#san gregorio della divina pietà
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gontapprentice · 3 months ago
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Fondo Vedo Istituto Luce Fondo VEDO / Sinagoga di Roma Insegne di un negozio al Ghetto di Roma (Cesare Anticoli)
passanti e una donna con bambino affacciata ad una finestra - campo medio
data: 18.05.1961
luogo della ripresa: Roma
colore: b/n
materia e tecnica: gelatina bromuro d'argento/pellicola (poliestere)
oggetto: negativo
codice foto: FV00189859 Luce Anticoli
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jogosmogos · 2 years ago
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17.-21.02.2023 Roma
19.02
Colonna di Marco Aurelio
Chiesa San Marcello al Corso
Piazza Venezia
Monumento Nacional a Vítor Emanuel II
Cordonata Capitolina
Musei Capitolini
Colosseum
Basilica dei Santi Cosma e Damiano
Chiesa di Sant' Ignazio di Loyola
Giolitti - parim gelato Roomas!
Chiesa di Santa Maria Maddalena
Chiesa San Gregorio della Divina Pietà
Ponte Fabricio
Isola Tiberina
Basilica di Santa Maria in Trastevere ja boheemlaslik Trastevere linnaosa
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latinabiz · 3 years ago
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Il santo del 22 agosto: Beata Vergine Maria Regina
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Beata Maria Regina La festività odierna, parallela a quella di Cristo Re, venne istituita da Pio XII nel 1955. Si celebrava, fino alla recente riforma del calendario liturgico, il 31 maggio, a coronamento della singolare devozione mariana nel mese a lei dedicato. Il 22 agosto era riservato alla commemorazione del Cuore Immacolato di Maria, al cui posto subentra la festa di Maria Regina per avvicinare la regalità della Vergine alla sua glorificazione nell'assunzioneal cielo. Questo posto di singolarità e di preminenza, accanto a Cristo Re, le deriva dai molteplici titoli, illustrati da Pio XII nella lettera enciclica “AD COELI REGINA ” (11 ottobre 1954), di Madre del Capo e dei membri del Corpo mistico, di augusta sovrana e regina della Chiesa, che la rende partecipe non solo della dignità regale di Gesù, ma anche del suo influsso vitale e santificante sui membri del Corpo mistico. Il latino "REGINA ", come "REX ", deriva da "REGGERE ", cioè reggere, governare, dominare. Dal punto di vista umano è difficile attribuire a Maria il ruolo di dominatrice, lei che si è proclamata la serva del Signore e ha trascorso tutta la vita nel più umile nascondimento. Luca, negli Atti degli apostoli, colloca Maria in mezzo agli Undici, dopo l'Ascensione, raccolta con essi in preghiera; ma non è lei che impartisce ordini, bensì Pietro. E tuttavia proprio in quella circostanza ella costituisce l'anello di congiunzione che tiene uniti al Risorto quegli uomini non ancora irrobustiti dai doni dello Spirito Santo. Maria è regina perché è madre di Cristo, il re. Ella è regina perché eccelle su tutte le creature, in santità: "In lei s'aduna quantunque in creatura è di bontade ", dice Dante nella Divina Commedia. Tutti i cristiani vedono e venerano in lei la sovrabbondante generosità dell'amore divino, che l'ha colmata di ogni bene. Ma ella distribuisce regalmente e maternamente quanto ha ricevuto dal Re; protegge con la sua potenza i figli acquisiti in virtù della sua corredenzione e li rallegra con i suoi doni, poichè il Re ha disposto che ogni grazia passi per le sue mani di munifica regina. Per questo la Chiesa invita i fedeli a invocarla non solo col dolce nome di madre, ma anche con quello reverente di regina, come in cielo la salutano con felicità e amore gli angeli, i patriarchi, i profeti, gli apostoli, i martiri, i confessori, le vergini.Maria è stata coronata col duplice diadema della verginità e della maternità divina: "Lo Spirito Santo verrà su di te, e la virtù dell'Altissimo ti adombrerà. Per questo il Santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio". Ecco il testo della lettera enciclica (Editrice Vaticana): PIO XII LETTERA ENCICLICA AD CAELI REGINAM(1) DIGNITÀ REGALE DELLA SANTA VERGINE MARIA Fin dai primi secoli della chiesa cattolica il popolo cristiano ha elevato supplici preghiere e inni di lode e di devozione alla Regina del cielo, sia nelle circostanze liete, sia, e molto più, nei periodi di gravi angustie e pericoli; né vennero meno le speranze riposte nella Madre del Re divino, Gesù Cristo, mai s'illanguidì la fede, dalla quale abbiamo imparato che la vergine Maria, Madre di Dio, presiede all'universo con cuore materno, come è coronata di gloria nella beatitudine celeste. Ora, dopo le grandi rovine che, anche sotto i Nostri occhi, hanno distrutto fiorenti città, paesi e villaggi; davanti al doloroso spettacolo di tali e tanti mali morali, che si avanzano paurosamente in limacciose ondate, mentre vediamo scalzare le basi stesse della giustizia e trionfare la corruzione, in questo incerto e spaventoso stato di cose, Noi siamo presi da sommo dispiacere e perciò ricorriamo fiduciosi alla Nostra regina Maria, mettendo ai piedi di lei, insieme col Nostro, i sentimenti di devozione di tutti i fedeli, che si gloriano del nome di cristiani. È gradito e utile ricordare che Noi stessi, il 1° novembre dell'anno santo 1950, abbiamo decretato, dinanzi a una grande moltitudine di em.mi cardinali, di venerandi vescovi, di sacerdoti e di cristiani, venuti da ogni parte del mondo, il dogma dell'assunzione della beatissima vergine Maria in cielo,(2) dove, presente in anima e corpo, regna tra i cori degli angeli e dei santi, insieme al suo unigenito Figlio. Inoltre, ricorrendo il centenario della definizione dogmatica fatta dal Nostro predecessore, Pio IX, di imm. mem., sulla Madre di Dio concepita senza alcuna macchia di peccato originale, abbiamo indetto l'anno mariano,(3) nel quale con gran gioia vediamo che non solo in questa alma città - specialmente nella Basilica Liberiana, dove innumerevoli folle continuano a professare apertamente la loro fede e il loro ardente amore alla Madre celeste - ma anche in tutte le parti del mondo la devozione verso la Vergine, Madre di Dio, rifiorisce sempre più; mentre i principali santuari di Maria hanno accolto e accolgono ancora pellegrinaggi imponenti di fedeli devoti. Tutti poi sanno che Noi, ogni qualvolta Ce n'è stata offerta la possibilità, cioè quando abbiamo potuto rivolgere la parola ai Nostri figli, venuti a trovarci, e quando abbiamo indirizzato messaggi anche ai popoli lontani per mezzo delle onde radiofoniche, non abbiamo cessato di esortare tutti coloro, ai quali abbiamo potuto rivolgerCi, ad amare la nostra benignissima e potentissima Madre di un amore tenero e vivo, come conviene a figli. In proposito, ricordiamo particolarmente il radiomessaggio, che abbiamo indirizzato al popolo portoghese, nell'incoronazione della taumaturga Madonna di Fatima,(4) da Noi stessi chiamato radiomessaggio della «regalità» di Maria.(5) Pertanto, quasi a coronamento di tutte queste testimonianze della Nostra pietà mariana, cui il popolo cristiano ha risposto con tanta passione, per concludere utilmente e felicemente l'anno mariano che volge al termine e per venire incontro alle insistenti richieste, che Ci sono pervenute da ogni parte, abbiamo stabilito di istituire la festa liturgica della «beata Maria vergine regina». Non si tratta certo di una nuova verità proposta al popolo cristiano, perché il fondamento e le ragioni della dignità regale di Maria, abbondantemente espresse in ogni età, si trovano nei documenti antichi della chiesa e nei libri della sacra liturgia. Ora vogliamo richiamarle nella presente enciclica per rinnovare le lodi della nostra Madre celeste e per renderne più viva la devozione nelle anime, con vantaggio spirituale. I Il popolo cristiano ha sempre creduto a ragione, anche nei secoli passati, che colei, dalla quale nacque il Figlio dell'Altissimo, che «regnerà eternamente nella casa di Giacobbe» (Lc 1, 32), (sarà) «Principe della pace» (Is 9, 6), «Re dei re e Signore dei signori» (Ap 19, 16), al di sopra di tutte le altre creature di Dio ricevette singolarissimi privilegi di grazia. Considerando poi gli intimi legami che uniscono la madre al figlio, attribuì facilmente alla Madre di Dio una regale preminenza su tutte le cose. Si comprende quindi facilmente come già gli antichi scrittori della chiesa, avvalendosi delle parole dell'arcangelo san Gabriele, che predisse il regno eterno del Figlio di Maria (cf. Lc 1, 32-33), e di quelle di Elisabetta, che s'inchinò davanti a lei, chiamandola «madre del mio Signore» (Lc 1, 43), abbiano, denominando Maria «madre del Re» e «madre del Signore», voluto significare che dalla regalità del Figlio dovesse derivare alla Madre una certa elevatezza e preminenza. Pertanto sant'Efrem, con fervida ispirazione poetica, così fa parlare Maria: «Il cielo mi sorregga con il suo braccio, perché io sono più onorata di esso. Il cielo, infatti, fu soltanto tuo trono, non tua madre. Ora quanto è più da onorarsi e da venerarsi la madre del Re del suo trono!».