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#schedature
ilfascinodelvago · 10 months
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Je suis Vizzardelli
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marcel-lo-zingaro · 2 years
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Nell'agosto 1971 Gianni Agnelli si trovava in vacanza quando il pretore di Torino, Raffaele Guariniello, su denuncia dell'ex carabiniere Caterino Ceresa, dipendente fiat dal 1953 e recentemente licenziato, durante la perquisizione nell'ufficio servizi generali FIAT, trovò 354.000 schede di operai - delle quali 151.000 del periodo 67/71 -.
Non erano normali schede di specializzazioni o altro, ma vere e proprie schedature personali e familiari, comprese le preferenze sessuali, praticamente l'operaio perfetto per la fiat doveva essere apolitico o comunque non di sinistra frequentatore della parrocchia, poteva essere iscritto al Msi o a partiti monarchici o di centro.
L'inventore di questa schedatura è stato il massone ed ex presidente fiat Vittorio Valletta.
Per effettuare le schedature ci si affidava sia ai servizi segreti, sia ai vigili urbani di piccoli comuni, come pure delle parrocchie.
Il capo dei servizi di spionaggio fiat era l'ex colonnello dell'aeronautica Mario Cellerino, pilota personale di Agnelli assunto nel 1965 unitamente a 20 ex carabinieri.
Cellerino col consenso del SID scambiava reciprocamente le informazioni, in sintesi i dirigenti fiat avevano libero accesso agli schedari di polizia, carabinieri, SIOS, SID e Enrico Settermaier capo del SID di Torino, mandava regolarmente rapporto alla fiat dalla quale percepiva uno stipendio, come lui anche il capo ufficio ricerche economiche del sifar, il colonnello Renzo Rocca, il quale era a dipendenza diretta fiat e inviava regolarmente tutta una serie di rapporti segreti e poteva effettuare schedature a basso costo utilizzando personale di stato. Rocca poi morì "suicida" il 27 giugno del 1968.
Un altro collaboratore esterno era il questore di Torino Marcello Guida, ex carceriere di Sandro Pertini a Ventotene e implicato nel caso Pinelli, inoltre Filippo de Nardis ( che poi venne nominato capo ispettore al Quirinale durante la presidenza di Giovanni Leone).
Infine anche l'ufficio di collocamento di Torino accettava il nullaosta fiat per le assunzioni.
Le schedature inoltre erano proseguite anche dopo l'approvazione dello statuto dei lavoratori.
Rientrato a Torino in tutta fretta Agnelli si affrettò a telefonare al presidente Saragat e al procuratore generale Colli quest'ultimo assunse a se il fascicolo e dopo averlo tenuto un mese nel cassetto lo inviò alla corte di cassazione a Roma, la quale per motivi di ordine pubblico trasferì il processo da Torino a Napoli, dove venne insabbiato dopo aver dichiarato segreto di stato i rapporti tra fiat e nato per quanto concerne alcune forniture di veicoli militari.
Si arrivò comunque a sentenza nel 1978, con 36 condanne per corruzione e violazione del segreto d'ufficio, pene comunque estinte dalla prescrizione.
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marcogiovenale · 6 months
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biblioteca di condominio
È la prima biblioteca di condominio che ha aperto i battenti in Via Rembrandt 12 a Milano nel febbraio 2013 . Una portineria in disuso attrezzata con scaffali, poltrone e una macchinetta automatica del caffè per rendere più piacevole la lettura. Con gli inquilini di otto piani di appartamenti a darsi il turno per gestire mille libri arrivati da mezzo quartiere. Fra schedature, registri per…
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palmiz · 3 years
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La provincia di Bolzano ha attivato il pass vaccinale per accedere a ristoranti, bar, attività varie.
Ricreati cittadini di serie A e B , discriminatorio? Secondo me si è tanto. Oltre alla violazione della privacy.
La storia non insegna proprio niente, e che comincino proprio loro fa pensare.
D'altronde sono abituati a discriminare gli italiani in favore degli bolzanini, certe cose gli vengono proprio spontanee.
Shit
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scogito · 3 years
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Le simulazioni...
“La crisi COVID-19 è stata citata come la principale giustificazione per accelerare quella che viene definita la trasformazione digitale del settore finanziario e di altri settori, che il World Economic Forum e i suoi partner promuovono da anni”.
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abr · 4 years
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Una frattura trasversale (...): il partito della «paura di morire» contro quello dell' incontenibile «voglia di vivere», la sottile nostalgia del tutto chiuso contro la smania del tutto aperto. Sono due psicologie, due modi di reagire alle devastazioni del virus, due mentalità che stanno affiorando mentre le sbarre, una ad una, vengono demolite. Due modelli culturali (...).  Forse conta l' anagrafe, visto che la «voglia di vivere» si fa strada soprattutto sui giovani. O forse conta la posizione sociale e lavorativa, con i lavoratori del pubblico impiego, per esempio, per i quali l' apertura non è la condizione indispensabile per uscire dalla disperazione di un lavoro che sparisce, perché il posto è più garantito, e lo stipendio sicuro è un' ancora di salvezza.  (...) Il partito della chiusura ha orrore del pieno, equipara ad apocalittici assembramenti persino le passeggiate all' aria di tre, quattro persone insieme, se potesse metterebbe agli arresti domiciliari i giovani fanatici dello spritz, pensa a transumanze quando le frontiere tra le regioni verranno meno, vuole aspettare ancora, non si fida, deplora quest' ansia puerile di libertà, vorrebbe mettere gli anziani in quarantena permanente, pende dalle labbra dei virologi che in televisione si mostrano più pessimisti e sorride di compatimento con gli scienziati che si mostrano meno catastrofisti, aderisce in toto alle parole dei governatori delle regioni che ipotizzano frontiere regionali sigillate e schedature sanitarie di massa per isolare gli untori, diffida dei numeri troppo positivi quotidianamente somministrati dai media, dice che c' è il sommerso, che «è solo la punta dell' iceberg», che il ritorno del virus sarà devastante (allora se ne va prima di ritornare? Non è detto), che l' Iss aveva immaginato terapie intensive strapiene con le riaperture. Poi c' è il partito della voglia di vivere che (...)  comincia a pensare che siamo sull' orlo di una «dittatura sanitaria», che il controllo sociale sui comportamenti dei cittadini nasconda inconfessabili pulsioni autoritarie, «non siamo come in Cina», pensa che i cittadini siano capaci di coniugare libertà con responsabilità, che le briglie sciolte sono la garanzia per ripartire, che la disperazione sociale provoca almeno tanta sofferenza quanto il Covid 19, vede la luce in fondo al tunnel, quando può abbassa le mascherine. (...)  Nel partito della paura trapela un' ansia di ordine contro il muoversi anarcoide delle persone lasciate a se stesse, la precauzione come filosofia di vita, la diffidenza verso gli esseri umani irresponsabili, bambini inclini alla disubbidienza da riportare nei canoni della disciplina, il silenzio della coesione comunitaria. Oggi, mentre l' Italia si riapre, questi due tipi di italiani si guardano un po' in cagnesco. (...).
PG Battista sul Corriere la butta sull’antropologica differenza e un po’ ci azzecca, via https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/vi-ricordate-quando-ci-sentivamo-uniti-cantando-balconi-ecco-torneremo-238213.htm
Unico suo errore: considerarla una divisione “tutta nuova, che fa a pezzi le vecchie barriere, anche tra destra e sinistra”. Nulla di più erroneo, è invece una divisione molto RIVELATRICE di mentalità e allineamenti: borghesi ZTL benpensanti reazionari immobilisti descrescisti pessimisti di varie gradazioni a sinistra, contro libertari ottimisti aperti di varie specie e gradazioni a destra. 
