#regno di Sicilia
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alter-petrus · 11 months ago
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Sì, certo, ieri si commemorava la nascita di Isaac Newton, ma oggi chi manda assieme a me un pensiero a Federico II?
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giuseppelaporta · 3 months ago
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La chiesa madre di San Giovanni Battista a Colletorto, nel Giustizierato di Capitanata
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roehenstart · 8 months ago
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Portrait of Infante Philip, Duke of Calabria (1747-1777). By Giuseppe Bonito.
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crazy-so-na-sega · 5 months ago
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primis quella che garantisce il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Nessuna nazione intervenne, nonostante le Cancellerie ne fossero informate, questo fa capire che vi fossero accordi e una rete di relazioni segrete. L’unificazione italiana fu la distruzione voluta,
programmata e sistematica, che ridusse il più florido Stato della penisola nella miseria e nel degrado. Le fabbriche furono chiuse, in alcuni casi distrutte, i giovani coscritti o deportati, furono inviati i soldati piemontesi a reprimere il dissenso e compiute stragi indescrivibili. È ora di smontare il “falso storico” che ha generato il luogo comune più deleterio che il Paese abbia conosciuto: il Nord industriale ed evoluto, il Sud agricolo e arretrato. In realtà questo è stato l’obiettivo di casa Savoia e del suo padrone Cavour.
Scorrettamente chiamata dalla storiografia “questione meridionale”, essa emerse dopo l’unità, non prima. Quando l’opera di distruzione del tessuto sociale e produttivo del Sud, diede i suoi amarissimi frutti. Il Regno delle Due Sicilie era lo Stato più industrializzato d'Italia e il terzo in Europa, dopo Inghilterra e Francia, così risultò dalla Esposizione Internazionale di Parigi del 1856. I settori principali erano: cantieristica navale, industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo, vetraria, alimentare.
Nel periodo borbonico (1734-1860) la popolazione si era triplicata, determinando lo Stato preunitario più esteso e popolato. Per la sua politica di sviluppo Ferdinando II formò grandi aziende statali, e incentivò anche il sorgere di aziende con capitale suddiviso in azioni di piccolo taglio, per attrarre nella proprietà anche i ceti medi. Nel 1851 fu istituita la "Commissione di Statistica generale pe' reali domini continentali" con lo scopo di guidare la politica economica del Paese, cui si affiancavano le Giunte Statistiche costituite in ogni provincia e circondario. Molti imprenditori nazionali ed esteri accorsero nel Regno. L’economia ferdinandea privilegiava lo sviluppo occupazionale senza spostare masse dai luoghi di origine. Fu uno sviluppo guidato dallo Stato. La propaganda liberale si scagliò con tutte le sue forze contro tale modello e mise in moto una macchina da guerra che distrusse tutte le industrie del Sud e rubò tutto persino i beni personali dei Borbone: con un decreto del 23 ottobre vennero confiscati alla Casa reale 6 milioni di ducati, anche i depositi che Francesco II
aveva lasciato a Napoli, dopo averli ripresi dal Banco d’Inghilterra, a dimostrazione di quanto fosse legato al suo popolo, lui che napoletano lo era per davvero. Cominciò così, dopo il saccheggio del 31 maggio 1860 del Banco di Sicilia da parte di Garibaldi (80 milioni di euro, 150 miliardi di vecchie lire, quasi la metà delle spese per la guerra franco-piemontese contro l’Austria dell’anno precedente), la corsa alla spogliazione e all’arricchimento. Il Regno delle Due Sicilie, nel settore dell’industria, contava 2 milioni di occupati a fronte dei 400.000 della Lombardia, possedendo 443 milioni di moneta in oro, ovvero l’85% delle riserve auree di tutte le province. Oltre 80 milioni furono prelevati, in una anno, da Torino dalle casse dell’ex Regno delle Due Sicilie. Pochissimi investimenti al Sud ma tante ruberie. La boria e lo sprezzo verso le città del Sud, caratterizzava chiunque arrivasse da Torino. Il luogotenente Farini (in seguito Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia tra il 1862 e il 1863), il dittatore che entrò a Modena il 19 giugno come vincitore di un guerra che non aveva combattuto (gli Estensi fuggirono prima dell’arrivo delle truppe francesi e piemontesi), così si espresse riferendosi a Napoli: “Altro che Italia! Questa è Africa, i beduini a riscontro di questi caffoni, son fior di virtù civile”. Va da sé che il controllo delle ex Due Sicilie fu difficile, regnò la precarietà e l’insicurezza, così cominciò l’atroce guerra civile del brigantaggio. Uno Stato così imposto non poté che generare solo ingiustizie e latrocini. Fu messo in opera un preciso disegno della politica vessatoria di Torino: il Nord
si sviluppò ai danni del Sud. Il primo doveva avere il monopolio dell’industria italiana, al secondo invece fu destinato un ruolo agricolo e di fornitore di mano d’opera per l’industria del Settentrione. “Il dissidio tra la Lombardia e molta altra parte d’Italia ha origini in una serie di fatti: soprattutto il sacrificio continuo che si è fatto degli interessi meridionali”(dalla lettera di Nitti del 5 luglio 1898 a Giuseppe Colombo, direttore del Politecnico di Milano). Carlo Bombrini (banchiere, imprenditore, fondatore della banca di Genova) uomo di fiducia di Cavour e redattore del piano di “riequilibrio” economico post-Unità, disse: “Il Sud Italia non dovrà essere più in grado di intraprendere”. A questo punto riporto uno dei casi più eclatanti di distruzione industriale: l’Officina di Pietrarsa. A Pietrarsa, località posta nella zona orientale della città di Napoli, era attiva la più grande industria metalmeccanica d'Italia, estesa su una superficie di oltre tre ettari. Era l'unica fabbrica italiana in grado di costruire motrici a vapore per uso navale. A Pietrarsa fu istituita anche la
[continua su X]
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Lo ricordiamo a tutti, in modo che tutti possano di nuovo far finta di dimenticarselo.
-Castrese
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iphisesque · 1 year ago
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sciatu · 3 months ago
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LA BATTAGLIA DI LEPANTO - Nel 1500 la distribuzione della popolazione siciliana era molto diversa dall’attuale. I grandi paesini presenti lungo la costa con la loro caotico agglomerato di case e palazzi, non esistevano a causa delle terribili scorrerie dei pirati turchi. I paesi e paesini fortificati, sorgevano nell’entroterra, spesso su colline o in luoghi ben difendibili. Lungo la costa vi era un sistema di sorveglianza con circa 600 torri che monitoravano il mare a scoprire per tempo la presenza dei temuti pirati. Nei grandi porti e presso i villaggi più grossi, vi erano forze d’intervento che dovevano attaccare le navi dei pirati appena avvistate o i turchi sbarcati che iniziavano una scorreria verso l’interno. I temuti pirati e le loro scorrerie erano una minaccia costante e imprevedibile.
