debutto SAWAYAMA. Sempre a fianco dell’alchimista del pop Clarence Clarity che si è occupato delle produzioni i due riescono a definire con chiarezza la direzione artistica del disco. Estremamente contemporaneo, contaminato e stiloso, incorpora elementi del teen pop dei primi anni 2000 à la Christina Aguilera con le sue evoluzioni bubblegum molto più moderne ed elettroniche, ed ancora il nu-metal dei Deftones coi ritmi club. Sembra fin troppo ambizioso ed eccessivo, ma SAWAYAMA unisce con entusiasmante maestria suoni aggressivi ed altri decisamente più inoffensivi facendo tesoro dell’eredità culturale dell’artista e contemporaneamente esplorando i temi dell’identità, sentimenti personali e filosofie più in generale sul mondo. E’ un disco importante perchè si posiziona con prepotenza nelle cerchie del pop pur avendo un’anima estremamente anticonvenzionale, strana e piena di giustapposizioni.
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VOTO: 80/100
di Viviana Bonura
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03. Lucio Corsi - Cosa faremo da grandi? (Sugar Music Italia, 2020)
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C’era una volta il cantautorato narrativo e Lucio Corsi lo ha preso e rispolverato con grazia. E’ una ninna nanna di nove ballate per adulti Cosa faremo da grandi: “Perché nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi”. L’album è ricco di storie senza tempo e personaggi semi fiabeschi, fuori dagli schemi della società odierna. Il cantautore maremmano fa da eccentrico narratore in questo dolce album con tante nuove storie raccontate in versi di canzoni oniriche. Le melodie serene e allietanti dei brani di Cosa faremo da grandi? non sono un manifesto del sound attuale, ma nel complesso l’album è molto originale grazie alle parole ricercate all’immaginario che le storie suscitano. La ricerca e gli arrangiamenti valorizzano il fatto che l’album sia un puzzle di figure semplice e pure come i disegni dei bambini. E’ un lavoro che nasce nel 2020, ma potrebbe essere traslato indietro nel tempo o collocato in un’Italia futura: il suo essere senza tempo lo rende eccentrico e speciale.
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VOTO: 85/100
di Agnese Centineo
ascolta - recensione
02. Laura Marling - Song For Our Daughter (Chrysalis / Partisan, 2020)
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Giunta al settimo album in studio a soli trent’anni, la cantautrice e musicista Laura Marling continua a volare sotto i radar del grande successo, probabilmente perché durante la sua carriera è riuscita a far sembrare semplicissime cose molto più complesse ed intricate, giungendo ad una maturità artistica notevole per la sua età. Song For Our Daughter conferma la natura taciturna dell’autrice, anzi risparmia moltissimi elementi a favore di una semplicità che fa emergere solo l’essenziale, premiandone la scelta coraggiosa con un risultato che lo colloca tra i suoi lavori più completi. E’ un disco che si pone poeticamente come un dialogo con una figlia immaginaria, ma che in realtà è una lettera a cuore aperto alla sè più giovane, quella di una volta. Come se avesse vissuto chissà quante vite o la sua anima fosse davvero vecchia, la Marling compensa alla mancanza di sperimentazione e strumentali assolutamente non protagoniste con una delle scritture più belle di quest’anno. Apparentemente troppo delicato e sottile, Song For Our Daughter è invece un disco robusto capace di mantenere viva l’attenzione con storie toccanti piene di colpi e riflessioni inaspettate, cantate dall’elegantissima voce senza tempo di un’autrice la quale statura viene spesso paragonata a quella della leggendaria Joni Mitchell. Chissà se allora la sua avventura diventerà un classico.