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paoloxl · 4 years
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https://www.regesta.com/2013/04/09/9-aprile-1969-la-rivolta-di-battipaglia/
9 aprile 1969, Sciopero Generale, in città c’è una sana e democratica volontà di protesta e l’adesione totale alla richiesta del fondamentale diritto dell’uomo al “Lavoro”
Battipaglia era diventata nel 1929  una “Città Nuova” del regime e nel 1969 godeva di una discreta presenza industriale,   avendo vissuto un poderoso boom tra gli anni 50 e 60, tanto più rilevante se si pensa che a causa della sua posizione era stato uno dei principali campi di battaglia nel corso dell’operazione Avalanche, lo sbarco alleato del 9 settembre 1943, risultandone quasi interamente distrutta come si può osservare in questo Combat Film dell’Istituto Luce.
All’inizio del 1969 si paventa la chiusura di molte fabbriche e per il nove aprile i dirigenti politici erano attesi a Roma per un incontro. In loro sostegno la città è tutta in piazza ma quando un gruppo si dirige verso la stazione ferroviaria un commissario, con estrema rigidità, indossa la fascia tricolore e ordina lo squillo di tromba, segnale della carica. La polizia interviene pesantemente ma la gente comune non ci sta, è esasperata, si ribella e come qualche mese prima ad Avola,  uomini dello stato sparano: due innocenti vengono per sempre tolti ai loro affetti.
Muoiono Carmine, 19 anni colpito alla testa e Teresa, giovane professoressa, raggiunta da una pallottola in dotazione alle forze dell’ordine, al terzo piano della propria abitazione. Le Forze dell’ordine vengono letteralmente cacciate via da Battipaglia e la città diventa, di fatto,  indipendente per qualche ora.
In fondo all’articolo si può trovare un lungo saggio su quella giornata per cui non mi dilungherò  nella descrizione di quei giorni su cui molto (ma forse non tutto!), è stato scritto, questo post è dedicato principalmente al loro ricordo e a cercare di ricostruire il contesto in cui quegli eventi maturarono, per capire quanto e se la loro scomparsa fu “solo” una tragica casualità.
C’è però ancora un ultimo sincero omaggio da fare anche a tutti coloro i quali scesero in piazza allora e ne subirono le conseguenze, più di un centinaio di feriti in una città che non aveva neppure un ospedale, tra essi il fotografo Elio Caroccia, che compare nel video che segue, picchiato dagli agenti perchè aveva ripreso scene di violenza troppo compromettenti per la Polizia. Rimarrà colpito per sempre, nel fisico e nello spirito, da quell’esperienza.
Il giornali più conservatori di allora bollarono la protesta come eversiva mentre l’ufficio propaganda del PCI produsse un documentario, ripreso e ampliato nel 70, per raccontare il disagio popolare. Quel documentario si chiamava proprio “Ritorno a Battipaglia” .
Oggi la ricchezza di fonti di informazione d’archivio è un fatto consolidato e a queste fonti abbiamo cercato accesso per dare dei fatti una lettura obiettiva. La “rivolta di Battipaglia” non può essere correttamente letta se non si ricostruisce il clima di quel tragico 1969 che proprio da Battipaglia vede partire una escalation di tensione che culminerà nella strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano.
L’anno comincia con un episodio tragico che anche in questo caso vede protagonista un ragazzo, un semplice cittadino che si sacrifica per la sua gente. In questo filmato dell”Archivio Luce si parla sia del suicidio di Jan Palach (19 gennaio 1962) e della primavera di Praga, così dilaniante per la sinistra italiana, sia dell’elezione del controverso Nixon alla Casa Bianca (unico presidente Usa dimessosi per uno scandalo, il Watergate).
“ti alzasti felice come non mai […] poi sempre più felice, mi hai salutato
Ciao sorellina, oggi si scende in piazza, oggi si protesta, ma tu ignoravi che quel tragico giorno sarebbe stato l’ultimo della tua vita. […] Liliana, vedrai, un giorno cambierà tutto, saremo liberi nel Socialismo ed in un mondo di eguali”.  […] Invidiavi i giovani coraggiosi che morivano da eroi, ma di questo adesso non ne puoi dubitare perché anche tu sei morto come un vecchio partigiano nel fiore degli anni più belli.” (Liliana Citro)
Il suicidio di Jan si scolpì nel cuore di Carmine, come ricorda la sorella Liliana in quel filmato, e lo spinse con coraggio a essere in piazza con tutti, purtroppo ad andare incontro al suo tragico destino
Il 27 febbraio Roma è sconvolta dalle proteste per la visita di Nixon e studenti di destra irrompono nella facoltà di Magistero, nel tentativo di fuga muore uno ragazzo di 23 anni, Domenico Congedo , studente mentre il 31 marzo si insedia la Commissione Parlamentare che dovrà indagare sul piano Solo del 1964 e sulle schedature del famigerato SIFAR
E’ proprio nel 1969 che Almirante comincia a dirigere l’ MSI, in Grecia c’è una giunta militare, la terribile dittatura dei “colonnelli”, e l’Italia si trova a rappresentare la terra di confine tra i due blocchi USA e URSS, si succedono eventi che nascono dalla protesta giovanile o dal torbido rimestare di molti servizi segreti come la rete Gladio, attiva già dal 1964, ma riconosciuta, solo dopo molte reticenze, dall’allora Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, nell’ottobre del 1990. La Commissione Stragi ipotizzò però ceh Gladio non fu l’unica struttura segreta e che ci furono strutture simili fin dal primo dopoguerra.
Il 9 aprile la violenza si abbatte sui cittadini di Battipaglia, qualche giorno dopo, alla Camera dei Deputati, Sandro Pertini, commosso presidente dell’Assemblea, ricorda i morti di Battipaglia
“Onorevoli colleghi, sono certo di interpretare il sentimento vostro, se rinnovo da questa tribuna i l profondo cordoglio per le vittime dei tragici fatti di Battipaglia, fatti che hanno scosso e turbato la coscienza dell ‘intera nazione.
Ma non basta manifestare la nostra pietà per le vittime e la nostra costernazione per quanto è accaduto. Dalla nostra qualità di rappresentanti del popolo ci deriva un preciso dovere : impedire che fatti simili possano ancora ripetersi […] Solo pensando ai vivi non sicuri del loro domani possiamo degnamente onorare i morti, povere vittime innocenti.”
Il ministro Restivo difende senza dubbi l’operato della polizia e i deputati conservatori evocano i fantasmi della rivoluzione e pretendendo un’inasprimento del cosiddetto “ordine”, ragion per cui il dibattito si trasforma in uno scontro tra le tesi del governo e la sinistra che chiede invece con molta forza che la polizia non usi più le armi nel corso di manifestazioni di piazza. Presidente del Consiglio è Mariano Rumor, coinvolto (e poi prosciolto) anni dopo nello scandalo Lockheed, intervengono nel dibattito, tra gli altri, su opposte posizioni Almirante, Andreotti, Avolio, Covelli, Ferri, Guarra, Malagodi, Pajetta, Scalfari, Donat Cattin e D’Alema.
Battipaglia è lontana dalle tensioni delle grandi città come Roma e Milano e ancora oggi le testimonianze raccontano di una rivolta popolare che allontanò spontaneamente politici, giornalisti e provocatori. Eppure una inchiesta indipendente condotta dopo la strage di Milano rivelò che il giorno prima l’agenzia OP di Pecorelli avrebbe previsto disordini molto seri a Battipaglia (come purtroppo accadde) e annunciato la presenza di numerosi attivisti di Avanguardia Nazionale di Stefano delle Chiaie.
Pecorelli era un giornalista scomodo, con molte informazioni di prima mano dei “servizi”, in genere non parlava a caso e la sua rivista era spesso un’arma di ricatto, ragion per cui era seguito e temuto negli ambienti politici. Pecorelli ritrattò successivamente e accusò dell’incauta pubblicazione Pacciardi ma la previsione, rivelatasi tristemente esatta, non fu mai riportata da alcun giornale nazionale. Pecorelli morì, ucciso, 10 anni dopo e il 20 marzo 1979 alla Corte di Assise di Perugia ci saranno condanne importanti per quell’assassinio, come quella del senatore Andreotti, annullata successivamente dalla Corte di Cassazione.