(6) E altrove così egli prega Maria: «... vergine augusta e padrona, regina, signora, proteggimi sotto le tue ali, custodiscimi, affinché non esulti contro di me satana, che semina rovine, né trionfi contro di me l'iniquo avversario».(7) San Gregorio di Nazianzo chiama Maria madre del Re di tutto l'universo», «madre vergine, ha partorito il Re di tutto il mondo»,(8) mentre Prudenzio ci parla della Madre, che si meraviglia «di aver generato Dio come uomo sì, ma anche come sommo re».(9) La dignità regale di Maria è poi chiaramente asserita da coloro che la chiamano «signora», «dominatrice», «regina». Secondo un'omelia attribuita a Origene, Elisabetta apostrofa Maria «madre del mio Signore», e anche: «Tu sei la mia signora».(10) Lo stesso concetto si può dedurre da un testo di san Girolamo, nel quale espone il suo pensiero circa le varie interpretazioni del nome di Maria: «Si deve sapere che Maria, nella lingua siriaca, significa Signora».(11) Ugualmente si esprime, dopo di lui, san Pietro Crisologo: «Il nome ebraico Maria si traduce "Domina" in latino: l'angelo dunque la saluta "Signora" perché sia esente da timore servile la madre del Dominatore; che per volontà del Figlio nasce e si chiama Signora».(12) Sant'Epifanio, vescovo di Costantinopoli, scrive al sommo pontefice Ormisda, che si deve implorare l'unità della chiesa «per la grazia della santa e consostanziale Trinità e per l'intercessione della nostra santa signora, gloriosa vergine e Madre di Dio, Maria».(13) Un autore di questo stesso tempo si rivolge con solennità alla beata Vergine seduta alla destra di Dio, invocandone il patrocinio, con queste parole: «Signora dei mortali, santissima Madre di Dio».(14) Sant'Andrea di Creta attribuisce spesso la dignità regale alla Vergine; ne sono prova i seguenti passi: «(Gesù Cristo) portà in questo giorno come regina del genere umano dalla dimora terrena (ai cieli) la sua Madre sempre vergine, nel cui seno, pur rimanendo Dio, prese l'umana carne».(15) E altrove: «Regina di tutti gli uomini, perché fedele di fatto al significato del suo nome, eccettuato soltanto Dio, si trova al di sopra di tutte le cose».(16) San Germano poi così si rivolge all'umile Vergine: «Siedi, o signora: essendo tu regina e più eminente di tutti i re ti spetta sedere nel posto più alto»;(17) e la chiama. «Signora di tutti coloro che abitano la terra».(18) San Giovanni Damasceno la proclama «regina, padrona, signora»(19) e anche «signora di tutte le creature»;(20) e un antico scrittore della chiesa occidentale la chiama «regina felice», «regina eterna, presso il Figlio Re», della quale «il bianco capo è ornato di aurea corona».(21) Sant'Ildefonso di Toledo riassume tutti i titoli di onore in questo saluto: «O mia signora, o mia dominatrice: tu sei mia signora, o madre del mio Signore... Signora tra le ancelle, regina tra le sorelle».(22) I teologi della chiesa, raccogliendo l'insegnamento di queste e di molte altre testimonianze antiche, hanno chiamato la beatissima Vergine regina di tutte le cose create, regina del mondo; signora dell'universo. I sommi pastori della chiesa non mancarono di approvare e incoraggiare la devozione del popolo cristiano verso la celeste Madre e Regina con esortazioni e lodi. Lasciando da parte i documenti dei papi recenti, ricorderemo che già nel secolo settimo il Nostro predecessore san Martino I, chiamò Maria «Nostra Signora gloriosa, sempre vergine»;(23) sant'Agatone, nella lettera sinodale, inviata ai padri del sesto concilio ecumenico, la chiamò «Nostra Signora, veramente e propriamente Madre di Dio»;(24) e nel secolo VIII, Gregorio II, in una lettera inviata al patriarca san Germano, letta tra le acclamazioni dei padri del settimo concilio ecumenico, proclamava Maria «signora di tutti e vera Madre di Dio» e «signora di tutti i cristiani».(25) Ricorderemo parimenti che il Nostro predecessore di immortale memoria Sisto IV, nella lettera apostolica Cum praeexcelsa,(26) in cui accenna con favore alla dottrina dell'immacolata concezione della beata Vergine, comincia proprio con le parole che dicono Maria «regina, che sempre vigile intercede presso il Re, che ha generato». Parimenti Benedetto XIV, nella lettera apostolica Gloriosae Dominae, chiama Maria «regina del cielo e della terra», affermando che il sommo Re ha, in qualche modo, affidato a lei il suo proprio impero.(27) Onde sant'Alfonso, tenendo presente tutta la tradizione dei secoli che lo hanno preceduto, poté scrivere con somma devozione: «Poiché la vergine Maria fu esaltata ad essere la Madre del Re dei re, con giusta ragione la chiesa l'onora col titolo di Regina».(28) II  La sacra liturgia, che è lo specchio fedele dell'insegnamento tramandato dai Padri e affidato al popolo cristiano, ha cantato nel corso dei secoli e canta continuamente sia in Oriente che in Occidente le glorie della celeste Regina. Fervidi accenti risuonano dall'Oriente: «O Madre di Dio, oggi sei trasferita al cielo sui carri dei cherubini, i serafini si onorano di essere ai tuoi ordini, mentre le schiere dei celesti eserciti si prostrano dinanzi a te».(29) E ancora: «O giusto, beatissimo (Giuseppe), per la tua origine regale sei stato fra tutti prescelto a essere lo sposo della Regina immacolata, la quale darà alla luce in modo ineffabile il re Gesù».(30) E inoltre: «Scioglierò un inno alla Madre regina, alla quale mi rivolgo con gioia, per cantare lietamente le sue glorie. ... O Signora, la nostra lingua non ti può celebrare degnamente, perché tu, che hai dato alla luce Cristo, nostro Re, sei stata esaltata al di sopra dei serafini. ... Salve, o regina del mondo, salve, o Maria, signora di tutti noi».(31) Nel «Messale» etiopico si legge: « O Maria, centro di tutto il mondo ... tu sei più grande dei cherubini pluriveggenti e dei serafini dalle molte ali. ... Il cielo e la terra sono ricolmi della santità della tua gloria».(32) Fa eco la liturgia della chiesa latina con l'antica e dolcissima preghiera «Salve, regina», le gioconde antifone «Ave, o regina dei cieli», «Regina del cielo, rallégrati, alleluia» e altri testi, che si recitano in varie feste della beata vergine Maria: «Come regina stette alla tua destra con un abito dorato, rivestita di vari ornamenti»;(33) «La terra e il popolo cantano la tua potenza, o regina»;(34) «Oggi la vergine Maria sale al cielo: godete, perché regna con Cristo in eterno».(35) A tali canti si devono aggiungere le Litanie lauretane, che richiamano i devoti a invocare ripetutamente Maria regina; e nel quinto mistero glorioso del santo rosario, la mistica corona della celeste regina, i fedeli contemplano in pia meditazione già da molti secoli, il regno di Maria, che abbraccia il cielo e la terra. Infine l'arte ispirata ai principi della fede cristiana e perciò fedele interprete della spontanea e schietta devozione popolare, fin dal Concilio di Efeso, è solita rappresentare Maria come regina e imperatrice, seduta in trono e ornata delle insegne regali, cinta il capo di corona e circondata dalle schiere degli angeli e dei santi, come colei che domina non soltanto sulle forze della natura, ma anche sui malvagi assalti di satana. L'iconografia, anche per quel che riguarda la dignità regale della beata vergine Maria, si è arricchita in ogni secolo di opere di grandissimo valore artistico, arrivando fino a raffigurare il divin Redentore nell'atto di cingere il capo della Madre sua con fulgida corona. I pontefici romani non hanno mancato di favorire questa devozione del popolo, decorando spesso di diadema, con le proprie mani o per mezzo di legati pontifici, le immagini della vergine Madre di Dio, già distinte per singolare venerazione. III Come abbiamo sopra accennato, venerabili fratelli, l'argomento principale, su cui si fonda la dignità regale di Maria, già evidente nei testi della tradizione antica e nella sacra liturgia, è senza alcun dubbio la sua divina maternità. Nelle sacre Scritture infatti, del Figlio, che sarà partorito dalla Vergine, si afferma: «Sarà chiamato Figlio dell'Altissimo e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre; e regnerà nella casa di Giacobbe eternamente e il suo regno non avrà fine» (Lc 1, 32-33); e inoltre Maria è proclamata «Madre del Signore» (Lc 1, 43). Ne segue logicamente che ella stessa è Regina, avendo dato la vita a un Figlio; che nel medesimo istante del concepimento, anche come uomo, era re e signore di tutte le cose, per l'unione ipostatica della natura umana col Verbo. San Giovanni Damasceno scrive dunque a buon diritto: «È veramente diventata la Signora di tutta la creazione, nel momento in cui divenne Madre del Creatore»(36) e lo stesso arcangelo Gabriele può dirsi il primo araldo della dignità regale di Maria. Tuttavia la beatissima Vergine si deve proclamare regina non soltanto per la maternità divina, ma anche per la parte singolare che, per volontà di Dio, ebbe nell'opera della nostra salvezza eterna. «Quale pensiero - scrive il Nostro predecessore di felice memoria Pio XI - potremmo avere più dolce e soave di questo, che Cristo è nostro re non solo per diritto nativo, ma anche per diritto acquisito e cioè per la redenzione? Ripensino tutti gli uomini dimentichi quanto costammo al nostro Salvatore: "Non siete stati redenti con oro o argento, beni corruttibili, ... ma col sangue prezioso di Cristo, agnello immacolato e incontaminato" (1 Pt 1;18-19). Non apparteniamo dunque a noi stessi, perché "Cristo a caro prezzo" (1 Cor 6, 20) ci ha comprati».