#regno di Sicilia
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Sì, certo, ieri si commemorava la nascita di Isaac Newton, ma oggi chi manda assieme a me un pensiero a Federico II?
#federico ii#frederick ii#26 dicembre#december 26th#hre#regno di Sicilia#frederick ii of swabia#Federico ii di svevia
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Portrait of Charles I of Naples (1227-1285), King of Sicily. French School.
#regno d'italia#Regno di Sicilia#regno di napoli#Regnum Siciliae ultra Pharum#Regnum Siciliae citra Pharum#Regno di Trinacria#Vespri siciliani#Carlo I d'Angiò#re di sicilia#re di napoli#Conte di Provenza#Angioini#re di Albania#Regno d'Albania#Mbretnia Shqiptare#Mbretëria e Arbërisë#Regnum Albaniae#maison d'anjou#anjou#comte d'anjou#capétiens#french school#prince du sang#fils de france#fils et filles de france
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La chiesa madre di San Giovanni Battista a Colletorto, nel Giustizierato di Capitanata
#italia#medioevo#storia#archeologia#arte#cultura#federico ii di svevia#federico ii#frederick ii#storia dell'arte#Carlo d'Angiò#Giovanna d'Angiò#Regno di Sicilia#Regno di Napoli#Longobardia Minor#Angioini#Capitanata
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King Philip II of Spain. Unknown artist.
#monarquía española#reino de españa#felipe ii#rey de españa#rey de inglaterra#rey de portugal#rey de napoles y sicilia#regno di napoli#viva el rey#casa de austria#kingdom of spain#kingdom of england#house of habsburg
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The Archdukes had arrived in Naples, aboard the Elisabetta, on January 30 [of 1859], and immediately went to greet the reigning family of Tuscany, who had arrived there on the 22nd, taking lodgings at the Foresteria, to attend the wedding celebrations [of Prince Francesco of the Two Sicilies and Duchess Marie Sophie in Bavaria], despite the anxiety in which they lived due to the illness of the young Archduchess Anna [née Princess of Saxony], wife of the Crown Prince Ferdinand. The Grand Ducal family was almost complete. In addition to the Grand Duke Leopoldo, the Grand Duchess Maria Antonia, sister of the King [Ferdinando II of the Two Sicilies], the hereditary Archduke and Archduchess, Archduke Carlo and Archduchess Maria Luisa, the last of the six children of Leopold II, there was a numerous retinue [sic Carlo and Maria Luisa had two younger brothers]. Archduchess Anna, 23 years old, younger sister of the Duchess of Genoa, who had fallen ill in Florence, was treated by the Florentine doctors Capecchi and Del Punta. The Grand Duke had asked the King for a good Neapolitan doctor, and the King had sent Don Franco Rosati to Florence, in whom he placed much greater trust than in Ramaglia. Under Rosati's care, the princess seemed cured; but when the Grand Ducal family came to Naples, the illness reappeared and soon degenerated into tuberculosis. Rosati, who lived in the same palace of the Foresteria, also treated her in Naples, and Del Punta was also called from Florence, who arrived only in time to sign the last bulletins with Rosati. She died on February 10; and, struck by such a grave misfortune, the family no longer had the courage to remain in Naples, and so, two days after her death, they had the body of the poor Archduchess transported to Florence, where she was buried in San Lorenzo, the grieving family left on the morning of February 21, embarking for Livorno. The Neapolitans were amazed by the simplicity of the Tuscan Court. (...) A long journey from Florence to Naples, a serious domestic misfortune and a melancholy return, without seeing the Sovereigns, nor the spouses, deeply moved the souls of the Neapolitans.
de Cesare, Raffaele (1900). La fine di un regno (Napoli e Sicilia). Parte I Regno di Ferdinando II (machine translation, keep in my mind that nuances may/have been lost)
Pictured: Anna, Hereditary Grand Duchess of Tuscany and Archduchess of Austria, by Philipp-Albert Gliemann, unknown date (Via Wikimedia Commons).
#a loooong time ago i was asked if i had info about anna - here's something i came across#(carlo is archduke karl salvator btw)#anna of saxony hereditary grand duchess of tuscany#la fine di un regno (napoli e sicilia)#historian: raffaele de cesare
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Spesso si legge nei libri di testo scolastici ed universitari, e si sente anche dire (attraverso i “media” mainstream), dai pennivendoli alla Cazzullo, che l'Italia nel 1861 fu RIUNIFICATA (come dico io: “nata sotto il segno dei Pesci!”).
Mai una bufala così grande è stata assurta a verità assoluta e da dare in pasto ai farlocchi, cosa che non succede altrove. L’Italia come entità politica unificata non è mai esistita prima del 1861, se non come idea culturale o geografica.