La nota di OP indice a pensare che un pezzo della strategia della tensione, che ha insanguinato l’Italia, sia passato anche per le strade e le piazze inconsapevoli di Battipaglia. Di contro abbiamo avuto la fortuna di realizzare un’intervista all’allora comandante dei Carabinieri della stazione di Battipaglia il maresciallo De Marco. Il maresciallo tende ad escludere una presenza determinate di “agitatori” in quanto, a causa della sua attività, conosceva la gran parte delle persone in piazza quel giorno. Il ruolo di mediazione dei carabinieri, riconosiuto da diverse fonti, gli valse un trattamento meno aggressivo da parte dei manifestanti ma il maresciallo De Marco è testimone dell’espasperazione della gente in quelle giornate.
Se nulla si è mai saputo con certezza di trame oscure è certo però che quei fatti diedero il via a una stagione continua di grandi manifestazioni, nelle quali forte fu la contrapposizione tra polizia e manifestanti, una stagionee di attentati come alla Fiera di Milano, alle stazioni ferroviarie e ai treni, con il tragico epilogo di due ragazzi di 22 anni morti il 27 ottobre e il 19 novembre.
A Pisa lo studente Cesare Pardini viene colpito al petto probabilmente da un candelotto lacrimogeno sparato ada altezza uomo, a Milano l’agente Antonio Annarumma perde la vita a bordo della sua jeep per un colpo inferto alla testa. Anche in questo caso la versione ufficiale che parlò di tubi innocenti lanciati dai dimostranti e gli fu si contrapposta una versione che faceva ricadere la causa della mort sull’urto accidentale della jeep. Non venne mai condannato alcun responsabile.
Quel terribile 1969 conosce il suo culmine poi con la bomba di piazza Fontana a Milano, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura ricordata di Gianni Bisiach in “un minuto di storia”.
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italian-malmostoso · 5 years
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29 ottobre 2019 - ROMA - Depositare un documento d'identità nel momento in cui si apre un profilo social. E' questa la proposta del deputato di Italia viva, Luigi Marattin. L'economista renziano lo annuncia su twitter: "Da oggi al lavoro per una legge che obblighi chiunque apra un profilo social a farlo utilizzando un documento d'identità. Poi prendi il nickname che vuoi (perché è giusto preservare quella scelta) ma il profilo lo apri solo così". (continua nel link)
Niente, non ce la fanno. È più forte di loro, non ne hanno mica colpa, ma proprio non ci arrivano. Ce l’hanno dentro la sindrome di Leopold Von Sacher-Masoch.
E dire che è di pochissimo tempo fa  l’idea, sempre di quella parte politica, di abbassare il voto a 16 anni. Vorrebbero acchiappare i voti dei giovani e, contemporaneamente, alienarsi ogni (residua) simpatia con amene proposte come questa.
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La polizia postale, se vuole sapere chi sono in realtà certi odiatori merdosi che si trovano in giro, ci mette un attimo, senza bisogno di schedature di massa, furbacchione!
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sciscianonotizie · 4 years
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Coronavirus: Nappi (Lega), “Chiusura discoteche arma di distrazione. Governo non pensa a imprenditori e neanche alla prevenzione”
“E dopo le schedature dei clienti affidate a ristoratori e baristi, ora la chiusura delle discoteche. Questo governo usa armi di distrazione di massa dai problemi reali che stanno per arrivare” lo dichiara in una nota Severino Nappi, Lega Campania: “Nessun controllo, nessun progetto di prevenzione. Tutto è lasciato alla responsabilità degli operatori privati, costretti a fare quelle attività di...
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source https://www.ilmonito.it/coronavirus-nappi-lega-chiusura-discoteche-arma-di-distrazione-governo-non-pensa-a-imprenditori-e-neanche-alla-prevenzione/
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signorinajulie · 5 years
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Usi della fotografia
per Susan Sontag
Desidero mettere per iscritto alcune mie reazioni alla lettura del libro di Susan Sontag Sulla fotografia. Le citazioni fra virgolette sono tratte dal testo di Sontag; alcune considerazioni sono mie, ma in ogni caso sono originate dalla lettura del suo libro. La macchina fotografica fu inventata da Fox Talbot nel 1839. A soli trent’anni dalla sua ideazione come strumento di svago destinato a un’élite, la fotografia era già utilizzata per schedature della polizia, reportage di guerra, ricognizioni militari, pornografia, documentazione enciclopedica, album di famiglia, cartoline, archivi antropologici (spesso, come nel caso degli indiani degli Stati Uniti, accompagnata dal genocidio), nelle indagini indiscrete e sentimental-moralistiche (erroneamente dette «candid camera»), negli effetti speciali, nei servizi di cronaca e nella ritrattistica. La prima macchina fotografica a buon mercato fu posta in commercio qualche anno più tardi, nel 1888. La rapidità con la quale si arrivò a comprenderne tutti i possibili usi è sicuramente indice della profonda, centrale organicità della fotografia al capitalismo industriale. Marx divenne maggiorenne l’anno in cui fu inventata la macchina fotografica. Fu tuttavia solo nel Novecento, nel periodo fra le due guerre mondiali, che la fotografia divenne il modo più diffuso e «naturale» di occuparsi di immagini. Fu allora che si sostituì al mondo come sua testimonianza diretta. Era il periodo in cui la fotografia veniva considerata quanto di più trasparente, in grado di offrire un accesso diretto alla realtà: il momento di grandi maestri-testimoni come Paul Strand e Walker Evans. Nei paesi capitalisti fu il momento di massima libertà della fotografia: affrancata dalle limitazioni dell’arte, era diventata un mezzo a disposizione di tutti, che poteva essere usato in modo democratico. Quel momento ebbe però vita breve. Fu proprio la «veridicità» del nuovo mezzo a incoraggiarne l’uso a scopi propagandistici. I nazisti furono tra i primi a usare sistematicamente la propaganda fotografica.
Le fotografie sono forse i più misteriosi fra gli oggetti che formano, dandogli spessore, quell’ambiente che noi definiamo moderno. Esse sono in realtà esperienza catturata, e la macchina fotografica è l’arma ideale di una consapevolezza nel suo momento acquisitivo. [pag. 4]
Nel primo periodo della sua esistenza la fotografia rappresentò una nuova possibilità tecnica, uno strumento. In seguito, invece di essere l’occasione per nuove scelte, l’uso e la «lettura» della fotografia cominciarono a diventare un fatto di routine, un aspetto trascurabile della percezione moderna. Numerosi sono i fattori che hanno contribuito a questa trasformazione: la nuova industria cinematografica; l’invenzione della macchina fotografica portatile, grazie alla quale scattare una fotografia ha cessato di essere un rituale per divenire un «riflesso»; la scoperta del fotogiornalismo, in cui il testo è al servizio delle immagini e non viceversa; la comparsa della pubblicità come forza economica primaria.
Attraverso le fotografie, il mondo diventa una serie di particelle isolate e a se stanti, e la storia, passata e presente, un assortimento di aneddoti e faits divers. La macchina fotografica rende la realtà atomica, maneggevole, opaca. È una visione del mondo che nega la connessione e la continuità, ma che conferisce a ogni momento il carattere di un mistero. [pag. 21]
La prima rivista mass-mediologica apparve negli Stati Uniti nel 1936. Nel lancio di Life furono almeno due gli aspetti che si rivelarono profetici e che si sarebbero pienamente realizzati nell’era televisiva postbellica. La nuova rivista illustrata non si finanziava con le vendite, ma con la pubblicità che appariva sulle sue pagine; un terzo delle immagini erano, infatti, pubblicitarie. La seconda profezia riguardava il titolo, che è ambiguo. «Life» può significare che le illustrazioni al suo interno riguardano la vita, eppure sembra promettere molto di più: cioè che quelle illustrazioni sono la vita. La prima fotografia del primo numero giocava proprio su questa ambiguità. Mostrava un neonato e la didascalia diceva: «Life begins…» [La vita comincia…]. Che cosa c’era al posto della fotografia, prima dell’invenzione della macchina fotografica? La risposta più ovvia è: l’incisione, il disegno, la pittura. Ma la risposta più illuminante sarebbe: la memoria. In precedenza la funzione della fotografia era svolta dalla mente.