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VOTO: 85/100
di Viviana Bonura
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01. Perfume Genius - Set My Heart On Fire Immediately (Matador, 2020)
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Il quinto album di Mike Hadreas, in arte Perfume Genius, si destreggia fluido tra melodie sublimi e dissonanze cupe con la delicatezza di uno degli artisti più sensibili degli ultimi anni, abbracciando le gioie ed i dolori del corpo umano e le sue innumerevoli ed intangibili aspirazioni. Hadreas ha dimostrato durante tutta la sua carriera come ogni disco è capace di rappresentare una metamorfosi - artistica e personale - e Set My Heart On Fire Immediately non fa eccezione. Come No Shape mantiene una sensibilità rock ed un riguardo verso l’orecchiabilità in funzione della radio, mentre come Too Bright alterna struggente momenti di tenerezza ed alienazione, mettendo in circolo dramma, emozioni, piacere e sofferenze in maniera meno intricata e sicuramente più risolta. Gli arrangiamenti sono vivi, così come le sue parole. Quella di Perfume Genius è una musica estremamente intima e liberatoria, una musica che colpisce perché nella sua vulnerabilità è capace di umanizzare qualsiasi esperienza. L’artista è riuscito a teatralizzare in musica un travagliato percorso e dopo aver imparato a trascendere dal corpo umano ne ha finalmente abbracciato la sua essenza concreta.
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VOTO: 85/100
di Viviana Bonura
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MENZIONE A:
Mac Miller - Circles (Warner Records, 2020)
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Nicolas Jaar - Cenizas (Other People, 2020)
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Soft Kill - Dead Kids, R.I.P. City (Soft Kill, 2020)
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Emma Ruth Rundle & Thou - May Our Chambers Be Full (Sacred Bones, 2020)
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Empress Of - I’m Your Impress Of (Terrible, 2020)
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CLICCA QUI per visualizzare l’archivio completo delle nostre valutazioni di quest’anno.
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gregor-samsung · 3 years ago
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“ Ricordo come entrai nel reclusorio. Era di sera, nel mese di dicembre. Già imbruniva, gli uomini tornavano dal lavoro; si preparavano per la verifica. Un barbuto sottufficiale mi aprì finalmente la porta di questa strana casa in cui dovevo passare tanti anni e provare tante sensazioni, delle quali, senza averle sperimentate in realtà, non potrei avere un'idea nemmeno approssimativa. Per esempio, in nessuna maniera potrei figurarmi questo: che c'è di terribile e di tormentoso nel fatto che per tutti i dieci anni dei miei lavori forzati non sarò solo neanche una volta, neanche un minuto? Al lavoro sempre sotto scorta, dentro sempre con duecento compagni, e non una volta, non una volta solo! Del resto dovevo ancora abituarmi a ben altro! C'erano lì assassini occasionali e assassini di mestiere, banditi e capi di banditi. C'erano semplici scrocconi e vagabondi, cavalieri d'industria e professionisti del furto. Ce n'erano anche di quelli per i quali era difficile rispondere al quesito: per che cosa mai sono potuti venir qui? E intanto ciascuno aveva la sua storia, torbida e greve, come i fumi del vino per la sbornia del giorno prima. Generalmente, del loro passato parlavano poco, non amavano raccontare e facevano visibili sforzi per non pensare all'accaduto. Io conoscevo tra loro perfino degli assassini tanto facili all'allegria, tanto incapaci di ogni riflessione, che si poteva scommettere che la coscienza non aveva mai rivolto loro un rimprovero. Ma c'erano anche dei visi tetri, quasi sempre silenziosi. In generale, era ben raro che qualcuno narrasse la propria vita, e poi anche la curiosità non era di moda, in certo qual modo non era negli usi, non era ammessa. Lì nessuno poteva far stupire nessuno. "Noi siamo gente istruita!", essi dicevano spesso, con una certa strana presunzione. Mi ricordo che una volta un bandito, brillo (ai lavori forzati qualche volta ci si può ubriacare), cominciò a raccontare come avesse sgozzato un bambino di cinque anni, come dapprima lo avesse adescato con un balocco, condotto in qualche posto, in una rimessa deserta, e là poi lo avesse sgozzato. Tutta la camerata, che fino a quel momento aveva riso delle sue barzellette, si mise a gridare come un sol uomo, e il bandito fu costretto a tacere; non per indignazione la camerata si era messa a gridare, ma così, perché DI QUESTO NON BISOGNAVA PARLARE, perché parlar DI QUESTO non era negli usi. “
Fëdor Dostoevskij, Memorie dalla casa dei morti [Testo completo]
NOTA:  Questo romanzo, pubblicato negli anni 1861-62 a puntate sulla rivista Vremja, pur non essendo un resoconto è fedelmente autobiografico. Nel 1849 l'autore era stato condannato a morte per motivi politici e, dopo un'orribile messa in scena che tra l'altro peggiorò la sua epilessia, la sentenza di morte fu commutata in condanna ai lavori forzati a tempo indefinito; ottenne la liberazione per buona condotta nel 1854 ma le sue condizioni di salute erano ormai irrimediabilmente compromesse.