Durante il periodo romano, “Italia” era inizialmente un concetto geografico che indicava la penisola italica, ma non una nazione unificata.
Con il tempo, specialmente dopo la guerra sociale (91-88 a.C.), gli abitanti della penisola ottennero la cittadinanza romana, e l’Italia divenne una “regione” centrale dell’Impero.
Tuttavia, l’Impero era vasto e multietnico, e non si poteva parlare di un’unità politica esclusivamente italiana.
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la penisola fu divisa tra regni barbarici, domini greci detti “bizantini” e successivamente in una miriade di staterelli e città-stato al centro nord, mentre al sud della penisola italica, nel 1130, si andava costituendo il prototipo del primo stato nazionale europeo, il Regno Di Sicilia.
Quindi di quale riunificazione parlate?
Vi siete inventati anche un popolo "italiano" che, nella realtà dei fatti, non è mai esistito.
-Pat Adam @AdamartArt
(Mappa del 1200)
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primis quella che garantisce il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Nessuna nazione intervenne, nonostante le Cancellerie ne fossero informate, questo fa capire che vi fossero accordi e una rete di relazioni segrete. L’unificazione italiana fu la distruzione voluta,
programmata e sistematica, che ridusse il più florido Stato della penisola nella miseria e nel degrado. Le fabbriche furono chiuse, in alcuni casi distrutte, i giovani coscritti o deportati, furono inviati i soldati piemontesi a reprimere il dissenso e compiute stragi indescrivibili. È ora di smontare il “falso storico” che ha generato il luogo comune più deleterio che il Paese abbia conosciuto: il Nord industriale ed evoluto, il Sud agricolo e arretrato. In realtà questo è stato l’obiettivo di casa Savoia e del suo padrone Cavour.
Scorrettamente chiamata dalla storiografia “questione meridionale”, essa emerse dopo l’unità, non prima. Quando l’opera di distruzione del tessuto sociale e produttivo del Sud, diede i suoi amarissimi frutti. Il Regno delle Due Sicilie era lo Stato più industrializzato d'Italia e il terzo in Europa, dopo Inghilterra e Francia, così risultò dalla Esposizione Internazionale di Parigi del 1856. I settori principali erano: cantieristica navale, industria siderurgica, tessile, cartiera, estrattiva e chimica, conciaria, del corallo, vetraria, alimentare.
Nel periodo borbonico (1734-1860) la popolazione si era triplicata, determinando lo Stato preunitario più esteso e popolato. Per la sua politica di sviluppo Ferdinando II formò grandi aziende statali, e incentivò anche il sorgere di aziende con capitale suddiviso in azioni di piccolo taglio, per attrarre nella proprietà anche i ceti medi. Nel 1851 fu istituita la "Commissione di Statistica generale pe' reali domini continentali" con lo scopo di guidare la politica economica del Paese, cui si affiancavano le Giunte Statistiche costituite in ogni provincia e circondario. Molti imprenditori nazionali ed esteri accorsero nel Regno. L’economia ferdinandea privilegiava lo sviluppo occupazionale senza spostare masse dai luoghi di origine. Fu uno sviluppo guidato dallo Stato. La propaganda liberale si scagliò con tutte le sue forze contro tale modello e mise in moto una macchina da guerra che distrusse tutte le industrie del Sud e rubò tutto persino i beni personali dei Borbone: con un decreto del 23 ottobre vennero confiscati alla Casa reale 6 milioni di ducati, anche i depositi che Francesco II
aveva lasciato a Napoli, dopo averli ripresi dal Banco d’Inghilterra, a dimostrazione di quanto fosse legato al suo popolo, lui che napoletano lo era per davvero. Cominciò così, dopo il saccheggio del 31 maggio 1860 del Banco di Sicilia da parte di Garibaldi (80 milioni di euro, 150 miliardi di vecchie lire, quasi la metà delle spese per la guerra franco-piemontese contro l’Austria dell’anno precedente), la corsa alla spogliazione e all’arricchimento. Il Regno delle Due Sicilie, nel settore dell’industria, contava 2 milioni di occupati a fronte dei 400.000 della Lombardia, possedendo 443 milioni di moneta in oro, ovvero l’85% delle riserve auree di tutte le province. Oltre 80 milioni furono prelevati, in una anno, da Torino dalle casse dell’ex Regno delle Due Sicilie. Pochissimi investimenti al Sud ma tante ruberie. La boria e lo sprezzo verso le città del Sud, caratterizzava chiunque arrivasse da Torino. Il luogotenente Farini (in