(37) Ora nel compimento dell'opera di redenzione Maria santissima fu certo strettamente associata a Cristo, onde giustamente si canta nella sacra liturgia: «Santa Maria, regina del cielo e signora del mondo, affranta dal dolore, se ne stava in piedi presso la croce del Signore nostro Gesù Cristo».(38) E un piissimo discepolo di sant'Anselmo poteva scrivere nel medioevo: «Come ... Dio, creando tutte le cose nella sua potenza, è padre e signore di tutto, così Maria, riparando tutte le cose con i suoi meriti, è la madre e la signora di tutto: Dio è signore di tutte le cose, perché le ha costituite nella loro propria natura con il suo comando, e Maria è signora di tutte le cose, riportandole alla loro originale dignità con la grazia che ella meritò».(39) Infatti: «Come Cristo per il titolo particolare della redenzione è nostro signore e nostro re, così anche la Vergine beata (è nostra signora) per il singolare concorso prestato alla nostra redenzione, somministrando la sua sostanza e offrendola volontariamente per noi, desiderando, chiedendo e procurando in modo singolare la nostra salvezza».(40) Da queste premesse si può così argomentare: se Maria, nell'opera della salute spirituale, per volontà di Dio, fu associata a Cristo Gesù, principio di salvezza, e in maniera simile a quella con cui Eva fu associata ad Adamo, principio di morte, sicché si può affermare che la nostra redenzione si compì se­condo una certa «ricapitolazione»,(41) per cui il genere umano, assoggettato alla morte, per causa di una vergine, si salva anche per mezzo di una Vergine; se inoltre si può dire che questa gloriosissima Signora venne scelta a Madre di Cristo proprio «per essere a lui associata nella redenzione del genere umano»(42) e se realmente «fu lei, che esente da ogni colpa personale o ereditaria, strettissimamente sempre unita al suo Figlio, lo ha offerto sul Golgota all'eterno Padre sacrificando insieme l'amore e i diritti materni, quale nuova Eva, per tutta la posterità di Adamo, macchiata dalla sua caduta miseranda»;(43) se ne potrà legittimamente concludere che, come Cristo, il nuovo Adamo, è nostro re non solo perché Figlio di Dio, ma anche perché nostro redentore, così, secondo una certa analogia, si può affermare parimenti che la beatissima Vergine è regina, non solo perché Madre di Dio, ma anche perché quale nuova Eva è stata associata al nuovo Adamo. È certo che in senso pieno, proprio e assoluto, soltanto Gesù Cristo, Dio e uomo, è re; tuttavia, anche Maria, sia come madre di Cristo Dio, sia come socia nell'opera del divin Redentore, e nella lotta con i nemici e nel trionfo ottenuto su tutti, ne partecipa la dignità regale, sia pure in maniera limitata e analogica. Read the full article
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annalisalanci · 4 years ago
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Il tesoro delle scienze occulte. Gli stregoni. Le manifestazioni demoniache nella vita religiosa
Le manifestazioni demoniache nella vita religiosa
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La cattiva confessione. Romedius Knoll.
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L'anticristo
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La tentazione di Sant'Antonio di Israel van Meckenem, sec. XV
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La tentazione di Sant'Antonio
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La tentazione di Sant'Antonio
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La tentazione di Sant'Antonio, incisa da Cranach
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La tentazione di Sant'Antonio
La certezza che i fedeli della chiesa avevano nella possibilità da parte della divinità di mostrarsi in certe occasioni agli uomini in forme diverse, non esclusa quella umana era bilanciata da quest'altra certezza, ugualmente logica: al che il demonio poteva apparire nelle stesse sembianze. I diavoli subordinati, suoi satelliti, avevano anche la facoltà di rendersi visibili come gli angeli, satelliti di Dio. Basta leggere gli interminabili capitoli di San Tommaso d'Aquino ha deidicato alla Summa Theologica agli angeli o ai diavoli, così come ai modi in cui possono assumere la forza umana, per comprendere come allora non fosse ammesso alcun dubbio a questo proposito.Le apparizioni del diavolo sono menzionate quasi in ogni pagina degli storici e dei cronisti medievali; alcuni autori, come Thomas de Cantipré, Césaire d'Heisterbach, Pietro il Venerabile, nei suoi due libri di Miracoli e il compilatore dei Dialoghi di san Gregorio Magno tutti costoro sembrerebbe che si siano prefissi unicamente di raccogliere racconti del genere.Chi dunque avrebbe potuto osare di dubitare delle famose apparizioni diaboliche di cui era stato sfortunata vittima sant'Antonio l'eremita nel deserto, e che il grave e solenne padre della Chiesa, sant'Antonio, ha narrato nei minimi particolari? Questa celebre narrazione che nel medioevo fece le spese di molte conversazioni nei chiostri, nelle sale dei castelli o nei tuguri dei poveri, molto prima che Flaubert se ne servisse per un romanzo di grande impegno e di lettura avvincente, ispirò tutti gli artisti che già avevano rappresentato il giudizio universale e che si esercitavano con una Tentazione di sant'Antonio per affrontare infine l'orrida e proibita scena del sabba.La più notevole delle opere di questo genere è forse quella di Israel von Meckenem, incisore fiammingo poco conosciuto del XV secolo, che si direbbe superi tutti i suoi contemporanei per la nobiltà d'ispirazione e la perfezione di fattura. Sant'Antonio è sostenuto a mezz'aria dai demoni, (15), ai quali l'artista ha conferito forme prese dai più grotteschi e ripugnanti ossirinchi, e ciclometopi e cirripedi; inverosimili oloturie del muso atteggiato a smorfia, mictiri dalle molte zampe, limoli dalle proboscidi acuminate. Una scimmia dal muso rabbioso batte un randello sulla testa del santo, al cui saio si aggrappano mostri forniti d'aculei, come quelli dello spandilo o della citera, e della spina dorsale come quelle dei dattolotteri, dei trigli, dei rascassi volanti e degli pteroidi dalle pinne spiegate. Quanto al pio eremita, egli mantiene uno sguardo rassegnato e un sorriso faceto da vecchio smaliziato che ne ho viste di tutti i colori e che sa come tutta questa fantasmagoria in realtà - una volta fatta l'abitudine - non ha nulla di pauroso.Gli artisti del XVI secolo si dimostreranno indubbiamente più prolissi e si compiaceranno di un maggior numero di particolari nel trattare questa scena.Nella sua Grande Tentazione, immensa stampa divisa in due settori (fig. 19), Callot conferisce all'avventura del santo un'ampiezza insolita con una profusione di personaggi ciascuno dei quali meriterebbe uno studio a parte; nella Piccola Tentazione, egli riconduce la scena a proporzioni più modeste e si serve dei metodi del Bruegel, con un senso della misura però, dell'armonia e dell'equilibrio delle masse che non possedeva il maestro fiammingo. La scienza delle diavolerie qui è portata alle più alte vette: quest'opera, già celebre mentre era vivo l'artista, è troppo nota perché dobbiamo descriverne a preparare la scena del sabba, con la quale ha molti punti in comune.La Tentazione di sant'Antonio è stata trattata a più riprese da Teniers, autore che non possiamo qui certo trascurare per la familiarità che egli aveva con tutte le scene pittoresche e misteriose in cui introduceva una fine nota di umorismo e scetticismo. La stampa incisa da Le Bas da un quadro di Teniers, e oggi al museo di Lilla, è una delle migliori <<tentazioni>> di questo artista, pur essendo poco conosciuta: si distacca delle rappresentazioni anteriori per la donna sontuosamente