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il-telescopio-di-prometeo · 5 years ago
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Mazz — Doppia Zeta
Con Doppia Zeta Mazz raccoglie alcuni dei suoi primi lavori ed entra ufficialmente nella scena, aggiungendo alcune tracce inedite. La struttura dell'opera si rifà a molti formati musicali distinti: l’impostazione è propria di un album, la lunghezza è quella di un EP e la differenza di stile fra le tracce richiama il mixtape. Uno dei punti piú interessanti di questa produzione è proprio la varietà sonora strumentale, che al netto di alcune sbavature offre sempre un ritmo e una carica emotiva differenti in ogni brano. Questa varietà, però, apporta fra le canzoni una discontinuità che si sarebbe potuta diminuire semplicemente cambiando l’ordine di alcuni brani all’interno dell’album.
I temi
Durante tutto l’ascolto ricorrono solitudine, rabbia e malinconia; l’amore non corrisposto occupa un’intera traccia, 2 Aprile, ma si può sentire in modo piú o meno diretto anche in altri pezzi, come ad esempio in Subconscio. Di questi temi risalta soprattutto la componente autobiografica: come Mazz stesso ha spiegato, questo album racconta della sua “uscita” da una situazione personale sgradevole e precaria e del suo nuovo approccio alla musica come modo di scaricare la negatività al di fuori della sua famiglia.
Le tracce
L’intro dell’album segue in modo piano, quasi piatto, il canone di una canzone trap, con la sola eccezione di un Autotune poco invadente: i toni sono altezzosi, la base è scarna e percussiva. Da questa traccia sono già chiari gli intenti dell’intero album. La prima parte di Subconscio si attiene al paradigma del Lo-Fi hip-hop: la citazione ad inizio traccia, i suoni falsamente rotti e tagliati delle frequenze piú alte e il ritmo molto calmo sono una buona cornice per sviluppare (e superare) il tradimento di un amico, un amore tossico, le delusioni in famiglia e tra gli amici. Dopo una metafora dal flow e dall’incedere un po’ stentati, la canzone cambia completamente stile, proponendo una ritmica piú “classica” e sostenuta, che segna il passaggio dal dolore alla rabbia del testo. Come spiegato nel suo stesso testo, Ma Famille insegue i tratti caratteristici dell’afro trap. Il ritmo ballabile è il vero tratto interessante della traccia, che per il resto rimane abbastanza monotona e a tratti scontata, con attacchi verbali un po’ forzati. La traccia con la produzione e l’esecuzione migliori è senz’altro Sempre Solo: l’atmosfera trap cupa segue molto bene l’incedere di Mazz, che in questo testo limita le variazioni di metro al minimo, cosí da seguire la base in modo continuo.
È evidente che Doppia Zeta ricalchi un certo periodo di Salmo: come Salmo eseguiva sopra pezzi di Skrillex, in questa traccia la base campiona ampiamente Nuclear (Hands Up) di Zomboy. La produzione strumentale di questo brano è, a nostro parere, quella piú problematica, perché i preset usati sono rimasti ruvidi ed asciutti, rendendo la percezione d’insieme molto piú povera; il rallentamento rispetto all'originale, poi, acuisce ulteriormente questi problemi fino ad esasperarli. Tali problemi sono dovuti sicuramente alla difficoltà di mastering tipica della dubstep, un genere per niente facile per un produttore che non vi lavori abitualmente. Nell’album è incluso il singolo 2 Aprile. A fronte di una base semplice, ma molto efficace, l’esecuzione di Mazz è un po’ carente, e il testo sbilanciato non aiuta. La base di influenza hip-hop di MRN accompagna una contemplazione in solitudine della città sotto la pioggia di settembre. No Filter offre un’interpretazione non molto originale di una “trappata all’americana”, satura di Autotune e con una melodia strumentale che alla lunga dà fastidio. L’outro dell’album dà musicalmente il senso della fine, anche se di una fine frettolosa in alcune soluzioni di testo.