seguito Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia tra il 1862 e il 1863), il dittatore che entrò a Modena il 19 giugno come vincitore di un guerra che non aveva combattuto (gli Estensi fuggirono prima dell’arrivo delle truppe francesi e piemontesi), così si espresse riferendosi a Napoli: “Altro che Italia! Questa è Africa, i beduini a riscontro di questi caffoni, son fior di virtù civile”. Va da sé che il controllo delle ex Due Sicilie fu difficile, regnò la precarietà e l’insicurezza, così cominciò l’atroce guerra civile del brigantaggio. Uno Stato così imposto non poté che generare solo ingiustizie e latrocini. Fu messo in opera un preciso disegno della politica vessatoria di Torino: il Nord
si sviluppò ai danni del Sud. Il primo doveva avere il monopolio dell’industria italiana, al secondo invece fu destinato un ruolo agricolo e di fornitore di mano d’opera per l’industria del Settentrione. “Il dissidio tra la Lombardia e molta altra parte d’Italia ha origini in una serie di fatti: soprattutto il sacrificio continuo che si è fatto degli interessi meridionali”(dalla lettera di Nitti del 5 luglio 1898 a Giuseppe Colombo, direttore del Politecnico di Milano). Carlo Bombrini (banchiere, imprenditore, fondatore della banca di Genova) uomo di fiducia di Cavour e redattore del piano di “riequilibrio” economico post-Unità, disse: “Il Sud Italia non dovrà essere più in grado di intraprendere”. A questo punto riporto uno dei casi più eclatanti di distruzione industriale: l’Officina di Pietrarsa. A Pietrarsa, località posta nella zona orientale della città di Napoli, era attiva la più grande industria metalmeccanica d'Italia, estesa su una superficie di oltre tre ettari. Era l'unica fabbrica italiana in grado di costruire motrici a vapore per uso navale. A Pietrarsa fu istituita anche la
[continua su X]
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Lo ricordiamo a tutti, in modo che tutti possano di nuovo far finta di dimenticarselo.
-Castrese
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LA BATTAGLIA DI LEPANTO - Nel 1500 la distribuzione della popolazione siciliana era molto diversa dall’attuale. I grandi paesini presenti lungo la costa con la loro caotico agglomerato di case e palazzi, non esistevano a causa delle terribili scorrerie dei pirati turchi. I paesi e paesini fortificati, sorgevano nell’entroterra, spesso su colline o in luoghi ben difendibili. Lungo la costa vi era un sistema di sorveglianza con circa 600 torri che monitoravano il mare a scoprire per tempo la presenza dei temuti pirati. Nei grandi porti e presso i villaggi più grossi, vi erano forze d’intervento che dovevano attaccare le navi dei pirati appena avvistate o i turchi sbarcati che iniziavano una scorreria verso l’interno. I temuti pirati e le loro scorrerie erano una minaccia costante e imprevedibile.
Per questo motivo, quando papa Pio V chiamò alla Guerra Santa contro la flotta turca di Alì Pascià, per soccorrere la guarnigione Veneziana assediata a Cipro, l’adesione da parte dei siciliani fu immediata. Subito fu armata una flotta con i soldi delle città e dei nobili siciliani. Armare una galera all’epoca, non era una cosa semplice ed immediata. I turchi ed i veneziani avevano non solo enormi arsenali ma flotte già pronte conservate in enormi magazzini. Inoltre avevano un sistema di arruolamento collaudato e sicuro per cui non avevano problemi a trovare i rematori (che solo in piccola parte erano galeotti o prigionieri di guerra), gli equipaggi ed i soldati. È da notare quindi la velocità con cui la flotta siciliana (circa una decina di galee) fu allestita e armata, mentre quella spagnola dovette approntarsi con difficoltà recuperando dagli stati italiani materiale per le armi e gli scafi, rematori e marinai.
A Messina si riunì quindi nel luglio del 1571, la grande flotta di poco più di 200 galere formate da veneziani, pisani e genovesi sotto le insegne papali, quindi i cavalieri di Malta, gli spagnoli da Barcellona, quelli del regno di Napoli e la flotta siciliana guidata dall’ammiraglia, la Capitana di Sicilia. La flotta turca, conquistata Cipro nell’agosto di quell’anno, dopo aver messo a ferro e fuoco il basso Adriatico attaccando e conquistando le roccaforti veneziane nella Dalmazia e in Albania, si stava ritirando verso Lepanto, stanca e corto di munizioni, pronta a ricevere l’ordine di ritorno a Istanbul per porre le galere in darsena dato che non potevano affrontare le tempeste autunnali.