Proust fraintende ciò che esse sono: non tanto uno strumento della memoria, ma una sua invenzione o sostituzione. [pag. 142]
A differenza di qualsiasi altra immagine visiva, una foto non è una riproduzione, un’imitazione o un’interpretazione del soggetto, ma una sua traccia. Nessun dipinto o disegno, per quanto naturalistico, appartiene al soggetto quanto la fotografia.
Una fotografia non è soltanto un’immagine (come lo è il quadro), un’interpretazione del reale; è anche un’impronta, una cosa riprodotta direttamente dal reale, come l’orma di un piede o una maschera mortuaria. [pag. 132]
La percezione visiva umana è un processo selettivo molto più complesso di quello di una pellicola. Ciò nonostante, a causa della loro sensibilità alla luce, sia l’obiettivo della macchina fotografica, sia l’occhio registrano immagini a grande velocità e in presenza di eventi istantanei. Tuttavia, quel che la macchina fa e l’occhio non potrà mai fare è fissare l’apparenza di quell’evento. Essa isola quell’apparenza dal flusso di apparenze e la serba, forse non per sempre, ma per tutto il tempo che durerà la pellicola. La caratteristica essenziale di questa conservazione non dipende dal fatto che la foto è statica; i provini cinematografici che non sono stati stampati si conservano sostanzialmente nello stesso modo. La macchina fotografica salva una serie di apparenze da un susseguirsi, altrimenti inevitabile, di ulteriori apparenze e le mantiene immutate nel tempo. Prima dell’invenzione della macchina fotografica non c’era niente che potesse svolgere una funzione del genere, se non la facoltà della memoria nell’occhio della mente. Non sto dicendo che la memoria sia una specie di pellicola, sarebbe una similitudine banale. Il paragone pellicola/memoria non ci spiega nulla del secondo termine, ci permette solo di comprendere quanto sia strano e senza precedenti il procedimento fotografico. Eppure, a differenza della memoria, le fotografie in sé non conservano il significato di un evento. Offrono apparenze – con tutta la credibilità e il peso che attribuiamo alle apparenze – estrapolate dal loro significato. Il significato è il prodotto di processi cognitivi.
Il funzionamento avviene nel tempo ed è nel tempo che deve essere spiegato. Solo ciò che narra può farci comprendere. [pag. 22]
Le fotografie di per sé non narrano, trattengono apparenze istantanee. L’abitudine alle fotografie ci protegge ormai contro lo shock che tale conservazione provoca. Paragoniamo il tempo di esposizione di una pellicola con la durata della vita di una foto stampata, e ipotizziamo che la stampa duri solo dieci anni: il rapporto per una fotografia moderna è all’incirca di 20000000000:1. Forse questo ci aiuterà a ricordare la violenza con cui le apparenze sono separate dalla loro funzione per mezzo della macchina fotografica. Dobbiamo distinguere fra due usi ben differenziati della fotografia. Ci sono fotografie che appartengono alla sfera privata e fotografie di uso pubblico. La foto privata (il ritratto di una madre, l’immagine di una figlia, la foto di gruppo della propria squadra) è apprezzata e letta in un contesto che è coerente con quello da cui la macchina fotografica l’ha rimossa. La violenza della rimozione viene espressa talvolta da un moto di incredulità: «Ma quello è davvero papà?». Ciononostante la fotografia mantiene ancora il significato dell’evento dal quale è stata separata. La macchina fotografica è uno strumento meccanico e viene usata per contribuire a una memoria vivente. La foto è un promemoria tratto da una vita mentre viene vissuta.
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In genere la fotografia pubblica contemporanea presenta un evento, cattura una serie di apparenze che non hanno nulla a che fare con noi, suoi lettori, o con il significato originale dell’evento. Offre informazioni, ma informazioni disgiunte da qualsiasi esperienza vissuta. Se la foto pubblica contribuisce a una memoria, si tratta della memoria di un assoluto estraneo che non ci è dato di conoscere. La violenza si esprime in questa estraneità. La fotografia registra una visione istantanea che ha fatto esclamare a quell’estraneo: Guarda! Chi è l’estraneo? Potremmo rispondere: il fotografo. Tuttavia, se consideriamo nel suo insieme il modo di utilizzare le immagini fotografate, la risposta «il fotografo» ci apparirà chiaramente inadeguata. E non possiamo rispondere neppure: coloro che usano le fotografie. È proprio perché non portano in sé alcun significato certo, perché sono come immagini nella memoria di un estraneo, che le fotografie si prestano a qualsiasi uso.
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La celebre vignetta di Daumier che mostra Nadar su una mongolfiera ci suggerisce una risposta. Nadar viaggia nel cielo sopra Parigi – il vento gli ha fatto volare via il cappello – e fotografa la città e la gente ai suoi piedi. La macchina fotografica ha forse sostituito l’occhio di Dio? Il declino della religione coincide con l’ascesa della fotografia. La cultura del capitalismo ha forse costretto Dio nella fotografia? La trasformazione non sarebbe sorprendente come può sembrare in un primo momento. La facoltà della memoria ha fatto sì che in ogni parte del mondo gli uomini si siano sempre chiesti se, come loro erano in grado di salvare certi eventi dall’oblio, ci potessero essere altri occhi capaci di osservare e registrare eventi che altrimenti non avrebbero avuto testimoni. Un tempo gli uomini credevano che questi occhi appartenessero agli antenati, agli spiriti, agli dèi o al loro nume tutelare. Ciò che questo occhio soprannaturale vedeva era inseparabilmente legato al principio di giustizia. Era possibile sfuggire alla giustizia degli uomini, ma non a questa giustizia superiore, alla quale niente o quasi niente poteva essere tenuto nascosto. La memoria implica un atto di redenzione. Ciò che viene ricordato è stato salvato dall’annullamento. Ciò che viene dimenticato è stato abbandonato. Se tutti gli eventi sono visti istantaneamente da un occhio soprannaturale, al di fuori del tempo, la distinzione fra ricordare e dimenticare si trasforma in un giudizio, in un atto di giustizia, grazie al quale il riconoscimento equivale a essere ricordato e la condanna a essere dimenticato. Tale pre-cognizione, originata dalla lunga e dolorosa esperienza del tempo fatta dall’uomo, si ritrova sotto varie forme in quasi tutte le culture e religioni e, molto chiaramente, nel cristianesimo. Da principio, la secolarizzazione del mondo capitalistico in atto durante il XIX secolo, annullò il giudizio di Dio e lo sostituì col giudizio della Storia in nome del Progresso; la Democrazia e la Scienza divennero gli agenti di tale giudizio. Come si è visto, per un breve momento la fotografia fu considerata uno strumento al loro servizio. La fotografia deve ancor oggi a quel momento storico la sua reputazione etica di Verità. Durante la seconda metà del Novecento, il giudizio della storia è stato rinnegato da tutti, tranne i derelitti e i diseredati. Il mondo industrializzato «avanzato», terrorizzato dal suo passato, cieco sul suo futuro, pratica un opportunismo che ha svuotato di ogni credibilità il principio di giustizia. Tale opportunismo trasforma tutto – natura, storia, sofferenza, persone, catastrofi, sport, sesso, politica – in spettacolo. E lo strumento usato a questo scopo – fino al momento in cui la pratica diventa così abituale che l’immaginazione ormai condizionata può farlo da sola – è la macchina fotografica.
Anche il nostro senso di situazione è oggi articolato dagli interventi della macchina fotografica. La loro onnipresenza suggerisce persuasivamente che il tempo è fatto di eventi interessanti, di eventi che val la pena fotografare. Ciò a sua volta autorizza a pensare che qualsiasi evento, una volta avviato, qualunque siano le sue coordinate morali, ha bisogno di un completamento, perché possa venire al mondo qualcos’altro, e cioè la fotografia. [pag. 11]
Lo spettacolo crea un eterno presente di aspettative immediate e la memoria cessa di essere necessaria o desiderabile. Con la perdita della memoria abbiamo perso anche la continuità di significato e giudizio. La macchina fotografica ci solleva dal peso della memoria. Come Dio, ci sorveglia e sorveglia in nostra vece. Ma nessun altro dio è mai stato così cinico, poiché la macchina fotografica registra allo scopo di dimenticare. Susan Sontag individua questo dio molto chiaramente nella storia. È il dio del capitalismo monopolistico.