L’esecuzione
Dell’esecuzione di Mazz si è parlato poco finora, dando piú spazio a commenti sulla produzione strumentale: si è fatta questa scelta perché le critiche al modo di rappare-cantare di Mazz sono comuni a quasi tutte le tracce. I testi delle canzoni peccano di una scarsa revisione: in alcuni casi è palese anche per un ascoltatore poco avvezzo al genere una soluzione metricamente piú soddisfacente di quella proposta; in alcuni punti sono molto ripetitivi; nelle tracce piú “arrabbiate” gli sbalzi di violenza verbale sono molto repentini e lasciano spaesato l’ascoltatore. Benché la produzione copra molto queste mancanze, soprattutto nella parte centrale dell’album, esse non possono essere trascurate in un album appartenente ad un genere che si basa soprattutto sulla capacità di esprimersi a parole, a volte addirittura a cappella, con un supporto strumentale minimo — nonostante la sua importanza indubbia. In un lavoro futuro, inoltre, è possibile che i temi personali ed autobiografici non siano sufficienti per generare un prodotto originale e fresco.
Conclusione
Doppia Zeta contiene qualche spunto interessante sia a livello di produzione sia quanto all’introspezione nella lore di Mazz; ciononostante, alcuni problemi di lavoro e rifinitura del testo abbassano drasticamente il livello generale della produzione, comunque piú che sufficiente per essere la prima per Mazz. Ci aspettiamo che in un album futuro molti dei problemi elencati vengano affrontati.
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gioiaassa92-blog · 8 years ago
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IL RACCONTO AUTOBIOGRAFICO
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Buonasera miei cari Lettori e Lettrici, eccomi di nuovo qui a parlarvi del racconto autobiografico. Ricordo a tutti che le immagini le prendo da Google Immagine e non voglio insegnare nulla a nessuno è solo un modo per farvi conoscere i generi dei libri che ci sono. Il racconto autobiografico ha come scopo quello di far conoscere alle altre persone la propria vita. Ha delle caratteristiche fisse…
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I am the Walrus “Io sono il tricheco”
Che l’arte ispiri arte è ormai concetto più che consolidato per i nostri affezionati followers, perciò, dopo gli innumerevoli blog sui legami letteratura-cinema e letteratura-teatro, non vorremmo trascurare i rapporti fra musica (ci limitiamo al pop-rock) e letteratura. Naturalmente segnaliamo soltanto alcuni casi eclatanti, consci del fatto che le idee sono nell’aria e condizionano anche in maniera inconsapevole.
Il capolavoro dei Rolling Stones Sympathy for the devil (dall’album Beggars Banquet del 1968) pare sia stato influenzato dalla lettura de Il maestro e Margherita di Bulgakov, anche se Mick Jagger negò il prestito attribuendolo piuttosto a Baudelaire, ma la relazione con il romanzo russo pubblicato postumo appena due anni prima del disco è evidente.
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Di Guccini citiamo solo Cyrano da Rostand (“perché oramai lo sento, non ho sofferto invano, se mi ami come sono, per sempre tuo, per sempre tuo, per sempre tuo... Cyrano), ma molti sono gli autori frequentati dal coltissimo cantautore di Pavana: da Swift a Borges, da Cervantes a Flaubert, da Omero a Shakespeare.
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Vi consigliamo vivamente un Gaber forse meno conosciuto ma sempre validissimo: l'album da cui è tratto (Sexus et politica, 1970) è l'unico di cui Gaber sia solo interprete e non autore, i testi sono di Virgilio Savona del Quartetto Cetra, che li ha composti ispirandosi alla letteratura latina. Il brano che vi segnaliamo è Ragiona amico mio da Marco Aurelio Antonino (si può leggerlo nel sito della Fondazione Gaber). Una lezione di vita senza prezzo: l’imperatore filosofo ricorda che negli anni fra Vespasiano e Traiano le cose andavano sempre allo stesso modo: disonestà, tradimenti, malattie, guerre, complotti erano all’ordine del giorno, esattamente come ai tempi del Signor G e come ai nostri. Talento e intelligenza in una sola voce.
Ragiona amico mio, riflettici un momento e cerca onestamente di trarne insegnamento e allora capirai che non c’è via d’uscita se vuoi dare un valore a tutta la tua vita non dico che tu debba campare eroicamente ma almeno rifiutare di vivere per niente.