Quell’ordine però non arrivò mai.
La flotta della Lega Santa si diresse verso settembre contro la flotta nemica cercando di ingaggiar battaglia prima che il tempo peggiorasse. Le due flotte si ritrovarono a Lepanto, in una insenatura riparata, base dei turchi ma adatta al movimento delle duecento navi della Lega Santa che dovevano affrontare le circa trecento degli avversari. Disposti gli schieramenti gli uni di fronte agli altri, Alì Pascià prese l’iniziativa e puntò la prua direttamente contro la nave di Giovanni d’Austria. La flotta turca lo seguì muovendosi velocemente con il vento a favore. La sua ala destra, guidata dall’esperto capitano Shoraq detto Scirocco, si scontrò contro le navi veneziane e spagnole agli ordini del veneziano Barbarigo che in un primo tempo sembrò soccombere all’urto. Dopo l’arrivo delle navi di riserva venute in soccorso, i veneziani riuscirono a capovolgere la situazione e a catturare e uccidere il comandante avversario.
Sull’ala sinistra i turchi erano principalmente pirati algerini, astuti ed esperti che cercarono di circondare le navi dell’ammiraglio Doria che invece si defilò andando verso il mare aperto inseguito dai pirati che catturarono solo qualche nave rimasta indietro.
Ali Pascià notò che molto avanti rispetto alla linea su cui si era distribuita la flotta nemica erano state disposte sei grosse navi da trasporto chiamate galeazze, lente e tozze, con la murata tanto alta che ne impediva l’abbordaggio. Le galeazze erano scortate dalle galee con le vele rosse della flotta siciliana quasi che quel pugno di navi volesse fermare l’avanzata della potente flotta turca.
Alì Pascià, decise di ignorare quel che considerò un diversivo e si diresse prontamente contro l’ammiraglia della flotta nemica. Le navi che lo seguirono approcciarono le galeazze scoprendo che, contrariamente all’uso di allora, quelle grosse e goffe navi erano dotate di cannoni disposte lungo tutto il loro perimetro. Con una potenza di fuoco superiore di sei o sette volte quella di una normale galera, le galeazze incominciarono a bombardare dall’alto i vascelli nemici, distruggendo e affondando navi su navi e scompigliando la flotta turca che perse slancio e forza. A bordo delle galeazze Giovanni d’Austria aveva fatto collocare gli archibugieri che decimarono gli equipaggi di ogni nave nemica che si avvicinava a loro.
Le galeazze, seguite dalla flotta siciliana, incominciarono a girare in tondo rendendo il tratto di mare vicino a loro, un inferno. La Sultana, l’ammiraglia turca raggiunse velocemente Giovanni d’Austria che vedendo arrivare i nemici, lanciò la sua nave contro quella di Alì Pascia così che la sua guardia personale, il Tercio de Cerdena, una compagnia formata da veterani di Castiglia ed Estremadura di base in Sardegna, andò all’arrembaggio della nave avversaria. I castigliani si trovarono di fronte gli giannizzeri turchi, un corpo scelto formato da slavi cresciuti ed addestrati ad Instabul.
Lo scontro fu durissimo.
Per tre volte gli spagnoli andarono all’arrembaggio e furono cacciati indietro, Giovanni d’Austria fu ferito e spesso sul punto di soccombere. Le navi nemiche si concentrarono intorno alla loro ammiraglia, lo stesso fecero quelle della Lega Santa. Ormai era una lotta all’ultimo sangue.
Gli esperti soldati combattevano ormai all’arma bianca, i marinai, i rematori che spesso erano uomini della strada o gente di campagna arruolata a forza o per debiti, si erano uniti a loro e lottarono con rabbia e determinazione. Ormai tutti combattevano per sopravvivere tra i morti e i feriti, in un intreccio di legni rotti, carni tranciate, sangue e fumo di polvere da sparo.
La grande santa battaglia diventò una caotica, sanguinosa, terribile carneficina.
Le navi dell’ala sinistra turca, vedendo l’inutilità di inseguire l’ammiraglio Doria tornarono su i loro passi e veleggiarono verso l’ammiraglia a darle manforte. Se avessero raggiunto il groviglio di navi nel centro della formazione, le truppe spagnole avrebbero avuto la peggio. Fu questo quello che pensò Giovanni Cardona, capitano dell’ammiraglia siciliana, che subito lasciò le terribili galeazze e incrociò con la sua Capitana, le navi nemiche attaccandole, incurante della superiorità numerica, del mitragliare delle archibugiate e del fuoco delle cannonate. Ferito più volte con i suoi uomini riuscì a fermarle spingendole lontano dalla mischia.