Per questo motivo, quando papa Pio V chiamò alla Guerra Santa contro la flotta turca di Alì Pascià, per soccorrere la guarnigione Veneziana assediata a Cipro, l’adesione da parte dei siciliani fu immediata. Subito fu armata una flotta con i soldi delle città e dei nobili siciliani. Armare una galera all’epoca, non era una cosa semplice ed immediata. I turchi ed i veneziani avevano non solo enormi arsenali ma flotte già pronte conservate in enormi magazzini. Inoltre avevano un sistema di arruolamento collaudato e sicuro per cui non avevano problemi a trovare i rematori (che solo in piccola parte erano galeotti o prigionieri di guerra), gli equipaggi ed i soldati. È da notare quindi la velocità con cui la flotta siciliana (circa una decina di galee) fu allestita e armata, mentre quella spagnola dovette approntarsi con difficoltà recuperando dagli stati italiani materiale per le armi e gli scafi, rematori e marinai.
A Messina si riunì quindi nel luglio del 1571, la grande flotta di poco più di 200 galere formate da veneziani, pisani e genovesi sotto le insegne papali, quindi i cavalieri di Malta, gli spagnoli da Barcellona, quelli del regno di Napoli e la flotta siciliana guidata dall’ammiraglia, la Capitana di Sicilia. La flotta turca, conquistata Cipro nell’agosto di quell’anno, dopo aver messo a ferro e fuoco il basso Adriatico attaccando e conquistando le roccaforti veneziane nella Dalmazia e in Albania, si stava ritirando verso Lepanto, stanca e corto di munizioni, pronta a ricevere l’ordine di ritorno a Istanbul per porre le galere in darsena dato che non potevano affrontare le tempeste autunnali.
Quell’ordine però non arrivò mai.
La flotta della Lega Santa si diresse verso settembre contro la flotta nemica cercando di ingaggiar battaglia prima che il tempo peggiorasse. Le due flotte si ritrovarono a Lepanto, in una insenatura riparata, base dei turchi ma adatta al movimento delle duecento navi della Lega Santa che dovevano affrontare le circa trecento degli avversari. Disposti gli schieramenti gli uni di fronte agli altri, Alì Pascià prese l’iniziativa e puntò la prua direttamente contro la nave di Giovanni d’Austria. La flotta turca lo seguì muovendosi velocemente con il vento a favore. La sua ala destra, guidata dall’esperto capitano Shoraq detto Scirocco, si scontrò contro le navi veneziane e spagnole agli ordini del veneziano Barbarigo che in un primo tempo sembrò soccombere all’urto. Dopo l’arrivo delle navi di riserva venute in soccorso, i veneziani riuscirono a capovolgere la situazione e a catturare e uccidere il comandante avversario.
Sull’ala sinistra i turchi erano principalmente pirati algerini, astuti ed esperti che cercarono di circondare le navi dell’ammiraglio Doria che invece si defilò andando verso il mare aperto inseguito dai pirati che catturarono solo qualche nave rimasta indietro.
Ali Pascià notò che molto avanti rispetto alla linea su cui si era distribuita la flotta nemica erano state disposte sei grosse navi da trasporto chiamate galeazze, lente e tozze, con la murata tanto alta che ne impediva l’abbordaggio. Le galeazze erano scortate dalle galee con le vele rosse della flotta siciliana quasi che quel pugno di navi volesse fermare l’avanzata della potente flotta turca.
Alì Pascià, decise di ignorare quel che considerò un diversivo e si diresse prontamente contro l’ammiraglia della flotta nemica. Le navi che lo seguirono approcciarono le galeazze scoprendo che, contrariamente all’uso di allora, quelle grosse e goffe navi erano dotate di cannoni disposte lungo tutto il loro perimetro. Con una potenza di fuoco superiore di sei o sette volte quella di una normale galera, le galeazze incominciarono a bombardare dall’alto i vascelli nemici, distruggendo e affondando navi su navi e scompigliando la flotta turca che perse slancio e forza. A bordo delle galeazze Giovanni d’Austria aveva fatto collocare gli archibugieri che decimarono gli equipaggi di ogni nave nemica che si avvicinava a loro.
Le galeazze, seguite dalla flotta siciliana, incominciarono a girare in tondo rendendo il tratto di mare vicino a loro, un inferno. La Sultana, l’ammiraglia turca raggiunse velocemente Giovanni d’Austria che vedendo arrivare i nemici, lanciò la sua nave contro quella di Alì Pascia così che la sua guardia personale, il Tercio de Cerdena, una compagnia formata da veterani di Castiglia ed Estremadura di base in Sardegna, andò all’arrembaggio della nave avversaria. I castigliani si trovarono di fronte gli giannizzeri turchi, un corpo scelto formato da slavi cresciuti ed addestrati ad Instabul.
Lo scontro fu durissimo.
Per tre volte gli spagnoli andarono all’arrembaggio e furono cacciati indietro, Giovanni d’Austria fu ferito e spesso sul punto di soccombere. Le navi nemiche si concentrarono intorno alla loro ammiraglia, lo stesso fecero quelle della Lega Santa. Ormai era una lotta all’ultimo sangue.
Gli esperti soldati combattevano ormai all’arma bianca, i marinai, i rematori che spesso erano uomini della strada o gente di campagna arruolata a forza o per debiti, si erano uniti a loro e lottarono con rabbia e determinazione. Ormai tutti combattevano per sopravvivere tra i morti e i feriti, in un intreccio di legni rotti, carni tranciate, sangue e fumo di polvere da sparo.
La grande santa battaglia diventò una caotica, sanguinosa, terribile carneficina.
Le navi dell’ala sinistra turca, vedendo l’inutilità di inseguire l’ammiraglio Doria tornarono su i loro passi e veleggiarono verso l’ammiraglia a darle manforte. Se avessero raggiunto il groviglio di navi nel centro della formazione, le truppe spagnole avrebbero avuto la peggio. Fu questo quello che pensò Giovanni Cardona, capitano dell’ammiraglia siciliana, che subito lasciò le terribili galeazze e incrociò con la sua Capitana, le navi nemiche attaccandole, incurante della superiorità numerica, del mitragliare delle archibugiate e del fuoco delle cannonate. Ferito più volte con i suoi uomini riuscì a fermarle spingendole lontano dalla mischia.
In quel momento, le navi pisane, vittoriose sull’ala destra dei turchi, riuscirono a farsi largo tra il groviglio di remi rotti e alberi maestri tranciati dai cannoni ed arrivarono nella mischia delle ammiraglie, buttandosi all’arrembaggio di quella. Ebbero la meglio sui giannizzeri sopravvissuti agli scontri con i castigliani e catturarono, uccidendolo, Alì Pascià. Alla vista della testa del loro ammiraglio che dondolava sul pennone della sua ammiraglia, le navi turche superstiti (ormai poche e malconce) si dileguarono, o almeno ci provarono a causa delle galeazze che le aspettavano al varco, lasciando dietro di loro un mare di relitti e di sangue.