vestita che in primo piano presenta al santo un filtro d'amore, particolare sensuale tratto dalla vita del pio eremita, ma trascurato sino allora degli artisti; un'altra donna con corni in testa, forse un diavolo travestito, se ne sta china sulla spalla di sant'Antonio e presenta i tratti caratteristici - oseranno dire classici - che si attribuivano allora alla strega.Molte <<tentazioni>> dipinte dal Teniers e sparse per i musei d'Europa appartengono al tipo qui raffigurato che è del tutto diverso da quello precedente. In questa pregevole stampa incisa da Jacques Français Van den Wyng ritroviamo, i paesaggi di quest'opera indossano sai, cappucci, tonache e pellegrine quasi per irridere al santo e falsi eremiti come lui, astuzia a cui il diavolo ricorreva sovente ai suoi bei giorni.La parte principale di questa scena è affidata alla strega cornuta dalla bocca contratta e imperiosa che mostra al santo la pentola che ha messo sul fuoco, colma di carni saporite, altro genere di tentazione con la quale essa pensa di mettere fine agli ostinati digiuni che stiracchiano lo stomaco del buon religioso.Se scorressimo tutte le vite dei santi dalle età più remote sino ai nostri giorni, dall'epoca dei padri del deserto sino al Curato d'Oro, non ne troveremmo uno solo risparmiato dall'assalto dei demoni. Tutte queste brave persone dovettero fare i conti con i nemici invisibili che talvolta però diventavano visibili; nelle vite dei famosi solitari, sant'Antonio, san Benedetto, san Domenico, san Tommaso d'Aquino, san Francesco d'Assisi, santa Maddalena dè Pazzi, santa Caterina da Siena, sant'Agata di Folpiano e in migliaia d'altre, scritte dai loro contemporanei, dai loro confessori o devoti, i demoni occupano un pasto importante, turbano l'esistenza di queste persone umili e pure, le strappano alle loro pie contemplazioni, giocano loro tiri ignobili; le rotolano nelle loro celle, le spogliano, ne lordano i visi con immondizie, le fustigano senza pietà, come avvenne varie volte a san Giovanni della croce, emulo e discepolo di santa Teresa.I demoni gettarono diverse volte santa Caterina nel fuoco, la fecero cadere da cavallo, la precipitarono a capofitto in un fiume gelato. Altrettanto perseguitata dai demoni era la madre di san Bartolomeo, Anna, consorella di santa Teresa, che essi inseguivano per i corridoi del monastero e a cui spegnevano la lanterna. Santa Maria Angelica della provvidenza, d'Eveux, la cui vita fu scritta dall'abate Baudon, fu perseguitata per due anni da un demonio che aveva preso le forme di un cane ricoperto di scaglie verdi, e spesso i diavoli la tiravano per le gambe immobilizzandola al suolo. Suor Margherita del santo Sacramento, carmelitana del monastero di Beaume, fu colpita da tutte le possibili malattie demoniache che guarivano su comando della priora; Satana cercò diverse volte di strangolarla.Ma suor Agnese di Gesù, fu una delle più provate dalle potenze infernali: i demoni le gettavano grossi ceppi sui piedi o per schiacciarglieli e uno d'essi le apparve sotto forma d'etìope gigantesco che lanciava fuoco dagli occhi e mostrava una lingua fiammeggiante lunga un piede e soffiava con forza sino a spegnere il fuoco ch'ella accendeva. Questa religione venne spesso circondata da diavoli giunti a frotte e sotto vsrie e sembianze: di serpenti che le si infilavano sotto le sottane e le si attorcigliavano intorno alle gmabe, di lupi affamati che l'assillavano con le fauci aperte; formicai interi di spiriti maligni la circondavano senza tregua e la coprivano dalla testa ai piedi!Alla beata Margerita Maria: <<mentre stava seduta con le consorelle presso il fuco comune, una forza invisibile le strappava violentemente di sotto il sedile sul quale si trovava, facendola cadere varie volte a terra. Nel 1715 vivevano ancora tre suore che l'avevano vista e che hanno fatto una deposizione ufficiale su questo fenomeno...>>.La vita diabolica domina il medioevo, e in certa misura anche in tempi moderni, tanto quanto la vita divina. Satana appare nell'iconografia più spesso del Salvatore. L'esistenza del diavolo era allora
articolo di fede quanto l'esistenza dell'Altissimo. Non bisogna cercare, di separare queste due nozioni, dichiarando rispettabile l'idea della divinità e ridicola, volgare e ripugnante quella del diavolo. Non si tratta di conoscere la teologia, perché non si può rinnegare Satana senza che l'edificio laboriosamente innalzato dai padri della Chiesa con crolli per intero .Il personaggio singolare e vago dell'Anticristo, mezzo demone e mezzo creatura umana, che Luca Cranach ha rappresentato nella Cronaca di Norimberga di Schedel, 1493 e la cui esistenza era una articolo di fede, veniva a rendere ancora più evidente e concreta l'antinomia esistente tra i principi eternamente opposti del bene e del male.
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cristianesimocattolico · 4 years ago
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San Bonaventura
Tra i grandi protagonisti del pensiero filosofico e teologico del XIII secolo, san Bonaventura argomentò che sia le varie arti sia la filosofia devono essere al servizio della teologia, poiché per tutte le discipline la via non può che essere una sola: Gesù Cristo
«Nessuno può giungere alla beatitudine se non trascende sé stesso, non con il corpo, ma con lo spirito. Ma non possiamo elevarci da noi se non attraverso una virtù superiore. Quali che siano le disposizioni interiori, queste non hanno alcun potere senza l’aiuto della Grazia divina. Ma questa è concessa solo a coloro che la chiedono […] con la fervida preghiera. È la preghiera il principio e la sorgente della nostra elevazione». Così scriveva in uno dei suoi capolavori, l’Itinerario della mente verso Dio (Itinerarium mentis in Deum), san Bonaventura da Bagnoregio (c. 1217-1274). Insieme al domenicano san Tommaso d’Aquino, suo amico, fu tra i grandi protagonisti del pensiero filosofico e teologico del XIII secolo, quando la fede cristiana manifestava tutta la sua capacità di incidere sulla cultura.
Il suo nome di Battesimo era Giovanni, come quello del padre, un medico. Sua madre era molto devota a san Francesco (1181-1226). Quando il figlio era ancora un fanciullo, con una malattia da cui non riusciva a guarire, fu proprio l’intercessione del Poverello d’Assisi a ottenergli la guarigione, come racconterà lo stesso Doctor Seraphicus. Nel 1235 si recò a Parigi per perfezionare gli studi, prima nelle arti poi in teologia. Circa otto anni più tardi fece il suo ingresso tra i francescani, assumendo il nome religioso di Bonaventura. Il santo visse in pieno l’epoca della polemica dei maestri secolari contro i maestri dei nuovi ordini mendicanti (francescani e domenicani). Con il passare del tempo, grazie alle sue virtù di pietà e scienza, acquisì una crescente stima all’interno dell’Ordine francescano, che lo elesse ministro generale nel 1257 e lo considerò poi come un secondo padre.
Bonaventura riuscì a preservare l’unità tra i Frati Minori, che all’inizio del suo mandato erano già 30.000. Prese posizione sia contro la cosiddetta corrente spirituale - influenzata dalle idee di Gioacchino da Fiore (†1202) - sia contro la mondanizzazione strisciante all’interno dell’Ordine. Decisivo fu in tal senso il Capitolo generale del 1260 a Narbona. Qui contribuì a stendere un testo volto a unificare le norme di vita dei francescani (le Costituzioni narbonesi) e ottenne l’incarico di scrivere una Vita di san Francesco, per trasmetterne il carisma in modo autentico. L’opera fu pronta nel 1263, dopo un suo accurato lavoro di raccolta delle testimonianze di chi aveva conosciuto il santo d’Assisi: venne chiamata Legenda Maior (dal latino legenda, «da leggersi») e, insieme alla Legenda Minor, una versione più ridotta, divenne la biografia ufficiale di san Francesco. In un suo scritto dirà: «Confesso davanti a Dio che la ragione che mi ha fatto amare di più la vita del beato Francesco è che essa assomiglia agli inizi e alla crescita della Chiesa. La Chiesa cominciò con semplici pescatori, e si arricchì in seguito di dottori molto illustri e sapienti; la religione del beato Francesco non è stata stabilita dalla prudenza degli uomini ma da Cristo».
Nutriva un grande amore per il Santissimo Sacramento. Mentre Tommaso veniva incaricato di scrivere l’ufficio liturgico per la nuova festa del Corpus Domini, stabilita nel 1264 da Urbano IV, a lui toccò tenere un sermone davanti al papa sulla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. In seguito, Gregorio X lo incaricò di preparare il secondo concilio di Lione (1274), in cui si tentò di riavvicinare la Chiesa latina a quella greca. Fu proprio mentre si svolgeva l’assemblea conciliare che il santo tornò alla casa del Padre. Verso il 1450, durante una traslazione delle reliquie, la lingua di Bonaventura venne trovata incorrotta. Lo stesso prodigio era già avvenuto due secoli prima - quando lui stesso ne era stato testimone oculare - per un altro gigante francescano: sant’Antonio di Padova.
Sisto V lo proclamò Dottore della Chiesa nel 1588. Bonaventura argomentò che sia le varie arti sia la filosofia devono essere al servizio della teologia, poiché per tutte le discipline la via non può che essere una sola: Gesù Cristo. Spiegava che la misura della verità si acquisisce grazie alla luce della fede, rispetto alla quale la ragione è come un’ancella che aiuta a comprendere il senso armonico di tutta la Rivelazione, a partire dal creato, descritto come «una scala formata da sei gradini». Sei come i giorni della Creazione, che hanno una corrispondenza in quelle che Bonaventura chiama le sei potenze dell’anima. Attraverso queste l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, può - se lo desidera ardentemente ed è sostenuto dalla Grazia - elevarsi «dalle realtà inferiori a quelle superiori, da quelle esterne a noi a quelle interne, dalle realtà temporali a quelle eterne».