In quel momento, le navi pisane, vittoriose sull’ala destra dei turchi, riuscirono a farsi largo tra il groviglio di remi rotti e alberi maestri tranciati dai cannoni ed arrivarono nella mischia delle ammiraglie, buttandosi all’arrembaggio di quella. Ebbero la meglio sui giannizzeri sopravvissuti agli scontri con i castigliani e catturarono, uccidendolo, Alì Pascià. Alla vista della testa del loro ammiraglio che dondolava sul pennone della sua ammiraglia, le navi turche superstiti (ormai poche e malconce) si dileguarono, o almeno ci provarono a causa delle galeazze che le aspettavano al varco, lasciando dietro di loro un mare di relitti e di sangue.
La vittoria fu una di quelle più pubblicizzata dei suoi tempi. Libri, poesie, grandi quadri, narrazioni epistolari si sparsero per tutta Europa a raccontare la grandiosa vittoria e l’immensa carneficina. I turchi rallentarono la loro pressione via mare ed aumentarono quella via terra dirigendo le loro truppe alla volta di Vienna.
In Sicilia l’evento ebbe una grande risonanza. Prova ne è la descrizione della battaglia rappresentata negli stucchi di Santa Cita e persino nelle carceri dello Speri dove un giovane condannato disegnò la battaglia su indicazione di un veterano. Messina, che era una porta del mediterraneo orientale, grata a Giovanni d’Austria, fece fondere una statua in bronzo che lo ricordasse e celebrasse. Le galeazze cambiarono il modo di concepire la guerra per mare. Presto vascelli dalle alte murate e con un gran numero di cannoni sostituirono le galere ed i pirati turchi furono pian piano eliminati, cosa che permise lo sviluppo dei paesi costieri siciliani e, ai Principi di Palermo, di iniziare a costruire le bellissime ville di Bagheria.
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Quasi Napoletani
In queste settimane è possibile vedere una nuova versione per la Tv de Il Conte di Montecristo, capolavoro di Alexandre Dumas. Il romanzo fu pubblicato a puntate sul Journal des débats dal 1844 al 1846, ottenendo incredibile successo, tanto che oggi è considerato uno dei romanzi più famosi di tutto il mondo.
Parte della trama è ambientata in Italia e quando negli anni '40 dell'800 inizia a scrivere, in pratica coevi, i suoi due grandi romanzi, Il Conte e I Tre Moschettieri, Dumas era a Firenze, e la prima stesura de Il Conte partiva da Roma e non da Marsiglia, come poi avverrà.
Il rapporto con l'Italia di Dumas era fortissimo, in particolare con una città: Napoli.
Dumas nel 1835, in lungo viaggio nel Mediterraneo, vorrebbe visitare Napoli. Uso il condizionale, perchè il suo nome non è ben voluto: infatti un funzionario gli negò il lasciapassare per andare da Roma in Sicilia, ma Dumas si procurò un passaporto falso e viaggiò sotto un altro nome, Guichard, e arrivò a Napoli, da dove scrisse una lettera, quasi di sfida, a quel diplomatico che gli aveva negato il visto. Tra l'altro, i Dumas ebbero già a che fare con il Regno di Napoli: suo padre, il Generale Thomas Alexandre Davy de la Pailletterie (figlio di uno scapestrato Marchese e di una schiava nera di Haiti), cambiò il suo cognome, a seguito di contrasti con il padre, assumendo quello della madre, detta genericamente femme du-mas ovvero la donna della masseria. Il Generale, un colosso mulatto alto quasi due metri, molto somigliante al personaggio di Porthos de I tre Moschettieri, aveva partecipato alla spedizione in Egitto di Napoleone del 1799, ma durante la Campagna litigò con lui e lasciò l’Egitto con alcuni compagni fra i quali il celebre geologo Dolomieu (scopritore del minerale che ha dato nome alle Dolomiti) su una nave che una tempesta spinse verso Taranto. Pensava che la città fosse in mano ai Rivoluzionari che in quell’anno, il 1799, avevano costretto il Re a fuggire in Sicilia, ma purtroppo per lui, nel frattempo, Taranto era stata riconquistata dalle forze fedeli a Ferdinando IV, per cui fu catturato insieme ai compagni e messo in prigione nel castello in condizioni disumane e tale immagine avrebbe ispirato a Dumas la fortezza in cui fu rinchiuso Edmond Dantes, il Conte di Montecristo: il castello di If. Rimase due anni in prigione fra Taranto e Brindisi, lo torturarono e vi furono anche tentativi per avvelenarlo e quando fu rilasciato era molto malato: ne uscì storpio, sordo, mezzo cieco, malato dallo stomaco e morì quando il figlio Alexandre non aveva compiuto ancora 4 anni.
