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#ristampe di qualità
ilmondodishioren · 11 months
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Aria, di Kozue Amano, è tornato!
I fan storici aspettavano l’annuncio di questa ristampa da anni, sì perché la primissima edizione italiana del manga Aria, di Kozue Amano è andata esaurita da anni ed era praticamente impossibile reperirla, ma ora, grazie a Star Comics, anche le nuove generazioni potranno godere di questo manga dalle tavole delicate, magiche che ti trasporteranno nella vita di Akari Mizunashi un’aspirante Undine,…
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diceriadelluntore · 10 months
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Storia Di Musica #303 - Billy Cobham, Spectrum, 1973
Non si poteva terminare il piccolo racconto del jazz fusione davisiano senza imbattersi in lui. In parte è già successo, perchè è il suo battere unico e riconoscibile che scandisce alcuni dei più grandi dischi del genere. Ci vollero infatti pochi anni a Billy Cobham per imporsi subito come uno dei grandi solisti della batteria, e per diventare negli anni uno dei riconosciuti grandi interpreti dello strumento, non solo in ambito jazz. Nasce a Panama, ma dopo pochi anni si trasferisce con la famiglia a New York. da giovanissimo si innamora della batteria, si diploma all' High School of Music and Art, nel 1962 (quando ha 18 anni) ed inizia a suonare nei locali. Viene arruolato, ma per vari motivi non parte mai per nessun fronte di guerra americano; passa però molto tempo nella banda musicale dell'esercito, con cui gira per mesi tutta l'America e non solo. Nel 1968, una volta finito il servizio, inizia a suonare con grandi del jazz: il primo a scoprirlo fu Horace Silver, con cui va in tour per oltre un anno, poi accompagna altri grandi solisti tra cui il sassofonista Stanley Turrentine, l'organista Shirley Scott e il chitarrista George Benson, da cui inizia a scoprire le meraviglie della contaminazione del rock sul jazz, e viceversa. Con la raccomandazione di Benson, è ingaggiato dai mitici fratelli Randy e Michael Brecker per il progetto Dreams, uno dei primi gruppi jazz rock, insieme con il grande chitarrista John Abercrombie, siamo nel 1969. I Dreams pubblicano due dischi, il primo omonimo, Dreams, molto interessante. E le qualità di ritmica e di tecnica pura di Cobham non sfuggono all'orecchio attento di Davis, alla ricerca di un batterista jazz ma che sappia affrontare le sfide della nuova contaminazione. Lo chiama per le registrazioni di Bitches Brew (compare in Feio, un brano prima scartato, poi aggiunto nelle successive ristampe del capolavoro) ma è centrale in A Tribute To Jack Johnson. È con John McLaughlin fulcro della Mahavishnu Orchestra, in cui suona nella prima formazione, quella che in pochi anni si pone ai vertici del movimento jazz fusion. Quando la band si scioglie, insieme a Jan Hammer, il geniale tastierista della Mahanishnu, prosegue un percorso solista, e nel 1973, durante una leggendaria sessione di registrazione di soli due giorni, realizza il suo album di esordio.
Spectrum è uno dei grandi dischi jazz fusion ed è quello che fa conoscere anche fuori dall'ambito jazz il batterista. In copertina, l'artista Jan Snyder, prendendo in prestito il font del primo disco della Mahavishnu, realizza un quadro che sembra una delle prime immagine digitali che in quegli anni attiravano la curiosità. Il disco fu registrato in una doppia sessione, il 14 e il 16 Maggio del 1973, dove seguendo le regole del Maestro Davis, dà ai musicisti delle linee generali sui brani e poi li lascia liberi di creare e improvvisare, e le registrazioni coordinate da Ken Scott, leggendario ingegnere del suono inglese già con i Beatles e i Pink Floyd, furono quasi sempre una sola o massimo due per brano. Il parterre dei musicisti che coinvolge è sontuoso: il grande Ron Carter al contrabbasso, Jimmy Owens alla tromba, Joe Farrell al sax, Raymundo "Ray" Barretto Pagán, grande percussionista, John Tropea alla chitarra e soprattutto un giovane chitarrista dell'Iowa che una volta vide suonare con il suo gruppo, gli Zephyr, giusto prima che la James Gang lo chiamasse in formazione: Tommy Bolin. Cobham vede in quello stile veloce e sensuale di Bolin molte similitudini con il suo, e nascerà una collaborazione entusiasmante che, visto il successo del disco, sarà un trampolino per il chitarrista americano. Dato il metodo di registrazione, sul vinile i brani sono quasi senza soluzione di continuità, come se fossero mini suite intervallati da piccole pause tra di loro, mentre hanno numerazione diversa sui cd o sulle piattaforme digitali odierne (per la cronaca, sul vinile i brani sono 6, sui cd sono 10). Restano i suoni, meravigliosi: la batteria maestosa in Quadrant 4, Stratus diventerà famosa perchè presente nella stazione radio Fusion FM del videogioco Grand Theft Auto IV e fu campionata nel brano Safe From Harm dai Massive Attack (nel loro Blue Lines, 1991); in Taurian Matador la corda del mi cantino della chitarra di Bolin si spezza quasi all'inizio del suo assolo, ma continua imperterrito; in To The Women In My Life Cobham non suona nemmeno, e per 50 secondi l'atmosfera è tutta del piano di Hammer. Red Baron, da oltre 6 minuti, è il brano più famoso, che codifica il jazz muscoloso, veloce e caratteristico di Cobham, dei suoi innesti dal funk e della musica soul, che influenzeranno una intera generazione di musicisti in quasi ogni ambito della musica.
Anche perchè il disco fu un successo inatteso: al primo posto nella classifica Billboard dei dischi jazz, addirittura al Numero 26 di quella generale, la leggendaria Billboard 200. Bolin, che dopo questa parentesi continuerà a suonare nella James Gang, verrà notato da Jon Lord dei Deep Purple, in cerca di un sostituto dopo l'uscita di Richie Blackmore: Lord rimase impressionato dalla sua chitarra in questo disco, regalatogli dal cantante dei Purple dell'epoca, Dave Coverdale (che in tutte le interviste definirà uno dei suoi preferiti in assoluto). Bolin, reclutato secondo la leggenda da un roadie in una villa di Los Angeles, non conosceva nemmeno Smoke On the Water, ma bastarono pochi minuti di esibizione, invitato dalla band ad un concerto di prova presso il Pirate Studios di Los Angeles, per essere reclutato. Come Taste The Band, nel 1975, è il primo disco di Bolin nella Mark IV dei Deep Purple, ed ebbe notevole successo. Ma rimase l'unico, perchè solo un anno più tardi, per i suoi problemi di eroina, fu prima allontanato dal gruppo e poi, dopo il suo primo e unico concerto, di spalla a Jeff Beck, morto per overdose, nel giugno del 1976. E Jeff Beck, in ricordo suo e del disco di Cobham, userà spesso Stratus nei suoi concerti, una versione mozzafiato è quella live al Crossroads Guitar Festival del 2007 con Tal Wilkenfeld al basso e con Vinnie Colaiuta alla batteria (da cercare su Youtube).
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pangeanews · 4 years
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“È stato l’ultimo dissidente, una specie di Teresa d’Avila della fantascienza”. Su Philip K. Dick
La postura sciamanica – anzi, religiosa. Questo affascina, contorce, conturba. Il fatto, ad esempio, che non si parli di opera aperta, ma continua. Un dato. Nel 1954 pubblica 28 racconti e scrive 3 romanzi. Se è per questo, nel 1964 di romanzi ne scrive 6, tra cui Le tre stimmate di Palmer Eldritch e Deus Irae con Roger Zelazny (a cui vanno aggiunti 11 racconti pubblicati). Il dato numerico, in questo caso, misura, parzialmente, l’entità mistica dell’opera di Philip K. Dick. Cosa intendo? Chiamatela “preghiera continua” – senza speculare troppo, pigliate i Racconti di un pellegrino russo (testo più che devoto, pericoloso, che fa pericolante l’anima, la volontà), edizione Bompiani o Città Nuova o Qiqajon o cosa vi va, e capite tutto. Insomma, Dick coltiva la scrittura perpetua, fino a frangerla in orazione, non tanto per forgiare il proprio “immaginario” – per viverlo, piuttosto. In effetti, chi legge Dick lo legge per quello: entrare nella sua testa, restare impaniato in un universo autonomo, autentico. E ciò si attua per dedizione e azzardo. Poligrafo, eremita del verbo, visionario, allucinato pioniere di verità arcaiche, Dick ha scritto cancellandosi. È stato, lentamente, riscoperto, dal cinema, dall’editoria: in Italia, l’editore Fanucci vive, con talento, sulle sue opere, ristampate con costanza monastica – già sei quest’anno, da Ma gli androidi sognano pecore elettriche? a Confessioni di un artista di merda. Negli Usa l’ultimo dei sovversivi, il dissidente letterario, l’uomo che ha capovolto l’icona dello scrittore ‘romantico’ – più che concentrarsi in una sola opera, rivelativa, si è frantumato in centinaia, frutto di un estremismo implacabile – è diventato un ‘classico’, che paradosso. Nella prestigiosa Library of America le sue opere stanno al fianco di Emily Dickinson e John Dos Passos, tra Raymond Carver e T.S. Eliot e Ralph Waldo Emerson. Ne sarebbe felice? Chissà, vero è che l’America ingurgita e partorisce miti. Dick è antologizzato in tre volumi della LOA, Four Novels of the 1960s (dove sono raccolti anche Ubik e Do Androids Dream of Electric Sheep?), Five Novels of the 1960s & 70s e Valis & Later Novels. I libri sono curati dallo scrittore Jonathan Lethem – ben tradotto da noi, ora in catalogo La Nave di Teseo – di cui minimum fax ha pubblicato la raccolta di saggi Crazy Friend. Io e Philip K. Dick. Qui Lethem dice qualcosa intorno al talento narrativo di Dick. Inesplicabile sottraendo i concetti di rischio e ossessione, che vanno percorsi con ferocia lunare. (d.b.)
***
Di tutti gli scrittori di fantascienza del ventesimo secolo, perché Philip K. Dick è colui che – a giudicare dalla ristampa dei suoi romanzi e dei film tratti dalle sue opere – ha catturato maggiormente l’immaginazione popolare?
È popolare in un modo diverso rispetto a qualsiasi altro scrittore. L’ho battezzato come il Lenny Bruce della fantascienza. Venendo dalla stessa tradizione e usando gli stessi materiali di altri scrittori di fantascienza era, in un certo senso, la risposta di quest’ultima alla Beat Generation. Era l’ultimo outsider, l’anticonformista, il dissidente. All’epoca in cui entrò nell’ambiente, la fantascienza era interessata ai veri sviluppi scientifici, al potenziamento dell’esplorazione spaziale e a una cognizione super-razionale. Al contrario, Dick era in sintonia con l’inconscio, l’irrazionale, il paranoico, l’impulsivo. Le sue storie avevano una natura selvaggiamente allucinatoria che trattava come se fosse razionale. Oggigiorno le storie degli altri scrittori di fantascienza non sono così razionali come si sosteneva. Erano, piuttosto, in preda a un’immaginazione favolosa o alla realizzazione del proprio desiderio. Stavano scrivendo fiabe, per lo più. Ma Dick si è impegnato nel modo più diretto narrando il ritorno del terrore e dell’irrazionale nella società tecnologica contemporanea. Ecco perché la fantascienza era importante per cominciare: la fantascienza nel suo modo goffo, sdolcinato e parziale stava prendendo il toro per le corna.
Era solo in questo ruolo oppure faceva parte di un movimento?
All’inizio faceva parte di un gruppo di scrittori piuttosto noti, i Galaxy writers, chiamati così perché avevano pubblicato i loro racconti sulla rivista Galaxy. Robert Sheckley, Frederick Pohl, Cyril Kornbluth, William Tenn e molti altri, stavano spingendo la fantascienza verso un uso maggiore del commento satirico e sociale. Usavano la satira per mostrare alcune trappole, paradossi e perversità del capitalismo di consumo. Dick partecipò a questo movimento e continuò a essere un acuto critico del tardo capitalismo. Intuì la potenza pervasiva dell’era della pubblicità per la coscienza, ad esempio. Quello che ha fatto Dick è stato prendere le tendenze di questo movimento attratte dalle critiche sociali e aggiungere ad esse questa qualità quasi insopportabilmente personale, emotiva, intima. I suoi personaggi non vivono solo in futuri paranoici, ne sono completamente in balia. Un universo assurdo e surreale, come talvolta potevano essere le immagini e le idee dei suoi libri, che Dick analizzava sempre in modo accurato. Le difficoltà dei suoi personaggi non sono mai state divertenti per lui, bensì straordinariamente terrificanti. Questo è ciò che lo rende così distinto, non solo da altri scrittori di fantascienza, ma anche da altri scrittori postmoderni a cui potrebbe essere associato, come Thomas Pynchon, Kurt Vonnegut, Donald Barthelme e Richard Brautigan, che hanno lavorato su materiali paradossali e fantastici. Dick si dedica alle sue visioni con un’intensità emotiva diversa da qualsiasi altro scrittore. Scava più a fondo fino ad arrivare, nelle situazioni narrative edificate nei suoi romanzi, a una scelta di vita o di morte. I suoi libri hanno sempre questa duplicità: c’è uno strato di inventiva satirica o fantastica – una tra le più grandi idee di tutta la storia letteraria – ma c’è anche questo interesse emotivo e personale. Mette sempre a rischio tutto ciò che ha. I personaggi sono profondamente vulnerabili, imperfetti e in balia delle situazioni che vivono.
Questo accade perché c’è meno distacco tra Dick e i suoi personaggi?
C’è un sottile distacco tra Dick e i suoi personaggi. Tutto questo riguarda il fatto che Dick era uno scrittore impulsivo, esplosivo, prolifico e non aveva assolutamente il controllo della scrittura. Questo è il motivo per cui c’è una variazione nella prosa ed è anche il motivo per cui alcune persone trovano in qualche modo imbarazzante la sua scrittura. Scriveva con una sorta di intensità visionaria priva di convenevoli, ripensamenti e revisioni che si potrebbe desiderare che uno scrittore necessitato a fare.
Molti scrittori – penso a Robert Heinlein e Stephen King – ricevono questa critica: le loro idee sono migliori della loro scrittura. Eppure la prosa di Dick sembra godere di una cura speciale…
È uno scrittore così profondamente umano e intelligente, Dick, così impegnato, che la prosa trasmette un’enorme quantità di significati, anche nella sua forma più imbarazzante. Direi che i quattro romanzi raccolti in Four Novels of the 1960s sono tra i più realizzati, i meno infelici fra tutte le sue opere. Ubik, che potrebbe essere il suo capolavoro, ha nei primi capitoli del materiale dispersivo, che fa perdere tempo e un po’ scoraggia il lettore profano. Per questo motivo quando consiglio a qualcuno il lavoro di Dick, dico che il secondo libro diventerà il loro preferito. Per sempre. Qualunque esso sia. Ne hanno letto uno e dicono: “Oh, questo è un po’ strano, un po’ bizzarro. Voglio leggerne un altro”. Poi in qualche modo si spostano nell’ottica in cui lavora lo scrittore e diventano dei devoti.
Questi sono i quattro romanzi migliori di Dick?
Se si deve scegliere un solo decennio emblematico del suo lavoro, allora bisogna prediligere gli anni ’60. Questi anni rappresentano il vertice della sua carriera, ma in quel decennio ci sono almeno altri quattro romanzi affini ai quelli scelti: Cronache del dopobomba, Illusione di potere, Labirinto di morte, Noi marziani. Questi sono tutti romanzi superbi, singolari e completamente realizzati e tutti degli anni ’60, un decennio incredibilmente prolifico in cui Dick ha scritto altri dieci o dodici libri. Questo volume comincia con il miglior libro introduttivo: La svastica sul sole. È un libro che attira i lettori ed è il più avvincente, in particolare per un lettore non di genere. È un’opera straordinariamente appassionante e scrupolosa, ma non è il sogno ad occhi aperti di qualcuno che si è appena chiesto cosa succederebbe se i nazisti avessero vinto la guerra. Tutti i personaggi nazisti minori sono studiati. Dick ha scritto questa realtà quasi come un’alternativa agli studi accademici.