La vittoria fu una di quelle più pubblicizzata dei suoi tempi. Libri, poesie, grandi quadri, narrazioni epistolari si sparsero per tutta Europa a raccontare la grandiosa vittoria e l’immensa carneficina. I turchi rallentarono la loro pressione via mare ed aumentarono quella via terra dirigendo le loro truppe alla volta di Vienna.
In Sicilia l’evento ebbe una grande risonanza. Prova ne è la descrizione della battaglia rappresentata negli stucchi di Santa Cita e persino nelle carceri dello Speri dove un giovane condannato disegnò la battaglia su indicazione di un veterano. Messina, che era una porta del mediterraneo orientale, grata a Giovanni d’Austria, fece fondere una statua in bronzo che lo ricordasse e celebrasse. Le galeazze cambiarono il modo di concepire la guerra per mare. Presto vascelli dalle alte murate e con un gran numero di cannoni sostituirono le galere ed i pirati turchi furono pian piano eliminati, cosa che permise lo sviluppo dei paesi costieri siciliani e, ai Principi di Palermo, di iniziare a costruire le bellissime ville di Bagheria.
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pettirosso1959 · 2 months ago
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Ricevo da un mio amico siciliano di Messina:
Nelle scorse settimane, in un condominio adiacente a quello ove abito, sono stati installati un gruppo di pannelli fotovoltaici, tra le mie amare risate.
Per tale installazione è stata necessaria la presenza di una gru di dimensioni assai generose, gru che è dovuta intervenire nella zona per ben 2 volte; la prima per installare la struttura reticolare di supporto, la seconda per l'installazione vera e propria dei pannelli.
Risata amara resa più amara dalla posizione e dalla tipologia di installazione, installazione avvenuta su una terrazza condominiale ubicata in una posizione altimetrica inferiore rispetto ai condomini circostanti, condizione che pone ovviamente in ombra i pannelli FV.
Ancor più grave, i pannelli non godono di alcun orientamento sull'orizzonte, né verticale, né orizzontale; sono montati praticamente "coricati" e paralleli al piano, un assurdo rispetto alle prescrizioni fisiche.
Incuriosito, domando al "legittimo proprietario" di così elevata stortura, il costo di questa operazione. Soddisfattissimo mi risponde: "Nulla! Solo le spese per l'istruzione della pratica! Ed il condominio non si è nemmeno potuto opporre!". MAFIA! Penso e non dico, io!
Veniamo all'atto pratico; per muovere la gru indicata il costo è di 2,5 mila euro/giorno comprese le operazioni dell'operatore di movimento ed il supporto del vettore di trasporto materiali, la creazione dell'impianto elettrico è di, circa, 3 mila euro (dal piano V al piano terra), il costo secco e senza telaio in alluminio dei pannelli FV è di, circa, 3 mila euro per kWp installato, quindi 30 mila euro per 10 kWp! Ignoto il costo del telaio di supporto, ma non inferiore alle 5 mila euro, date dimensioni e posizioni occupate. L'impianto non sembra dotato di accumulo, quindi i costi dovrebbero terminare qui e siamo tra 40 mila e 50 mila euro per servire una sola famiglia nel pieno disprezzo della collettività e delle volontà individuali del condominio!
Alla precisa domanda: "Perché non lo hai fatto a tue spese?!", la risposta è stata ovvia: "A mie spese non lo avrei MAI fatto, costa troppo!".
Ecco le deficienze di una serie di norme dello Stato e di imposizioni della UE: a proprie spese il condomino non avrebbe MAI installato l'impianto, perché ritenuto troppo costoso.
Quindi, non diversamente dal superbonus di grillina memoria, lo Stato sovvenziona opere a costo della collettività e per la collettività non producono alcun vantaggio/ricchezza.
Se realmente l'installazione dei sistemi fotovoltaici/eolici fosse stata conveniente, nessuno avrebbe esitato nell'investire (non sarebbe stato un costo!) in tali opere, nella certezza di un ritorno a medio termine. La realtà dell'esperienza storica indica un tempo medio di 32 anni per il rientro dei costi secchi del solo impianto, senza il supporto di opere accessorie diverse, che possono ridursi a 27 anni se le installazioni vengono effettuate in aree particolarmente irraggiate (Sicilia/Sardegna) ed arrivare a 36 anni per aree come la Lombardia, il Piemonte, il Friuli, giusto per fare degli esempi. Osservando all'estero, in Germania o Regno Unito il fotovoltaico sarebbe del tutto inutile alla causa, con un fattore di capacità di appena il 6%!
La vita media della migliore serie dei pannelli FV non arriva a 30 anni, fermandosi addirittura a 22 anni, ma molti dei pannelli FV installati mostrano problemi già dopo i primi 10 anni di esercizio (in Germania una serie di pannelli da 4 miliardi di euro smise di funzionare dopo appena 2 anni dall'installazione).
Purtroppo queste spese gravano su tutti, Industrie in primis, alla voce ONERI DI SISTEMA, che pesano per oltre il 51% del costo della bolletta, e SPESE PER IL TRASPORTO DELL'ENERGIA, che pesano per un ulteriore 3% - 7% del costo della bolletta funzionalmente alla tipologia di contratto. E poi si fallisce tutti...
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guerrerense · 2 months ago
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ADE 17 FCE a ADRANO  (Sicilia - Catania)  12 novembre 2019
flickr
ADE 17 FCE a ADRANO (Sicilia - Catania) 12 novembre 2019 por Frank Andiver Por Flickr: Siamo in Sicilia e durante una piovosa giornata di novembre 2019, mentre vediamo scendere da Bronte verso Catania , questa automotrice Ade 17 della FCE (Ferrovia Circumetnea), tra i tornanti ferroviari, tipici di questa zona, regno della pietra lavica e delle piante di pistacchio.