Una società capitalistica esige una cultura basata sulle immagini. Ha bisogno di fornire quantità enormi di svago per stimolare gli acquisti e anestetizzare le ferite di classe, di razza e di sesso. E ha bisogno di raccogliere quantità illimitate d’informazioni, per meglio sfruttare le risorse naturali, aumentare la produttività, mantenere l’ordine, fare la guerra e dar lavoro ai burocrati. La duplice capacità della macchina fotografica, quella di soggettivare la realtà e quella di oggettivarla, è la risposta ideale a queste esigenze e il modo ideale di rafforzarle. Le macchine fotografiche definiscono la realtà nelle due maniere indispensabili al funzionamento di una società industriale avanzata: come spettacolo (per le masse) e come oggetto di sorveglianza (per i governanti). La produzione di immagini fornisce inoltre un’ideologia dominante. Al mutamento sociale si sostituisce un mutamento nelle immagini. [pag. 154]
La teoria di Sontag sull’uso, comunemente praticato, delle foto porta a chiedersi se la fotografia non potrebbe avere una diversa funzione. Esiste una pratica fotografica alternativa? A tale domanda non si dovrebbe rispondere con ingenuità. Oggi non è possibile alcuna pratica professionale alternativa (se pensiamo alla professione di fotografo), perché il sistema è in grado di omologare qualunque tipo di fotografia. Non è detto, tuttavia, che non sia possibile cominciare a usare le fotografie secondo una pratica che guardi a un futuro alternativo. Questo futuro è la speranza di cui oggi abbiamo bisogno, se vogliamo continuare la lotta, la resistenza contro le società e la cultura del capitalismo. Le fotografie sono state spesso usate come arma radicale nei manifesti, nei giornali, nei pamphlet e così via. Non ho alcuna intenzione di sminuire il valore di queste pubblicazioni militanti, ma credo che l’uso pubblico, corrente e sistematico della fotografia vada messo in discussione, non limitandosi a cambiarne l’angolazione (come si fa con un cannone) per prendere di mira altri bersagli, ma cambiandone la pratica. In che modo? Dobbiamo tornare alla distinzione fra uso privato e uso pubblico della fotografia. Nell’uso privato, il contesto dell’istante registrato si conserva e dunque la fotografia vive in un’ininterrotta continuità. (Se tenete una foto di Peter sulla parete, è improbabile che dimentichiate quel che Peter rappresenta per voi.) La foto pubblica, al contrario, è strappata dal suo contesto e diventa un oggetto inanimato che, proprio perché inanimato, si presta a qualunque uso arbitrario. Nella più famosa mostra fotografica mai organizzata, The Family of Man [la famiglia dell’uomo], (realizzata da Edward Steichen nel 1955), fotografie di ogni parte del mondo erano presentate come se formassero un universale album di famiglia. L’intuizione di Steichen era assolutamente corretta: l’uso privato delle foto può servire da modello per il loro uso pubblico. Purtroppo la scorciatoia da lui presa scegliendo di trattare il mondo diviso in classi come se fosse una famiglia, rese la mostra nel suo insieme (non necessariamente ogni foto esposta) inevitabilmente sentimentale e compiaciuta. La verità è che la maggior parte delle foto di persone parla di sofferenza, e gran parte di quella sofferenza è provocata dall’uomo.
Il primo incontro di un individuo con l’inventario fotografico dell’orrore estremo è una sorta di rivelazione, il prototipo della rivelazione moderna: un’epifania negativa. Per me lo sono state le fotografie di Bergen-Belsen e di Dachau viste per caso in una libreria di Santa Monica nel luglio 1945. Niente di ciò che ho visto dopo – in fotografia o nella realtà – mi ha colpita così duramente, profondamente, istantaneamente. Mi sembra addirittura plausibile dividere la mia vita in due parti, prima di vedere quelle fotografie (avevo allora dodici anni) e dopo, anche se dovevano trascorrere alcuni anni perché ne comprendessi appieno il significato. [pagg. 18-19]
Le fotografie sono relitti del passato, tracce di ciò che è avvenuto. Se i viventi prendessero su di sé il passato, se il passato diventasse parte integrante del processo attraverso cui le persone fanno la propria storia, allora tutte le fotografie riacquisterebbero un contesto vivo, continuerebbero a esistere nel tempo, invece di essere momenti congelati. È possibile che la fotografia rappresenti l’annuncio di una memoria umana, socialmente e politicamente non ancora realizzata. Tale memoria comprenderebbe qualsiasi immagine del passato, ancorché tragico, ancorché colpevole, entro la propria continuità. La distinzione fra uso pubblico e uso privato della fotografia sarebbe in questo caso trascesa. Esisterebbe davvero la Famiglia dell’Uomo. Oggi, nel frattempo, noi viviamo nel mondo come esso è. Eppure questa possibile profezia della fotografia indica in quale direzione si deve sviluppare l’uso alternativo della fotografia. Il compito di una pratica nella memoria sociale e politica, invece di usarla come un sostituto che ne incoraggia l’atrofia.
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Questo compito definirà sia il tipo di immagini da riprendere, sia il modo di usarle. Non esiste, naturalmente, alcuna formula o pratica predeterminata ma, sapendo come la fotografia è stata usata dal capitalismo, possiamo almeno definire alcuni dei principi di una pratica alternativa. Per il fotografo significa pensare a se stesso/se stessa non tanto come a un cronista che si rivolge al resto del mondo ma, piuttosto, come a un «registratore» che documenta gli eventi in favore di chi ne è protagonista. La distinzione è cruciale.
Ciò che rende tanto tragiche e straordinarie foto come queste è il fatto che, guardandole, ci convinciamo che non sono state scattate per compiacere i generali, per sollevare il morale di un pubblico di civili, per glorificare soldati eroici o per impressionare la stampa mondiale: sono immagini che si rivolgono a chi sta patendo ciò che esse mostrano. Proprio per questo rispetto verso il proprio soggetto, le foto sono diventate, per coloro che li piangono, un monumento alla memoria dei venti milioni di russi uccisi durante la guerra (si veda Russian War 1941-45, testo di A.J.P. Taylor, Londra 1978). L’orrore di una guerra che accomuna e coinvolge tutto un popolo ha fatto sì che un tale atteggiamento da parte dei fotografi di guerra (e perfino dei censori) diventasse un fatto naturale. I fotografi, tuttavia, possono lavorare con lo stesso atteggiamento anche in circostanze meno estreme. L’uso alternativo di fotografie già esistenti ci riporta ancora una volta al fenomeno e alla facoltà della memoria. Il fine deve essere quello di costruire un contesto per una foto, costruirlo con le parole, costruirlo con altre fotografie, costruirlo in base alla posizione che essa occupa in una sequenza di foto e immagini. Come? Normalmente le foto vengono usate in modo unilineare – per illustrare un argomento, o per dimostrare un’idea che ha questo andamento:
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Inoltre capita spesso che vengano utilizzate in modo tautologico, di modo che la fotografia non è che la mera ripetizione di ciò che viene detto a parole. Ma la memoria non è affatto unilineare. La memoria lavora radialmente, vale a dire con un numero enorme di associazioni che portano tutte al medesimo evento. Il diagramma è il seguente:
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Se desideriamo rimettere una foto nel contesto dell’esperienza, dell’esperienza sociale, della memoria sociale, dobbiamo rispettare le leggi della memoria. Dobbiamo collocare la foto stampata in modo che acquisti qualcosa della sorprendente compiutezza di ciò che era ed è. Quanto Brecht scrisse a proposito di recitazione in una delle sue poesie, si può applicare a tale pratica. Basta sostituire «fotografia» a «istante» e «ri-creazione del contesto» a «recitazione» :
Così dovrete semplicemente conservare l’istante, senza per questo nascondere ciò che state facendo emergere. Date alla vostra recitazione quella progressione di una-cosa-dopo-l’altra, quel modo di elaborare ciò che avete intrapreso. In tal modo mostrerete il flusso degli eventi e anche il corso del vostro lavoro, consentendo allo spettatore di sperimentare a molti livelli questo Ora, che arriva dal Prima e confluisce nel Dopo, mantenendo molto dell’Ora con sé. Egli siede non solo nel vostro teatro ma anche nel mondo.