Come spiega la straordinaria produzione dello scrittore?
Merito, in parte, delle anfetamine. Pensare a Dick biograficamente e pensare alle sue abitudini di scrittore può essere affascinante e sconcertante perché nessuno potrebbe spiegare la qualità torrenziale del suo lavoro. Ci sono diverse cose che si possono indicare, ma sono tutte spiegazioni parziali. Le anfetamine sono una di queste spiegazioni. Ci sono buoni motivi per chiedersi se soffrisse di un raro disturbo neurologico chiamato epilessia del lobo temporale, che ha associato esperienze visionarie involontarie alla grafomania – scrittura frenetica, scrittura compulsiva. Se si vogliono fare alcune diagnosi speculative, ci sono delle connessioni con altri mistici e visionari religiosi sono noti per la loro scrittura ossessiva come, per esempio, Santa Teresa d’Avila. Ebbe visioni straordinarie e poi trascorse anni a scrivere infinite spiegazioni di queste visioni in crisi di grafomania. Dick è una figura molto provocatoria a cui pensare in questi termini. È un personaggio esemplare per la strana intensità auto-didattica del suo lavoro.
Nel suo saggio, “You Don’t Know Dick”, racconta le proprie esperienze giovanili rintracciando rare copie fuori stampa di libri tascabili di Dick nelle librerie di Brooklyn. Chi scopre Dick per la prima volta nell’edizione della Library of America vivrà chiaramente un’esperienza completamente diversa…
È una cosa incredibile pensare al viaggio che questo scrittore ha intrapreso. Non si può fare a meno di desiderare che possa in qualche modo sapere che cosa stia succedendo. Era la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, vivevamo in un mondo diverso, molto meno dickiano di ora. La cosa straordinaria del suo lavoro è quanto il mondo lo abbia raggiunto, aderendo alle sue visioni. Questo è vero in senso generale: l’iconografia della fantascienza, i tipi di materiali, le immagini e le metafore che Dick stava esplorando sono abbastanza comuni nella cultura di oggigiorno. Tutti sono al corrente su cosa sia un androide. Non è esotico. Fa semplicemente parte del vocabolario della cultura. Trenta o quarant’anni fa, non era così. Ma anche, in modi intensamente particolari e peculiari, le visioni di Dick – sebbene non fosse interessato ad essere uno scrittore profeta –, le sue intuizioni sul futuro media, sulla cultura commerciale, erano infallibili. Viviamo in un mondo pieno di pubblicità invasiva che colonizza la mente, nel pieno del marketing virale che aveva predetto quando sembrava assurdo farlo. Viviamo davvero nel suo universo e, in un certo senso, nel suo cervello. Chi lo leggerà per la prima volta, troverà così tanto sul mondo in cui viviamo, in una forma peculiare e strana, ma lo troverà assolutamente pertinente e attuale.
Come vedeva se stesso Dick?
Domanda molto complicata. Aveva tremende e contrastate aspirazioni di essere riconosciuto come scrittore letterario, letterato, tanto da considerarsi fallito in questo senso. Tuttavia, in altri modi, sentiva di aver realizzato – e giustamente – grandi cose in questa forma disprezzata e che non erano state riconosciute. A volte crede di aver compreso ciò che nessuno ha visto, altre di aver perso tutte le sue possibilità. Talvolta era provocatorio e orgoglioso della fantascienza, un antidoto al conformismo, alla docilità e alla tendenza del mainstream a non esaminare lo status quo. Si sentiva un ribelle ed era orgoglioso di esserlo. Non era particolarmente interessato a preparare le persone al futuro o a predire il futuro. Era un fantasista e un narratore e le sue estrapolazioni erano satire del presente piuttosto che previsioni. Eppure, paradossalmente, nella loro accuratezza, nella loro vividezza, nei suggerimenti della realtà che vide incorporati nel mondo degli anni ’50 e ’60, estrapolandoli e satirizzandoli, predisse il futuro in modo accurato.
Dick si considerava un innovatore?
Penso che il radicalismo nel suo lavoro non operi nel modo in cui gli scrittori o i critici di solito pensano allo stile. Ma c’è un radicalismo formale nel suo lavoro, nel modo in cui ha strutturato i suoi romanzi, in cui ha composto le scene, in cui fa evolvere i racconti, in cui confonde diversi tipi di materiale, toni differenti come la tragedia e la satira: questo è il livello nel quale c’è uno sforzo cosciente, orgoglioso, sperimentale, radicale e innovativo. Non è esattamente quello che si pensa normalmente come stile. È più una questione di forma.
Dick si considerava parte di una tradizione americana di scrittura fantastica risalente a H. P. Lovecraft?
Quando, a metà degli anni ’30, gli scrittori di fantascienza iniziarono ad articolare il genere, trassero un po’ di forza dalla consapevolezza degli scrittori horror e fantasy lovecraftiani. Si sono anche definiti in qualche modo in opposizione. L’horror era un tipo oscuro e onirico di scrittura, mentre gli scrittori di fantascienza pensavano che stessero facendo un tipo di scrittura lucido e ottimista. Questa opposizione potrebbe non sembrare così semplice in retrospettiva. Erano tradizioni alleate, alleate dalla loro differenza sulla credibilità letteraria. Dick non ha mai fatto commenti specifici su Lovecraft di cui sono a conoscenza. Ci sono alcune profonde tendenze che hanno in comune. Dick si dilettava in quello che gli scrittori di fantascienza dell’epoca consideravano il genere fantasy. C’è un romanzo, La città sostituita, e alcuni racconti abbastanza realizzati – in particolare, “Il re degli elfi” e “La cosa-padre” – dove Dick sta deliberatamente scrivendo come uno scrittore fantasy o horror piuttosto che come uno scrittore di fantascienza. Dick li avrebbe pensati più come una migrazione consapevole attraverso una “membrana” in un altro campo di operazioni. Queste tradizioni ora sembrano così correlate tra loro che queste distinzioni non sembrano così importanti.
Adesso Dick è molto popolare tra i produttori cinematografici. All’epoca, invece, lavorava con molti scrittori di fantascienza – come Ray Bradbury e Rod Serling – che stavano producendo sceneggiature per la televisione. Dick ha mai vissuto questa esperienza?
Ci ha provato alcune volte perché, per un artista affamato com’era, quello gli sembrava un buono pasto. Eppure non aveva la capacità di calzare il suo stile selvaggio e visionario nella trasposizione in formato televisivo di 30 minuti. I suoi pochi tentativi furono piacevolmente senza speranza. Ha scritto solo una sceneggiatura, un adattamento di Ubik. Ancora una volta, un esperimento senza speranza. Tra i suoi articoli sono stati trovate alcune sinossi per programmi tivù in cui stava ovviamente cercando di commercializzarsi, ma sono troppo eclettici, ellittici, pieni di dettagli. Non poteva semplificare il contenuto al livello che sarebbe stato necessario. Il suo stile compositivo non ha a che fare con le serie televisive di fantascienza degli anni ’60 che ricordiamo.
*L’intervista è stata originariamente pubblicata qui; la traduzione è di Caterina Rosa
L'articolo “È stato l’ultimo dissidente, una specie di Teresa d’Avila della fantascienza”. Su Philip K. Dick proviene da Pangea.
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Scipione Puzzovivo di Nardò: frammenti
di Armando Polito
Come ben sanno gli addetti ai lavori, si definisce tradizione indiretta la trasmissione di un testo del passato, facente parte di un testo mai pubblicato o andato perduto. In parole povere si tratta di citazioni, impossibile dire se a memoria o meno,  riportate da autori successivi. Possono essere brevi (più spesso è così) che lunghe ed è cura dei filologi raccogliere i frammenti relativi ad una o più opere dello stesso autore in un unico corpo, in pratica un’antologia in cui il compilatore sarebbe stato ben felice di inserire il maggior numero possibile di brani, nella quale non ha voce la sua scelta ma la maggiore o minore ampiezza delle fonti, cioé degli autori citanti.
Se il fenomeno coinvolge tutti i secoli passati, difficilmente si porrà per quelli attuali (e, probabilmente, futuri), in cui il desiderio di esibirsi e di conservare memoria di sé contrasta con una sincera consapevolezza dei propri limiti, il cui ricordo non converrebbe lasciare all’eventuale residuo spirito critico di qualche postero. E se anche molti autori del passato avrebbero fatto probabilmente meglio a ridurre la loro prolificità, per non pochi c’è il rimpianto per un talento che avrebbe meritato un ben diverso destino, alimentato da quel poco che di loro si sa e da qualche frammento che della loro produzione  è rimasto.
Di entrambi i filoni, relativamente alla sfuggente figura del Pozzovivo, fornisco in sequenza gli unici dati a me noti:
1) Pietro Angelo Spera, De nobilitate professorum Grammaticae, et Humanitatis utriusque linguae, Francesco Savio, Napoli,  1641, p. 365:
Scipione Pozzovivo salentino di Nardò, nel quale non mediocremente risplendettero le luci dei filosofi greci, in patria per non pochi anni precettore dei figli dei primi (cittadini) e poeta pregevolissimo in lingua latina  e  toscana, venne infine a Napoli, dove tra persone come lui raggiunse un posto di condizione non inferiore.
2) Giovanni Bernardino Tafuri, Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò, in Opere di Angelo, Stefano,  Bartolomeo,  Bonaventura,  Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Napoli, Stamperia dell’Iride, 1848, v. I, pp. 333-334 (cito da questa edizione, ma il primo dei due libri di cui consta quest’opera di Giovanni Bernardino era uscito nel tomo XI degli Opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, Venezia, Zane, pp. 1-315:
Extat MS. apud Jo. Bernardinum Tafuri=Il manoscritto si trova presso Bernardino Tafuri (sulla perdita di tale manoscritto vedi la nota 2 del brano xuccessivo).
pp. 487-488:
In rapporto a questo secondo brano sono doverose le seguenti precisazioni: 
a) sulla sua fine ecco cosa si legge in Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, s. n., Napoli, 1804, tomo VII, p. 10:
b) Credo che il Succinto ragguaglio del sito della Città di Nardò sia una variante di Descrizione della città di Nardò che si legge in 2). Un’ulteriore variante dovrebbe essere il Notizia dell’antichissima città di Nardò, e sua Chiesa Vescovile che si legge in  Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico …, op. cit. p. 10, insieme con l’informazione la quale rimase manoscritta, e fu involata dalla casa de’  signori Tafuri  (credo che qui involata non stia nel significato specifico di rubata ma in quello generico di volata via, scomparsa).
c) L’epigramma latino a p. 104 della raccolta del Grandi non è di Scipione Puzzovivo ma di Stefano Catalano, letterato nato a Gallipoli nel 1553 ed ivi morto nel 1620. Nella biografia che di lui scrisse Giambattista de Tomasi di Gallipoli, inserita nel settimo tomo della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli uscito per i tipi di Gervasi a Napoli nel 1820 sono ricordati i seguenti titoli, tutti rimasti manoscritti ed andati perduti: De origine urbis Callipolis (opera dedicata all’amico e concittadino Giambattista Crispo), Descrizione della città di Gallipoli, Vita di Giambattista Crispo.
d) Il libro che il Tafuri cita nella nota 2 e che recherebbe un epigramma del Puzzovivo in onore di Scipione Spina (che fu vescovo di Lecce dal 1591 al 1639) è, com’era facile ipotizzare, quasi irreperibile e l’OPAC segnala l’esistenza di un solo esemplare custodito nella Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini a Lecce. Impossibilitato a muovermi agevolmente, lascio ad altri il compito di consultarlo e di integrare, se si riterrà opportuno, questo post. In compenso, però, ne ho trovato un altro , che più avanti commenterò, a p. 8 di Peregrini Scardini Sancticaesariensis epigrammatum centuria, Vitale, Napoli,1603 (come si vede è lo stesso autore del libro dedicato  al vescovo Spina):
Su Pellegrino  Scardino di San Cesario vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/.
3) Giovanni Bernardino Tafuri, Serie degli scrittori nati nel Regno di Napoli cominciando dal secolo V fino al secolo XVI, in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, Zane, Venezia, 1738, Tomo XVI, pp. 184-185:
… [L’accademia del Lauro] …
4) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Severini, Napoli, 1753, tomo III, parte III, p. 4:
5) Giambattista Pollidori, De falsa defectione Neritine civitatis ad Venetos regnante Ferdinando I ,  in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, Occhi, Venezia, 1739, tomo XIX, p. 225:
Scipione Puzzovivo Seniora coetaneo del  Marcianob  nel libro che ha il titolo ….
a E il Puzzovivo Iunior  molto probabilmente è lo Scipione Puzzovivo menzionato più volte (ma il testo non dà la certezza che si tratti della stessa persona, dal momento che l’omonimia è sempre in agguato anche in sussistenza di compatibilità cronologica) nel Libro d’annali de successi accaduti nella città di Nardò, notati da D. Gio. Battista Biscozzo di detta Città (cito dal testo edito da Nicola Vacca in Rinascenza salentina, anno IV (1936), n. 4:
A 22 Febraro 1646, andarono carcerati in Napoli, Notaro Alessandro Campilongo, Giandonato Ri, Scipione Puzzovivo, Nobile, e otto altre persone del popolo, per imposture fatteli dal Sig. Conte.
A 13 detto [Gennaio 1654] venne ordine dalla Regia agiunta fatta in Napoli, per la morte del D.r Mario Antonio Puzzovivo, che si conferiscanp, il Sindaco del Popolo,Gio. Donato Ri, e Scipione Puzzovivo, figlio del morto Puzzovivo, ordinando nella Regia Udienza di Lecce,che gli sia data quella gente che è di bisogno per la strada, e che possano andare con armi proibite.
A 20 detto [Gennaio 1654] partì per Napoli Scipione Puzzovivo, per la detta chiamatapartì solo senza il Sindaco del Popolo, havendolo portato sino a Conversano Gio. Ferrante de Noha, suo cugino, di là fu provvisto dal Sig. D. Tommaso Acquaviva di cavalcatura e denaro.
A 5 Marzo 1654 furono chiamati da venti persone dal detto Auditore, esamenandoli se il D.r Mario Antonio Puzzovivo era agente in Napoli della città di Nardò, e se avesse inimicizia con il Patrone, se fusse ammazzato, se Gio. Ferrante de Noha havesse portato  Scipione Puzzovivo in Conversano quando fu chiamato da S. E., se avessero inteso, che Mariantonio Puzzovivo fusse stato annazzato in Napoli, ad istanza del sig. duca delli Noci.   
A 16 Giugno 1654 fu carcerato Gio. Tommaso Sabatino per haver andato per servitore a Gio. Ferrante de Noha, e Scipione Puzzovivo, quando andarono a Conversano, acciò testifica che detto Puzzovivo, quando andò in Napoli chiamato da S. E., andò da Conversano, e negozziò con D.Tommaso Acquaviva.   
b Girolamo Marciano (1571-1628), autore di Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto, opera pubblicata postuma per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855.
Alla data del 1739, dunque, il manoscritto del Puzzovivo ancora esisteva prima di fare la fine di cui si parla, come abbiamo visto,  nella nota 2 relativa al secondo brano del n. 3.
  6) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1752, tomo III, parte I, p. 378:
7) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1752, tomo III, parte II, p. 23:
  È giunto ora il momento di riportare, enucleati,  tutti i frammenti che le fonti (tra parentesi tonde il numero relativo) appena passate in rassegna mi hanno consentito di individuare.
Frammenti della Descrizione della città di Nardò:
(2) Nardò una delle città più cospicue della Salentina provincia, o s’ave riguiardo all’antichità della sua origine, vantando i popoli Coni per suoi fondatori, o all’eccellenza del suo sito, vedendosi piantata in una amena, e fertile pianura, e sotto d’un Cielo Benigno, o alla nobiltà degli abitanti, potendo andar gonfia, ed altiera sopra d’ogn’altra del Regno di Napoli , vantando, oltre molti nobili, ventiquattro Baroni di Feudi.
(4) L’Amore costante, La Tirannide abbattuta, ovvero la crudeltà di Tiridate vinta dalla costanza di S.Gregorio Armeno, L’Erminia  (Titoli delle opere sceniche di  Raimondo De Vito).