Per saperne di più:
Itinerario della mente verso Dio (testo in italiano e latino)
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freedomtripitaly · 5 years ago
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Il ghetto di Roma, conosciuto anche come il quartiere ebraico di Roma, è uno dei più antichi al mondo ed è sorto circa 40 anni dopo quello di Venezia, che storicamente fu il primo. Si trova nel pittoresco rione Sant’Angelo, dove sorge anche l’isola Tiberina, formata dagli incuneamenti del Tevere. Oggi è una delle zone della Città Eterna più amate non solo dai residenti, ma anche dai turisti ed è famosa per i suoi ristoranti di cucina ebraico-romanesca apprezzati dai viaggiatori gourmet di tutto il mondo. Situato a fianco del Teatro di Marcello, storicamente il ghetto di Roma è nato nel 1555 quando papa Paolo IV emanò una bolla per revocare tutti i diritti degli ebrei romani ordinando la creazione di un ghetto. Que sto quartiere quindi è nato come un luogo di segregazione, ma oggi è anche una delle aree culturalmente più vive della città. Ghetto ebraico di Roma: origini e storia Per capire veramente le evoluzioni che ha subito questo quartiere nel corso dei secoli è molto importante conoscerne la storia. Il ghetto romano ha un anno di istituzione preciso: il 1555 quando in seguito all’emanazione di una bolla papale, gli ebrei romani furono costretti a risiedervi. Ma perché proprio in questa zona? Se nell’antichità classica gli ebrei vivevano in particolare nella zona dell’Aventino, nel corso del ‘500 invece fu il rione Sant’Angelo ad ospitarne gran parte della popolazione. Oltre all’obbligo di residenza, gli ebrei dovevano anche portare un distintivo riconoscibile. I residenti ebrei non potevano essere proprietari delle case in cui abitavano, per questo con il passare del tempo gran parte delle abitazioni del quartiere erano sempre più degradate. Il ghetto inoltre era chiuso da porte, che ne regolavano gli accessi. Nel corso della storia, il ghetto fu più volte dismesso, grazie alle dichiarazioni di parità dei diritti tra ebrei e cristiani sia nel durante il 1700, sia durante il 1800. Si trattò però di brevi periodi, ai quali seguirono nuove reclusioni, fino ad arrivare al 1870 quando si aprì la breccia di Porta Pia terminando in questo modo il potere dei papi. Roma fu annessa al Regno d’Italia e questo significò la chiusura definitiva del ghetto ebraico. Nel 1888 gran parte del quartiere fu ricostruito e molti ebrei, pur non avendo più l’obbligo di residenza, decisero comunque di rimanere all’interno del quartiere. Dal 1904 invece, si dotò della sinagoga conosciuta come Tempio Maggiore, ancora oggi, una delle principali attrazioni storiche della zona. Roma: cosa vedere nel quartiere ebraico Quando si visita Roma, il ghetto è una tappa obbligatoria. Da molti è considerato uno dei quartieri più interessanti e culturalmente vivi della città. Di certo è una zona molto suggestiva e sono numerose le cose da vedere. Il consiglio è di raggiungerlo attraverso Trastevere, in questo modo di passa da Ponte Cestio, si attraversa l’isola Tiberina fino a raggiungere Lungotevere de’ Cenci. Il primo scorcio a cui si ha accesso è la splendida cupola del Tempio Maggiore. Tra le vie più suggestive in cui dedicarsi a splendide passeggiate, ci sono via della Reginella, via di Sant’Ambrogio e via del Tempio con scorci perfetti da fotografare. Da non perdere ci sono inoltre la Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, ricavata all’interno dell’antico mercato del pesce sui resti del Portico d’Ottavia. La Chiesa di San Gregorio in Divina Pietà, il ponte dei Quattro Capi che collega il ghetto all’isola Tiberina, la Chiesa di Santa Maria in Campitelli e la Fontana delle Tartarughe. Il ghetto a Roma è famoso soprattutto per la splendida sinagoga: il Tempio Maggiore, che risale ai primi del 1900. Lo stile architettonico è davvero particolare, durante la costruzione infatti, l’obiettivo era quello di svincolarsi dai canoni del cattolicesimo e il risultato è un edificio ispirato a forme assiro-babilonesi. Al suo interno, il Tempio Maggiore ospita anche il Museo Ebraico di Roma, una vera istituzione culturale da non perdere, quando si visita la Roma ebraica. Il museo ospita importanti reperti storici, oltre a mostre ed eventi temporanei. Suddiviso in 8 aree tematiche, il percorso espositivo permette di scoprire: la galleria dei marmi antichi, con marmi risalenti al 1500-1800; la guardaroba dei tessuti con velluti rinascimentali decorati, da Judaei a Giudei: Roma e i suoi ebrei, con lapidi provenienti dalle catacombe e manoscritti del medioevo; la sala Feste dell’anno, feste della vita, dedicata ai momenti che scandiscono la cultura ebraica; i tesori delle cinque Scole che raccoglie gli oggetti donati dagli ebrei alle sinagoghe; vita e sinagoghe nel ghetto, in cui vengono raccontati la vita, la cucina e le architetture tipiche; la sala con la proiezione del video “Dall’emancipazione a oggi”; infine la sala dell’ebraismo libico, dedicata alla dedicata all’immigrazione dei profughi ebrei trasferiti a Roma nel 1967. Il ghetto degli ebrei a Roma è un luogo che celebra prima di tutto la storia e la cultura della popolazione ebraica: per questo è anche una meta per gli ebrei di tutto il mondo che desiderano riscoprire le proprie origini. Sempre in via del Tempio, che è il cuore pulsante del ghetto, è presente una delle scuole primarie ebraiche più importanti della città. Proprio qui è frequente vedere ragazzi e uomini con il tipico copricapo ebraico, chiamato kippah. Uno dei luoghi da non perdere del quartiere è inoltre il Portico d’Ottavia che sorge tra il Tempio Maggiore e il Teatro di Marcello. Oggi non ne rimangono che alcuni resti che però sono un’importante testimonianza della Roma antica. Il modo migliore comunque per scoprire il ghetto a Roma, è lasciarsi trasportare a piedi lungo i suoi vicoli e le sue strade: impossibile non rimanerne affascinati. La cucina ebraica a Roma Molti visitano il ghetto di Roma anche per degustare i sapori della cucina ebraico-romanesca. Non è un caso infatti, che questo quartiere sia considerato un luogo imperdibile per tutti gli appassionati di enogastronomia. Il ghetto è una città nella città e lo si percepisce non solo dai ragazzi che indossano il tipico copricapo, ma anche dalle scritte in ebraico e dai ristoranti che propongono cucina kosher. Dove mangiare quindi in questa zona di Roma? La scelta è molto ampia e si trovano locali praticamente in ogni via, ma è importante partire preparati sul tipo di menù che ti troverai a degustare. Il piatto più famoso forse sono i carciofi alla giudia, una vera prelibatezza che compare obbligatoriamente sulle tavole romane del quartiere ebraico. Si tratta dei carciofi cimaroli, tipici della zona, che vengono immersi in acqua e limone, e in seguito fritti. È un piatto delizioso e leggero, che ha conquistato i palati di tutto il mondo. Non solo carciofi, la cucina ebraico-romanesca è un vero tesoro di sapori che unisce culture diverse e ingredienti provenienti da diverse parti del mondo. Si va quindi dai classici hummus e falafel a base di ceci, legumi e spezie orientali, fino alla concia e ai piatti a base di carne. La concia è un piatto a base di zucchine romanesche tagliate a striscioline e fritte. In seguito vanno messe in una pirofila e vanno condite con basilico, aglio e aceto. Un altro grande classico della cucina ebraico-romanesca è il tortino di aliciotti e indivia. In questo caso, l’indivia è marinata con olio, aglio, cipolla e pepe, in seguito viene alternata con le alici per creare un tortino che va infornato. Durante lo shabbat invece, il piatto tipico degli ebrei romani è lo stracotto di manzo cucinato con il pomodoro. Un piatto tipico del periodo pasquale sono le matzo ball, polpette di pane azzimo in brodo, molto simili ai canederli tirolesi. Molti ristoranti inoltre servono una grande varietà di fritti, oltre ai carciofi anche il baccalà e i fiori di zucca, senza dimenticare uno dei piatti più antichi e tipici della cucina ebraica: la zuppa di pesce. E per finire il pasto? Il dolce tipico è la torta di ricotta e visciole: una vera prelibatezza! Consigli per visitare il ghetto ebraico Ora che abbiamo visto che cos’è il ghetto ebraico, la sua storia, le origini, cosa vedere e cosa mangiare, non ci sono dubbi che tra tutte le zone di Roma, questa sia sicuramente una delle più interessanti e affascinanti. Il ghetto può essere visitato in ogni periodo dell’anno e ovviamente, a seconda delle stagioni cambiano anche le tradizioni. Sicuramente la primavera a Roma e nel ghetto, con tutte le tradizioni pasquali, è uno dei momenti più importanti dell’anno. Un ultimo consiglio: quando passeggerai per le vie del ghetto, non dimenticarti di osservare ogni tanto per terra. Troverai infatti numerosi blocchi in cui sono indicati nome e cognome di alcune persone. Si tratta del progetto “pietre d’inciampo” per ricordare i cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. https://ift.tt/2OE4aPe Visita del ghetto ebraico di Roma: cosa vedere e cosa mangiare Il ghetto di Roma, conosciuto anche come il quartiere ebraico di Roma, è uno dei più antichi al mondo ed è sorto circa 40 anni dopo quello di Venezia, che storicamente fu il primo. Si trova nel pittoresco rione Sant’Angelo, dove sorge anche l’isola Tiberina, formata dagli incuneamenti del Tevere. Oggi è una delle zone della Città Eterna più amate non solo dai residenti, ma anche dai turisti ed è famosa per i suoi ristoranti di cucina ebraico-romanesca apprezzati dai viaggiatori gourmet di tutto il mondo. Situato a fianco del Teatro di Marcello, storicamente il ghetto di Roma è nato nel 1555 quando papa Paolo IV emanò una bolla per revocare tutti i diritti degli ebrei romani ordinando la creazione di un ghetto. Que sto quartiere quindi è nato