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Non poteva mancare De André in Non al denaro non all’amore né al cielo che si ispira ad alcune poesie contenute nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Due capolavori da cui si può scegliere, fior da fiore, il brano preferito: il mio è Il giudice, splendido anche nella versione live con la PFM.
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Per Bennato ricordiamo, ovviamente, i due concept album: Il burattino senza fili da Pinocchio, e Sono solo canzonette (uscito nel 1980 fu l’album più venduto dell’anno) da Le avventure di Peter Pan di James Barrie.
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Passiamo a I am the Walrus (da Magical Mystery Tour del 1967), una delle canzoni preferite di John Lennon tra quelle da lui composte. “La registrazione del brano comprende nella coda finale uno dei pezzi di improvvisazione più celebri nel canone beatlesiano, con l’introduzione in presa diretta di un estratto da una trasmissione radio della BBC inerente al Re Lear (Atto IV, Scena VI)”. Lennon concepì il testo come una sorta di ripicca scherzosa nei confronti della sua scuola che aveva messo nel programma di studio i testi dei Beatles. Pare che Lennon a questa notizia abbia commentato: “Vediamo se troveranno una spiegazione anche per questo!”. In effetti il pezzo è complesso (anche nel titolo), ricco di citazioni (Allen Ginsberg, Lewis Carrol, Poe, Bob Dylan) e riferimenti autobiografici (per esempio al sergente Norman Pilcher responsabile dell'arresto di alcuni membri dei Rolling Stones e, in seguito, anche dello stesso Lennon).
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Il suggerimento narrativo di The Ghost of Tom Joad (1995) di “The Boss”, alias Bruce Springsteen, è più che esplicito, essendo Tom Joad il protagonista di Furore di Steinbeck, il libro-manifesto della Grande Depressione in America. Uno dei romanzi più belli che abbia mai letto, ma insuperabile è anche il film diretto da John Ford nel 1940, anno in cui facile era accostare gli effetti della crisi economica degli anni '30 con quelli della guerra. Gli innocenti occhioni azzurri di Henry Fonda, sgomenti di fronte alla profondità cui il bisogno può spingere la cattiveria umana restano indelebili nella memoria di chi ha avuto la fortuna di vedere il film.
Inarrivabili i Queen con Bohemian Rapsody, il cui video ufficiale con quasi un miliardo di visualizzazioni è il più cliccato del web, e anche il biopic sta avendo un grande successo. Questo capolavoro di fantasia, estro e talento musicale pare richiamarsi a Lo straniero di Camus. Ma il brano, scritto interamente da Freddy Mercury, è decisamente criptico e lo stesso Brian May a questo proposito ha dichiarato: “Il significato? Non credo lo sapremo mai, ma anche potendo non lo direi”. Perfetto stile Queen!
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Anche Domenico Modugno ha attinto da diverse forme d’arte: Volare, o meglio Nel blu dipinto di blu, cantata insieme a Johnny Dorelli al Festival di Sanremo del 1958 (la canzone superò ogni record di incassi e classifiche), era stata ispirata da Chagall; Cosa sono le nuvole compare nel quarto episodio, diretto da Pasolini, del film Capriccio all’italiana, rivisitazione dell’Otello recitata da marionette (Totò, Ninetto Davoli, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Laura Betti, Adriana Asti) e dal “monnezzaro” Modugno. Da vedere ascoltando.
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Concludiamo in bellezza con i Doors di The End. La canzone, nata da continue improvvisazioni e rifacimenti di Jim Morrison e inserita nell’album The Doors del 1967, risente di numerosi influssi letterari: Blake, Hawthorne, Poe, Kerouac, Nietzsche, ma il richiamo più evidente ed esplicito è all’Edipo Re di Sofocle, testo molto studiato all’epoca soprattutto da Jung che stava rielaborando la teoria freudiana del complesso edipico. L'assolo di chitarra è tra i più famosi della storia della musica.
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Infiniti altri sono i musicisti che, in modo più o meno consapevole, hanno saputo alimentare la loro creatività con il contributo di fonti letterarie. Ne citiamo solo alcuni: Battiato, Dire Straits, Iron Maiden, Metallica, Radiohead, Oasis, Nirvana, Capossela, The Cure, Led Zeppelin, Fossati, Paolo Conte, Battisti-Panella, Dalla, Vecchioni, Bersani, De Gregori, David Bowie.