Alexandre arrivò a Napoli nel 1835 e fu ospite all’Albergo Vittoria, di proprietà del signor Martino Zir, nell’omonima Piazza in un appartamento dal quale aprendo le finestre vede la Riviera di Chiaia, Capri, Posillipo, Santa Lucia. Dumas, impaurito che la polizia lo scovasse chiede a Zir un mezzo comodo per girarla: l'albergatore gli fornisce un Corricolo, un piccolo calessino, e Il Corricolo è il nome che Dumas darà ad una sorta di satirica guida della città, fatta di falsi storici, aneddoti, lazzaroni, iettatori, Santi. Fu scovato dalla Polizia e solo l'intervento dell'Ambasciata Francese lo salvò dall'arresto.
Ma vivrà ben altro momento nel 1860. Fervente garibaldino, scortò di persona Garibaldi, prese parte alla Battaglia di Calatafimi e risalì con lui parte della Penisola. Fondò un quotidiano garibaldino, come promesso al Generale Garibaldi, che gli suggerì il nome, L'Indipendente. Il quotidiano introdusse nella stampa italiana delle novità: nella parte bassa della prima pagina il romanzo d'appendice a puntate, la raccolta della pubblicità fatta in proprio, il prezzo basso, sconti e omaggi agli abbonati. La sede del giornale si trovava a via Chiatamone nel Boschetto reale, che è stato abbattuto quando ad inizio del XX secolo si sono costruiti i palazzi sul Lungomare. Dumas abitava anche lui nella palazzina e quella stradina che scende dal Chiatamone a via Partenope oggi ha il suo nome. Il quotidiano veniva scritto in francese e poi tradotto e stampato, e tra i collaboratori di Dumas vi era Eugenio Torelli Viollier, che quando Dumas partì per Parigi nel 1864 lo seguì, per poi ritornare in Italia dove nel 1876 fondò, a Milano, il Corriere della Sera.
Dumas dedicò numerosi scritti a Napoli, tra cui il colossale La Sanfelice, opera monumentale (1600 pagine, per lui una consuetudine anche perchè fu il primo a servirsi di numerosi e fidati scrittori, il più famoso era Auguste Maquet) dedicata alla Rivoluzione Napoletana del 1799, tanto breve quanto straordinaria.
Scrisse il giorno della partenza:
Napoli è il fiore del paradiso. L’ultima avventura della mia vita […] lascio la città più bella del mondo.
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Ricevo da un mio amico siciliano di Messina:
Nelle scorse settimane, in un condominio adiacente a quello ove abito, sono stati installati un gruppo di pannelli fotovoltaici, tra le mie amare risate.
Per tale installazione è stata necessaria la presenza di una gru di dimensioni assai generose, gru che è dovuta intervenire nella zona per ben 2 volte; la prima per installare la struttura reticolare di supporto, la seconda per l'installazione vera e propria dei pannelli.
Risata amara resa più amara dalla posizione e dalla tipologia di installazione, installazione avvenuta su una terrazza condominiale ubicata in una posizione altimetrica inferiore rispetto ai condomini circostanti, condizione che pone ovviamente in ombra i pannelli FV.
Ancor più grave, i pannelli non godono di alcun orientamento sull'orizzonte, né verticale, né orizzontale; sono montati praticamente "coricati" e paralleli al piano, un assurdo rispetto alle prescrizioni fisiche.
Incuriosito, domando al "legittimo proprietario" di così elevata stortura, il costo di questa operazione. Soddisfattissimo mi risponde: "Nulla! Solo le spese per l'istruzione della pratica! Ed il condominio non si è nemmeno potuto opporre!". MAFIA! Penso e non dico, io!
Veniamo all'atto pratico; per muovere la gru indicata il costo è di 2,5 mila euro/giorno comprese le operazioni dell'operatore di movimento ed il supporto del vettore di trasporto materiali, la creazione dell'impianto elettrico è di, circa, 3 mila euro (dal piano V al piano terra), il costo secco e senza telaio in alluminio dei pannelli FV è di, circa, 3 mila euro per kWp installato, quindi 30 mila euro per 10 kWp! Ignoto il costo del telaio di supporto, ma non inferiore alle 5 mila euro, date dimensioni e posizioni occupate. L'impianto non sembra dotato di accumulo, quindi i costi dovrebbero terminare qui e siamo tra 40 mila e 50 mila euro per servire una sola famiglia nel pieno disprezzo della collettività e delle volontà individuali del condominio!