come un luogo di segregazione, ma oggi è anche una delle aree culturalmente più vive della città. Ghetto ebraico di Roma: origini e storia Per capire veramente le evoluzioni che ha subito questo quartiere nel corso dei secoli è molto importante conoscerne la storia. Il ghetto romano ha un anno di istituzione preciso: il 1555 quando in seguito all’emanazione di una bolla papale, gli ebrei romani furono costretti a risiedervi. Ma perché proprio in questa zona? Se nell’antichità classica gli ebrei vivevano in particolare nella zona dell’Aventino, nel corso del ‘500 invece fu il rione Sant’Angelo ad ospitarne gran parte della popolazione. Oltre all’obbligo di residenza, gli ebrei dovevano anche portare un distintivo riconoscibile. I residenti ebrei non potevano essere proprietari delle case in cui abitavano, per questo con il passare del tempo gran parte delle abitazioni del quartiere erano sempre più degradate. Il ghetto inoltre era chiuso da porte, che ne regolavano gli accessi. Nel corso della storia, il ghetto fu più volte dismesso, grazie alle dichiarazioni di parità dei diritti tra ebrei e cristiani sia nel durante il 1700, sia durante il 1800. Si trattò però di brevi periodi, ai quali seguirono nuove reclusioni, fino ad arrivare al 1870 quando si aprì la breccia di Porta Pia terminando in questo modo il potere dei papi. Roma fu annessa al Regno d’Italia e questo significò la chiusura definitiva del ghetto ebraico. Nel 1888 gran parte del quartiere fu ricostruito e molti ebrei, pur non avendo più l’obbligo di residenza, decisero comunque di rimanere all’interno del quartiere. Dal 1904 invece, si dotò della sinagoga conosciuta come Tempio Maggiore, ancora oggi, una delle principali attrazioni storiche della zona. Roma: cosa vedere nel quartiere ebraico Quando si visita Roma, il ghetto è una tappa obbligatoria. Da molti è considerato uno dei quartieri più interessanti e culturalmente vivi della città. Di certo è una zona molto suggestiva e sono numerose le cose da vedere. Il consiglio è di raggiungerlo attraverso Trastevere, in questo modo di passa da Ponte Cestio, si attraversa l’isola Tiberina fino a raggiungere Lungotevere de’ Cenci. Il primo scorcio a cui si ha accesso è la splendida cupola del Tempio Maggiore. Tra le vie più suggestive in cui dedicarsi a splendide passeggiate, ci sono via della Reginella, via di Sant’Ambrogio e via del Tempio con scorci perfetti da fotografare. Da non perdere ci sono inoltre la Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, ricavata all’interno dell’antico mercato del pesce sui resti del Portico d’Ottavia. La Chiesa di San Gregorio in Divina Pietà, il ponte dei Quattro Capi che collega il ghetto all’isola Tiberina, la Chiesa di Santa Maria in Campitelli e la Fontana delle Tartarughe. Il ghetto a Roma è famoso soprattutto per la splendida sinagoga: il Tempio Maggiore, che risale ai primi del 1900. Lo stile architettonico è davvero particolare, durante la costruzione infatti, l’obiettivo era quello di svincolarsi dai canoni del cattolicesimo e il risultato è un edificio ispirato a forme assiro-babilonesi. Al suo interno, il Tempio Maggiore ospita anche il Museo Ebraico di Roma, una vera istituzione culturale da non perdere, quando si visita la Roma ebraica. Il museo ospita importanti reperti storici, oltre a mostre ed eventi temporanei. Suddiviso in 8 aree tematiche, il percorso espositivo permette di scoprire: la galleria dei marmi antichi, con marmi risalenti al 1500-1800; la guardaroba dei tessuti con velluti rinascimentali decorati, da Judaei a Giudei: Roma e i suoi ebrei, con lapidi provenienti dalle catacombe e manoscritti del medioevo; la sala Feste dell’anno, feste della vita, dedicata ai momenti che scandiscono la cultura ebraica; i tesori delle cinque Scole che raccoglie gli oggetti donati dagli ebrei alle sinagoghe; vita e sinagoghe nel ghetto, in cui vengono raccontati la vita, la cucina e le architetture tipiche; la sala con la proiezione del video “Dall’emancipazione a oggi”; infine la sala dell’ebraismo libico, dedicata alla dedicata all’immigrazione dei profughi ebrei trasferiti a Roma nel 1967. Il ghetto degli ebrei a Roma è un luogo che celebra prima di tutto la storia e la cultura della popolazione ebraica: per questo è anche una meta per gli ebrei di tutto il mondo che desiderano riscoprire le proprie origini. Sempre in via del Tempio, che è il cuore pulsante del ghetto, è presente una delle scuole primarie ebraiche più importanti della città. Proprio qui è frequente vedere ragazzi e uomini con il tipico copricapo ebraico, chiamato kippah. Uno dei luoghi da non perdere del quartiere è inoltre il Portico d’Ottavia che sorge tra il Tempio Maggiore e il Teatro di Marcello. Oggi non ne rimangono che alcuni resti che però sono un’importante testimonianza della Roma antica. Il modo migliore comunque per scoprire il ghetto a Roma, è lasciarsi trasportare a piedi lungo i suoi vicoli e le sue strade: impossibile non rimanerne affascinati. La cucina ebraica a Roma Molti visitano il ghetto di Roma anche per degustare i sapori della cucina ebraico-romanesca. Non è un caso infatti, che questo quartiere sia considerato un luogo imperdibile per tutti gli appassionati di enogastronomia. Il ghetto è una città nella città e lo si percepisce non solo dai ragazzi che indossano il tipico copricapo, ma anche dalle scritte in ebraico e dai ristoranti che propongono cucina kosher. Dove mangiare quindi in questa zona di Roma? La scelta è molto ampia e si trovano locali praticamente in ogni via, ma è importante partire preparati sul tipo di menù che ti troverai a degustare. Il piatto più famoso forse sono i carciofi alla giudia, una vera prelibatezza che compare obbligatoriamente sulle tavole romane del quartiere ebraico. Si tratta dei carciofi cimaroli, tipici della zona, che vengono immersi in acqua e limone, e in seguito fritti. È un piatto delizioso e leggero, che ha conquistato i palati di tutto il mondo. Non solo carciofi, la cucina ebraico-romanesca è un vero tesoro di sapori che unisce culture diverse e ingredienti provenienti da diverse parti del mondo. Si va quindi dai classici hummus e falafel a base di ceci, legumi e spezie orientali, fino alla concia e ai piatti a base di carne. La concia è un piatto a base di zucchine romanesche tagliate a striscioline e fritte. In seguito vanno messe in una pirofila e vanno condite con basilico, aglio e aceto. Un altro grande classico della cucina ebraico-romanesca è il tortino di aliciotti e indivia. In questo caso, l’indivia è marinata con olio, aglio, cipolla e pepe, in seguito viene alternata con le alici per creare un tortino che va infornato. Durante lo shabbat invece, il piatto tipico degli ebrei romani è lo stracotto di manzo cucinato con il pomodoro. Un piatto tipico del periodo pasquale sono le matzo ball, polpette di pane azzimo in brodo, molto simili ai canederli tirolesi. Molti ristoranti inoltre servono una grande varietà di fritti, oltre ai carciofi anche il baccalà e i fiori di zucca, senza dimenticare uno dei piatti più antichi e tipici della cucina ebraica: la zuppa di pesce. E per finire il pasto? Il dolce tipico è la torta di ricotta e visciole: una vera prelibatezza! Consigli per visitare il ghetto ebraico Ora che abbiamo visto che cos’è il ghetto ebraico, la sua storia, le origini, cosa vedere e cosa mangiare, non ci sono dubbi che tra tutte le zone di Roma, questa sia sicuramente una delle più interessanti e affascinanti. Il ghetto può essere visitato in ogni periodo dell’anno e ovviamente, a seconda delle stagioni cambiano anche le tradizioni. Sicuramente la primavera a Roma e nel ghetto, con tutte le tradizioni pasquali, è uno dei momenti più importanti dell’anno. Un ultimo consiglio: quando passeggerai per le vie del ghetto, non dimenticarti di osservare ogni tanto per terra. Troverai infatti numerosi blocchi in cui sono indicati nome e cognome di alcune persone. Si tratta del progetto “pietre d’inciampo” per ricordare i cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. Il ghetto ebraico di Roma è un quartiere ricco e interessante, dove visitare la sinagoga e gustare piatti particolari, come i carciofi alla giudia.
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sakrum1 · 5 years ago
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Lunedì 18 Novembre 2019 : Commento San Gregorio Magno
Facciamo attenzione, è all'approssimarsi di Gesù a Gerico che il cieco riacquista la vista. Gerico significa "luna" e nella Sacra Scrittura la luna è simbolo della carne destinata a scomparire; a un certo punto del mese ella decresce, e simbolizza il declino della nostra condizione umana destinata alla morte. Dunque, avvicinandosi a Gerico il nostro Creatore ridà la vista al cieco. Facendosi nostro prossimo nella carne, egli ne ha ripreso la sua mortalità ed ha reso al genere umano la luce che avevamo perduta. E' proprio perché Dio prende la nostra natura che l'uomo accede alla condizione divina. Ed è molto giustamente che l'umanità è rappresentata da questo cieco, seduto lungo la strada e mendicante, poiché la Verità dice di se stessa: "Io sono la via" (Gv 14,6). Chi non conosce lo splendore della luce eterna è veramente un cieco, ma se inizia a credere al Redentore, allora è " seduto lungo la strada". Se, pur credendo in lui, non implora il dono della luce eterna, se rifiuta di pregarlo, resta un cieco lungo la strada; non si fa richiedente. (...) Ogni uomo che riconosce le tenebre che fanno di lui un cieco, ogni uomo che comprende che gli manca la luce eterna, gridi dal fondo del cuore, gridi con tutta l'anima: "Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!"
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figlidiroma · 3 months ago
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Storia di un pezzetto di Roma: via di Monte Savello.