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aki1975 · 9 months ago
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Napoli - Francesco Laurana - Maschio Angioino - Arco trionfale - 1479
Fondata dai Greci di Cuma, i sovrani che nei secoli si sono susseguiti sul trono di Napoli sono stati:
i Normanni:
- Ruggero I d’Altavilla conquistò la Sicilia nel 1091;
- Ruggero II (1130 - 1154): fu il primo re di una Sicilia multietnica e multireligiosa avendo accorpato in un unico regno tutti i possedimenti normanni nell’Italia Meridionale conquistando Napoli nel 1137;
- Guglielmo I (1154 - 1166)
- Guglielmo II (1166 - 1189): eresse il Duomo di Monreale;
- Tancredi (1189 - 1194)
- Guglielmo III (1194)
- Costanza d’Altavilla (1194 - 1197)
gli Svevi:
- Federico II (1198 - 1250) Stupor Mundi: a Napoli istituì l’università nel 1224;
- Corrado (1250 - 1254): dovette confrontarsi con il potere del fratellastro Manfredi;
- Corradino (1254 - 1258): fu sconfitto nella battaglia di Tagliacozzo e fatto imprigionare a Castel dell’Ovo e decapitare da Carlo d’Angiò nella piazza del mercato a Napoli, poi sepolto nella vicina Chiesa del Carmine. La dinastia degli Svevi scomparve con la morte di Manfredi nel 1266.
gli Angioini:
- Carlo I (1266 - 1285): fratello di Luigi IX il Re Santo, Conte d’Anjou, ricevette in vassallaggio la Sicilia e Napoli dal Papa che difese dagli Hohenstaufen. Edificò il Maschio Angioino, con uno stile che richiama il castello di Avignone, nel 1282;
- Carlo II (1285 - 1309): dovette rinunciare al trono di Sicilia dopo la rivolta dei Vespri Siciliani nel 1302;
- Roberto I (1309 - 1343): figlio di Maria d’Ungheria sepolta nella Chiesa di Donnaregina, fu apprezzato da Petrarca e amante della cultura e delle lettere;
- Giovanna I (1343 - 1382): fu fatta assassinare dal ramo di Durazzo degli angioini e le succedette
- Carlo (1382 - 1386)
- Ladislao (1386 - 1414)
- Giovanna II (1414 - 1435)
- Renato I (1435 - 1442)
gli Aragonesi:
- Alfonso I d’Aragona (1442 - 1458): sconfisse Renato d’Angiò e unì il tono di Napoli a quello di Sicilia e ai possedimenti della Sardegna e della Spagna occidentale. Combattè contro Milano e Genova e dotò il Maschio Angioino dell’attuale arco di trionfo;
- Ferdinando I detto Ferrante (1458 - 1494): all’inizio del suo regno dovette fronteggiare la rivolta angioina e successivamente sedò la rivolta dei baroni e si alleò con gli Sforza contro il re di Francia Carlo VIII d’Angiò. Del suo tempo la Chiesa del Gesù Nuovo;
- Alfonso II: sposò Ippolita Maria Sforza, ma dovette abdicare a causa della calata di Carlo VIII;
- Ferrandino (1494 - 1496)
- Federico I (1496 - 1503) durante il cui regno vi fu la conquista e poi la cacciata di Luigi XII re di Francia;
- Ferdinando III (1504 - 1516) dopo il quale il Regno di Napoli fu incluso in quello di Spagna prima sotto la casata degli Asburgo (con la breve parentesi della Repubblica di Masaniello fra il 1647 e il 1648) poi sotto quella dei Borbone (1700 - 1713) ed ancora sotto quella degli Asburgo d’Austria (1713 - 1734).
i Borboni:
- Carlo I (1734 - 1759): già Duca di Parma, conquistò e riunificò il Regno delle Due Sicilie anche grazie alla madre Elisabetta Farnese, seconda moglie del re di Spagna, che da Madrid influenzò la prima parte del suo regno. Riformò con Bernardo Tanucci l’amministrazione, promosse la musica (fondò il Teatro di San Carlo nella patria di Paisiello e Pergolesi), l’arte (promosse la ceramica di Capodimonte, fece costruire al Vanvitelli la reggia di Caserta del 1751 e quella che oggi è Piazza Dante oltre alla Reggia di Capodimonte dove installò la collezione Farnese) e sostenne gli scavi a Pompei ed Ercolano che iniziarono nel 1738);
- Ferdinando (1759 - 1799 e 1816 - 1825): sposò una figlia di Maria Teresa d’Austria, Maria Carolina che lo allontanò dall’influenza spagnola di Bernardo Tanucci, promosse la Marina Militare (nel 1787 fu fondata la Nunziatella), ma dovette subire una rivoluzione filo-francese (Eleonora Fonseca Pimentel, Mario Pagano, …) nel 1799 contrastata dal Cardinale Ruffo e da Fra Diavolo e la conquista napoleonica che insediò Giuseppe Bonaparte dal 1806 al 1808 e Gioacchino Murat dal 1808 al 1815 prima di diventare, con il Congresso di Vienna, Re delle Due Sicilie ed essere sepolto al Monastero di Santa Chiara;
- Francesco (1825 - 1830)
- Ferdinando II (1830 - 1859): fondò la prima ferrovia d’Italia (1839), ma fu reazionario e soprannominato il Re Bomba per come represse i moti rivoluzionari del 1848 a Messina;
- Francesco II (1859 - 1861): era figlio di Ferdinando II e di Maria Cristina di Savoia e sposò la sorella di Sissi, Maria Sofia di Baviera.
Con l’Unità, Napoli confluì nel Regno d’Italia: ecco perché la statua di Vittorio Emanuele II è presente a Palazzo Reale.
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thegianpieromennitipolis · 2 years ago
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti 
L'IDENTITÀ È UN INCONTRO
Il variegato stile, le tecniche, l’iconografia, le evidenze culturali che s’incrociano sulla penisola italica non sono espressioni che solo gli esperti possano cogliere, almeno negli aspetti di visione comparata.  No, si tratta di una evidente condizione che investe l’arte e si delinea sulla scia di vicende socio-politiche complesse, divisive, soggette ad influenze geografiche e rotte commerciali.  Esistono molti modi di essere Italia e certamente uno è quello che guarda all’Oriente, a Bisanzio, al mediterraneo ed alla cultura araba.  Si tratta di uno scenario profondamente diverso da quello austero, dai toni misurati, dall’essenzialità delle forme plastiche, dalla prevalenza del chiaroscuro che si attesta nel romanico nordico e padano (che tuttavia rimane a lungo debitore del linguaggio figurativo bizantino): è il contesto della Sicilia e delle regioni meridionali d’Italia, Calabria e Puglia, a lungo soggette alla dominazione bizantina alla quale, in Sicilia, subentra quella Araba nel IX e X secolo.  Ed è un profluvio di colori quello che anima uno dei luoghi simbolo della Sicilia che si consolida nel regno normanno con l’incoronazione di Ruggero II nel 1130: la Cappella Palatina, la cappella che si trova all’interno dei Palazzo dei Normanni a Palermo, realizzata in soli due anni dall’incoronazione del nuovo sovrano di un nuovo regno e completata nei suoi cicli musivi nel 1143.  Qualcuno l’ha definita un “dorato tappeto splendidamente fiorito di colori”: in effetti, le immagini suggeriscono questa visione, più ricca e piena al punto da apparire espressione di horror vacui, in linea con le tesi dei commentatori arabi di Aristotele i quali, convinti dell’impossibilità del vuoto, ne attestavano la veridicità in base ad una presunta e controversa legge di natura.  Tant’è.  Se ne viene soggiogati per la vividezza delle tonalità, chiare e sensuali, frammiste di blu e di rosso, tra sacro e profano.  L’immagine in questa pagina ne è un esempio lampante, nel quale l’aspetto cromatico si somma alla nitidezza delle linee di contorno e di quelle interne descrittive dell’anatomia e delle vesti delle figure che manifestano il pittoricismo nitido, sapiente e consolidato delle maestranze bizantine chiamate ad eseguire i cicli.  In questo caso si tratta del “ciclo delle Feste”, costituito da dodici scene realizzate sulla parete meridionale del transetto che raccoglie episodi della vita del Cristo, episodi che non si concludono con la Passione di Gesù ma che si arrestano proprio con la scena rappresentata in queste pagine, la scena dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, un ingresso trionfale, festoso ed a suo modo solenne nei gesti, nelle pose delle figure che si pongono al seguito del Cristo.  Questi offre, in groppa ad un asino, l’umiltà e la mansuetudine poste a segno di una fede nobile, così come narrata dal Vangelo di Giovanni: 
“Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto su un puledro d'asina.”