Alla precisa domanda: "Perché non lo hai fatto a tue spese?!", la risposta è stata ovvia: "A mie spese non lo avrei MAI fatto, costa troppo!".
Ecco le deficienze di una serie di norme dello Stato e di imposizioni della UE: a proprie spese il condomino non avrebbe MAI installato l'impianto, perché ritenuto troppo costoso.
Quindi, non diversamente dal superbonus di grillina memoria, lo Stato sovvenziona opere a costo della collettività e per la collettività non producono alcun vantaggio/ricchezza.
Se realmente l'installazione dei sistemi fotovoltaici/eolici fosse stata conveniente, nessuno avrebbe esitato nell'investire (non sarebbe stato un costo!) in tali opere, nella certezza di un ritorno a medio termine. La realtà dell'esperienza storica indica un tempo medio di 32 anni per il rientro dei costi secchi del solo impianto, senza il supporto di opere accessorie diverse, che possono ridursi a 27 anni se le installazioni vengono effettuate in aree particolarmente irraggiate (Sicilia/Sardegna) ed arrivare a 36 anni per aree come la Lombardia, il Piemonte, il Friuli, giusto per fare degli esempi. Osservando all'estero, in Germania o Regno Unito il fotovoltaico sarebbe del tutto inutile alla causa, con un fattore di capacità di appena il 6%!
La vita media della migliore serie dei pannelli FV non arriva a 30 anni, fermandosi addirittura a 22 anni, ma molti dei pannelli FV installati mostrano problemi già dopo i primi 10 anni di esercizio (in Germania una serie di pannelli da 4 miliardi di euro smise di funzionare dopo appena 2 anni dall'installazione).
Purtroppo queste spese gravano su tutti, Industrie in primis, alla voce ONERI DI SISTEMA, che pesano per oltre il 51% del costo della bolletta, e SPESE PER IL TRASPORTO DELL'ENERGIA, che pesano per un ulteriore 3% - 7% del costo della bolletta funzionalmente alla tipologia di contratto. E poi si fallisce tutti...
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Napoli - Francesco Laurana - Maschio Angioino - Arco trionfale - 1479
Fondata dai Greci di Cuma, i sovrani che nei secoli si sono susseguiti sul trono di Napoli sono stati:
i Normanni:
- Ruggero I d’Altavilla conquistò la Sicilia nel 1091;
- Ruggero II (1130 - 1154): fu il primo re di una Sicilia multietnica e multireligiosa avendo accorpato in un unico regno tutti i possedimenti normanni nell’Italia Meridionale conquistando Napoli nel 1137;
- Guglielmo I (1154 - 1166)
- Guglielmo II (1166 - 1189): eresse il Duomo di Monreale;
- Tancredi (1189 - 1194)
- Guglielmo III (1194)
- Costanza d’Altavilla (1194 - 1197)
gli Svevi:
- Federico II (1198 - 1250) Stupor Mundi: a Napoli istituì l’università nel 1224;
- Corrado (1250 - 1254): dovette confrontarsi con il potere del fratellastro Manfredi;
- Corradino (1254 - 1258): fu sconfitto nella battaglia di Tagliacozzo e fatto imprigionare a Castel dell’Ovo e decapitare da Carlo d’Angiò nella piazza del mercato a Napoli, poi sepolto nella vicina Chiesa del Carmine. La dinastia degli Svevi scomparve con la morte di Manfredi nel 1266.
gli Angioini:
- Carlo I (1266 - 1285): fratello di Luigi IX il Re Santo, Conte d’Anjou, ricevette in vassallaggio la Sicilia e Napoli dal Papa che difese dagli Hohenstaufen. Edificò il Maschio Angioino, con uno stile che richiama il castello di Avignone, nel 1282;
- Carlo II (1285 - 1309): dovette rinunciare al trono di Sicilia dopo la rivolta dei Vespri Siciliani nel 1302;
- Roberto I (1309 - 1343): figlio di Maria d’Ungheria sepolta nella Chiesa di Donnaregina, fu apprezzato da Petrarca e amante della cultura e delle lettere;
- Giovanna I (1343 - 1382): fu fatta assassinare dal ramo di Durazzo degli angioini e le succedette
- Carlo (1382 - 1386)
- Ladislao (1386 - 1414)
- Giovanna II (1414 - 1435)
- Renato I (1435 - 1442)
gli Aragonesi:
- Alfonso I d’Aragona (1442 - 1458): sconfisse Renato d’Angiò e unì il tono di Napoli a quello di Sicilia e ai possedimenti della Sardegna e della Spagna occidentale. Combattè contro Milano e Genova e dotò il Maschio Angioino dell’attuale arco di trionfo;
- Ferdinando I detto Ferrante (1458 - 1494): all’inizio del suo regno dovette fronteggiare la rivolta angioina e successivamente sedò la rivolta dei baroni e si alleò con gli Sforza contro il re di Francia Carlo VIII d’Angiò. Del suo tempo la Chiesa del Gesù Nuovo;
- Alfonso II: sposò Ippolita Maria Sforza, ma dovette abdicare a causa della calata di Carlo VIII;
- Ferrandino (1494 - 1496)
- Federico I (1496 - 1503) durante il cui regno vi fu la conquista e poi la cacciata di Luigi XII re di Francia;
- Ferdinando III (1504 - 1516) dopo il quale il Regno di Napoli fu incluso in quello di Spagna prima sotto la casata degli Asburgo (con la breve parentesi della Repubblica di Masaniello fra il 1647 e il 1648) poi sotto quella dei Borbone (1700 - 1713) ed ancora sotto quella degli Asburgo d’Austria (1713 - 1734).