Esistono poche grandi fotografie che, di fatto, raggiungono da sole questo obiettivo. Ma ogni foto può diventare questo «Ora» se le viene creato un contesto adeguato. In generale, migliore è la fotografia, più ampio è il contesto che si può creare. Tale contesto ricolloca la foto nel tempo – non nel suo tempo originario, perché è impossibile – ma nel tempo narrato. Il tempo narrato diventa tempo storico quando è assunto dalla memoria sociale e dall’azione sociale. È necessario che il tempo costruito e narrato rispetti il processo della memoria che spera di stimolare.
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Non esiste una sola via per arrivare all’oggetto del ricordo. L’oggetto ricordato non è mai il capolinea al termine di un tragitto. Esistono vari approcci o stimoli che convergono e portano in quella direzione. Bisogna che parole, comparazioni e segni creino a loro volta un contesto per la fotografia; devono cioè indicare e lasciare aperte diverse vie di approccio. Intorno a una fotografia si deve costruire un sistema radiale che le consenta di essere vista in termini allo stesso tempo personali, politici, economici, drammatici, quotidiani e storici.
1978
Sul guardare (About Looking, 1980) Il Saggiatore (traduzione di Maria Nadotti)
John Berger
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ricordoeccome · 6 years
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In questi giorni, avendo parlato spesso della questione immigrazione, mi è capitato di andare a sbattere costantemente contro un muro di disinformazione, un muro difficilissimo da abbattere o da aggirare, perché frutto di anni di propaganda xenofoba a suon di “AIUTIAMOLI A CASA LORO” e “PORTATELI A CASA TUA” (qualcuno, un giorno, magari mi spiegherà l’ossessione per le “case” che hanno questi soggetti).
Visto che il campionario di obiezioni che viene rivolto a ciò che scrivo è più o meno sempre lo stesso, ho pensato che forse potesse essere utile smentire direttamente, tutte assieme, le 5 falsità più diffuse a riguardo con i dati reali.
1) “Noi siamo il paese che accoglie più immigrati in Europa, è giunta l’ora che anche gli altri Stati europei facciano la loro parte” - FALSO
Siamo l’undicesimo paese in Europa per quanto riguarda i rifugiati accolti (fonte UNHCR) e il ventiduesimo paese in Europa per numero di stranieri presenti sul territorio (9.7% della popolazione - EUROSTAT/ISTAT).
2) “Si, ma in quelle cifre non si calcolano i clandestini” - VERO
Gli irregolari (quelli che Salvini chiama “clandestini”, che li fa sembrare molto più pericolosi) non sono conteggiati, nelle stime ufficiali.
Ma incrociando i dati degli sbarchi, delle schedature, dei permessi, dei rimpatri e di quelli che hanno lasciato il nostro paese si ottiene una stima abbastanza realistica per quanto riguarda il numero dei “clandestini” nel nostro paese: circa 500.000.
Pur sommando questo numero a quello degli stranieri “regolari” (5.6 milioni) e pur volendo assumere che, nel resto d’Europa, non ci sia neanche un irregolare, restiamo comunque il ventiduesimo paese in Europa per numero di stranieri.
3) “Gli italiani non ne possono più di furti, la criminalità cresce assieme a furti, rapine, stupri e omicidi, ed è colpa degli immigrati” - FALSO
L’Istat ci fa sapere che, nel 2017, i delitti sono calati del 9.2% rispetto al 2016.
Gli omicidi sono scesi dell’11.8%.
Le rapine sono passate dalle 32.147 del 2016 alle 28.612 del 2017, registrando così anch’esse un calo dell’11%.
Anche i furti sono calati di circa il 9%, passando da 1.319.383 a 1.198.892.
Ed è una tendenza che va avanti da più di un decennio, con minime variazioni.
Nel 2006, i delitti totali erano 2.771.490, nel 2016, prima che scendessero ulteriormente, erano 2.487.389, nel 2015 erano 2.687.249 e così via.
Prima dei recenti fenomeni migratori di massa, in pratica, la criminalità nel nostro paese era maggiore.
4) “Tutta l’Africa non entra in Italia” - VERO
Non c’entra, neanche pressandola un sacco.
Però tutta l’Africa non ha mai cercato di entrare in Europa.
Nel momento di picco, nel 2016, il numero di immigrati sbarcati nel nostro paese era equivalente allo 0.3% della popolazione italiana.
E di quello 0.3% oltre l’80% non voleva restare qui, ma andare altrove.
Oggi, i migranti sbarcati in Italia in tutto il 2018, prima che Salvini diventasse ministro dell’interno, sono 15.517.
Un’invasione, non c’è che dire, bisogna assolutamente proteggersi.
5) “L’Italia è il paese con il maggior numero di analfabeti funzionali in Europa” - FALSO
Questo è un mito messo in giro dai sinistri falsobuonisti che non riuscivano a capacitarsi di come fosse possibile che, un così alto numero di loro connazionali, credesse davvero all’enorme mole di falsità xenofobe sulle quali Salvini ha fondato il proprio successo.
La verità è che, secondo l’indagine OCSE-PIAAC a riguardo, non siamo affatto i primi, in Europa.
Siamo secondi, dietro la Turchia di Erdogan.
E quarti nel mondo (rispetto ai paesi analizzati dall’indagine), dietro Cile, Indonesia e, appunto, Turchia.
Secondo quell’indagine, un po’ meno di un italiano su 3 fino ai 55 anni e quasi un italiano su due dai 55 anni in poi, non capirà cosa ho scritto in questo post.
Però, in compenso, quello stesso italiano capisce benissimo gli slogan, gli hashtag e le frasi più brevi e più semplici.
Scacco matto, falsobuonisti.
Rubbi
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lucasmasala86 · 4 years
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Codici: “Basta schedature, impugneremo l’ordinanza della Regione Sardegna sugli spostamenti”
Codici: “Basta schedature, impugneremo l’ordinanza della Regione Sardegna sugli spostamenti”
Leggi la notizia su Casteddu Online Codici: “Basta schedature, impugneremo l’ordinanza della Regione Sardegna sugli spostamenti”
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tmnotizie · 4 years
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di Tonino Armata (presidente onorario associazione Città dei Bambini)
SAN BENEDETTO – Egregio direttore,
quest’anno (per l’esattezza il 20 maggio), lo Statuto dei lavoratori compie 50 anni, essendo stato approvato con legge 20 maggio 1970 n. 300.
Più che l’occasione per festeggiare un anniversario, credo che si tratti dell’occasione per una riflessione approfondita sulle ragioni che condussero a quella legge, sui suoi contenuti essenziali e, soprattutto, sul suo stato di salute e sulle prospettive future.
Ci sarà tempo per approfondire l’esame in molte sedi, e si prevedono iniziative importanti, ma qualche notazione può già essere fatta, senza il rischio dell’improvvisazione, visto che si tratta di un tema sul quale si discute da anni, da parte di chi pretenderebbe di ampliarlo, irrobustirlo e aggiornarlo e chi invece ha tentato e tenta di affossarlo.
«La Costituzione entra in fabbrica»: nel maggio di cinquant’anni fa l’Avanti! commentò così, con molte ragioni, l’entrata in vigore dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Era stato approvato in prima istanza al Senato nel dicembre del 1969, negli stessi giorni in cui si concludeva positivamente la grande e tesa ventata dell’”autunno caldo” (e contro di essa si profilava cupamente, a Piazza Fontana, la stagione delle stragi neofasciste e della “strategia della tensione”).