Fonti:
Foto Fondo Vedo Anticoli Portico d'Ottavia passanti
- info.roma
- roma segreta
- Mappe del Falda e del Nolli
- varie ed eventuali.
Nei rari momenti di quiete della città (vale a dire di mattina presto e a tardissima notte) c'è un dolce silenzio, in questa breve via cieca che si chiama oggi "di Monte Savello".
Via modesta, appartata, è difficile imboccarla di proposito; più spesso la si prende per sbaglio e poi, indispettiti, si torna indietro: non porta a niente, solo a un parapetto di pietra e travertino e, sotto, un vuoto popolato di rovine.
Il romano ha fretta di arrivare e tirerà un paio di mortacci mentre torna verso il Lungotevere. Il turista ha già visto ruderi più maestosi: difficilmente si impressionerà di questi.
Come tanti altri luoghi belli e defilati di Roma, non è raro che venga usata come orinatoio a cielo aperto o deposito di bottiglie vuote: le scalette che la riuniscono alla piazza sua omonima, con i capolinea dell'autobus 63, sono spesso ridotte a una latrina.
Però lei sopporta, mansueta, dimenticata, ora vespasiano, ora parcheggio, con il suo nasone al quale i disgraziati si fanno il bidè e i suoi vasi di cactus e di papiri spelacchiati tra cui dormono, tra le vespe, i gatti randagi.
Peccato: questa vietta ha tanto da raccontare. Basta sostarci un poco, toccare i muri, e si sentirà forse la dolcezza di una storia antica che attende, sommessa, qualcuno che la voglia ascoltare.
Certo, in questa zona - a destra la Sinagoga, alle spalle il Portico di Ottavia, davanti a noi la nave in eterna navigazione che è l'Isola Tiberina, a sinistra, oltre la vasta curva del lungofiume, la valle del Circo Massimo e la rocca dell'Aventino - qui, da dovunque inizi a raccontare c'è spazio per milioni di storie.
Non sarebbe forse nemmeno necessario scegliere proprio questo punto, quest'angolo particolare, e i millenni ci rotolerebbero dalle labbra solo a parlarne, come in quella bella favola della fanciulla che seminava perle e diamanti appena apriva bocca.
Però a noi, questo punto, piace perché ci possiamo sedere ad osservarlo sul muretto di San Gregorio ai Quattro Capi e ascoltare il vento che spettina i platani e porta su la voce antica delle rapide, giù a fiume.
Monte Savello, quindi.
Iniziamo.
Prendiamo le mosse da una bella fotografia trovata per caso sulla rete.
È stata scattata un giorno di maggio del 1961, il 18, un giovedì che, anche in bianco e nero, non appare meno radioso di come doveva essere a colori: la fonte è l’Archivio Luce.
Della nostra vietta indoviniamo l'angolo a ridosso della Chiesa di San Gregorio della Divina Pietà.
Per poco non si vede il punto in cui il muro della chiesa è tagliato da una buchetta di marmo che doveva servire per l'elemosina e che forse, in questi anni Sessanta ancora intensamente cattolici, poteva essere ancora attiva.
Da quasi centovent'anni la strada ha cambiato nome e, da una trentina, anche la forma.
Sì, perché si chiamava via dei Savelli, fino al 1883: quello è l'anno in cui molte vie cambiano nome e si gettano le basi di molte drastiche trasformazioni, per la nostra città.
Facciamoci un salto, al 1883, e lasciamo il sor Anticoli tranquillo, per ora.
Già poco dopo la presa di Porta Pia, i Savoia si sono trovati per le mani una Roma pastorale, sorniona e zuppa fino alle midolla di fango del Tevere (entrati loro il fiume, burlone, li ha subito benedetti con una piena come non se ne ricordavano di così formidabili da vari anni).
Vorrebbero farne una capitale europea, così, tra alterne interrogazioni del giovane Parlamento unitario elaborano un primo Piano Regolatore: è il 1873.
In dieci anni, dai di lima, dai di mazzette, ecco che siamo al 1883: vede la luce, depositato presso gli Uffici del comune, il Secondo Piano regolatore.
Questo pare il colpo di spazzola dato da una madre ottocentesca alla testa ribelle del suo figlio più piccolo, che intende portare a messa con i capelli leccati ma i cui ricci sfuggono da tutte le parti alle sue zaccagnate.
Per ora, comunque, la strada cambia solo di nome e non di forma: oltre alla villa Orsini, sulla sinistra verso il Teatro di Marcello, è tutta fitta di botteghe e c'è a destra un altro bell'edificio, palazzo Lercari, e poi case nel cui perimetro e cortile, affacciato al fiume, sbucano dei ruderi strani e dei vecchi abbeveratoi.
Le botteghe sono vecchie e hanno tutti degli aggeggi strambi appesi attorno alle porte: sono i robbivecchi, i stracciaroli, e più in là callarari, macellari, drogheri, tutto un mondo di voci e di facce e di odori e di forme che si affollano lungo il tracciato della via.
Carrozze salgono e scendono verso il Ghetto appena riaperto alla vita civile; vengono e vanno a piazza Montanara, luogo di mercato e di contrattazione dove si radunano poveri cristi da fuori Roma, i burini. Da Facebook raccogliamo la testimonianza che ancora qualcuno ricorda un adagio materno: e che joo faccio fà, ai burini de piazza Montanara?, come dire che là in piazza si trovava solo manovalanza scadente, inadatta a lavori di fino.
(nelle foto: via dei Savelli ovvero di Monte Savello; persone radunate nel portone di palazzo Lercari, anni '20, fonti varie tra cui Istituto Luce).
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Tempo nemmeno cent'anni, da quel 1883, e siamo di nuovo alla nostra fotografi anni '60, con i signori a spasso nei pressi della premiata bottega Anticoli.
La nostra via è già monca; non esistono più né piazza Montanara, né palazzo Lercari.
Il campo medio della nostra prima immagine è occupato da poche figure: ci sono tre macchine – la zona era già trafficata allora! - e forse una appartiene al distinto signore che attende di essere servito fuori dal materassaio.
Qui ci viene in sostegno la preziosa testimonianza di chi, quei luoghi, oggi li vive quotidianamente: il titolare del bar e rivenditoria tabacchi n. 125, collocata proprio in via di Monte Savello, che provvede la sua parte di memoria storica.
Il negozio di Anticoli, ci narra, passa nelle mani del sor Cesare dopo il 1955, anno cruciale, per la nostra storia, perché vi si gira La bella di Roma, dolce-amara cronaca d’un corteggiamento fallito in cui il tappezziere Gracco Marcelli - Alberto Sordi tenta di conquistare una bella e imprenditoriale Nannina - Silvana Pampanini.
A quest'altezza, il negozio futuro Anticoli è ancora di altri proprietari che vi hanno una rivenditoria di tessuti (forse Spizzichino).
Proprio là dentro si tiene il set per la tappezzeria di Gracco: tutti i materiali murari attualmente visibili nel bar sono originali e compaiono anche nel film di Sordi, dalla salitella al banco con i parapetti di ferro alle travature lignee originali, meritoriamente conservati dagli attuali gestori.
Il bar-tabacchi di oggi abbraccia tre distinti locali di ieri separati, uno dei quali era un'Osteria delle Quattro Stagioni attiva in periodo di guerra.
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Torniamo alla nostra foto.
Un'altra figura maschile si muove per via del Portico di Ottavia in direzione del monumento: sembra in divisa.
È diretto in direzione di largo Arenula, non sappiamo di più; potrebbe aver traversato il ponte dall'isola Tiberina, o forse ha girato l'angolo proprio da via di Monte Savello.
Quella via infatti, in questi anni, è ancora viva, a differenza di oggi; non solo vi si aprono i negozi che La bella di Roma indirettamente ci mostra ma abbiamo immagini di affissioni elettorali lungo il muraglione di villa Orsini, affissioni che non sarebbero state collocate, senza la ragionevole certezza di un adeguato passaggio di potenziali elettori.
Dall’edificio in cui si apre il materassaio, una donna si affaccia sulla strada con in braccio un pupo che sembra l’unico ad accorgersi della presenza indiscreta della macchina fotografica, verso la quale guarda ingrugnato.
Da quelle finestre spesso spalancate si scorge oggi, e ben chiara, la travatura del soffitto, analogamente esposta nel locale che occupa oggi gli spazi di Anticoli, un bar-tabacchi.
Difficile dire, senza chiedere ai proprietari, se quei travi sono originali, ma è plausibile che il palazzotto rimonti a un’epoca tra il Seicento tardo ed il Settecento come dipendenza della villa Orsini in Monte Savello.
(edit: Confermato, tutto il materiale è originale).
Se si analizza la pianta del 1667 di Giovan Battista Falda infatti, dirimpetto all’edificio n. 109, San Gregorio della Divina Pietà, c’è un edificio d’angolo di modesta altezza – non più di tre piani – la cui pianta a L sembra replicata da quello attuale (si veda Goofle Maps – veduta satellitare e Roma IeriOggi per una buona risoluzione della Mappa di Falda).
L’edificio manca in una delle mappe più antiche di Roma moderna, la terza e più recente tra quelle uscite dalla penna dell’umanista, pittore e archeologo (allora si chiamavano “antiquari”) Pirro Ligorio. Pirro crea la sua ultima mappa nel 1561 ma la mappa, oltre che essere forse un po’ raffazzonata per quel che riguarda gli edifici ritenuti di minore interesse (le sue mappe sono, infatti, incentrate sul suo amore per gli edifici antichi e sono, di fatto, mappe archeologiche) non poteva forse dettagliare molto altro, visto che il palazzo sorto sul Teatro dei Marcello per mano dell’architetto Baldassarre Peruzzi era forse, a quest’altezza, ancora in costruzione (di questa storia, del resto, ne parliamo tra poco).