(5) Sotto Ferdinando I d’Aragona patisce ancora molti danni, per la batteria, et assalto fattali dal Campo Venitiano dopo la presa di Gallipoli.
(6) Visse in questo tempo in qualità d’ottimo, ed esperto Medico Gregorio Muci, a cui da più parti concorreva la gente, o di persona, o con lettere per avere di lui la direzione nelle proprie infermità, ed indisposizioni, e quasi di continuo era fuori di casa chiamato ora in un luogo, ora in un altro. E se la Natura gli fu assai proprizia acciò lasciasse parti ben degni delsuo vivace, e spiritoso ingegno, avendo composte molte opere mediche, e filosofiche, delle quali solamente corre per le mani di tutti un suo dotto parere intorno il cavar sangue alle donne gravide, gli fu molto avara a provvederlo di figliuoli  non ostante d’esser stato ammogliato con Prudenzia Filieri. Gregorii Mucii Medici Neritini Opus Practicis perutile. De Vena sectioni in utero gerenti adversus negantes huiusmodi auxilium pro cautione ab Abortu. Neapoli apud Joannem Sulerbachium 1544 in 4°.
Sui dubbi che suscita il titolo del Muci tramandato dal Tafuri vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/06/gregorio-muci-medico-nardo-del-xvi-secolo-suo-libro-fantasma/
(7) L’antica, e nobile Famiglia Longo s’estinse in Alberigo, il quale siccome per la suua gran dottrina apportò somma gloria, e riputazione alla sua Patria,ed al suo Casato, così per amor della verità, e per difesa degl’Amici mancò miseramente di vivere in Roma da un colpo di Archibugio.
Frammento della commedia in endecasillabi sdruccioli Fortunio:
(2) Così vengo or più pronto a te medesimo/per dedicar la mia nuova Comedia.( Questa, è pur ver, fu parte di quel carcere,/ch’io già provai per le colpe imputatemi,/  e Tu per tormi da man de’ Satelliti,/che mi volean straziar per non requiescere/volesti mai finché me render libero/non vedesti da que’ lacci corporei,/onde legata fu per sempre l’anima.
Epigrammi
(3) Quae fuerant Lauri Phoebo sacra pascua quondam/Musarum cultrix Infima turba colit./Aruerant herbis, Cytisi vel flore carentes/saltus,nec Cantum qui daret, ullus erat./Contulit illa atavis felicia serta Camoenis/vaticinor nostris gloria maior erit./At modo quae gaudet Vatum Turba infima dici/certabit, Phoebo tum decus omne feret. 
Quelli che un tempo erano stati pascoli di alloro sacri a Febo (ora) li cura la schiera Infimaa adoratrice delle Muse. Erano inariditi a causa delle erbe, le balze prive pure del fiore del citiso e non c’era chi intonasse alcun canto. Essab ha recato alle antenate Camenec ricche corone. Annunzio: per i nostri ci sarà gloria maggiore. Ed ora quella schiera di poeti che gode a chiamarsi infima gareggerà, tributerà allora a Febo ogni onore.
  a L’Accademia degli Infimi (per la storia di quest’accademia, sorta sulle cenwri di quella del Lauro, vedi Notizie delle accademie istituite nelle provincie napolitane, in Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, pp. 293 e seguenti).
b L’accademia.
c Nome romano delle Muse; molto probabilmente connesso con cànere=cantare e carmen=canto.
  In quest’epigramma composto da distici elegiaci colgo una dichiarazione di modestia, forse anche troppo ostentata, anche se abilmente, attraverso la ripetizione nel secondo e nel penultimo verso (simmetria strutturale)  dell’accoppiamento delle parole infima e turba con inversione chiastica (Infima turba/Turba infima) e grammaticale in una sottile inversione dei ruoli: nella prima sequenza turba con iniziale minuscola, nome comune con significato iniziale notoriamente dispregiativo  ed Infima con iniziale maiuscola (nome proprio dell’accademia); il contrario nella seconda, dove Turba esprime una sorta di già avvenuta nobilitazione, prontamente ridimensionata, però, da infima abbassatosi ad aggettivo dal significato non certo esaltante. Tuttavia va detto che a p. 55 del tomo II dell’edizione della Istoria uscita per i tipi di Mosca a Napoli nel 1748  in testa al componimento si legge AD SCIPIONEM PUTEVIVUM e, poco prima, che l’autore è Tommaso Colucci di Galatone; insomma, dedicante e dedicatario risultano invertiti e buon senso vuole che l’ultima versione sia quella corretta.
(2,  nota d) Ardua res epigramma solet Scardine videri/nec multis unum saepe placere potest./Namque alii verba, et flores sectantur amoenos,/hic pondus rerum, scommatis ille salem,/fabula nonnullis arridet, priscaque multis/historia in laudem ritè retorta virum./Sed benè cunctorum retines tu corda libello/hoc decies claudens carmina dena tuo/queis neque verborum flores, nec copia rerum,/nec doctrinae laus nec charis ulla deest.
O Scardino, l’epigramma suole sembrare cosa difficile e a molti spesso può non piacere una sola cosa. Infatti alcuni amano le parole e i piacevoli fiori di eloquenza, questi l’importanza degli argomenti, quegli il sale del detto faceto, a parecchi piace la favola ed a molti la storia antica giustamente rivolta a lode degli uomini. Ma tu avvinci felicemente i cuori di tutti includendo in questo tuo opuscolo cento canti ai quali non mancano né fior di parole né abbondanza di argomenti né lode della dottrina né alcuna grazia.
Da notare queis, forma arcaica  per quibus, che ha la funzione di conferire solennità più che obbedire ad esigenze metriche.
Della serie dei componimenti elogiativi posti nella parte iniziale dell’opera di Ferdinando Epifanio Theoremata medica et philosophica, Balliono, Venezia, 1640 fa parte un epigramma del nostro formato da tre distici elegiaci, preceduto dall’intestazione Scipionis Puteivivi u(triusque) i(uris) d(octor) hexastichon ad auctorem: Nec melius quisquam te, Ferdinande, medetur/quos mala vis ferri, vel mala febris agit,/Nec facile invenias, doceat qui rectius artes;/quarum mille locos explicat iste liber./Ad te igitur veniat quicumque aud doctus haberi,/aut fieri sanus cum ratione velit.
(Esastico di Scipione Puzzovivo dottore di entrambi i diritti all’autore:  Nessuno meglio di te, Ferdinando, cura coloro che agita la maligna violenza della spada o una febbre maligna e non si potrebbe trovare facilmente chi insegnui più correttamente queste arti, delle quali questo libro spiega mille punti. Da te dunque venga chiunque voglia o essere considerato dotto o diventare sano con serietà scientifica).
Nella presentazione, ormai datata (http://www.lavocedinardo.it/bacheca3-03/ripresa0503-1.htm), di una sua imminente pubblicazione di una storia di Nardò del XVII Giancarlo De Pascalis così scriveva: … Il resto della storia prosegue segnalando le personalità di spicco nell’ambito culturale della città: in particolare sono da rilevare le presenze di Scipione Puzzovivo (che molti studiosi ritenevano non essere affatto vissuto ma pure invenzione storica del Tafuri) …
Non mi è stato possibile fino ad ora leggere tale documento (estremi della pubblicazione in http://www.storiadellacitta.it/associati%20CV/de%20pascalis.pdf:  Nardò nel Seicento: un manoscritto inedito di Girolamo de Falconibus, nella rivista “NERETUM – Annuario della Società di Storia Patria – Sez. di Nardò”, Congedo, Galatina 2003) e, quindi, non sono in grado di dire cosa eventualmente  aggiunga a queste note la parte dedicata al nostro Scipione, né conosco i nomi di coloro che, forse un po’ troppo frettolosamente condizionati dal vizietto della falsificazione notoriamente caro al Tafuri, hanno pensato che fosse un personaggio fittizio. Per fugare definitivamente questo dubbio credo, visto  che l’epigramma 3, per quanto detto, molto probabilmente andrebbe escluso dalla produzione del nostro, basti  il 2, nota d “ospitato” da Pellegrino Scardino proprio all’inizio della sua centuria. Ho detto ospitato, ma avrei fatto meglio a scrivere esibito, insieme con altri tre, rispettivamente di Giovanni Alfonso Massaro, Filippo Antonio Leone e Francesco Mauro, secondo la consuetudine, abbastanza frequente nella letteratura encomistica di quel tempo, di far precedere l’opera da recensioni poetiche di personaggi di una certa notorietà. L’epigramma in questione, inoltre, testimonia, da parte di Scipione, di un certo mantenimento di contatti  con l’ambiente culturale salentino.
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arcadiashop · 5 years
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Io è un altro
“Vi è opposizione irriducibile tra l’ʺioʺ profondo, trascendente che si ridesta solo nella contemplazione e l’˝ioʺ superficiale, esteriore, che noi identifichiamo abitualmente con la prima persona singolare. Dobbiamo ricordare che quest’˝io˝ superficiale non è la nostra vera essenza; è semplicemente la nostra individualità e il nostro ˝io˝ empirico, ma non è in verità quella persona nascosta e misteriosa in cui noi sussistiamo agli occhi di Dio […] Questo ˝io˝ è destinato a sparire come fumo. È del tutto fragile ed evanescente. La contemplazione è precisamente la consapevolezza che questo ˝io˝ è in effetti il ˝non-io˝; è il risveglio dell’˝io˝ sconosciuto che non può essere oggetto di osservazione e di riflessione ed è incapace di commentare sé stesso”. Thomas Merton, Semi di contemplazione.
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Tutte le immagini sono tratte da: Thomas Merton, Vita nel silenzio, Brescia, Morcelliana, 1957. Il monastero raffigurato è quello di Camaldoli.
Pensare che le raccolte storiche di una biblioteca siano formate solo da libri antichi è un errore comune. Il numero in costante crescita di titoli pubblicati annualmente impedisce spesso la ristampa di opere destinate a uscire dai cataloghi delle case editrici nel giro di pochi anni. In questo senso una biblioteca come la Sormani, le cui collezioni sono formate soprattutto da opere del Novecento, costituisce una preziosa risorsa di “memoria”.
Di un autore come Thomas Merton, morto in un incidente cinquant’anni fa, Garzanti, ad esempio, ha ristampato solo l’autobiografia: La montagna dalle sette balze. L’interesse per la vicenda di un uomo fattosi monaco dopo avere aderito al credo comunista negli Stati Uniti degli anni Trenta e Quaranta è evidente, ma non può far dimenticare che dal confronto “canonico” col grande modello: Le confessioni di s. Agostino, lo scritto di Merton esce male disperdendosi in dettagli inessenziali che non restituiscono il clima culturale dell’epoca e non aiutano a riprendere la centralità del problema identitario (quaestio mihi factus sum) del vescovo di Ippona, per il quale egli è in un certo senso anche l’antesignano del romanzo moderno.
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Molto più efficace la descrizione da parte di Merton (che non è né un romanziere né un filosofo) dell’esperienza di contemplativo in opere segnate dal “marchio d’infamia” della letteratura devozionale e quindi non più ristampate da un editore laico. L’estraneità del nostro autore  al dibattito teologico ufficiale gli aveva consentito tuttavia di riprendere in modo più autentico l’esperienza della mistica cristiana, profondamente segnata dall’agostinismo, in una prospettiva complementare alla ricerca, già condotta dalla giovane Hannah Arendt, sul pensiero di questo padre della Chiesa, secondo analisi “per la maggior parte estranee al vincolo dogmatico”, pubblicate nel 1929 col titolo Il concetto d’amore in Agostino. Anche la Arendt è partita da un’esperienza che è insieme biografica: l’allontanamento sentimentale da Martin Heidegger, ma anche teoretica: affrancare la dimensione umana dall’”essere per la morte” del maestro ed evitare di stringere il pensiero in un sistema troppo rigido.
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Per entrambi gli autori, l’amore è rimasto comunque un amore trascendente che si attua nel mondo ma non appartiene al mondo e la cui dimensione storica è solo provvisoria. Nel XXI secolo l’esaurirsi ecologico delle risorse impone tuttavia anche nel contingente l’orientamento della felicità non più sulla quantità dei beni posseduti ma sulla qualità del pensiero: charitas o cupiditas non sono soltanto un’alternativa morale ma un parametro di sopravvivenza collettiva.
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ilikeshoppingit · 6 years
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«Ricordati di Sorridere»: il consiglio del «risvegliatore di felicità» per star bene
Un ragazzo romano, diventato fenomeno virale sui social, ha catturato l’attenzione di ragazzi in tutta Italia, che gli hanno dedicato numerosi fan club, ed è diventato influencer e scrittore, un vero e proprio guru dei giovani. Daniele Di Benedetti, classe ’86, si definisce un «risvegliatore di felicità»: il suo ultimo libro, intitolato «Ricordati di Sorridere» (Mondadori).
In poche settimane sono state richieste diverse ristampe, e le migliaia di copie vendute sono arrivate più volte al sold out. Dopo un periodo difficile in età adolescenziale, dovuto a problemi di salute del padre e a disagi economici, inizia a riflettere su di sé, sulla felicità e sul passato, arrivando alla consapevolezza che questo non può essere cancellato: «Cerchiamo in tutti i modi di dimenticare e nascondere i nostri errori, ma per quanto tentiamo di non pensare, i ricordi restano indelebili». Tutti desiderano notorietà, successo e soldi, ma ciò è solo un contorno, che arricchisce e migliora la qualità della vita, ma non è sinonimo di soddisfazione.
[ LEGGI IL LIBRO ]
Le ambizioni sono soggettive e personali e come tali, differenti. Ognuno può ricercare la felicità in diverse sfumature. «Nessuno al di fuori di te può crederci più di te», perché siamo noi i veri padroni di noi stessi. La sua notorietà è dovuta, oltre che alla sua capacità di analizzare minuziosamente e nel profondo le cause dei malesseri interiori, alla sua community, formata da centinaia di migliaia di persone, che lo seguono sui social e nei suoi eventi live. Un gruppo di seguaci fedelissimi, che gli richiede consigli e lo considera un leader, si affida a lui e si aggiorna sui corsi di strategie per raggiungere il benessere fisico e mentale, facendo quotidianamente decine di visualizzazioni ai suoi video. In definitiva non c’è, secondo l’autore, un percorso delineato per essere felici. La felicità è dentro ognuno di noi e per trovarla bisogna seguire quattro step fondamentali.
La formula del successo, e la chiave della felicità, è riassunta nella regola delle quattro A: Ascolta, Accetta, Apprezza, Ama
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digitalemusica-blog · 6 years
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Dai carillon al vinile, dalle musicassette ai CD!
Non si può parlare dell'importante svolta che ha portato nella vita di tutti i giorni l'avvento dell'era digitale senza prima indagare sulle origini della riproduzione musicale partendo dagli albori.  Sarebbe come parlare di un film iniziando dalla fine. Facciamo quindi qui di seguito una breve cronistoria della riproduzione della musica nel tempo.
I primi ad apparire in ordine cronologico, furono degli strumenti meccanici (carillon, organi a rullo, ecc.) in grado di riprodurre una composizione musicale pre-impostata. Essi apparvero in occidente nei primi anni del '700.
Da qui, l'evoluzione della riproduzione musicale ha avuto una crescita esponenziale, seguendo l'andamento dello sviluppo tecnologico degli ultimi secoli. Si è passati così da strumenti in grado di produrre una sequenza di suoni prestabiliti ad un metodo di memorizzazione diretta della musica prodotta: la registrazione. Questa permette di "catturare"  ogni genere di suono o musica generata dall'uomo. Alcune importanti innovazioni come l'elettricità e le proprietà dei campi elettro-magnetici, portarono alla diffusione della tecnologia a nostro magnetico che arriverà fino allo sviluppo delle tecnologie digitali dei giorni nostri.
Mentre l'evoluzione delle  scoperte tecnologiche portava man mano a nuovi modi di memorizzazione e riproduzione, la musica si è diffusa prevalentemente attraverso mezzi che ne consentono l'ascolto come flusso continuo, ovvero la radio, la filodiffusione e internet.
Possiamo distinguere i supporti di registrazione in due distinte categorie:
- Supporti di registrazione analogica;  - Supporti per file audio digitali.