L’approvazione dello Statuto con l’alleanza e il mutuo riconoscimento tra gli studenti del Sessantotto e i protagonisti “dell’autunno caldo” – una stagione breve ma intensa che caratterizzò la prima metà degli anni Settanta – nacque dall’innamoramento del movimento degli studenti per la straordinaria radicalità delle loro forme di lotta e per il profilo nettamente egualitario ed antiautoritario dei loro obiettivi, annunciava il decennio più intensamente riformatore della storia della Repubblica.
In quello stesso 1970 vi sono la legge sul divorzio e l’istituzione sia delle Regioni che dello strumento referendario, previsti dalla Costituzione ma rimasti sin lì inattuati; vi saranno poi il diritto di voto a 18 anni, il nuovo diritto di famiglia, la riforma penitenziaria, e infine la riforma sanitaria, la regolamentazione dell’aborto e la “legge Basaglia” sugli ospedali psichiatrici.
Il “padre” dello Statuto dei lavoratori, il socialista Giacomo Brodolini era scomparso nel luglio del 1969 ma il suo lavoro fu continuato con convinzione da Carlo Donat Cattin, che lo sostituì al Ministero del Lavoro, e da Gino Giugni, cui Brodolini aveva affidato la guida del progetto.
Quarantun articoli «a tutela della libertà e dignità dei lavoratori e della libertà sindacale»: volti cioè a tutelare l’organizzazione sindacale all’interno delle fabbriche e a limitare interventi e controlli padronali lesivi, appunto, dei diritti costituzionali.
Articoli scarni, ma ci riportano a quel tempo: è proibita ogni selezione o discriminazione dei dipendenti in base alle loro opinioni politiche, la costituzione o il sostegno a sindacati “padrona-li”, l’uso di guardie giurate in funzione repressiva e di «impianti audiovisivi per finalità di controllo», e così via.
Ebbe un significato potente la conquista dell’assemblea e di altri diritti di organizzazione all’interno delle fabbriche, nel vivo di un rinnovamento sindacale caratterizzato anche dall’elezione diretta dei delegati di reparto. E da un progetto di unità sindacale che per un attimo sembrò realizzarsi.
Fu una fondamentale affermazione dei diritti costituzionali, soprattutto, quell’articolo 18 che vietava i licenziamenti «intimati senza giusta causa o giustificato motivo»: vietava cioè i licenziamenti di rappresaglia, volti a colpire attivisti sindacali e politici.
E poneva fine a quei diffusi e vergognosi arbitrii padronali contro i lavoratori socialisti e comunisti che avevano segnato gli anni della guerra fredda: massicci licenziamenti “politici”, reparti “confino”, schedature sistematiche e così via.
Non erano infondate le parole con cui Pietro Nenni apriva così la sua relazione al congresso del Psi nella Torino del 1955, all’indomani del crollo della Cgil nelle elezioni per le Commissioni interne alla Fiat: «l’intimidazione, il ricatto, la rappresaglia sono armi quotidiane (…) gli operai sono spiati, costretti alle loro macchine come automi (…), si è introdotto il sistema delle perquisizioni all’ingresso delle fabbriche» per impedire la diffusione di materiale di propaganda, e i lavoratori «sono posti davanti all’alternativa di votare come vuole l’azienda o di perdere il posto di lavoro».
In quello stesso 1955 quella realtà era documentata anche dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni nelle fabbriche ma la gran parte della stampa taceva, ha annotato Scalfari ne L’autunno della Repubblica: «il pubblico colto non ha mai saputo in che modo, per tutto l’arco degli anni Cinquanta, la classe operaia sia stata sistematicamente disarmata, umiliata, quali drammi individuali e collettivi si siano verificati».
Nel corso degli anni Sessanta questa realtà iniziò ad incrinarsi, nel prender corpo di un sindacalismo rinnovato e nella fase di maggior espansione del lavoro industriale (il 42% degli attivi nel 1970): gli scioperanti nelle fabbriche, poco più di un milione nel 1966 e nel 1967, sono quasi cinque milioni nel 1969, nel clima colto allora da un intenso documentario di Ugo Gregoretti, Contratto.
È approvato in quel clima lo Statuto dei diritti dei lavoratori, e si ricordi che introduceva la “giusta causa” nei licenziamenti solo per le aziende con più di 15 dipendenti (anche per questo il Pci si astenne dal voto, una scelta miope): affiorava anche qui la potenziale tensione fra i diritti dei lavoratori e le logiche delle imprese.
Una tensione “governabile” nelle fasi economiche espansive ma destinata a riproporsi in modo acuto nei momenti di crisi. La crisi venne di lì a poco, provocata anche – nel 1973 – dal forte aumento del prezzo del petrolio, mentre la precedente e lunga “compressione dei diritti” aveva talora esasperato la condotta sindacale e i comportamenti operai.
Vi rifletterà più tardi, criticamente, lo stesso Giugni: in quel clima, scrisse, le libertà previste dallo Statuto «divennero (anche) tollerate libertà di assenteismo o inamovibilità per gli eccedentari ed esuberanti». Fenomeni come questi certo affiorarono ma finirono presto, nelle drastiche trasformazioni del lavoro industriale avviate negli anni ’80.
O meglio, nella progressiva scomparsa del lavoro industriale che avevamo conosciuto: sono eloquenti le “metamorfosi” di due luoghi importanti della fase precedente, il Lingotto della Fiat a Torino e la Pirelli Bicocca a Milano. All’interno di quella colossale erosione del mondo operaio le divisioni sindacali si sono progressivamente acuite mentre l’articolo 18 dello Statuto è potuto talora apparire negli anni più recenti non un fondamentale presidio di libertà ma quasi un intralcio.
Non solo nell’ottica di una imprenditoria d’assalto, come è sempre stato, ma talora anche – sciaguratamente – nella proposta di un “riformismo moderno”. Eppure quel testo di cinquant’anni fa ci ricorda nel modo migliore il nesso inscindibile e profondo fra il riformismo reale e i diritti, e ci costringe al tempo stesso ad interrogarci sulla storia lunga della Repubblica. E del lavoro.
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massimo15691 · 6 years
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santoro e la costituzione a giorni alterni
La presa di posizione di Santoro sul giuramento dei ministri sulla costituzione e nella fattispecie il richiamo alla violazione del ministro della costituzione che a suo dire avrebbe violato non spiega però il suo silenzio sull'art 47 sulla tutela del risparmio e dunque i truffati delle banche etruria,veneto,ministro padoan ,https://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/STU_211_LaTuteladelRisparmio.pdf e non spiega neanche quali leggi approvate dal ministro degli interni salvini impedisce la libera,circolazione di cose,beni,persone.Santoro non ci dice che il trattato di shengen é stato sospeso sul territorio nazionale e dunque per dialettica rimane solo frasi come 'purtroppo non possono essere espulsi",oppure censimento,schedature (dal latino censire, valutare).santoro non dice neanche che salvini ha abolito art 13 della costituzione ma dovrebbe dirci se il ministro precedente sul caso cucchi lo abbia fatto La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altre restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva. _______________ Questo articolo apre la parte della Costituzione dedicata ai diritti e doveri dei cittadini. Il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali della persona si colloca qui nella tradizione di documenti fondamentali della moderna cultura giuridica, quali il Bill of Rights del 1689 e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. Circa l'inviolabilità della libertà personale, va rilevato che essa non viene enunciata in modo generico,ma viene garantita da tre specifici presìdi giuridici: la riserva di legge, in forza della quale unicamente il potere legislativo può stabilire casi e modalità con cui è possibile limitare la libertà personale del cittadino; la riserva di giurisdizione, in base alla quale solo il giudice è legittimato ad emettere o convalidare provvedimenti limitativi della libertà; la motivazione dei provvedimenti, per la quale l'ordinanza del giudice deve indicare in modo esauriente i motivi che l'hanno portato a privare l'individuo della libertà personale. Va osservato come questa norma presupponga e renda indispensabile, a garanzia del cittadino, l'autonomia e l'indipendenza dell'autorità giudiziaria dagli altri poteri dello Stato e, in particolare, da quello esecutivo (Governo), che dispone, viceversa, dell'autorità di Pubblica Sicurezza. Inoltre, affidando alla tutela dell'imparzialità della legge le restrizioni della libertà personale, la Costituzione intende impedire che si verifichino casi di persecuzione nei confronti di un cittadino. Le leggi sull'argomento sono state, negli anni, di tenore diverso, anche in rapporto a vere e propri emergenze determinate dalla necessità di combattere la mafia o il terrorismo. Il terzo comma proibisce esplicitamente la tortura, in qualunque forma.Santoro non spiega se la lorenzin o i ministri precedenti hanno garantito a tutti o cittadini l'articolo 32 Dispositivo dell'art. 32 Costituzione La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo [38 2] e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti (1). Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana (2). Allo stesso modo salvini non ha modificato l'articolo 16 della costituzione ma minniti ha garantito la sicurezza l'incolumitá di ogni cittadino comunitario,extracomunitario,o italiano?mastropietro,duccio dini,e gli immigrati colpiti da arma da fuoco?Lo Stato ha il dovere di garantire al cittadino il diritto di sentirsi sicuro"dunque Santoro parli sempre o taccia sempre..