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L’edificio in cui, quasi trecento anni dopo, doveva serenamente lavorare il nostro materassaio appare invece in una bella mappa del 1663 (Blaeu), quindi sappiamo che viene costruito nei cento anni tra le due mappe. Infine, per il 1748 siamo certi che è già in piedi: ce lo prova Giovan Battista Nolli, grande topografo comasco cui si deve una delle mappe più ricche e accurate per la conoscenza della Roma moderna. Nella sua mappa, san Gregorio è l’edificio 1036 e dirimpetto, nel monumento numerato 1022 e che è il complesso di palazzo Orsini, eccola lì, la casetta del futuro Anticoli materassi reti e tralicci.
Tra l'altro, proprio in Nolli il tracciato della attuale via di Monte Savello si vede benissimo ma, in quegli anni, non è troncata perché arriva fino dirimpetto alla Rupe Tarpea, alla scomparsa Piazza Montanara con la sua fontanella che oggi si trova lungo via de’ Coronari, in piazza San Simeone (974):
Quindi quest’unico, superstite palazzo che abbiamo identificato, già a metà del Seicento terminava nel lungo muraglione di cinta della proprietà Orsini: addirittura per Falda sosteneva forse anche una rampa in salita lungo il Monte Savello.
Già, il monte: ma qui, si dirà, non ci sono monti, anzi la sede stradale è bassa, infatti dal capolinea degli autobus nell’omonima piazza si scende una breve rampa per raggiungere l'attuale tabaccheria.j
Per aver risposta, ovviamente, basterà proseguire proprio al capolinea e girare tutto attorno al Teatro di Marcello, dove via del Foro Olitorio ci conduce in discesa lungo il perimetro di san Nicola in Carcere, nei cui muri è stato incastonato quanto resta di un tempio a Speranza (Spes) e una targa ci informa della discreta presenza di una piccola orma scavata nel selciato: è l'opera di Micha Ullman "Seconda casa. Gerusalemme-Roma", una clessidra le cui coppe, Roma e Gerusalemme, fluiscono l'una nell'altra, unite "a simboleggiare un dialogo millenario".
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La configurazione dei luoghi è stata modificata molto dagli interventi di sterratura ed apertura degli scavi intorno al Teatro di Marcello, risalenti al periodo tra il 1926 ed il 1940, ma il “Monte” c’era davvero: solo, come il vicinissimo Monte Cenci dietro la Sinagoga, non era naturale, ma prodotto dall’accumulo di detriti e rovine sulle quali furono affastellati nel Medioevo edifici e torrette difensive, prima dei Fabi o Faffi, poi dei Pierleoni, la cui presenza nella zona resta nel nome del Lungotevere che proprio dal Ponte Quattro Capi ha inizio e in una torre sull’Isola.
(Qui un paio di fotografie da Romasparita.eu.
La prima mostra il Portico non ancora isolato dalla piazza tramite ulteriori lavori di scavo. Siamo ancora all'altezza del 1960.
La seconda rimonta al 1926, anno d'inizio delle prime demolizioni di tutto quanto restava della zona il Lungotevere e il Campidoglio).
Queste famiglie, Faffi, Pierleoni, Savelli e, appunto, i vicini Cenci, signoreggiavano su una città che faticava a riprendersi dalle devastazioni dei Goti e dal passaggio tra Impero e Papato, ma che stava lentamente delineandosi come la capitale di un regno teocratico, quello papale, il cui potere era insieme spalleggiato e conteso da famiglie di mercenari, ricchi borghesi in grado di acquistare terreni e costruirvi torri e fortilizi per difendere i loro e la gente che viveva su quelle aree.
Un esempio per tutti, proprio i Pierleoni, forse discendenti da un mercante ebreo, Baruch, che nel 1000 si sarebbe convertito al cristianesimo pur rimanendo a vivere nell'area che 575 anni più tardi sarebbe stata recintata e ridotta a Ghetto: è loro anche la torretta collocata al civico 5 di via del Teatro di Marcello, dirimpetto a San Nicola in Carcere, risparmiata dalle demolizioni novecentesche per la via del Mare.
Quanto ai Savelli, più tardi famiglia di almeno due papi accertati (Onorio III e Onorio IV, a cavallo tra 1100 e 1200) si incastellarono proprio qui, arraffando pezzi di terreno sotto il quale giacevano ancora le rovine del Teatro di Marcello: ci sono tracce della loro signoria sia qui che più in là, salendo all’Aventino per il meraviglioso e ripido pendio che si chiama Clivo della Rocca dei Savelli, nel vicolo Savelli che congiunge via del Pellegrino a corso Vittorio Emanuele, poco più a Nord di piazza Campo de’ Fiori.
Qui dominarono il quadrante tra sant'Angelo, Regola, Parione, azzuffandosi con i vicini Pierleoni, Caetani, Cenci, Orsini e quante altre famiglie oggi scomparse o dimenticate, fino a smorire ai primi del 1700, lasciando i loro beni sparsi tra i Chigi e altre famiglie con cui si erano imparentati i rami più a lungo sopravvissuti, quelli dei castelli Romani.
Comunque, tra il 1517 e il 1525 i Savelli stavano ancora benone: non si sa con certezza quando, ma è intorno a queste date che, anzi, decidono di far sì che la loro abitazione, finora un accrocco turrito di fronte al vasto Tevere con le sue calette e le scale che conducono agli attracchi per le vicine salare dell'Aventino e il mercato di piazza Montanara, sia finalmente all’altezza dei grandi lavori che in tutta Roma fervono per costruire palazzi e Chiese degni di una capitale rinascimentale (da poco si va mettendo mano alla sontuosa via Giulia, trionfo dei potentati fiorentini e, al loro seguito, delle maggiori famiglie cittadine).
Il cardinal Giulio Savelli si rivolge così a un architetto di grido, Baldassarre Peruzzi, che in quegli anni (1519?) partecipa con altri illustri nomi (Raffaello, Antonio da Sangallo il Giovane, Jacopo Sansovino) al concorso per la realizzazione di San Giovanni dei Fiorentini, la chiesa nazionale della potente comunità di banchieri insediata in Ponte, lungo la via Giulia che proprio in questi anni si va spianando.
Peruzzi non vince il concorso (che meriterebbe un articoletto a parte per le malversazioni di cui poi il Sansovino, vincitore, fu accusato), ma accetta la commessa dei Savelli, i quali gli affidano la creazione di un palazzo che inglobi e sostituisca in parte gli edifici più antichi.
Peruzzi, quindi, è uno dei grandi artisti e architetti del Rinascimento Romano: legato a Siena alla scuola del Pinturicchio, quando scende a Roma fa presto ad avvicinarsi a Raffaello e, soprattutto, all'amato e detestato Donato Bramante, le cui spregiudicate operazioni di demolizione delle preesistenze per far largo a nuove creazioni gli meritano, da parte del notoriamente linguacciuto popolo romanesco, il soprannome di Mastro Ruinante.
Peruzzi si mostra subito all’altezza delle sue frequentazioni: infatti, messo mano alla dimora dei Savelli, butta giù vecchiumi e, assieme, anche cospicue fatte del Teatro romano, cui aggiunge di sana pianta un terzo piano includendovi frammenti avanzati dai vari templi e costruzioni romane della zona.
L’abbraccio della cavea romana, ormai sfracellata, si trasforma sotto le sue mani nella culla per un nuovo giardino di delizie in cui il cardinale Giulio Savelli potrà collocare le sue collezioni di arte antica.
Ma il palazzo Savelli era destinato a passare di mano, quasi condividendo la natura di questo fazzoletto di Circo Flaminio che fu luogo sempre disperatamente amato dai suoi edificatori e, allo stesso tempo, destinato a continui mutamenti e trasformazioni.
Era stato così durante Roma antica: prospiciente il Foro Olitorio, quella che forse fu la vera culla di Roma ben prima della fondazione sul Palatino, incardinato di fronte al guado dell'Isola Tiberina, questo dimesso angolo cittadino ha testimoniato forse i primi veri insediamenti e le prime attività commerciali che, dalla riva dell'isola, portavano merci e bestie dalla riva destra del fiume, di appannaggio etrusco, in direzione del Campidoglio, del Velabro e del Palatino.
Qui sorgeva forse un arcaico tempio di Diana, dea di Nemi e di Ariccia, centri legati alle origini di Roma e dei popoli del Latium vetus, quell'Alba Longa mitica che si allungava sull'orlo boschivo del cratere del Lago di Albano.
Qui sono stati trovati i resti delle fondamenta di un antico tempio della Pace che Giulio Cesare distrusse per fondarvi sopra un teatro di cui non vide, vivo, che le fondamenta.
Poi, il Teatro fu "ereditato" da Augusto e questi si trovò finalmente a terminarlo, ma nel frattempo perse l'amato nipote Marcello cui, infatti, l'edificio fu amaramente dedicato.
(continua).
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Image source:
Fondo Vedo Istituto Luce Fondo VEDO / Sinagoga di Roma Insegne di un negozio al Ghetto di Roma (Cesare Anticoli)
passanti e una donna con bambino affacciata ad una finestra - campo medio
data: 18.05.1961
luogo della ripresa: Roma
colore: b/n
materia e tecnica: gelatina bromuro d'argento/pellicola (poliestere)
oggetto: negativo
codice foto: FV00189859 Luce Anticoli
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