Andiamo quindi ad analizzare nel dettaglio le singole categorie.
Il metodo della registrazione analogica, consente l'inserimento dei segnali sotto forma di onde. I principali supporti per la registrazione analogica sono:
i dischi a 78 giri, denominati così per la loro velocità di rotazione durante la riproduzione, erano incisi, attraverso mezzi meccanici, su di un supporto in plastica naturale chiamato gommalacca;
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Logo “La voce del padrone“. Fonte: Wikimedia Commons
i dischi in vinile: evoluzione del 78 giri in gommalacca, il vinile avendo caratteristiche migliori, permise di rimpicciolire i solchi di registrazione e di abbassare il numero di giri al minuto del disco da 78 a 33 e 1/3; questo comportò, a parità di dimensioni del supporto, una durata di ascolto decisamente maggiore. Vennero anche prodotti dei dischi di dimensioni più ridotte, con velocità di riproduzione a 45 giri, che potevano contenere al massimo uno o due brani per lato. Prodotti in larga scala fino agli inizi degli anni '90, relegati poi per lungo tempo ad un mercato di nicchia fatto di audiofili e di nostalgici, i vinili sono tornati negli ultimi anni ad avere buoni dati di vendita, non solo con ristampe di vecchi dischi ma anche di nuove uscite di artisti contemporanei che affiancano il vinile ad altri supporti;
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Disco in vinile. Fonte: Pixabay
i supporti magnetici, basati sull'utilizzo del nastro magnetico ovvero di un supporto in materiale plastico sulla cui superficie vengono depositate delle particelle di materiale ferromagnetico che grazie al campo magnetico generato dalle testine di scrittura (che sono dei minuscoli elettromagneti) vengono diversamente orientate. La lettura avverrà attraverso le stesse testine (o altre) che rileveranno, man mano che il nastro scorre sotto di loro, le variazioni di intensità del campo magnetico. I supporti possono ricondursi fondamentalmente a due categorie: a) i registratori a bobine aperte intercambiabili, utilizzati in maniera prevalente in ambito professionale, soprattutto negli studi di registrazione; b) i registratori a musicassetta ( o audio cassette) di grande diffusione in ambiente domestico grazie all'economicità del supporto e alla semplicità d'uso. La loro diffusione è dovuta a due colossi dell'industria: la Philips che introdusse le musicassette sul mercato agli inizi degli anni '60 e la Sony che nel 1979 lanciò sul mercato il primo Walkman rendendo così possibile ascoltare con delle cuffie la propria musica praticamente ovunque.         
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Musicassetta Maxell. Fonte: Pixabay
Dalla fine del XX secolo vengono sempre più sovente utilizzati metodi di registrazione digitali. In questi il segnale analogico (continuo) viene "campionato", ovvero trasformato in un segnale digitale (discreto) cioè vengono prelevati dei campioni di segnale ad intervalli di tempo regolari molto ravvicinati determinando un valore numerico che verrà trasformato in numeri binari registrati su di un supporto (es. CD) sotto forma di tacche la cui presenza o assenza rappresenta le cifre binarie 1 e 0. I principali supporti digitali sono :
il CD, nato dalla collaborazione tra Philips e Sony, permise di ridurre in maniera considerevole il rapporto tra dimensioni del supporto e quantità di dati immagazzinati;
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Lettore CD. Fonte: Pxhere
il Super Audio CD (SACD) e il DVD-Audio: introdotti poco prima degli anni 2000, permettono la memorizzazione di tracce audio con una qualità molto più elevata rispetto ai CD, ma l'alto costo dei supporti e degli apparecchi per la loro riproduzione in grado di far percepire la maggior qualità della registrazione, ne decretarono in breve tempo l'insuccesso commerciale.
- Claudia Gasparre
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diceriadelluntore · 2 years
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Storia Di Musica #236 - Sun Ra And His Arkestra, Jazz In Silhouette, 1959
Per un mese di dischi “cosmici”, non potevo non parlare di questo musicista, per molti uno dei più grandi misteri della storia della musica occidentale, per altri ancora un pagliaccio, per la parte restante un genio. Effettivamente era complicato avvicinarsi ad un uomo che sosteneva di non essere nato sulla terra, ma di essere figlio dello Spazio, osteggiando questa sua idea non fornendo mai dati e conferme sulla sua identità. Fatto sta che Sun Ra, pseudonimo di Herman Poole Blount, dal 1952 Le Sony'r Ra, è uno dei personaggi più intriganti del jazz. La sua era un eccentricità che per molti versi fu perfino organizzata in una sorta di pensiero filosofico, l’Afrofuturismo, di cui è considerato uno dei padri spirituali, un movimento pacifista e multiculturale, che sosteneva la provenienza della gente afro-americana da un altro mondo e mischiava in dosi eccentriche la Cabala, i Rosacroce, il simbolismo egiziano e i nascenti movimenti di liberazione afro-americani. Ma nonostante tutto fu la musica il suo centro di attività. A partire dagli anni Cinquanta, si fa chiamare Sun Ra, Sun come sole e Ra come la divinità solare egizia. Fonda un gruppo orchestrale, The Arkestra, partendo dal binomio palindromico Ar - Ra, ma che in realtà era la pronuncia slang di come gli afroamericani sui amici pronunciavano la parola “orchestra”. In questa ensemble, non c’erano solo musicisti, ma anche comici, ballerini, cantanti e addirittura vestali, che nel periodo di massima eccentricità si vestivano con costumi di ispirazione faraonica. La carriera musicale di Sun Ra è facilmente divisibile in tre percorsi: il primo, per tutti gli anni ‘50, a Chicago, dove dopo aver fatto il pianista per Fletcher Henderson, grande jazzista ma con la fama di essere un eterno “numero due”, inizia a suonare come band leader, anche grazie ad una primitiva tastiera elettronica, che lui modifica per dargli delle sonorità vicine alle Onde di Martenot (il primo sintetizzatore analogico monofonico inventato da Maurice Martenot e presentato al pubblico nel 1928). Sempre in quegli anni, fonda la sua etichetta musicale, El Saturn, un omaggio a Saturno da cui diceva provenisse. La seconda fase, degli anni ‘60, avviene con il suo passaggio a New York: fu il primo ad avere un Moog, e la musica elettronica fu la chiave di volta del suo jazz che si pone all’estremo del movimento Free-Jazz (etichetta che tra l’altro non condivise mai), e i suoi dischi di quel periodo, aiutato da una serie di musicisti fenomenale che comparvero nelle fila della sua Arkestra (ricordo Ahmed Abdullah, Pharoah Sanders, Alan Silva tra gli altri), sono un magico viaggio cosmico nel “new thing”. La terza fase, con il definitivo spostamento a Philadelphia negli anni ‘70, lo riporta sul solco delle tradizioni delle big band, nel segno di Duke Ellingston e Count Basie, i suoi due fari musicali. La Arkestra continua ancora oggi a suonare i suoi classici, a oltre trenta anni dalla sua morte, avvenuta nel 1993. Il disco di oggi, scelto dalla sua sterminata discografia (oltre 120 incisioni per la El Saturn, senza contare ristampe, compilation e partecipazioni) è considerato uno dei suoi migliori, ed è del primo periodo, quello di Chicago. C’è da fare una premessa: siccome la sua fama di personaggio eccentrico finì per decenni per oscurare la sua fama di artista (a ciò contribuirono pure le scenografie dei suoi concerti, le interviste strambe, le foto conciato come una comparsa in b-movie sui Faraoni), la sua musica è stata spesso sottovalutata. Tuttavia la sua produzione, soprattutto anni ‘50 - primi ‘60 ha delle qualità eccelse, secondo me condensate nel disco di oggi, Jazz In Silhouette, del 1959. L'apertura di Enlightenment ha un accompagnamento al pianoforte tagliente di Ra e un finale ritmico cubano, ed è qui evidente il ricordo di Duke Ellington: diventerà uno dei brani di Sun Ra più famosi ed uno dei cavalli di battaglia della Arkestra, con gli anni vi fu aggiunta anche una parte cantata. Blues At Midnight è un brano bop ritmato con assoli eccezionali di tutti i membri degli Arkestra. Il disco sorprende per le parti musicali anche complesse, come nella splendida Saturn, ma spesso si rifugia nel blues, come in Horoscope. Questo fu un Album spartiacque dato che esprime al meglio le qualità dello stile che Ra ebbe nel primo periodo e quelle che avrebbe sviluppato negli anni successivi. In particolare,  significative sono le lunghe esplorazioni d'insieme di Ancient Aethopia, uno dei brani più suggestivi del disco e che sono intrise di percussioni tribali, flauto e temi simili a canti. Questo album è un'introduzione eccellente e accessibile alla musica di Sun Ra, ideale per coloro che potrebbero essere intimiditi dal lavoro successivo più impegnativo di Ra. Segnalato nella prestigiosa, e mia personale Bibbia del Jazz, Penguin Guide come uno dei “core album”, gli album essenziali del jazz, ha un’ultima particolarità: essendo la El Saturn una etichetta piccolissima e artigianale, la prima edizione del disco (che tra l'altro per anni non si seppe nemmeno quando fu ufficialmente registrata nel 1958 o nel 1959) aveva in copertina una serigrafia bianca, rossa e nera, accreditata a tale HP Corbissero, in realtà lo stesso Ra che faceva pure il grafico. Quando fu ristampato sin dagli anni ‘60,  vista anche la successiva discografica di Sun Ra, ebbe la stupenda copertina di oggi, con donne astronauta  che si teletrasportano su una delle lune di Saturno, che nelle note della versione Impulse! che ho io è accreditato a “Evans”: non so se anche stavolta ci sia lo zampino del tizio che viene da Saturno, ma non mi meraviglierei più di tanto, data la sua straordinarietà, eccentricità e genialità.
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pangeanews · 4 years
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Sulla poesia facile, vendibile, tribunizia di Franco Arminio. Ovvero: la schiacciante vittoria della società dello spettacolo e del pensiero mainstream
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Nel 1989 Beppe Grillo intervenne come comico al Festival della canzone di Sanremo con un monologo che fungeva da intermezzo tra le canzoni. Disse tra l’altro: “Io qua però non ci dovrei essere, perché se sono qua, vuol dire che denuncio la mia sconfitta; sì, Sanremo è la mia sconfitta, come uomo e come professionista! Sono un fallito, come voi giornalisti! …giornalisti che avevano un decoro, gente con tre lauree, che andava a… Kabul! Adesso li vedi che dicono: ‘Dov’è Peppino di Capri, che sono rovinato!’. Questa è la vostra sconfitta, siete dei falliti anche voi!”. Beppe Grillo si prese delle querele per quei monologhi, ma ricordo che ciò che disse, oltre ad essere spesso esilarante, lasciò un segno in molte persone, molto più delle pessime canzoni di quell’anno (eccetto Mia Martini), della conduzione imbarazzante, dell’istanza ecologista demandata a una canzone di… Albano e Romina!
Erano decisamente altri tempi. Grillo ovviamente non era un capo-partito, ma solo un comico. Nel 1989, pochissimi giorni prima di Sanremo, era finita la guerra in Afganistan, quella provocata dall’invasione sovietica, respinta dai mujaeddin foraggiati dagli americani, che sarebbero poi diventati i talebani. Ho detto sovietica, perché il muro di Berlino non era ancora crollato (succederà a novembre di quell’anno) e con esso resisteva la divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi politico-militari. C’erano ancora la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista e il Partito Socialista: tempo due tre anni e l’inchiesta cosiddetta “mani pulite” avrebbe spazzato via anche loro. Il giornalismo era un’altra cosa, e a questa fa riferimento Beppe Grillo: i quotidiani nazionali vendevano ancora centinaia di migliaia di copie e l’informazione via internet, compresi i mondi social, stavano ancora al di là dell’orizzonte del futuro. E i giornalisti andavano in giro per il mondo a cercare le notizie rischiando anche la pelle, anziché sbirciare come fanno oggi sui profili social di questo o quel personaggio.
Silvio Berlusconi era già famoso, ma non come politico: all’inizio degli anni Ottanta le sue televisioni, in primis Canale 5, avevano iniziato la scalata all’audience trasformandosi da tivù locali a network nazionali e compiendo quella che è stata la vera grande riforma berlusconiana, cioè una rivoluzione del modo di concepire la televisione, lo spettacolo e anche un po’ la cultura: ciò che conta è l’audience, appunto, la quantità, il profitto, la diffusione di merci e show. Nel monologo di Beppe Grillo a Sanremo si cita lo scandalo provato dall’intellighenzia, tutta di sinistra, per il fatto che sulle reti berlusconiane i film era interrotti dalla pubblicità, indecorosa novità per le menti raffinate di quei tempi. Di fatto la vera riforma del Cavaliere è stato un gigantesco collasso del gusto popolare in fatto di musica, cinema, spettacolo, informazione e persino sport. L’asservimento della qualità alla quantità per fini commerciali. La società dello spettacolo di debordiana memoria stava avendo la sua schiacciante vittoria.
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La poesia di Franco Arminio mi ha fatto tornare in mente queste cose. Nel 2019 è uscita da Bompiani la sua ultima raccolta, L’infinito senza farci caso, lanciata sul mercato come una saponetta, e mi sono chiesto se occuparmene non fosse il segnale del mio fallimento, così come per Grillo quei giornalisti che a Sanremo andavano a cercare Peppino di Capri. Non dico del mio fallimento come scrittore, poeta o critico letterario, ruoli di cui non posso autoinvestirmi. Ma sono un insegnante, e soprattutto di lingua e letteratura italiana. Insegno continuamente la poesia, a discenti che vanno dalla scuola primaria, ai licei, persino all’università, fino ai colleghi insegnanti, essendo titolare, come esperto, di continui corsi di formazione. Eppure non capisco quello che scrive Franco Arminio in una specie di dichiarazione di poetica: “Molti poeti, anche molto bravi, mi sembra che ormai scrivono testi che girano a vuoto, testi assorti in una religione senza fedeli. Ognuno può scrivere quello che vuole, ma non si può pretendere che i testi disertati dai lettori siano i migliori in via di principio, come se il lettore fosse sempre colpevole e il poeta fosse sempre innocente. In realtà bisogna avere l’umiltà di considerare che oggi i lettori sono più avanti dei poeti. I lettori hanno una naturalezza, una capacità di abbandono che molti poeti hanno perduto. Ed è chiaro che nessuno vuole impedire a questi poeti di essere astrusi e incomprensibili, ma loro neppure possono pensare che chi non li segue è colpevole di non capire la poesia. Ho come l’impressione che ci sia un tempo tutto pronto alla poesia e i poeti siano clamorosamente impreparati. Per lungo tempo hanno atteso di essere interrogati. E ora che questo tempo è venuto non sanno cosa rispondere, vanno avanti con congegni verbali concepiti per un altro tempo e per un’altra umanità. Non sto dicendo che la poesia deve avere il passo dell’attualità. Sto dicendo semplicemente che oggi la poesia si trova nel cuore di chi legge più che nel cuore di chi scrive”.
Ora, dichiarazioni così generali contengono una scorrettezza, l’assoluta mancanza di nomi. Chi sono i “molti poeti, anche molto bravi” che non capiscono che i lettori sono più avanti di loro e che non sanno intercettarne la disponibilità a leggere? Vediamo un po’: io, insegnando, uso poesie di Caproni, Luzi, Sereni, Bertolucci, Betocchi, Bigongiari, Pasolini e via via più vicino, tipo Raboni, Fortini, Loi, Baldini, Guerra, De Angelis, Conte, Magrelli, fino a poeti miei coetanei e anche più giovani e ogni volta, immancabilmente, i miei discenti entrano in rapporto con le loro poesie, le amano e ringraziano. Mi sono tenuto sempre più vicino al contemporaneo, non ho citato gli autori più canonici (Montale, Ungaretti, gli altri…), saranno questi i poeti ad “essere astrusi”? Se è per questo, propongo anche poesie più difficili, che so, di Celan, Mandel’��tam o Eliot, che non hanno testi esattamente sanremesi, ma il risultato di “piacevole interazione” (Mandel’štam) tra i miei lettori e quelle poesie non cambia.