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purpleavenuecupcake · 6 years
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Rom, Conte l'equilibrista riporta Di Maio e Salvini nei confini del contratto
Giuseppe Conte, alla fine è dovuto intervenire per calmare gli animi “tesi” tra i due leader politici del governo gialloverde. La questione del censimento dei rom sollevata da Salvini, non è proprio andata giù a Di Maio che ha subito stemperato l’effervescenza del leader della Lega, dicendo che i censimenti sono illegali e anticostituzionali e che la questione dei rom non è nel contratto di governo. Matteo Salvini, ha immediatamente replicato al leader pentastellato: "lo so anch'io che il censimento dei rom non è nel contratto. Ma credo che il rispetto del codice penale e civile da parte di tutti sia più importante del contratto di governo". Giuseppe Conte è dovuto intervenire per sedare gli animi. "Qui nessuno ha in mente di fare schedature o censimenti su base etnica, che sarebbero peraltro incostituzionali in quanto palesemente discriminatori. Il nostro obiettivo è individuare e contrastare tutte le situazioni di illegalità e di degrado ovunque si verifichino, in modo da tutelare la sicurezza di tutti i cittadini". Il compito del presidente del consiglio italiano non è facile.  Deve imparare in fretta a fare l’equilibrista tra i due soci di maggioranza, i due vice premier che, dopo attimi di tensione, si sono subito piegati alla ragion di Stato garantendo - uno, il leghista - che "non è questa la priorità", e l'altro - il capo politico dei 5 Stelle - che ben venga la correzione di rotta del collega ma che, proprio no, di censimenti non si deve parlare. Giuseppe Conte ha poi voluto indirizzare un messaggio anche alla comunità rom. Il Premier ha enfatizzato tutte le iniziative, dello Stato, finalizzate a verificare l'accesso dei bambini ai servizi scolastici, alla luce del fatto che non di rado vengono tenuti lontani dai percorsi obbligatori di istruzione e formazione. Questa dichiarazione del premier è stata molto apprezzata dal leader della Lega. La vicenda ha comunque dimostrato che entrambi i leader politici del governo in carica, sono sempre a caccia di nuovi argomenti per mantenere alta l’asticella del consenso. Il sondaggio di ieri, che vede la Lega sopra il M5S dello 0,5%, è un  allarme a cui i pentastellati non possono rimanere indifferenti. Luigi Di Maio, quindi, ha scagliato un’altra freccia velenosa dalla sua faretra. Questa volta la scaglia contro i 'parassiti' dello Stato promettendo una guerra senza frontiera alla ricerca dei raccomandati che si annidano nella pubblica amministrazione, a partire dalla Rai  il cui Cda scadrà  il prossimo 30 giugno.   Read the full article
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paoloxl · 6 years
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Sabato 10 novembre decine di migliaia di personehanno attraversato le strade della capitale e hanno preso parte ad una manifestazione così grande e partecipata come non se ne vedevano da molti anni nel nostro paese.
Un corteo molteplice che ha visto sfilare insieme generazioni e provenienze, esperienze e storie che, nelle differenze, hanno dato forma ad un corpo unico, un fronte solidale e unito contro la deriva xenofoba, il razzismo istituzionale, le politiche di esclusione sociale del governo e contro il DL Salvini.
Centomila ‘indivisibili’, così tanti come gli ‘unteilbar’ della manifestazione di Berlino del 13 ottobre scorso, una manifestazione costruita in forma completamente indipendente, autorganizzata e autofinanziata, nell’assenza delle grandi organizzazioni, una mobilitazione cresciuta spontaneamente nei territori muovendo dal tessuto sociale dell’associazionismo e dei movimenti.
Una mobilitazione più forte delle provocazioni delle forze dell’ordine nei confronti dei manifestanti in arrivo a Roma, sottoposti a controlli estenuanti e schedature mortificanti.
Una mobilitazione più forte dell’oscuramento dei media mainstream, capace di lanciare un segnale a livello internazionale: nella società italiana esiste un’opposizione al governo Lega-5Stelle.
In tante e tanti, e diversi, ci siamo messi in discussione e abbiamo raccolto la sfida: costruire una risposta sociale all’altezza dell’attacco ai diritti e alle libertà di tutti condotto dal governo penta-leghista.
In tante e tanti, e diversi, abbiamo creduto nella possibilità di dare un’opportunità di espressione a quel pezzo di società italiana che non vuole arrendersi di fronte alla deriva xenofoba e l’offensiva governativa contro i più deboli e gli ultimi.
Sabato 10 novembre un’imponente manifestazione è tornata a prendersi Piazza San Giovanni per affermare con chiarezza e determinazione che una parte consistente di questo paese rifiuta l’odio razziale, è al fianco di Lodi, Riace e di tutte le esperienze di accoglienza degna, dalla parte delle Ong sotto attacco per il loro impegno umanitario nel Mediterraneo.
Una parte consistente di questo paese intende contrastare questo governo e le sue politiche reazionarie e oscurantiste, a partire dal Decreto Sicurezza e Immigrazione e dal Dl Pillon, come dimostrato dal corteo di Non Una Di Meno del 24 novembre scorso.
Siamo pienamente convinti che la chiave della riuscita, oltre le migliori aspettative, di questa grande manifestazione, sia stata l’apertura, la pluralità, il carattere includente e unitario che ha segnato il percorso dell’ampia e diffusa costruzione della mobilitazione.
Tutte e tutti abbiamo la responsabilità di custodire e preservare questo percorso, consapevoli di come la straordinaria giornata di sabato 10 novembre non possa che rappresentare il debutto di un movimento che può crescere, radicarsi socialmente e diffondere i propri contenuti, un movimento di indivisibili, uniti e solidali.
Per queste ragioni invitiamo tutte e tutti il 16 dicembre a Roma (dalle ore 11:00 presso SCUP, Sport e Cultura Popolare in via della Stazione Tuscolana 82-84bis) ad una grande assemblea unitaria dove immaginare insieme i prossimi passi per rafforzare ed estendere una mobilitazione che deve farsi permanente, contro il governo, il razzismo, per la giustizia sociale e la difesa dei diritti e delle libertà di tutti. Per organizzare la disobbedienza al Dl Salvini in ogni territorio, per dar vita a molteplici percorsi che sappiano contrapporre accoglienza e solidarietà alla barbarie di questo provvedimento. Che ci trovino #indivisibili di fronte ad ogni tentativo di attacco ai più deboli.
Perché chi pensava che la parte degna di questo paese si sarebbe arresa di fronte all’arroganza del governo si sbagliava di grosso.
Siamo solo all’inizio di una storia che continueremo a scrivere, tutte e tutti insieme, con ogni mezzo necessario.
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