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carmenvicinanza · 2 years ago
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Laura Maltini Lepetit, l’editrice delle donne
https://www.unadonnalgiorno.it/laura-maltini-lepetit/
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Laura Maltini Lepetit è stata una scrittrice e editrice italiana, autrice di Autobiografia di una femminista distratta.
Nata a Roma il 3 agosto 1932, a dodici anni si è trasferita a Milano con la famiglia.
Si è laureata in Lettere moderne all’Università Cattolica di Milano. A ventiquattro anni ha iniziato a insegnare e ha sposato Guido Lepetit.
Nel 1962 ha rilevato, con Anna Maria Gregorietti e Vanna Vettori, la Libreria Milano Libri.
Tre anni dopo, ha creato, insieme a Giovanni e Anna Maria Gandini, Linus una rivista a fumetti con le strisce dei Peanuts.
Negli anni settanta si è avvicinata e iniziato a militare nel movimento femminista.
Nel 1975, ha fondato la casa editrice La Tartaruga per pubblicare il libro, Le tre ghinee di Virginia Woolf, che non era mai stato tradotto in italiano.
Pubblicando solo scritti di donne, ha costruito e conservato un patrimonio di saggi, romanzi e scritti autobiografici.
Ha pubblicato oltre 400 libri di più di 181 autrici di tutto il mondo, famose e in via di affermazione. Ha usato scelte coraggiose e soprattutto generose, ha fatto conoscere al pubblico italiano, scrittrici inedite o mai tradotte.
Per prima, ha pubblicato i testi della comunità filosofica Diotima di Luisa Muraro, oltre a collane di letteratura nera, di fantascienza e di saggistica.
La piccola e prestigiosa casa editrice milanese La Tartaruga è stata il marchio più importante dell’editoria femminile e femminista italiana.
Nel 1998, ha venduto il marchio e il catalogo alla Baldini Castoldi Dalai Editore.
Tra i tanti riconoscimenti per il suo lavoro e diffusione culturale, nel 1987 è stata insignita del titolo di Cavaliere del Lavoro «per meriti morali e professionali».
Laura Maltini Lepetit è stata una donna colta e coraggiosa, da attivista e imprenditrice illuminata, ha propagato cultura e pensiero femminile per quasi mezzo secolo.
È morta a Poggio Murella, il 6 agosto 2021.
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pangeanews · 6 years ago
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Uno scrittore che non teme l’iconoclastia e la strafottenza: storia dell’inafferrabile Max Aub (che scrisse la più bella delle biografie immaginarie)
Chi è stato Max Aub e che cosa ha da dire ancora ai suoi lettori di oggi? Dare un giudizio complessivo su di lui è molto difficile senza ricostruire almeno parzialmente i suoi percorsi di scrittura e di vita. La poliedricità della sua produzione e i molteplici ruoli da lui impersonati (il commediografo, il romanziere, il saggista, il diarista e l’inventore di biografie tra il serio e il faceto) rendono difficile individuare una linea interpretativa all’interno della sua opera fitta e complessa. L’opera di Max Aub risulta difficilmente etichettabile all’interno dei recinti della critica tradizionale e, soprattutto, rifugge a una definizione valida una volta per tutte.
I tempi letterari di Max Aub sono stati almeno due. Alla dimensione sperimentalistica, tutta fatta di intuizioni estemporanee e di provocazioni programmaticamente intriganti, è sempre stata collegata un’importante serie di opere maggiormente legate a forme di realismo critico, inaugurata da testi teatrali più impegnati sotto il profilo sociale. A questa fase, tuttavia, è poi sempre stata intrecciata una serie di divertissement solo apparentemente disinvolti e smagati come è il caso della finta biografia artistica Jusep Torres Campalans del 1958.
In sostanza: Max Aub ha alternato testi di critica della società con intenti di intervento sulla realtà e la sua drammatica e prepotente urgenza a opere provocatorie e “leggere”, intese a produrre effetti esilaranti o solo spiazzanti nel lettore. A questo livello appartengono i testi teatrali raccolti sotto il titolo di L’Impareggiabile malfidato (l’opera con questo stesso titolo è del 1931) come pure i brevi testi narrativi che vanno direttamente inclusi nella categoria del “delitto esemplare”. Questa raccolta di testi brevissimi e folgoranti, il primo libro di Aub a essere conosciuto in Italia, se si escludono i testi teatrali della sua prima stagione, presenta illuminazioni surreali e spesso allucinate di notevole qualità espressiva.