*
3
Allora a chi si riferisce Arminio? Forse ai poeti che “vendono poco”? Può essere. Credo si faccia forza delle ripetute, millantate ristampe dei suoi libri di poesia, cosa su cui non ho elementi per dubitare. È questo il criterio? Molto berlusconiano, non c’è che dire; vorrei ricordare allora che i poeti che vendono di più sono personaggi come Francesco Sole, Guido Catalano o Gio Evan, tanto per fare qualche nome e per mostrare quale poesia “si trova nel cuore di chi legge più che nel cuore di chi scrive”. Non capisco. Il fatto è che ad ogni soffio di vento nasce qualcuno che tuona contro l’oscurità della poesia, la colpa dei poeti di non farsi capire, di essere astrusi. Credo che si tratti di una forma di demagogia letteraria: “Sto dalla parte del popolo dei lettori contro le èlite della letteratura, così antiquate e lontane dal sentimento popolare, che io invece so interpretare. Infatti mi comprano”.
Dice infatti Arminio: “Lo sguardo è più importante/ della poesia, mi fanno pena/ i letterati che non vedono niente,/ che giocano a imitare altri ciechi/ in un tempo in cui non vedere/ forse era una resistenza,/ ma ora lo sguardo è tutto,/ abbiamo solo lo sguardo e il mondo/ e le gambe per camminarci dentro:/ il poeta da salottino/ è una macchia d’unto, una reliquia/ di un tempo in cui essere difficili/ serviva a sembrare intelligenti”.
Eccola l’accusa ai poeti “che giocano a imitare i ciechi”; sarebbe interessante chiedere di quale salottino si stia parlando: diomio, i salotti dove si leggevano poesie si sono estinti decenni fa, oggi nei salotti dell’intellighenzia non so cosa si faccia, suppongo quello che racconta Sorrentino nella Grande bellezza! Che strepitoso luogo comune! Tutto ciò svela in modo chiaro il dispositivo consueto con cui persino i politici scaltri diventano rappresentativi: non circostanziare, lanciare accuse vaghe, generare un nemico dai contorni illusoriamente definiti. Tutto qui. Ascoltiamo ancora Arminio: “La poesia non ha bisogno di ispettori/ per segnalarne gli abusi, la poesia/ oggi ha tante facce, tanti nomi:/ è una questione di chi ha la morte/ sulle dita (davvero qui non capisco cosa significhi, anzi sì: sembra che voglia dire qualcosa di grande, invece è solo vago), di chi è costruito con la carne/ di un secolo prima e con l’anima/ in un secolo che deve ancora venire/ (quindi? La tradizione letteraria e addirittura – orrore! – metrica è importante o no?!). Ecco, non è materia/ d’istruzione (grazie per averci detto che da anni facciamo un mestiere sbagliato), non è cosa per bande,/ per innovatori da canile,/ per psicopatici patinati, per sapienti/ annoiati./ Io canto la fine della poesia come imbroglio,/ come soggezione a giochetti da niente/ che non capisce nessuno”.
Non occorre commentare oltre, emerge chiaramente, anche dal tono oratorio, l’autoelezione a tribuno del popolo lettore. E ricordiamo che questo testo è una poesia, direi piuttosto coerente: nessuna metrica, nessuna musica, nessun ritmo; nonostante vi vengano richiamati il corpo, le dita, le mani, non c’è neppure nessun corpo, né scritto né sonoro: è solo una lunga omelia, banalmente retorica, incapace di circostanziare e di spiccare il volo di un’immagine che non sbatta su un soffitto di banalità. Certo, immediata, facile da leggere. E da comprare.
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4
A un certo punto nasce l’urgenza di una domanda: ma cosa dice in definitiva questo poeta? La sua notorietà, si sa, è affidata alla strana specializzazione inventata per se stesso: paesologo. Ho fatto una lettura pubblica una volta assieme a Franco Arminio. A San Severo in Puglia, nei fascinosi sotterranei di una cantina ristrutturata a ristorante, davanti ai tavoli del pubblico commensale, ho letto alcune mie poesie, poi è stato il suo turno. Arminio ha imbastito lì per lì una specie di gioco a quiz in cui diceva i nomi di piccoli paesi e cittadine e interrogava il pubblico per vedere se sapevano collocarli in questa o quella regione d’Italia. Poi ha letto qualcosa sulla bellezza di abitare nei piccoli borghi, o forse ha fatto solo un discorso senza leggere niente. È stato un successo, grazie anche al tono simpatico e da show televisivo sfoderato nell’occasione. Io sono stato velocemente oscurato, tipico poeta astruso da colpevolizzare. Sono tornato a San Severo qualche mese dopo, però, e tutti avevano contrappassisticamente dimenticato anche Arminio.
Al nostro tavolo aveva continuato sull’argomento: la cosa che mi colpì di più era l’idea di Roma o Milano che, come metropoli, sono corpi tumorali in una terra come l’Italia, adatta ai piccoli centri a suo parere. La questione che pone Arminio in realtà è interessante e perfettamente moderna. Se la modernità infatti è stata la scoperta dell’io, della deflagrazione dell’individuo col suo portato positivo di diritti e garanzie individuali e con quello negativo dell’individualismo che a livello politico si traduce in distruzione della società, la domanda implicita del suo lavoro mi sembra giusta: che cosa rende possibile una comunità? Una comunanza, una solidarietà fra gli uomini e anche con la natura? Qualche dubbio in più ce l’ho sulla risposta, che è l’abitare in piccoli centri, possibilmente isolati. Il problema, più che teorico, è empirico: il fatto è che conosco splendide comunità innestate nelle grandi città, e orribili e chiuse non-comunità che caratterizzano luoghi fatti di poche case. Scomodare la letteratura – che so, Silone – è inutile, e persino De Andrè, sono cose che conosciamo tutti. La risposta allora a questa giusta istanza è semplicistica, astratta, alla fine ideologica. Ancora una volta. D’altronde il poeta dice: “Molte poesie hanno un additivo intellettuale che i lettori non chiedono, come se il poeta avesse paura di non essere abbastanza sofisticato. Ma la poesia è un moto ondoso che viene dalla contentezza o dalla disperazione di un corpo, non è la gara a chi meglio conosce la metrica”. Niente additivi intellettuali, dunque. Rimaniamo nel “moto ondoso” del corpo.
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5
E vediamolo questo moto ondoso, per cercare di capire come funziona una poesia siffatta. Quando dice “Una goccia d’acqua/ potrebbe farti da vestito” nell’immediato mi colpisce (anche se io, che non sono molto serio, alla lettura di quei due versi ho pensato a Marilyn Monroe: «What do I wear in bed? Chanel N°5, of course») e penso: carino. Passato l’immediato, però, mi chiedo: “Ma cosa vuol dire?”. Poi mi accorgo che tutta la poesia di Arminio mi porta sempre sulla stessa soglia, l’intuizione di qualcosa da dire generata da un trucco linguistico, raramente un fuoco d’artificio, dietro il quale non so più cosa trovare: “In un giorno così puoi fare l’amore con l’aria, /col tempo che passa,/ non hai bisogno di spogliare una donna/ o di spogliarti”, carino, ma quindi? Il tema più forte è quello della natura, come dimostra il successo del libro precedente, poiché già da sempre per il poeta l’umanità non è solo prerogativa degli uomini, ma “appartiene/ anche agli animali,/ agli alberi, alle nuvole” e “Ogni uomo, ogni donna/ è un corpo celeste/ arato dal respiro”. Confermo, carino. Come dice una recensione “congiungersi con la natura può essere dichiarato simile al fare l’amore”: “Se non c’è una bocca/ bacia un ramo” ed eccolo quindi l’altro grande argomento che fa cassetta, l’amore universale, la libertà dell’amore di tutte le sue forme. La perfetta ideologia moderna. Fa notare ancora una studiosa: sarebbe infatti presuntuoso pensare di astrarsi dal mondo in nome del proprio sentimento (“L’uno e il due/ sono presunzioni”). Ma alla fine siamo nel pieno del pensiero di moda oggi: ecologia, animalismo, panteismo moderno, amorismo libero, come chiamarlo? Questa non è originalità, è mainstream. Che fa vendere, è ovvio. Poi però occorrerebbe evitare tirate tribunizie para-marxiane come: “Il virus del pianeta è l’uomo delle prime file,/ i banchieri, i potenti mercanti/i più lesti tra i politicanti./ Nelle retrovie dell’umanità/ancora batte il cuore,/ la figlia va a trovare la madre/ e la madre teme che la figlia si ammali,/ il barbiere di pomeriggio/ non sa bene che fare,/ ora per lui è sempre lunedì”. Perché occorrerebbe far notare che essere pubblicati da un editore industriale e nazionale è pur sempre essere scelti da “l’uomo delle prime file”, quello che pubblica qualcosa se vende. Ma la continuazione della poesia svela anche il dispositivo generale: si tratta di evocare immagini che stimolano subito il livello sentimentale del lettore, il quale capisce subito, sente il moto ondoso dell’emozione, non impegna il pensiero ed è finita lì. Ecco, l’aggettivo che mi ritrovo più adeguato è “sentimentale” perché evidentemente per l’autore un approfondimento maggiore del pensiero ma anche nel vero corpo della poesia, che è la parola, è un’astruseria intellettuale di cui il poeta si deve sentire in colpa rispetto al lettore.
Dopodiché mi fermo qui. Mi sono già spremuto troppo per un libro che non capisco, sospettando che il motivo stia nel fatto che non c’è granché da capire. Ma non è questo che sento come fallimento: temo che avesse più ragione Beppe Grillo.
Gianfranco Lauretano
L'articolo Sulla poesia facile, vendibile, tribunizia di Franco Arminio. Ovvero: la schiacciante vittoria della società dello spettacolo e del pensiero mainstream proviene da Pangea.
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nofilterilblog · 7 years
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Mi piace ricordare le date importanti, e, per me, oggi è una di queste. Esatto, perchè, come vi suggerisce l'immagine a corredo, oggi esce ufficialmente l'omnibus di Devilman, l'opera (forse maxima) del maestro Gō Nagai edita da J-POP Manga. Perchè ritengo che oggi sia un giorno importante? Innanzitutto per la qualità del titolo in uscita, penso non abbia bisogno di presentazioni, ma soprattutto perchè la scelta dell'editore potrebbe rappresentare una gran bella svolta per l'editoria Italiana (parlando dei manga, naturalmente), quel che è sicuro è che va a creare un precedente. Siamo ormai abituati a vedere opere americane, europee ed anche italiane se vogliamo andare nello specifico, ristampate in un'edizione “definitiva” che comprende tutti i volumi, magari con una copertina ad hoc e magari anche bella e cartonata. Ma per i manga, l'omnibus, è una novità (correggetemi se sbaglio). Ok, qualche serie breve è stata raggruppata in un solo volume, ma non possiamo definirli omnibus. Ok, la prima saga di Dragon Ball (quella di Pilaf) è stata raccolta in un gran bel volume, ma vale sempre quanto sopra. In questo caso, quindi, ci troviamo proprio di fronte ad una novità, in Italia, nel campo dei manga. Una novità che, per quanto mi riguarda, è più che benvenuta! Sono il solo a pensarla così? Preferite la serie divisa in volumi? Naturalmente non mi aspetto l'omnibus di Detective Conan, capiamoci, ma dove possibile secondo me viene fuori un gran bel prodotto, come in questo caso… Momo’s Warp http://ift.tt/2oNjFoT
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/01/lorenzo-scupoli-1530-1610-di-otranto-e-il-suo-best-seller-senza-tempo/
Lorenzo Scupoli (1530-1610) di Otranto e il suo best seller senza tempo
di Armando Polito
Strano mondo il nostro, che si è inventato il disco d’oro per i cantanti che vendono 25.000 copie, di platino per chi ne vende 50.000 e di diamante per chi raggiunge le 500.000. Come se non bastasse il disco, d’oro c’è pure il pallone e, per chiudere adeguatamente, pure la pensione che in moltissimi casi è il riconoscimento di un impegno politico diretto (a rappresentare il più delle volte interessi personali o di consorteria) o indiretto, cioè legato a funzioni o cariche rivestite su designazione politica. Nessun libro, nemmeno di cartone, invece, per i letterati che abbiano venduto un certo numero di copie, anche se il successo di vendita, come succede pure con i prodotti alimentari  o con quelli igienici, non è necessariamente prova di qualità. A dire il vero esiste il Libro d’oro della nobiltà italiana, sul quale, per non perdere tempo, evito di fare riflessioni più o menp in linea con quelle già fatte per le pensioni d’oro.
Ad ogni modo, se esistesse un libro d’oro come lo intendo io, da tale onorificenza non andrebbe escluso Lorenzo Scupoli, degno di fare compagnia agli autori classici che, anche per le stampe e le ristampe, possono essere considerati senza tempo.
Il libro d’oro in questione sarebbe il suo Il combattimento spirituale, opera di edificazione in cui addita gli strumenti per raggiungere la perfezione interiore. Pensando ai nostri tempi così proni all’immagine e alle apparenze c’è da chiedersi quale successo ancor più grande avrebbe riscosso quest’opera se k’autore vi avesse inserito qualche suggerimento per apparire più belli esteriormente …
E, a proposito d’immagine, ecco le poche testimonianze iconografiche che son riuscito a trovare del nostro.
La più datata è una tavola presente in un’edizione de Il combattimento spirituale uscita per i tipi della Stamperia Reale a Parigi nel 1660 con dedica a papa Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi, già vescovo di Nardò. Prima della tavola presento il frontespizio.
  Nel dettaglio in basso a sinistra l nomi del disegnatore e dell’incisore:
N. Loyre delin(eavit) Aig(idius) Rousselet sculp(sit) [N. Loyre disegnò, Egidio Rousselet incise]
Il Rousselet era nato a Parigi nel  1614 e vi morì nel 1686. Non è dato sapere a quali fonti il disegnatore si ispirò per il dettaglio del volto del nostro che di seguito riproduco ingrandito.
SI direbbe che ad esso si rifacciano i successivi ritratti.1
Il primo è a corredo della biografia dello Scupoli a firma di di Domenico De Angelis nel suo  Le vite de’ letterati salentini, Raillard, Napoli, 1713, v. II, pp. 7-18.
Laurentio Scupulo Hydruntino Congr(egationis) ge(neralis) Cleric(o) Regular(i)/Dominicus de Angelis D(ONO) d(EDIT) d(edicavit) [A Lorenzo Scupoli chierico regolare della Congregazione generale Domenico De Angelisin dono diede (e) dedicò]
Il secondo è a corredo di Certamen spirituale (traduzione in latino de Il combattimento spirituale), Rieger, Augusta, 1781
Vera Effigies Venerabilis P(atris) Laurentii Scupuli/Hydruntini Clerici Regularis, qui obiit Neapoli/A(nn)o MDCX [Vera immagine del venerabile padre Lorenzo Scupoli chierico regolare di Otranto, che morì a Napoli nell’anno 1610]
Nel margine inferiore a sinistra Gottfrid Eichler delineavit (disegnò Goffredo Eichler)
e a destra Tobias Lobeck sculp(sit) [Tobia Lobeck incise]
La famiglia Eichler, tedesca, annoverò parecchie generazioni di pittori. Quello della tavola dovrebbe essere Matteo Goffredo (1748-1809 in Pietro Zane, Enciclopedia mertodica critico-ragionata delle belle arti, parte I, v, VIII, Tipografia ducale, Parma, 1821). Nella citata enciclopedia (parte I, v. XII, Tipografia ducale, Parma, 1822) Tobia Lobeck è riportato come attivo nel 1744.
Il terzo è a corredo della biografia del nostro a firma di A. Mazzarella da Cerreto in Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, Gervasi, tomo V, Napoli, 1818.
  Non mi rimane a questo punto, a dimostrazione dell’assunto iniziale, che riportare le varie edizioni distinte per secolo, comprese le numerose traduzioni (evidenziate con sottolineatura) in latino(, francese, spagnolo, portoghese, tedesco, inglese e lituano, che attestano lo spessore internazionale dell’opera.