È una scena serena, che non ammonisce ma accoglie, che illumina lo spirito e lo rende anima conciliata con la materia laica, mondana, riconoscibile nella saldatura tra i principi di fede e la maestà dell’istituzione reale normanna chiamata ad essere solida istituzione della cristianità. Cristo è accolto dalla folla osannante al “redentore”, ma sconta la diffidenza dei Farisei: il significato della novella evangelica probabilmente allude, simbolicamente, alle vicende controverse della presa del potere degli Altavilla, la lotta che sostennero per il riconoscimento della loro potestà sulle terre meridionali già bizantine ed arabe.  Una simbologia che corre sottile lungo tutte le scene del ciclo, a partire dalla Natività e Adorazione dei Magi, con un San Giuseppe pensoso e forse incredulo sul significato dell’evento.  Lo stile musivo bizantino, peraltro, pur riconoscibile ed attestato, in questo ciclo si alimenta di suggestioni narrative complesse che superano la tradizionale iconicità espressa nella fissità frontale delle figure, per proiettarle in un mondo reale nel quale, tuttavia, si respira l’atmosfera di un ideale realizzato.  Una cristianità che si compie in terra sotto il mantello protettivo di un regno nato per volontà del cielo, di un regno che può compiere il miracolo della pace e della concordia tra genti di culture e lingue diverse, quanto effettivamente fu, in parte, il regno normanno di Sicilia.
In copertina: Maria Casalanguida, “Bottiglie e cubetto”, 1975, collezione privata 
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unfilodaria · 1 year ago
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"A Ebrei e Saraceni concediamo le medesime garanzie perché non vogliamo che innocenti vengano perseguitati soltanto perché ebrei o musulmani". Federico II, Costituzione del Regno di Sicilia, 1231. Stupor Mundi, re di Sicilia e Napoli, Imperatore del Sacro Romano Impero, odiato da papi, vescovi e preti, pluri scomunicato. Fondò l'Università laica degli studi di Napoli, fondò la Scuola siciliana, prima in italiano. Poeta egli stesso, autore di trattati di ornitologia e falconiera, edificatore di castelli e monumenti civili, unificatore delle leggi del Regno che andava da Malta agli Abruzzi. Praticò la pace, stipulando col sultano un trattato a tutela dei pellegrini di tutte le confessioni in quella che era chiamata Terra Santa, contravvenendo al papa che voleva nella crociata un bagno di sangue e, per questo, lo scomunicò definitivamente.
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valentina-lauricella · 1 year ago
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Ahi tristi noi! Poi che morìr negli orti, Le malve, o l'appio verde, o il crespo aneto, Rivivono, e rinascono un altr'anno. Ma noi ben grandi, e forti uomini, e saggi Dormiam, poichè siam morti, in cava fossa Lunghissimo, infinito, eterno sonno; E con noi tace la memoria nostra. Or tu sotterra in tenebroso loco Sempre muto starai. Pure alla rana Donàr le ninfe interminabil canto: Non la invidio però, che ha rozza voce. […] Se come Orfeo potessi, o come Ulisse, O come Alcide, scendere in Averno, Anch'io forse verrei di Pluto al regno Per veder se tu canti a Dite ancora, E per udir che canti. (…)
(Da Lamento funebre per Bione, di Mosco, traduzione di G. Leopardi)
Bione fu poeta, musicista e guardiano di armenti; visse in Sicilia nel II secolo a. C.; morì avvelenato: in questo Lamento viene compianto dal suo "collega" e amico Mosco.
Anch'io, idealmente, dico a Giacomo Leopardi che "se potessi scendere in Averno, verrei di Pluto al regno/per veder se tu canti ancora, e per udir che canti."
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danzameccanica · 5 months ago
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Akhlys è la nebbia che compare agli occhi dei mortali quando sono in punto di morte; è come se la loro anima, in forma quasi tangibile eppure invisibile uscisse dagli occhi per tornare nel regno di Ade. Dall’invisibile verso l’invisibile. Esattamente come all’alba dei tempi, nell’ombelico della Sicilia, vicino a Enna, avvenne il ratto di Core. Nel momento in cui la terra si squarciò e apparve la quadriga di Ade, Core stava guardando un narciso. Guardava il guardare. Mentre lo stava per cogliere fu rapita dall’invisibile, verso l’invisibile. Korē non significa solo “fanciulla” ma anche “pupilla”, «la parte più eccellente dell’occhio» come disse Socrate ad Alcibiade; non è solo la parte più eccellente perché è quella che vede ma perché è quella dove chi guarda incontra, nell’occhio dell’altro, il simulacro di chi guarda. Nel momento in cui Core fu rapita ci fu chi sentì un grido. Ma che cosa significava quel grido? Era soltanto il terrore di una fanciulla rapita da un ignoto? O fu il grido di un riconoscimento irreversibile?*
Questa è l’immagine di House of the Black Geminus, terzo capitolo di questa nebbia-Akhlys che dura un attimo ma che riesce ad avvolgere tutti i paradigmi del black metal: la brutalita, la monumentalità, la trasversalità, la sfuggevolezza. Brutalità perché le urla lancianti sono come quelle delle Erinni o di Ananke: ci troviamo di fronte ad un prodotto dalla fisiologia nuova ma che incute lo stesso terrore e rispetto degli antichi. La batteria spinta velocissima a metà strada fra l’essere triggerata e digitale conferisce all’album un’aggressività ed una velocità particolare; a volte il black metal acquisirà sfumature quasi power-techno, soprattutto grazie alle esplosioni industrial-ambient. "Maze of Phoebetor" è un intricata matassa di riff vorticosi e gorgheggianti che richiamano i Blut Aus Nord di The Work Which Transforms God ma la particolarità e l'unicità di questo album è non fermarsi a solo un genere di sfumature.