Delitti esemplari viene attribuito alla fase satirica (o comunque umoristica) della prosa dello scrittore spagnolo ma, in realtà, è molto di più: è un tentativo di mostrare, in maniera deliberatamente amplificata, l’altra faccia dell’esistenza. Basterà leggere uno o due dei brevissimi raccontini della raccolta per rendersene conto:
«Sono maestro. Da dieci anni insegno nella scuola elementare di Tenancingo. Sui banchi della mia classe sono passati tanti bambini. Credo di essere un buon maestro. Lo credetti finché non spuntò fuori quel Panchito Contreras. Non mi prestava alcuna attenzione e non imparava assolutamente niente: perché non voleva. Nessuna punizione, né morale né corporale, gli faceva effetto. Mi guardava insolente. Lo supplicai, lo picchiai: non ci fu verso. Gli altri bambini cominciavano a prendermi in giro. Persi ogni autorità, il sonno, l’appetito, finché un giorno non ne potei più, e, perché servisse d’esempio, lo impiccai all’albero del cortile»
Il tono, come si può vedere, è beffardo, scritto da una penna intrisa nel vetriolo, fatta di provocazioni e di intimidazioni – una scrittura che non concede niente a nessuno e si fa spazio per pura forza di intelligenza, una scrittura che non teme l’iconoclastia e una qual certa dose di strafottenza, quella stessa che nel 1960 lo spinse a pubblicare La vera storia della morte di Francisco Franco. Ma Aub non è soltanto un giocoliere della parola – le tragedie da lui vissute sono autentiche. Considerato un autentico giovane talento del nuovo teatro spagnolo, antesignano del teatro dell’assurdo ancora di là da venire, l’impatto con le vicende tragiche e sanguinose della Guerra Civile spagnola, lo costringono alla fuga in Francia. Ricercato dai franchisti per il suo impegno politico (è sua la sceneggiatura di Sierra de Teruel, il film di André Malraux ispirato al suo romanzo La speranza e girato in studio tra il 1938 e il 1939, a guerra finita), Aub riparò in Francia dove si aspettava un’accoglienza quanto meno decente. E, invece, no: segnalato alla polizia francese come “comunista e rivoluzionario d’azione ebreo” viene arrestato il 5 aprile 1940 e detenuto, in un primo tempo, nello stadio di Roland Garros, poi spedito nel campo di concentramento di Le Vernet d’Ariège, a pochi chilometri dalla frontiera pirenaica. Rilasciato, in un primo tempo, grazie alla mediazione del governo messicano, le sue traversie continuano: imprigionato a Nizza, poi di nuovo a Le Vernet, finisce su una nave destinata al trasporto bestiame e deportato al campo algerino di Djelfa da cui riuscirà ad uscire il 18 maggio 1942 sempre per mediazione messicana e, dopo un soggiorno clandestino a Casablanca, si imbarca per il Messico dove resterà per tutto il resto della sua vita (Aub morirà il 23 giugno 1972 a soli 69 anni – era nato a Parigi nel 1903). Nei trent’anni dell’esilio messicano tornerà una sola volta in Spagna nel 1969. Delle vicende sconsolate e spesso irritate del soggiorno spagnolo (dal 23 agosto al 4 novembre di quell’anno) parlerà a lungo in La gallina ciega del 1971 che sarà il libro della disillusione e della critica alla società spagnola, del ritorno alle origini e della rinuncia definitiva a rientrare nel panorama culturale spagnola dell’epoca ormai postfranchista.
Ma la dimensione realistica, di denuncia esistenziale e di polemica politica insieme, non è concentrata soltanto nella serie di sei romanzi dedicati alle vicende della Guerra Civile e intitolati definitivamente nel 1968 Il labirinto magico, ma compare anche in testi precedenti come il dramma San Juan del 1943. In esso, la vicenda di una nave mercantile (il San Juan appunto) che dovrebbe trasportare dei profughi ebrei in fuga dalla Shoah ormai imminente verso la Palestina assurge a simbolo della tragedia universale del vivere e del dover scegliere che cosa fare in una situazione apparentemente impossibile. Bloccati in acque territoriali internazionali, respinti da tutti i paesi cui hanno chiesto asilo, i personaggi vivono l’attesa di una possibile soluzione dei loro problemi di sopravvivenza senza raggiungerla.