XVI
Gioliti, Venezia, 1589, 1591 e 1593
Ventura, Bergamo, 1593
n., Venezia, 1594
Zanni, Cremona, 1594
Faccioptto, Roma, 1594
Srmantelli, Firenze, 1596
Brea, Messina,1598
Sermartelli, Firenze, 1598
Muzio, Roma, 1598
Gioliti, Venezia, 1599
Bordone-Locarno, Milano, 1599
  XVII
Sermartelli, Firenze, 1600
Belpiero, Cremona, 1603
Longo, Napoli, 1605
Giunti e Ciotti, Venezia, 1609
Stamperia reale, Parigi, 1609 e 1660
Lefuel, Parigi, 1610 (Le combat spirituel)
Gargano-Nucci, Napoli, 1610
Orlandi & Decio Cirillo, Palermo, 1615
Cochi, Bologna, 1607e  1615
Ciotti, Venezia, 1617
Belleri, Douai, 1625 (Pugna spiritualis, Tractatus vere’ aureus: de perfectione vitae christianae, traduzione in latino di Lorich Josocus). Questa traduzione in latino fu ristampata da Martin a Parigi nel 1662.
Combi, Venezia, 1634
Tesor del Monte, Colonia, 1642
De Rossi, Verona, 1652
Costantini, Venezia-Perugia, 1656-1657
Mascardi, Roma, 1657
Le Petit.Parigi, 1657 (Le combat spirituel, traduzione in francese)
Guillaume de Luyne, Parigi, 1658 (Le combat spirituel, traduzione in francese)
Marcher, Parigi, 1658 (dedicato ad Alessandro VII)  traduzione in francese di Olimpo Masotti seguita, pagina per pagina, dal testo  quello originale in italiano)
Stamperia reale, Parigi, 1660
Martin, Parigi, 1662 (Pugna spiritualis. Tractatus vere aureus de perfectione, vitae Christianae, traduzione in latino di Lorich Jodocus. Questa traduzione in latino era stata già stampata da Belleri a Douai nel 1625.  
Stamperia reale, Parigi 1663
Strauber, Vagnon, 1663 e 1667 (Certamen spirituale, traduzione in latino di Carlo Antonio Meazza)
Pezzana, Venezia, 1664
Ignatio de’ Lazari, Roma, 1664-1665
Pezzana, Venezia, 1671
Miloco, Venezia, 1675
Bertier, Parigi, 1676 (Le combat spirituel, traduzopne in francese)
Costa, Lisbona, , 1677 (Combat spiritual, traduzione in spagnolo di Camillo Sanseverino)
Carteron, Lione, 1680, 1681 e 1688 (Le combat spirituel. traduzione in francesae si Olimpo Masotti)
Curti, Venezia, 1681
Tizzoni, Roma, 1682
Vannacci, Roma, 1684-1685
Carteron, Lione, , 1689 (Le combat spirituel, traduzione in francese  di Olimpio Masotti)
Longhi, Bologna, 1694
Noethen, Comia, 1692 (Certamen spirituale, traduzione in latino di Cralo Antonio Meazza)
Pezzana, Venezia, 1695
Villette, Parigi, 1696 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Alexis Du Buc)
Besson, Lione, 1696 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon)
Uannacci,Roma, 1698
Osmont, Parigi, 1698 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Alexis du Buc)
  XVIII
De Rossi, Roma, 1700
Rossetti, Parma, 1701
Louisa, Venezia, 1703
Pezzana, Venezia, 1703 e 1718
Noethen, Colonia, 1707 (Certamen spirituale, traduzione d Carlo Antonio Meazza)i
Marelli, Milano, 1710
Sibert, Lione, 1711 (Le combat spirituel, traduzione in francese di  di Alexis du Buc)
Eredi Perri, 1713, Roma
Louisa, Ceneda, 1713
Pezzana, Venezia, 1714 e 1722
Schilgen, Vienna, 1722 (Combate espiritual, traduzione in spagnolo di Damian Gonzalez del Cueto)
Comino, Padova, 1724
Salvioni, Roma, 1725
Pezzana, Venezia, 1728
Pezzana, Venezia, 1735
Zempel, Roma, 1736
Comino, Padova, 1737
Pisarri, Bologna, 1739
Salvioni, Roma, 1740
Pezzana, Venezia, 1741
Eredi del Ferri, Roma,1742
Accademia reale, Lisbona (Combate espiritual. traduzione in portoghese di Thomas Begueman)
Remondini, Bassano, 1745, 1746, 1751 , 1763 e 1770
Tevernini, Venezia, 1747 e 1756
Pezzana, Venezia, 1748
Marelli, Milano, 1749
Comino, Padova, 1724
Borsi, Parma, 1756
Ponzone,Torino, 1757
Pezzana, Venezia, 1741 e 1761
Roselli, Napoli, 1759
Occhi, Venezia, 1748 e 1761
Ricca, Torino, 1765
Cstellano-Manfredi, Napoli, 1765
De Trattner, Vienna, 1765 (Le combat spirituel, traduzione in francese diJean Brignon)
Barbiellini, Roma, 1769
Remondini, Venezia, 1770
Pezzana, Venezia, 1773, 1775 e 1776
Brocas, Parigi, 1774 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Jean Brignon)
G. Le Mercier, Parigi, 1775 (Le combat spirituel, traduzione di Jean Brignon)
Floteront, Nizza, 1776
Peyrasso e Scotto, Pinerolo, 1779
Rieger, Augusta, 1781 (Certamen spirituale, traduzione in latino)
Davico, Torino, 1785
Gatti, Venezia, 1789
Irlandelli, Venezia, 1795
  XIX
 Haydock, Manchester, 1801 (The spiritual combat, traduzione in inglese)
Pezzana, Venezia, 1807
Rusand, Lione, 1808 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon)
Destefanis, Milano, 1814
Molinari, Venezia, 1816
Eymery, Parigi, 1818 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon
Pickering & C., Dublino, 1818 (The combact spiritual, traduzione in inglese)
Boget, Lione, 1820 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon)
n., Parigi, 1820 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon)
Petit, Besançon, 1820 (Le combat spirituel, traduzione in francese di J. Brignon)
Molinari, Venezia, 1824
Giordano, Napoli, 1825
Montarsolo, Besançon, 1829 (Le combat spirituel, traduzione in francese di di Jean. Brignon
Molinari, Venezia, 1830
Pogliani, Milano, 1830
Dozio, Milano, 1830-1831
Marietti, Milano, 1832
Marietti, Torino, 1833, 1868, 1870, 1880, 1884 e 1890
Fratelli Perisse Parigi, 1835 e 1868 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Jean  Brignon)
Marietti, Trento, 1835 e 1836
Rousseau, Gand, 1836 (Le combat spirituel, traduzione in francese)
Borel e Bompard, Napoli, 1837
Salviucci, Roma, 1837
n., Napoli, 1837
Stamperia fiiantropica, Napoli, 1837 e 1844
Grazzini, Firenze, 1840
Pirotta, Milano, 1840
Pélagaud e Lesne, Lione. 1840 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Jean Brignon)
Marietti, Torino, 1843, 1868, 1870 e 1890
Richardson and son, Derby, 1843 (The spiritual combat, traduzione in inglese)
Gilberti, Brescia, 1844
Burns, Lonfra, 1846 (The spiritual combat, traduzione in inglese)
Eredi Botta, Torino, 1851
Gilberti, Brescia, 1851
Festa, Napoli, 1852
Argenio, Napoli, 1853
Oliva, Milano, 1857
Battezzati-Frisiani, Milano, 1857
Frizierio, Verona, 1859
Lyon ; Paris : Perisse freres, 1856 e Mame, Tours,  1857 (Le combat spirituel, traduzione in ftsncese di Jean Brignon)
Le Clere, Parigi, 1860 (Le combat spirituel, traduzione in francese)
Dessain, Mechliniae, 1862 (Pugna spiritualis, traduzione in latino di Olimpio Masotti)
Rossi-Romano, Torino, 1865
Cramoisy, Parigi, 1666 (Combate espirituale, traduzione in spagnolo di Camillo Sanseberino)
Bertola, Piacenza, 1875
Rivingtons, Londra, 1876 (The spiritual combat, traduzione in inglese)
Mame e figli, Tours, 1880 (Le combat spirituel, traduzione in francese di Jean Brignon)
Roma, S.C. di Prop. Fide, 1881
Guigoni, Milano, 1886
Calleja, Madrid, 1899 (Combate espiritual, traduzione in spagnolo di Damian Gonzalez Cueto9
  XX
Marietti, Torino, 1900
Marietti, Torino, 1904
Ghirlanda, Milano, 1906
Kavas, 1908 (Dvasiškoji kova, traduzione in lituano di Antanas Šmulkštys)
Madella, Sesto S. Giovanni, 1912
Marietti. Roma-Torino, 1909, 1916, 1920, 1926 e 1932
Pia società San Paolo,Alba, 1927 e 1930
Pia società San Paolo, Messina, 1935
Roma, Pia Società San Paolo, 1939
S.E.I., Torino, 1941
Marietti, Torino, 1944 e 1948
S.A.S., s. l., 1943
The Newman Press, Usa, 1950 (The spiritual combat, traduzione in inglese)
Edizioni Paoline, Pescara, 1960
Bertoncello, Cittadella, 1974
Mowbrays, Londra-Oxford, 1978 (The spiritual combat, traduzione in inglese di E. Kadloubovsky e G. E. H. Palmer )
Rusconi, Milano, 1985
Edizioni Paoline, Torino, 1992
San Pablo, Madris, 1996 (Combate espiritual, traduzione in spagnolo di Jpsé A.Pérez Sanchez)
Banca Antoniana popolare veneta, Padova, 1997
  XXI
San Paolo, Cinisello Balsamo, 1994, 2000 e 2005
Ignatius Press, Spiritual combat revisited, San Francisco, 2003
Amicizia cristiana, Chieti, 2007
San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013 e 2015
Scriptoria Books, s. l., 2014 (The spiritual combat, traduzione in inglese)
Le vie della cristianità, EPUB, 2016
_______
1 In rete ne sono sono reperibili numerosi, purtroppo senza indicazione della fonte. Il più curioso, comunque, rimane quello utiilizzato per la celebrazione del quarto centenario della morte (di seguito lo riproduco da http://www.musicaimmagine.it/lorenzo_scupoli_interna.php?id=1), chiaramente derivato dalla tavola dell’edizione parigina del 1660, con aggiunta della berretta.
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redazionecultura · 8 years
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sede: Museo Luzzati (Genova).
Dylan Dog, personaggio creato da Tiziano Sclavi nel 1986 e pubblicato da Sergio Bonelli Editore, ha raggiunto trent’anni di vita editoriale. Il Museo Luzzati di Genova festeggia l’importante traguardo raggiunto dall’Indagatore dell’incubo con un’esclusiva mostra. Un appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati lettori delle storie dell’inquilino di Craven Road e per i curiosi, che potranno vivere l’esperienza di un ricco percorso espositivo con oltre 250 opere che spaziano dalle tavole originali, studi e copertine degli albi, alle illustrazioni e i poster a tema Dylan Dog per le riviste e per gli spettacoli teatrali e molto altro; per mano dei più noti e iconografici autori della serie: da Giampiero Casertano, Corrado Roi, Angelo Stano, Pietro Dall’Agnol fino ai più recenti Massimo Carnevale, Ausonia, AkaB, Gipi e Vanna Vinci. Il percorso della mostra sarà completato dalla proiezione dell’episodio dedicato a Dylan Dog di The Editor is In, progetto nato da un’idea di TIWI e co-prodotto da Sky Arte HD, TIWI e Sergio Bonelli Editore. Si tratta di una serie a episodi in live-action e animazione che raccontano la movimentatissima realtà quotidiana di un editor alle prese con collaboratori davvero eccezionali: i personaggi della casa editrice Sergio Bonelli Editore.
DYLAN DOG: LA FABBRICA DELL’INCUBO Dylan Dog è apparso per la prima volta nelle edicole italiane nell’ottobre del 1986 e, in pochi anni, dapprima lentamente e poi a valanga, è diventato un autentico fenomeno nel panorama fumettistico italiano, tanto da arrivare, nei primi anni Novanta a una vendita, tra inediti e ristampe, superiore a Tex, numero uno assoluto in edicola. L’intento iniziale del suo autore, Tiziano Sclavi, di fondere il fumetto popolare a grande diffusione con il fumetto d’autore riuscì pienamente, trasformando Dylan Dog in un personaggio di culto e in un punto di riferimento per un pubblico eterogeneo, non solo giovanile. Molti lettori, infatti, hanno conosciuto il fumetto, o si sono riavvicinati a esso, tramite le storie dell'”Indagatore dell’Incubo”, tanto che si può parlare di una “generazione Dylan Dog” che si è formata attraverso la fruizione del personaggio e la partecipazione alle numerose iniziative collaterali organizzate dall’editore. Tra queste è doveroso ricordare il “Dylan Dog Horror Fest”, manifestazione di carattere cinematografico alla quale si partecipava gratuitamente mostrando un albo della serie, e che, nel corso di quattro edizioni, ha registrato un’affluenza di pubblico impressionante. Mai un fumetto ha riscosso un simile successo di critica e un così elevato livello di attenzione da parte dei media: dalle fanzine degli appassionati ai principali quotidiani e riviste italiane sono ormai migliaia gli articoli, spesso di firme prestigiose, dedicati all’Indagatore dell’Incubo. Dylan Dog ha dunque segnato, all’epoca del suo maggiore successo, la rinascita del fumetto italiano dopo anni di crisi. Alla fine degli anni Ottanta il mercato fu scossa dall’onda dello straordinario successo della serie, che dimostrò due cose: primo, che il fumetto era tutt’altro che morto, e secondo che era possibile realizzare un prodotto di alta qualità, a suo modo anche “difficile”, che guadagnasse una diffusione di massa. Il personaggio di Sclavi scatenò un dilagare di imitazioni più o meno dichiarate, generando un boom del genere orrorifico che mai prima di allora si era visto in edicola. Ma il successo di Dylan Dog non fu certo dovuto semplicemente a una riscoperta dell’horror, bensì a quello che era un nuovo e inconfondibile linguaggio narrativo, frutto del talento di Tiziano Sclavi che riuscì in un’impresa apparentemente folle: unire lo “splatter” eccessivo dei film di Romero e Raimi ai dialoghi brillanti della commedia sofisticata (da Lubitsch a Neil Simon, da Billy Wilder alle migliori sitcom televisive), facendo uso di un tono ironico e autoironico e di un sapiente gioco di citazioni dichiaratamente attinte al cinema e alla letteratura orrorifici e non. Al successo del personaggio hanno contribuito, nel corso di quasi trent’anni di vita editoriale, uno staff di disegnatori e sceneggiatori estremamente efficace e agguerrito, composto da molti autori di primo piano del fumetto italiano e anche da autori emergenti che si sono messi in evidenza proprio lavorando alle sue pagine. Tra i tanti citiamo Angelo Stano, Montanari & Grassani, Claudio Villa, Corrado Roi, Giampiero Casertano, Ferdinando Tacconi, Claudio Chiaverotti, Carlo Ambrosini, Paola Barbato, Gianfranco Manfredi, Pasquale Ruju, Giovanni Freghieri, Tito Faraci, Luigi Piccatto, Fabio Celoni e Roberto Recchioni.
TIZIANO SCLAVI – CREATORE DI DYLAN DOG. Creatore di Dylan Dog, è giornalista e scrittore. Oltre all’intensa attività nel campo dei fumetti, ha al suo attivo oltre dieci romanzi, due dei quali sono diventati film. Uno in particolare, Dellamorte Dellamore, diretto da Michele Soavi, è stato distribuito in molti paesi del mondo (con il titolo The Cemetery Man) e negli Stati Uniti è stato apprezzato da registi come Martin Scorsese, Quentin Tarantino e Terry Gilliam. Nasce a Broni, in provincia di Pavia, nel 1953. Con articoli e racconti collabora a una miriade di riviste, Corriere dei Ragazzi, Amica, Salve, Corriere dei Piccoli, Millelibri, Il Giornalino.come autore di fumetti crea Altai & Jonson e Silas Finn (disegnati da Giorgio Cavazzano), Agente Allen (disegnato da Mario Rossi), Vita da cani (reso graficamente da Gino Gavioli). Nel 1982, entra a far parte della redazione Bonelli, per la quale scrive due sceneggiature di Ken Parker(su soggetto di Giancarlo Berardi), alcune storie di Zagor (tra cui la più lunga mai pubblicata dalla casa editrice), Mister No e Martin Mystère e crea Kerry il trapper (nel 1983, per i disegni dei fratelli Di Vitto e di Marco Bianchini), Dylan Dog (nel 1986, il personaggio che lo ha consacrato come uno dei maggiori talenti del fumetto moderno) e Roy Mann (1987, disegnato da Attilio Micheluzzi). Suoi sono i testi di Horror Cico, albo estivo dedicato al piccolo messicano amico di Zagor. Sclavi è stato anche sceneggiatore televisivo, paroliere di canzoni, copywriter pubblicitario e disegnatore.come romanziere ha pubblicato, tra gli altri, i volumi Film, Tre, Dellamorte Dellamore, Nero, Sogni di sangue, Apocalisse, La circolazione del sangue, Le etichette delle camicie, Non è successo niente, Il tornado di Vallescuropasso.