La Monumentalità è evocata brano dopo brano, attraverso l’ampio minutaggio e i riff vorticosi che, susseguendosi, creano un gigantesco panorama astratto e scosceso. La militanza quasi ventennale nei Nightbringer da parte di Naas Alchamet si sente puntualmente anche nella nuova incarnazione benché sia difficile spiegare la differenza dei rispettivi modi di comporre riff, in entrambi i luoghi melodici ma dissonanti, in entrambi i luoghi capaci di invocare mitologie oscure e impossibili da gestire dagli umani se non da maghi o sacerdoti. Akhkys però è sempre stata una creatura più violenta che fa paura anche nei momenti di respiro. Il riff principale di "The Mask of the Night-speaking" è una chitarra che sembra un sintetizzatore; "Through the Abyssal Door" ha una grandiosità post-apocalittica già come sentito nei tre 777 francesi o, anche in questo caso, una rivisitazione mistica dei Godflesh. Stupendo anche la finale Eye of the Demon dove c’è una specie di rivisitazione di In the Nightside Eclipse 2.0, aggiornata e digitalizzata. Quello che fino ad ora potrebbe però sembrare una personale visione di un blackmetal a tratti industrial deve però ancora emergere più che con il resto dell'album, direi con la sua visione di insieme.
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La Trasversalità perché oltre a citare i grandi rivoluzionari all’interno del black metal contemporaneo, gli Akhlys aprono un’altra porta della percezione, con tocchi e condimenti electro/ambient. Se però prendiamo, ad esempio, quello che hanno fatto i Darkspace, noi vediamo che l’elettronica è una sorta di grembo (anti)naturale degli strumenti metal, ci sono dei passaggi organici fra una strumentazione e l’altra: è come se i synth generassero le chitarre e viceversa. La componente elettronica di The House of Black Geminus nasce da delle esplosioni: in quel secondo, secondo e mezzo di pulsazione, non si capisce se stiamo ascoltando un synth effettato o l’unione compressa di chitarra, basso e batteria che, alterati, creano un altro tipo di suono. Non sono le esplosioni che vengono generate dagli strumenti ma sono loro stesse che generano il resto della strumentazione. "Black Geminus", la traccia strumentale, è questo attimo preso, allungato, dilatato, reso sempre più astratto; tanto che nei suoi cinque minuti di lunghezza non fornisce una narrazione. Ma la modalità nella quale viene percepito ci fa anche pensare che possa essere stato composto con una strumentazione classica per poi essere manipolato. La manipolazione e l’alterazione sono le azioni più importanti e imprescindibili per capire appieno questo album. Le corde delle chitarre sono state manipolate, alterate in modo che i propri delay continuino a pugnalare la mente. Stessa cosa per la batteria, spinta al massimo sia nei termini di “suonabilità” che di sonorità il che ci porta alla sfuggevolezza.
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La Sfuggevolezza sta nella percezione. Tutto è alterato nella post-produzione di House of the Black Geminous è alterato proprio con lo scopo di svelare la disumanità. Alterando e occultando la tangibilità e la riconoscibilità si arriva ad un prodotto invisibile. Sempre secondo il principio della visibilità (che vale anche per un prodotto audio), quando la pupilla, dopo aver visto la propria duplicazione, subisce un’alterazione volontaria da una volontà estranea comporta un’amplificazione e quindi una distorsione. Se l’immagine viene spinta violentemente verso la nascita del cono ottico, quell’immagine si oscurerà perdendo il contorni che diventeranno sempre meno lineari, più astratti ma anneriti e amplificati dalla vicinanza; dall’estrema vicinanza. Se Core vede sé stessa nell’occhio di Ade e prende consapevolezza della propria coscienza; è l’umano che arriva ad una rivelazione. Ma l’azione inversa diventa terribile e insostenibile proprio per la sua impossibilità. L’occhio di Ade, l’occhio del rapitore, non può prendere coscienza di sé stesso perché è un dio antico un dio non può prendere coscienza di sé, o almeno non senza conseguenze ingestibili e insopportabili per il mondo umano. Basti ricordare cosa è successo a Semele quando ha ottenuto la visibilità di Zeus. Ecco, La sfuggevolezza di House of the Black Geminus riusciamo a percepirla e descriverla finché la consapevolezza del suono (e della visione) si avvicina quanto più possibile al nostro timpano, alla nascita del nostro cono uditivo (come quello visivo), un attimo prima dell'indistinguibilità del caos. Anche il precedente Melinoë aveva a che fare con il tentativo di dare un contorno percepibile ad un groviglio di urla e di caos. Ma in quel caso si andava a cercare una semplificazione dalla moltitudine. House of the Black Geminus è una sorta di semplificazione di tutto ciò che è appena udibile, riconoscibile nella nostra scala di valori; c’è anche qui la moltitudine, ma c’è il maggior numero di moltitudini sopportabili un attimo prima della definitiva e inevitabile distruzione e dissoluzione.
*Roberto Calasso - Le Nozze di Cadmo e Armonia 237-41
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paololocascio · 2 months ago
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La #Sicilia è la regione d’#Italia più ricca di beni artistici e culturali riconosciuti dalla Organizzazione Mondiale.
Il Regno di Sicilia fu uno Stato indipendente per 686 anni. E’ considerato da molti studiosi come il prototipo del moderno Stato europeo e tra i più longevi d’#Europa.