Il suo libro più significativo degli anni Cinquanta è però la biografia immaginaria dedicata a Jusep Torres Campalans, un pittore catalano che non è mai esistito ma che ricorda le vite di Picasso e di altri pittori spagnoli attivi a Parigi negli anni Trenta: quello di Aub è un esercizio divertito e divertente, fatto di innesti da biografie autentiche e di particolari forse autobiografici o forse dedotti imprudentemente da altre vite meno illustri e significative. Ma è soprattutto una dichiarazione di poetica, imbastita com’è di riflessioni sulla pittura, sulla natura e la filosofia dell’arte e la prospettiva di una sua trasformazione e rigenerazione profonde.
Jusep Torres Campalans è stato il primo libro di Max Aub a essere tradotto in Italia (anche se la sua eco non è stata straordinaria) – proporne la lettura oggi significa riproporre, in realtà e in termini nuovi, l’opera e la figura stessa del suo autore. Dedicato ad André Malraux con il quale Aub ha condiviso la realizzazione del film Sierra de Teruel (poi distribuito anni dopo la sua realizzazione, nel 1945, con il titolo più consono di L’Espoir), questo libro si pone a metà tra la serietà e la beffa, tra il romanzo di totale invenzione e la ricostruzione di ambiente storico, vuole essere un “ritratto in piedi” di un personaggio inesistente eppure vivo e presente nella mente di chi legge.
Il pretesto per la sua stesura risulta decisamente occasionale come si deduce dall’incipit del libro: dopo aver tenuto una conferenza a Tuxla Gutiérrez, capoluogo del remoto stato di Chiapas, l’Autore viene presentato a “un uomo magro, dal viso bruno, che chiamavano ‘don Jusepe’” e che gli chiede di dove sia. Ad Aub che gli risponde di essere nato a Parigi, l’uomo risponde: “Parigi… Esiste ancora, Parigi?” e, dopo aver sorriso, si allontana, “dritto, appoggiandosi al bastone”. Allo scrittore che richiede chi sia l’uomo, gli viene risposto che è Jusep Torres Campalans cioè un perfetto sconosciuto per lui. A questo punto, una qual certa curiosità prevale e le domande si moltiplicano: Chi è l’uomo? Cosa fa? Niente. Un personaggio misterioso, dunque. Per questo motivo, incuriosisce l’Autore che decide di ficcare “il naso nella sua vita”. Il risultato sarà la sua biografia per lumi e testimonianze sparse, un esame dettagliato della sua vocazione pittorica, squarci e illuminazioni sulla sua possibile vita privata e intima:
«Per un romanziere che ha scritto anche delle commedie, una biografia è come una trappola. Il personaggio c’�� già, completo, e non si ha nemmeno libertà di tempo. Perché l’opera riesca bisogna attenersi strettamente al protagonista: descriverlo, farne l’autopsia, precisare le date, tentare una diagnosi. Evitare, entro certi limiti, ogni interpretazione personale. Esattamente l’opposto di quel che si fa in un romanzo. Metter le manette alla fantasia, stare ai fatti. Far storia. Ma ecco il punto: si può riuscire a capire un nostro simile servendosi soltanto della ragione?»
La domanda è metafisica ma Aub non l’affronta in questi termini. La verità non gli interessa, anzi lo impiccia, lo fuorvia, in parte lo disturba. Lo scrittore preferisce costruire un mondo del tutto immaginario che però spesso ha il sapore del reale.
In questa prospettiva è forse possibile oggi inquadrare la vicenda letteraria di questo scrittore vissuto tra Europa e Messico senza appartenere a nessuno di questi due universi culturali.
Giuseppe Panella
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Di Max Aub sono leggibili in Italia, tra l’altro, “Delitti esemplari” (Sellerio, 1981), “Gennaio senza nome” (Nutrimenti, 2017) e la biografia immaginaria di “Jusep Torres Campalans” edita quest’anno da Theoria.
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