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Dylan Dog sede: Museo Luzzati (Genova). Dylan Dog, personaggio creato da Tiziano Sclavi nel 1986 e pubblicato da Sergio Bonelli Editore, ha raggiunto trent'anni di vita editoriale.
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pangeanews · 5 years
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Alice, un puzzle che ha distrutto le convenzioni e ridicolizzato il mondo degli adulti
Esistono luoghi fantastici. Opifici del sapere, panche digitali del sogno. La “British Library” da tempo mette a disposizione di sguardo parte dei suoi tesori: li potete sfogliare e studiare e ‘giocare’ senza chiedere permessi accademici o passaporti ministeriali. “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” del reverendissimo Lewis Carroll è un libro mitico, un incendio d’invenzioni che esula dal ‘genere’ (i grandi libri sono de-generi, generano contraddizioni). Pubblicato nel 1865, ‘Alice’ è stato tradotto in Italia per la prima volta nel 1872, non c’è editore che non abbia la sua versione del capolavoro, più o meno nobile (Aldo Busi ne adorava i labirinti linguistici). Ne esistono traduzioni anche in sardo e in napoletano. Solo quest’anno, per dire, sono state ristampate 7 versioni di “Alice” – tra cui, Bur e NewtonCompton – che scatenano la fantasia degli illustratori. Un articolo di Kimberly Reynolds, prof di letteratura per ragazzi alla Newcastle University, “Understanding Alice” ci aiuta a entrare nel capolavoro. Qui, una selezione spiccia, sfiziosa. La ‘soluzione’ di ‘Alice’? Nel “The Game of Logic” che il caro Dodgson pubblicò nel 1887.
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1890: le illustrazioni di John Tenniel al libro di Lewis Carroll
Enigmi, indovinelli, giochi di parole. “La storia di Alice è cifrata, mascherata dall’uso di enigmi, indovinelli, giochi di parole, che hanno l’apparenza del nonsense. Non è una cosa straordinaria nella letteratura per l’infanzia: la differenza è che nelle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie la qualità dei giochi di parole e dei puzzle è di altissimo livello”.
Il genio matematico del caro Charles. “Charles Dodgson era affascinato dalle sciarade, dai giochi di parole, dai puzzle, e incoraggiava i suoi giovani amici a condividere questo interesse tramite giochi specifici, personalizzati. Gli inviti erano costruiti utilizzando codici la cui risoluzione conteneva informazioni sulla data, l’ora e il luogo dell’incontro. Di fatto, ‘Alice’ è un compendio di giochi collegati a una narrazione. Naturalmente, l’attitudine matematica di Charles Dodgson facilitava questa pratica, ma vi sono anche altri motivi…”.
Agli adulti preferiva la compagnia dei bambini. “Il timido, balbettante, esile Charles era assai lontano dall’ideale figura del maschio vittoriano, ed era noto che preferisse la compagnia dei bambini rispetto a quella degli adulti. Anche se oggi questa attitudine è vista come inquietante, nel mondo vittoriano non era così strano che alcuni frequentassero i bambini rispetto ai propri coetanei. Non c’entra l’attrazione sessuale: piuttosto, la fanciullezza consentiva, in modo illusorio, di liberarsi dalle esigenze associate alla cultura patriarcale del mondo vittoriano. Allo stesso tempo, puzzle, nonsense, fantasie sono fuochi creativi che permettono di eludere le convenzioni sociali del tempo”.
Alice elude le regole, considera ridicole le norme, un mazzo di carte il tribunale. “Travestimenti e ambientazione fantastica consentono di far agire i personaggi in modi che sarebbero intesi come inaccettabili nel consueto mondo vittoriano… Alice ha una voce, pone domande, spesso mostra che è irrazionale il modo di comportarsi degli adulti, specialmente quando si tratta dell’esercizio del potere e della tracotanza dell’autorità. Alice corregge i personaggi che incontra, più grandi di lei – non ci sono bambini nel Paese delle Meraviglie – e perde la pazienza con molti di loro. Nella società vittoriana il comportamento di Alice sarebbe stato considerato come sconveniente e punibile: nella storia di Carroll ha un potere liberatorio. Alice elude le regole, considera ridicola ogni norma, giudica il tribunale “nient’altro che un mazzo di carte”.  
Un corpo che cambia. “Niente è più frustrante che essere vincolati dal proprio corpo. Spesso si dice di non comportarsi ‘come un bambino’. Carroll cattura ed esaspera la natura arbitraria e caotica che circonda le attese degli adulti nei riguardi dei bambini, facendo cambiare il corpo di Alice. Il corpo di un bambino cambia, rapidamente, spesso in modo grottesco. Allora, Alice ha il collo lungo come un serpente, diventa enorme, rimpicciolisce. Infine, impara a controllare le dimensioni del suo corpo”.
Ribaltare i cliché della letteratura per l’infanzia. “La sua conoscenza della tradizione della letteratura per l’infanzia è formidabile: riprende tutti i topos – ad esempio: animali che parlano e indossano un gilet con l’orologio da tasca –, ribaltandoli”.
Faceva impazzire gli illustratori. “Carroll presta la stessa attenzione che ha per le parole verso le immagini, fino a far impazzire i suoi illustratori”.
Un libro scritto per una bambina, un libro per tutti. “Un libro creato per una bambina vissuta in epoca vittoriana è diventato un libro per tutte le età e per tutte le persone del pianeta. Ci riporta alle origini dell’arte del narrare storie, eppure la sua struttura episodica, i mondi alternati e alternativi che allinea, ha ispirato i videogame più elaborati del XXI secolo”.
*In copertina: L’Alice di John Tenniel del 1890 potete sfogliarla, con bibliografico godimento, dal sito della British Library
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pangeanews · 5 years
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“Quelle dei Beatles saranno anche canzonette, ma sono perfette. Un sollievo dai problemi del quotidiano”: Franco Zanetti parla del suo ultimo libro sui quattro ragazzi di Liverpool, con Matteo Fais
Perché, da qualche decennio, viviamo proiettati nel passato? Ristampe di classici letterari, remake di film intramontabili, riedizioni ampliate della discografia di grandi nomi della musica popolare. Ma cosa accade intorno a noi? Lo sappiamo davvero? Arriva un momento, nel corso dello sviluppo storico, in cui il passato diviene terribilmente ingombrante. Ciò che è stato non è più motivo di avanzamento, ma fardello e palla al piede – o, almeno, qualcosa di molto simile sostiene Nietzsche. Secondo altri, invece, ci sono libri, autori, dischi, ecc., di cui si parlerà per il resto dell’umana esistenza sulla Terra ed è giusto che sia così. Dal loro punto di vista il presente e i suoi frutti non sono mai fondamentali come ciò che è stato, o, se non altro, necessitano di alcuni decenni per essere assimilati e valutati per così dire “a passioni sopite”. Difficile dire chi abbia ragione. È certo, comunque, che i Beatles sono, in tal senso per la musica popolare, più o meno quello che Aristotele è per la filosofia e Dante per la poesia. I quattro ragazzi di Liverpool piacciono sostanzialmente a tutti, almeno in un episodio della loro produzione – anzi, sono probabilmente uno dei rarissimi casi di consenso diffuso a livello planetario, come Lucio Battisti lo è nella dimensione nazionale. Per tutta questa serie di motivi e non solo, era doveroso dedicare la necessaria attenzione a Franco Zanetti con il suo Il libro (più) bianco dei Beatles. Le storie dietro le canzoni (Giunti, 2019), un testo arrivato oramai alla settima edizione e ora ristampato con tutta una nuova sezione dedicata a ben centouno canzoni inedite, o riscoperte, della band di Love Me Do.
Partiamo dalla ratio di questo suo libro: perché è stata richiesta una nuova versione, con l’analisi di ben centouno canzoni in più?
La prima edizione del libro è uscita nel 2012 e, con mia piacevole sorpresa, è andata molto bene rispetto agli standard delle pubblicazioni di argomento musicale. Finora ha avuto ben sette edizioni, praticamente una ogni anno. L’editore mi ha chiesto, pertanto, di pensare a un aggiornamento del testo. Siccome in questi ultimi sei-sette anni non ci sono state rivelazioni straordinarie su nascita, composizione, esecuzione e registrazione dei brani classici, ho pensato di concentrarmi su quanto trascurato in precedenza. Nella prima edizione, il criterio di selezione era stato molto rigido: avevo trattato solo i pezzi pubblicati tra il ’62 e il ’70. Mi sono reso conto però che, negli anni successivi e soprattutto in quelli più recenti, sono uscite diverse canzoni che non rientravano nel novero delle duecentoundici ufficialmente pubblicate dai quattro ragazzi di Liverpool durante la loro attività. Queste tracce, per la gran parte, sono contenute in Anthology e Live at the BBC. Vi sono stati poi altri album ufficiali, con brani inediti che non erano mai stati precedentemente resi disponibili in modo regolare. Uso l’aggettivo “regolare” perché gli appassionati, gli storici e gli studiosi che hanno frequentazione con i bootleg, queste canzoni le conoscevano e le avevano già sentite. In particolare, tra le pubblicazioni successive si segnalano, oltre alle già menzionate, un’antologia di brani del ’63 comparsa solo su iTunes e un’edizione rinnovata dell’album Let It Be. È inoltre uscita una raccolta dei loro pezzi natalizi realizzata per il fan club e la versione ampliata del White Album, con parecchi altri brani inediti. Ho pensato infine di includere anche due dischi che non sono propriamente ufficiali, né facilmente reperibili in maniera legittima. Si tratta delle registrazioni effettuate nel 1962 ad Amburgo, allo Start-Club, che racchiudono molte cover e il disco con i provini che i Beatles sostennero durante un’audizione alla Decca, il primo gennaio del 1962. A quel punto, avendo fatto novanta, ho pensato bene di fare centouno e ho aggiunto le canzoni che Lennon e McCartney, separatamente o insieme, hanno scritto per altri interpreti nel periodo di attività comune. Sono circa una dozzina. E così, ecco qui il Il libro (più) bianco dei Beatles in versione extended.
Ho sempre avuto un dubbio e vorrei sentire la sua opinione in merito: quelle dei Beatles sono solo canzonette, o c’è qualcosa di più? Il sospetto mi sorge se paragono le loro composizioni, per esempio, a brani di autori coevi o quasi, come i Doors o Simon & Garfunkel.
Premesso che io trovo la definizione di “canzonetta” per niente spregiativa – anzi, credo che questa costituisca un grande sollievo per la vita quotidiana di ognuno di noi –, ritengo che i Beatles siano stati soprattutto un grande gruppo pop, ancor più che rock, e in questo senso potrei dire che sì, i loro brani sono canzonette. Lo sono anche perché quasi tutte facilmente cantabili, per quanto segnate in generale da una qualità molto buona quando non buonissima. Sono quindi persuaso che loro stessi rivendicherebbero il privilegio di poter scrivere e cantare pezzi leggeri. Prova ne sia un brano di Paul McCartney, successivo al periodo con i Beatles, intitolato Silly Love Songs, ovvero “Sciocche canzoni d’amore”, un vero e proprio elogio della canzonetta scacciapensieri – o, se non scacciapensieri, perché non allegra, comunque emozionante. I quattro, com’è noto, non hanno mai frequentato la canzone cosiddetta impegnata. Quando hanno trattato argomenti sociali, o tangenzialmente politici, l’hanno fatto sempre in maniera non declamatoria o predicatoria. Pertanto direi che le loro sono sì canzonette, ma molto belle.
Qual è l’aspetto più curioso nella storia dei quattro ragazzi di Liverpool?
Mi capita spesso di sottolineare il fatto che i Beatles abbiano cominciato come cover band, quindi suonando canzoni altrui. Sono convinto che questa lunga gavetta nei locali britannici e tedeschi sia stata fondamentale per Lennon, McCartney e Harrison (il terzo autore del gruppo), per imparare a scrivere e comporre brani propri. Si consideri che loro sono un unicum per quei tempi: nessun gruppo musicale si scriveva i pezzi. Ecco, direi che la caratteristica singolare dei Beatles consiste nell’essere stati tra i primi autori a eseguire le loro stesse canzoni.
Visto che lei ha studiato approfonditamente tutta la loro produzione, qual è il brano dalla gestazione più laboriosa?
È una domanda complessa, perché il termine “gestazione” prevederebbe anche che parlassimo del tempo passato tra l’ideazione e la registrazione. Ma questi sono dati che non possiamo ricostruire con esattezza. Sicuramente, una delle canzoni più complesse da realizzare in studio è stata A Day in the Life. Ma ci sono anche altri brani, apparentemente più semplici, che hanno richiesto parecchio tempo per la registrazione perché, provando e riprovando, i Beatles non riuscivano comunque a trovare una soluzione che li soddisfacesse. Si ricorre spesso a questo proposito all’esempio di Strawberry Fields Forever, della quale Lennon era l’autore principale. La versione finale del brano è stata il frutto della giunzione fra altre due, ottenuta con un trucco molto ingegnoso in studio: rallentando una e velocizzando l’altra. Il punto d’unione si trova intorno al minuto uno. Ascoltandole, ed essendo a conoscenza di questo artificio, lo si percepisce ma, se lo si ignora, esso passa del tutto inosservato. Questo è stato uno dei tanti felici contributi di George Martin, il loro produttore di studio.
Lei si è mai chiesto in cosa risiedesse l’alchimia tra John, Paul, George e Ringo?
Me lo sono chiesto e ho letto tante interpretazioni in merito. La mia idea è che, per quel che concerne il caso di John Lennon e Paul McCartney, cioè la coppia principale di autori, questa sia derivata dal fatto che i due erano molto diversi tra loro – non solo caratterialmente, ma anche per quanto riguarda i gusti musicali. La continua collaborazione e interazione ha fatto sì che l’uno intervenisse sugli abbozzi di canzoni dell’altro, attenuandone gli eccessi – di romanticismo, per quel che concerne McCartney, o di quell’autobiografismo che, da un certo momento in avanti, è diventata la cifra di Lennon –, in modo da ottenere una miscela più equilibrata. Per quel che riguarda invece l’alchimia tra i quattro, come sappiamo, negli ultimi anni era andata un po’ deteriorandosi. Soprattutto in relazione al ruolo di George Harrison che, essendo il più giovane del gruppo, era sempre stato tenuto un po’ in disparte, senza riuscire a essere considerato l’eccellente autore che in realtà era, né dagli altri né da George Martin. Invece per quel che concerne l’immagine, la ricezione e l’impatto, che il gruppo ha avuto, questa è dipesa dal fatto che avessero quattro personalità evidentemente diverse – che sono state semplificate negli anni dicendo che Lennon era sarcastico, McCartney diplomatico, Harrison silenzioso e Star simpatico. In realtà, a sentire alcuni dei loro collaboratori, i Beatles erano un mostro a quattro teste. La loro forza come gruppo, comunque, derivava dall’essere tutti e quattro di Liverpool, dall’aver condiviso parte dell’infanzia nel dopoguerra e dalle letture, ma, soprattutto, dalla frequentazione di programmi televisivi e radiofonici comuni. Ciò ha fatto sì che il loro background fosse particolarmente compatto. Anche se non è facile spiegarlo al pubblico, perché non esistono tanti documenti, le loro conferenze stampa, quelle alle quali si sottoponevano quotidianamente durante i tour (soprattutto negli Stati Uniti), sono un bell’esempio di quanto i quattro fossero complici. Ecco, io direi che sembra di avere a che fare con dei commilitoni che abbiano fatto insieme la guerra. Lo si nota anche da come ognuno completi le frasi dell’altro, durante quelle conferenze. E ciò evidentemente può derivare soltanto da una coesione profonda a livello umano, oltre che professionale.