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sciatu · 2 years ago
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Nell’inizio del 1200 la Sicilia è un regno ricco e parte di un impero che andava da Tunisi fino alla Danimarca Palermo era una capitale potente in cui Federico II aveva instaurato una corte forte nelle armi ed evoluta nella cultura, una cultura che non era formata solo dalla quella araba arrivata con i conquistatori nord africani sconfitti dal conte Ruggero ed ora erano sudditi di Federico, e neanche quella provenzale o francese discesa con i Normanni e con le popolazioni lombarde e piemontesi che li avevano seguiti. Era una cultura somma di queste due culture apparentemente opposte ed arricchite da quella bizantina ed ebrea. La stessa lingua, che di quella cultura era la forza, era una lingua unione ed evoluzione di tutti i popoli dell’isola a cui i guerrieri normanni avevano concesso di vivere e di pregare secondo la loro origine. L’amministrazione del regno infatti teneva conto di tutte le diversità che lo costituivano. Così ad esempio, vi erano notai Arabi, notai Ebrei e notai Latini che certificavano e regolavano la vita amministrativa dei privati e dello stato. Tra questi, vi era anche il notaio Jacopo da Lentini, il cui nome appare non solo nel registro notarile dell’epoca, ma anche in importanti atti amministrativi del regno. Essendo parte della forza amministrativa del regno, notar Jacopo era coinvolto anche nella gestione militare ricoprendo l’incarico di comandante della fortezza di Mazzarino. Per questo motivo i suoi contatti con la corte erano assidui e continui. Federico, contrariamente a molti nobili europei, aveva avuto una educazione multiculturale, con insegnanti arabi e latini. Per questo parlava diverse lingue, scriveva libri sull’uccellagione, poesie e ballate che a quel tempo avevano una grande importanza. Le poesie potevano essere imparate facilmente da qualsiasi suddito che non avesse istruzione ed erano uno strumento per veicolare sia le grandi gesta dei cavalieri, che l’amore o la protesta del popolo, la sua rabbia o le sue istanze politiche. Le ballate guidavano le danze dando ritmo ed eleganza ai movimenti di uomini e donne accompagnati dai pochi strumenti musicali di allora. I menestrelli ed i giullari componevano poemi e ballate d’amore secondo la cultura d’origine e l’esperienza dei singoli, spesso in modo ripetitivo e volgare o erudito ed ironico a seconda dei gusti di chi li ospitava. Molti di questi componimenti si concentravano sulla donna, che per i menestrelli e poeti arabi era una conquista, una preda da mostrare o un premio per le battaglie fatte per conquistarla. Per i menestrelli provenzali la donna era una madonna, una nobile dama degna del cavalier che la serviva. Per i poeti siciliani e per Jacopo da Lentini in particolare, la donna è la perfezione che l’uomo non ha; la donna è chi può dare nello stesso tempo la vita e la morte, è la compagna senza di cui il Paradiso stesso non può essere tale. Versi assoluti non per l’amore fine a se stesso, ma per la donna che si ama, versi per un sentimento dominante giustificati dal fatto che per Jacopo la donna è quanto manca all’uomo per aver pace, armonia e la pura bellezza. Jacopo anticipa la Beatrice di quel Dante che considerava i poeti siciliani dei maestri nell’arte del poetare e dell’amare (tutto ciò che gli italiani fanno in poesia, si può dire siciliano). Jacopo è anche il lato oscuro dell’amore, nell’impossibilità di essere amato per quanto si ama, nel dolore che nasce dalla difficoltà di poter rivelare e mostrare quanto di immenso si prova. Il sentimento è una tempesta che nessuno vede, è una forza invisibile impalpabile che attrae come quella di una calamita e a cui nessuno può sottrarsi, è un destino che non arriva mai a compimento. Per poter meglio dire quello che prova Jacopo crea una nuova forma di poesia, rivoluzionaria per quel tempo: il sonetto. Il sonetto forse non è altro che una ballata minore che si apre e che racconta con due quartine di versi e giudica e riassume con due terzine di versi finali. Le rime, vicine ed immediate battono un tempo che la metrica incalza facendo diventare il tutto efficiente ed elegante. Dante, Petrarca avrebbero usato il sonetto con tocchi e forme celestiali, Shakespeare avrebbe fatto raggiungere al sonetto vette ineguagliabili, Trilussa lo avrebbe trasformato in uno ironico schiaffo alla sua società di allora a dimostrare la straordinarietà di un mezzo che ha affascinato e aiutato migliaia di poeti a creare il loro cammino poetico. Noi conosciamo le opere di Jacopo grazie alla traduzione che ne fecero i poeti toscani nell’ italiano della loro epoca. I versi di Jacopo erano però scritti nel siciliano della corte di Federico, un siciliano evoluto che nella traduzione in italiano perde forza e freschezza. Ad esempio, nel tradure i poemi siciliani, i poeti toscani hanno dovuto inventare la famosa “rima siciliana” una rima che in italiano non lo è ma che lo sarebbe stata se fosse stata scritta in siciliano. Malgrado questa limitazione, le poesie di Jacopo ci raccontano l’eleganza di un tempo e la modernità di un sentimento dove l’amore non è un ideale ma una persona, dove i propri sentimenti sono l’eco della vita e, nello stesso tempo, una forza che ci innalza e ci abbatte, ci salva, ci distrugge, ci domina e che non riusciamo mai a saziare per come vorremmo o dovremmo. Questo era Jacopo da Lentini, notaio, burocrate, castellano e poeta, ai tempi del grande Federico Stupor Mundi.
In the early 1200s Sicily was a rich kingdom and part of an empire that ranged from Tunis to Denmark. Palermo was a powerful capital in which Frederick II had established a court strong in arms and evolved in culture, a culture that was not formed only by the Arab culture which arrived with the North African conquerors defeated by Count Roger and were now subjects of Frederick, nor the Provençal or French descent with the Normans and with the Lombard and Piedmontese populations who had followed them. It was a sum culture of these two apparently opposite cultures and enriched by the Byzantine and Jewish one. The language itself, which was the strength of that culture, was a language of union and evolution of all the peoples of the island to whom the Norman warriors had allowed to live and pray according to their origins. In fact, the administration of the kingdom took into account all the differences that made it up. Thus, for example, there were Arab notaries, Jewish notaries and Latin notaries who certified and regulated the administrative life of individuals and the state. Among these, there was also the notary Jacopo da Lentini, whose name appears not only in the notarial register of the time, but also in important administrative deeds of the kingdom. Being part of the administrative force of the kingdom, notar Jacopo was also involved in military management, holding the position of commander of the fortress of Mazarin. For this reason his contacts with the court were assiduous and continuous. Federico, contrary to many European nobles, had had a multicultural education, with Arab and Latin teachers. For this he spoke several languages, wrote books on fowling, poems and ballads that were of great importance at that time. Poems could be easily learned by any subject who had no education and were a tool to convey both the great deeds of the knights, and the love or protest of the people, their anger or their political demands. The ballads led the dances giving rhythm and elegance to the movements of men and women accompanied by the few musical instruments of the time. The minstrels and jesters composed love poems and ballads according to the culture of origin and the experience of the individuals, often in a repetitive and vulgar or erudite and ironic way according to the tastes of their hosts. Many of these poems focused on the woman, who for Arab minstrels and poets was a conquest, a prey to be displayed or a prize for the battles waged to conquer her. For Provençal minstrels, the woman was a madonna, a noble lady worthy of the cavalier who served her. For Sicilian poets and for Jacopo da Lentini in particular, woman is the perfection that man does not have; the woman is who can give life and death at the same time, she is the companion without whom Paradise itself cannot be such. Absolute verses not for love as an end in itself, but for the woman who loves herself, verses for a dominant feeling justified by the fact that for Jacopo the woman is what she is missing from the man to have peace, harmony and pure beauty. Jacopo anticipates the Beatrice of that Dante who considered Sicilian poets masters in the art of poetry and love (everything that Italians do in poetry can be said to be Sicilian). Jacopo is also the dark side of love, in the impossibility of being loved as much as he loves himself, in the pain that arises from the difficulty of being able to reveal and show how immense one feels. Feeling is a storm that no one sees, it's an impalpable invisible force that attracts like a magnet and that no one can escape, it's a destiny that never comes to fruition. In order to better express what he feels, Jacopo creates a new form of poetry, revolutionary for that time: the sonnet. The sonnet is perhaps nothing more than a minor ballad that opens and tells with two quatrains of lines and judges and summarizes with two tercets of final lines. The rhymes, close and immediate, beat a tempo that the metric presses, making everything efficient and elegant. Dante, Petrarca would have used the sonnet with celestial touches and forms, Shakespeare would have made the sonnet reach unparalleled heights, Trilussa would have transformed it into an ironic slap on his society at the time to demonstrate the extraordinary nature of a medium that has fascinated and helped thousands of poets to create their own poetic path. We know Jacopo's works thanks to the translation that the Tuscan poets made of them into the Italian of their time. However, Jacopo's verses were written in the Sicilian of Federico's court, an evolved Sicilian that loses strength and freshness in the Italian translation. For example, in translating Sicilian poems, the Tuscan poets had to invent the famous "Sicilian rhyme", a rhyme that is not a rhyme in Italian but would have been if it had been written in Sicilian. Despite this limitation, Jacopo's poems tell us about the elegance of the past and the modernity of a feeling where love is not an ideal but a person, where one's feelings are the echo of life and, at the same time, a force that lifts us up and knocks us down, saves us, destroys us, dominates us and that we can never satiate as we would like or should. This was Jacopo da Lentini, notary, bureaucrat, castellan and poet, at the time of the great Federico Stupor Mundi.