Riuscirebbe a individuare chiamiamoli dei periodi entro la produzione beatlesiana?
Direi che la cosa è abbastanza agevole. C’è un primo periodo pre-produzione, che è quello appunto delle cover. Questo prosegue idealmente fino al terzo album, poiché nei primi tre lavori vi sono ancora esecuzioni di brani altrui. Segue poi quello d’inizio della produzione discografica, che va da Please Please Me a Beatles for Sale. Il successivo prende le mosse con Rubber Soul e prosegue con Revolver, culminando con Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Durante questo i Beatles diventano musicisti da studio, cominciando a considerare quest’ultimo alla stregua di uno strumento vero e proprio. I loro brani risultano più complessi e articolati, sia dal punto di vista della struttura che delle sonorità. E appunto Sgt. Pepper’s, che è considerato probabilmente il disco di musica pop rock più importante, anche se non il più bello della storia del genere, è lo zenit di questa appassionata sperimentazione. L’ultimo periodo è quello del White Album, che è una specie di liberi tutti, in cui ognuno dei quattro si dedica particolarmente alle proprie composizioni, mentre gli altri collaborano. Tutto si conclude con Abbey Road, il penultimo disco pubblicato, che in realtà è l’ultimo a essere stato inciso. Questo è una specie di canto del cigno che si chiude simbolicamente con una canzone breve intitolata The End, in cui tirano le somme di nove anni insieme, salutando il pubblico con quello che è considerato un album epocale – si consideri che è il più venduto dei Beatles negli Stati Uniti e quindi nel mondo. Esso, pur essendo di grande qualità, non dà però più spazio a nuove sperimentazioni, perché i quattro avevano sostanzialmente già realizzato tutto quello che avevano da realizzare.
Tra le centouno canzoni che lei ha voluto aggiungere al novero della loro produzione, quale le sembra la più riuscita e perché?
Questa è una domanda molto difficile. E lo è perché centouno canzoni tra cui scegliere sono tante. Escluderei le cover perché non di loro composizione e soprattutto in ragione del fatto che non aggiungono granché all’analisi della loro scrittura musicale. C’è invece una canzone piuttosto graziosa, che secondo me non avrebbe sfigurato se registrata dai Beatles stessi – per quanto loro non l’abbiano mai fatto. Si intitola World Without Love ed è stata scritta da McCartney per un duo inglese da loro patrocinato. Sceglierei questa, insieme a un’altra della stessa serie, I’ll Keep You Satisfied. Rispetto ai pezzi coevi, del ’63-’64, questi non hanno niente del brano di scarto, quello cioè non riuscito o mancante. Sono invece canzoni complete – peraltro dei successi commerciali –, affidate ad altri interpreti, che probabilmente avrebbero avuto ancora più risonanza se suonate dai loro compositori originali. Sono canzonette perfette nella forma, con dei testi piacevoli. Infatti, c’è da rimpiangere che non si abbiano dei provini articolati e completi di queste. Ci sarebbe poi una famigerata canzone – in verità, più che altro, si tratta di una composizione sperimentale – intitolata Carnival of Love, che i Beatles incisero, guidati da Paul McCartney, per uno spettacolo d’avanguardia. Il brano dura venti minuti ed è un po’ il Sacro Graal per i collezionisti. Benché ne circolino delle versioni forse corrispondenti all’originale, questo pezzo non è mai comparso ufficialmente su nessun album. Se decidessero di pubblicarlo, farebbero contenti molti studiosi e cultori. Il brano certo è piuttosto complesso, fatto di rumori e suoni sperimentali. Ricorda un po’ la famosa Revolution 9, o quanto facevano i Pink Floyd degli esordi e forse proprio per questo finora non è ancora venuto alla luce.
Più di uno ha sostenuto che oramai la nostra esistenza sia fondata sulla nostalgia. Abbiamo quindi una compulsiva tendenza alla riproposizione di album storici, o di remake di film che hanno segnato la nostra vita nei decenni andati. Lei crede che l’aura che ancora circonda i Beatles sia dovuta a ciò, all’assenza di valore dei prodotti dell’industria culturale odierna?
Non dimentichiamo che quando i Beatles pubblicavano i loro dischi, almeno fino a Sgt. Pepper’s, nessuno ha mai pensato che fossero di particolare valore culturale. Potrebbe anche essere quindi che, fra vent’anni, i nostri figli scopriranno una qualche valenza, che noi non siamo riusciti a scorgere, nella trap o nella elettronica e dance. Solo il tempo potrà dirci se alla musica di oggi sarà in tal senso attribuibile il merito che riconosciamo a quella dei Beatles. Ma tornando al punto, oggi come oggi, chi acquista dei supporti sonori è certamente un pubblico adulto. Se questo va a ricomprarsi per esempio Abbey Road, tanto per menzionare l’ultimo disco appena ripubblicato in edizione rimasterizzata e ampliata, è perché già lo conosce e probabilmente prova una fitta di nostalgia ricordando quando da giovane l’ha ascoltato la prima volta.  In tutto ciò, quindi, la nostalgia ha chiaramente il suo peso. Al di là delle canzoni, ci ricordiamo di come era importante per noi il momento dell’acquisto di un LP, quando lo portavamo a casa, lo mettevamo sul piatto e poi ci alzavamo per cambiare il lato del vinile. Ecco, credo che nella riscoperta attuale dei vecchi dischi giochi molto questo: quegli album non erano per noi semplici contenitori di canzoni, ma oggetti per i quali ci faceva piacere risparmiare, da conservare con cura e far ascoltare agli amici. Di questi tempi, la musica cosiddetta liquida è praticamente gassosa, perché priva di supporto. Viene peraltro ascoltata attraverso strumenti (telefonini e computer) che non hanno grande rispetto della qualità originale. Se fosse possibile restituire alla musica e al cinema – in attesa di doverlo dire anche per i libri – il concetto di un oggetto di cui fa piacere non solo godere, ma anche possedere, forse potremmo immaginare un’inversione di tendenza. Io, per dire, ho, credo, quattordici copie di Sgt. Pepper’s e dodici di Abbey Road, ma continuerò come uno stupido a ricomprarle anche quando, tra dieci anni, uscirà un’edizione in occasione del sessantesimo anniversario. Però, il disco che prendo in mano, quando voglio risentire quest’ultimo, è la mia versione comprata nel 1969, quando avevo sedici anni, perché quel vinile lì, con i suoi graffi e i salti di puntine, con quella copertina un po’ smanacciata, ha un valore affettivo. Per quanto molti non lo comprendano, l’oggetto amplifica il valore del contenuto.
Matteo Fais
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pangeanews · 7 years
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“Fatelo vivere a lungo, un tipo come Céline”: Andrea Lombardi ci racconta il suo ultimo libro. Una miniera di inediti dello scrittore più temuto del Novecento
Un grande scrittore ha il privilegio – o forse la condanna – di divenire suo malgrado l’oggetto di un culto. Céline è uno di questi. Andrea Lombardi, invece, è sicuramente il massimo sacerdote, qui in Italia, della devozione tributata allo scrittore d’oltralpe. È così che, tramite un lavoro mastodontico e certosino, il nostro ha portato a termine un colossale volume di quasi 500 pagine: Un profeta dell’Apocalisse. Scritti, interviste, lettere e testimonianze, Bietti Editore, 2018. In esso sono raccolti tutta una serie di interventi di e su Céline rimasti fino a ora inediti, o di difficile reperibilità. Per l’occasione, siamo andati a intervistare Lombardi per cercare di capire, oltre alla necessità che giustifica una tale impresa editoriale, anche il senso della sua passione per il noto romanziere e polemista francese.
Questo benedetto Céline sembra essere in letteratura un fenomeno analogo a quello di Mussolini in politica: tutti lo nominano; tutti, ancora a distanza di tanti anni dalla sua morte, lo temono. Riscontri anche tu una affinità di destino tra i due personaggi?
No, non trovo alcuna affinità. Benito Mussolini ha giocato la sua grande partita con la Storia e l’ha persa. Intendiamoci, non l’ha persa per le “leggi razziali” o il 25 aprile 1945, ma il 25 luglio 1943, quando è stato così geniale da finire nei Darwin Awards come primo dittatore a essere abbattuto da un voto democratico, quello del Gran Consiglio; oltre che a causa dei vari compromessi con la Chiesa e la Grande Industria. Gli ideali rivoluzionari di San Sepolcro sono pian piano finiti in un regime in cui ha trionfato chi aveva la spallina e i fregi più luccicanti sull’orbace. È rimasto, comunque, un giornalista di talento. Mussolini, che aveva conosciuto il dottor Destouches nel 1925, diversi anni dopo ha dato un’immagine fantastica di Céline, commentando con Yves De Begnac il Viaggio al termine della notte: “Ho letto quel pastone di argot di Voyage au bout de la nuit. Scrittura giacobina, insoddisfazione termidoriana, desiderio di ricostituzione dell’assolutismo di tipo anarchico, via precisa all’assolutismo di tipo zarista. Fatelo vivere a lungo, un tipo come Céline, e i posteri ne vedranno delle belle! Io non so se questo scrittore sia capace di amore. È una bomba armata a rancore. Ma che cosa mai gli ha fatto l’umanità! Non ha capito molto, di Nietzsche. Nulla ha compreso di Blanqui. Il tarlo Proudhon gli lavora nel cervello. Ma come fa, un personaggio come Céline, ad essere medico?”. E questo è grande giornalismo, bellezza! Louis-Ferdinand Céline, invece, ha vinto la sua partita contro la Letteratura, come ha scritto il britannico Will Self: “Céline mi mostrò come fosse possibile esprimere ciò che prima era stato inaccessibile. In particolare, mi mostrò come aggiogare i bisogni equini del corpo al carro dorato della fantasia, per creare una qualche forma di realismo magico sporco. Quando comparì questo romanzo, era ancora possibile credere nell’avanguardia: vi erano cose importanti da dire, cose censurate da tabù e pregiudizi. Oggi, tutto è permesso, e non si ode più nulla. Ma, ciò nonostante, la voce di Céline risuona ancora: sprezzante, forte, patetica, vile, e, in ultima analisi, io credo trionfante”.
Eppure, abbi pazienza, Céline continua, alla stregua del Duce, a essere amato e odiato allo stesso tempo con rinnovato e feroce vigore. C’è insomma l’incapacità di dire “così è stato” e farci semplicemente i conti. Lo scrittore e il dittatore sono vivi come non mai. Ci sono ancora manifestazioni antifasciste, come se da un momento all’altro Mussolini potesse nuovamente salire al potere; e, al contempo, vi sono persone che, come dopo la guerra, vorrebbero impedire che Céline venisse pubblicato. Come la mettiamo?
Guarda, se ti riferisci alla querelle sulla ristampa dei cosiddetti “pamphlet antisemiti”, annunciata e poi sospesa da Gallimard, purtroppo hanno scelto il periodo meno adatto degli ultimi decenni per provarci. Negli anni ’90 sarebbe stato forse possibile, viste le dinamiche culturali sviluppatesi dopo la caduta del muro di Berlino. Negli anni presenti, invece, esiste una dittatura del chiacchiericcio politicamente corretto, e dell’opinione virale di chi non ha la più pallida conoscenza dell’argomento in discussione, ma deve per forza dichiarare la sua pelosa indignazione sinceramente democratica. Almeno, negli anni passati gli storici dell’arte o i critici letterari di sinistra censuravano od omettevano in tutto o in parte Marinetti, D’Annunzio, o, appunto, Céline, ma se li erano letti tutti.
Andrea, perché leggere Céline? E, soprattutto, è davvero necessario leggerlo, o potremmo tranquillamente fare a meno di divulgarlo alle masse?
Certo che sì. Nonostante sia forte la tentazione di tifare la morte, o meglio La Distruzione dantevirgiliana per questa poltiglia sociale che è la fogna dell’Italia attuale, bisogna tentare di arrivare al popolo. Magari prima con il Viaggio, perché con Mea Culpa gli spieghi già, troppo in fretta, quanto sia inutile il tentativo di rigenerare l’umanità!
Qual è la grande peculiarità della scrittura celiniana?
Le peculiarità della scrittura céliniana sono due: la rivoluzione dell’argot, ossia l’uso del francese dei bassifondi, quello delle persone comuni, quello “nato dall’odio”, dall’invidia e l’astio verso i ricchi; e quella della scrittura emozionale, la petite musique, il tentativo riuscito di replicare nelle due dimensioni della scrittura stampata la “tridimensionalità” delle enfasi, le pause, le esclamazioni e i toni sommessi del linguaggio parlato. Quando non fai UNA sola rivoluzione del linguaggio, ma ben DUE in pochi anni, beh, vuol dire che sei un vero genio letterario.
Perché un nuovo libro su Céline? Cosa resta ancora da dire sul suo conto?
In Francia, la domanda non si pone: nonostante il contesto sopra ricordato, sono decine i saggi, tesi di laurea e dottorato e opere teatrali dedicate a Louis-Ferdinand Céline. Qui in Italia, dopo una produzione di grande qualità negli anni ’70 con i testi fondamentali di Paolo Carile, di Michele Rago e altri, l’editoria céliniana è andata avanti un po’ a strattoni, come anche le ristampe dei suoi romanzi. E quasi tutti i testi recenti sono appunto su Céline, non certo di Céline. Spesso sono scritti molto autroreferenziali o basati su tesi preconcette, oppure ritraducono testi già noti. Un profeta dell’Apocalisse, invece, riunisce dieci anni di traduzioni di piccoli e grandi inediti di Céline da me raccolti o trasposti in italiano: dai suoi scritti sulla medicina e sul linguaggio, alle due canzoni da mala che compose e fece mettere in musica, fino alle sulfuree interviste dall’eremo di Meudon. Tutto ciò insieme alle lettere che vanno dalle acerbe missive ai genitori del giovane corazziere Destouches nella Grande Guerra, alle divertenti lettere all’Hussard Roger Nimier, passando per quelle a Élie Faure dopo il successo del Viaggio. In mezzo ci sono i suoi ricordi della moglie Lucette Almanzor, di Brasillach, Bonnard, Breker, Gen Paul. In ultimo, si troveranno i saggi di Aymé, Gibault, Mazet, Muray e Cases, e una sezione di commenti inaspettati, da quelli citati di Mussolini e Will Self, a Bukowski, William S. Burroughs e Henry Miller.
Cosa resta vivo e cosa è irrimediabilmente superato dell’opera celiniana, a quasi sessant’anni dalla sua morte?
Il genio stilistico di Céline è tale da rendere la sua scrittura fresca al pubblico ancora per qualche secolo, sia che descriva la guerra del ’14, che i poveri di New York e Parigi, la Russia del socialismo reale o la Germania sotto le bombe.
Andrea, come si conduce una trasposizione in italiano della scrittura del maestro francese? Quali sono le maggiori difficoltà?
Premetto che non riuscirei molto probabilmente a tradurre bene dall’argot, mentre mi sono trovato a mio agio, sin dai miei primi tentativi, con le sue ultime rabbiose, sferzanti interviste, o i suoi scritti polemici, come quello contro Sartre. Questione di odio, scrittura di odio.
Come giudichi la traduzione italiana di Morte a credito? Da quel che ho letto, lo stesso Giorgio Caproni non ne era granché convinto. Secondo te, sarebbe il caso di rivederla ex novo?
Eh, storia nota! Caproni usò molti toscanismi per i termini argotici. Di gran lunga superiore è la traduzione, disponibile da anni, di Guglielmi, che però non ha trovato editore.
Chi sono, tra gli scrittori odierni, gli eredi di Céline?
Nonostante l’interessato abbia preso le distanze, vedo nelle pagine migliori di Houellebecq un certo stile e tematiche affini.
Matteo Fais
L'articolo “Fatelo vivere a lungo, un tipo come Céline”: Andrea Lombardi ci racconta il suo ultimo libro. Una miniera di inediti dello scrittore più temuto del Novecento proviene da Pangea.
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