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siciliatv · 2 months ago
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Titoli falsi per accedere ai concorsi nella scuola: 9 arresti e 30 indagati, anche in Sicilia
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I numerosi clienti erano aspiranti insegnanti, laureati e diplomati, che pagavano ottomila euro ciascuno per conseguire un titolo e accedere a concorsi pubblici. Nove le persone arrestate e portate in carcere questa mattina dalla Guardia di finanza. Facevano parte di un’organizzazione che secondo gli inquirenti rilasciava titoli di studio e professionali falsi, o comunque senza valore legale in Italia, emessi da sedicenti enti universitari, da istituti scolastici di istruzione superiore paritari, e scuole professionali dislocate in varie regioni (Lazio, Lombardia, Calabria e Sicilia).   I clienti pagavano 8 mila euro I numerosi clienti erano aspiranti insegnanti, laureati e diplomati, che pagavano ottomila euro ciascuno per conseguire un titolo e accedere a concorsi pubblici nella scuola e diventare, tra l’altro, insegnanti di sostegno. Il giro d’affari prodotto sarebbe ingente, la Guardia di finanza ha infatti sequestrato beni per un valore complessivo di quasi 10 milioni di euro. Complessivamente sono 30 le persone indagate nell’inchiesta chiamata Zero titoli. I reati di cui sono accusate, a vario titolo e in concorso tra di loro, sono associazione per delinquere, truffa aggravata, falso materiale, corruzione e autoriciclaggio. Secondo quanto accertato dalle indagini, i principali indagati avrebbero creato un polo universitario con base operativa a Trani che si sarebbe avvalso di una rete composta da oltre 55 punti dislocati su tutto il territorio nazionale, utilizzata per reclutare i clienti. Inoltre sarebbero state costituite società di capitali all’estero (Cipro, Regno Unito e America Latina) solo in apparenza abilitate al rilascio di titoli di studio riconosciuti anche in Italia. Per pubblicizzare i corsi, venivano usati siti internet, pagine facebook e profili whatsapp. La società, inoltre, consegnava pergamene, certificazioni e traduzioni giurate contraffatte, certificati di equipollenza falsamente emessi da atenei italiani (in particolare dall’Università Sapienza di Roma). Le lezioni si sarebbero svolte tramite una piattaforma web appositamente creata, su cui era caricato anche il relativo materiale didattico, di dubbia validità e veridicità. E al termine dei vari corsi sarebbero stati distribuiti i plichi contenenti le pergamene create dall’organizzazione, attestanti il conseguimento del titolo. In alcuni casi la consegna è avvenuta nel corso di eventi appositamente organizzati presso un hotel di Roma. Nel corso delle investigazioni è stato inoltre riscontrato l’inoltro via pec al ministero dell’Università e della ricerca (Mur) di centinaia di richieste di riconoscimento dei titoli universitari, prive di qualsiasi documentazione a supporto, strumentali all’ottenimento di una ricevuta di protocollo generata in automatico dal sistema informatico del dicastero, da utilizzare illecitamente per ottenere un temporaneo incarico di insegnamento.   Corrotto un funzionario albanese La società che forniva titoli falsi per l’accesso ai concorsi nella scuola in un caso avrebbe corrotto un funzionario governativo albanese al fine di garantirsi l’attivazione e la favorevole conclusione del procedimento di accreditamento di un istituto che forniva i corsi. Secondo quanto accertato dalle indagini a seguito di contrasti sorti a causa della spartizione dei profitti illeciti, il gruppo criminale si sarebbe diviso in tre distinte compagini. La prima avrebbe offerto a Trani percorsi formativi professionali attraverso la costituzione di altre imprese e aggregandosi a nuovi soggetti. La seconda avrebbe continuato con il sistema fraudolento costituendo un nuovo polo a Foggia - avvalendosi di ulteriori società e associazioni culturali - e acquisendo le quote di un’università privata albanese per mezzo della quale garantire il conseguimento di titoli di studio sempre senza valore legale in Italia. In questo contesto due degli indagati avrebbero corrotto un funzionario governativo albanese. La terza compagine, grazie anche all’apporto operativo di un avvocato del foro di Reggio Calabria, avrebbe proposto agli alunni truffati la consegna di una pergamena, creata ad hoc, in sostituzione di quella già ricevuta, dietro il pagamento di una somma che oscillava tra i 500 e i 2.500 euro. Ad aiutare gli investigatori sono stati diversi elementi tra cui le testimonianze di circa 50 clienti; le intercettazioni telefoniche e ambientali; la collaborazione del Mur, dell’università Sapienza e degli altri soggetti pubblici e privati richiamati nella documentazione che veniva illecitamente predisposta.   Sequestrati beni per 10 milioni Gli ingenti proventi illeciti conseguiti, quantificati complessivamente in circa 10 milioni di euro, sarebbero poi stati reinvestiti nell’attività criminosa, nell’acquisto di beni mobili (tra cui una Maserati) e immobili. Nel corso delle indagini sono state inoltre sottoposte a sequestro impeditivo le quote sociali di otto imprese, con la conseguente nomina di un amministratore giudiziario. Sono in corso di esecuzione decine di perquisizioni personali e locali in tutta Italia. Read the full article
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