i Borboni:
- Carlo I (1734 - 1759): già Duca di Parma, conquistò e riunificò il Regno delle Due Sicilie anche grazie alla madre Elisabetta Farnese, seconda moglie del re di Spagna, che da Madrid influenzò la prima parte del suo regno. Riformò con Bernardo Tanucci l’amministrazione, promosse la musica (fondò il Teatro di San Carlo nella patria di Paisiello e Pergolesi), l’arte (promosse la ceramica di Capodimonte, fece costruire al Vanvitelli la reggia di Caserta del 1751 e quella che oggi è Piazza Dante oltre alla Reggia di Capodimonte dove installò la collezione Farnese) e sostenne gli scavi a Pompei ed Ercolano che iniziarono nel 1738);
- Ferdinando (1759 - 1799 e 1816 - 1825): sposò una figlia di Maria Teresa d’Austria, Maria Carolina che lo allontanò dall’influenza spagnola di Bernardo Tanucci, promosse la Marina Militare (nel 1787 fu fondata la Nunziatella), ma dovette subire una rivoluzione filo-francese (Eleonora Fonseca Pimentel, Mario Pagano, …) nel 1799 contrastata dal Cardinale Ruffo e da Fra Diavolo e la conquista napoleonica che insediò Giuseppe Bonaparte dal 1806 al 1808 e Gioacchino Murat dal 1808 al 1815 prima di diventare, con il Congresso di Vienna, Re delle Due Sicilie ed essere sepolto al Monastero di Santa Chiara;
- Francesco (1825 - 1830)
- Ferdinando II (1830 - 1859): fondò la prima ferrovia d’Italia (1839), ma fu reazionario e soprannominato il Re Bomba per come represse i moti rivoluzionari del 1848 a Messina;
- Francesco II (1859 - 1861): era figlio di Ferdinando II e di Maria Cristina di Savoia e sposò la sorella di Sissi, Maria Sofia di Baviera.
Con l’Unità, Napoli confluì nel Regno d’Italia: ecco perché la statua di Vittorio Emanuele II è presente a Palazzo Reale.
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ADE 17 FCE a ADRANO (Sicilia - Catania) 12 novembre 2019 por Frank Andiver Por Flickr: Siamo in Sicilia e durante una piovosa giornata di novembre 2019, mentre vediamo scendere da Bronte verso Catania , questa automotrice Ade 17 della FCE (Ferrovia Circumetnea), tra i tornanti ferroviari, tipici di questa zona, regno della pietra lavica e delle piante di pistacchio.
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Portrait of Infante Philip, Duke of Calabria (1747-1777). By Giuseppe Bonito.
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"A Ebrei e Saraceni concediamo le medesime garanzie perché non vogliamo che innocenti vengano perseguitati soltanto perché ebrei o musulmani". Federico II, Costituzione del Regno di Sicilia, 1231. Stupor Mundi, re di Sicilia e Napoli, Imperatore del Sacro Romano Impero, odiato da papi, vescovi e preti, pluri scomunicato. Fondò l'Università laica degli studi di Napoli, fondò la Scuola siciliana, prima in italiano. Poeta egli stesso, autore di trattati di ornitologia e falconiera, edificatore di castelli e monumenti civili, unificatore delle leggi del Regno che andava da Malta agli Abruzzi. Praticò la pace, stipulando col sultano un trattato a tutela dei pellegrini di tutte le confessioni in quella che era chiamata Terra Santa, contravvenendo al papa che voleva nella crociata un bagno di sangue e, per questo, lo scomunicò definitivamente.

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Ahi tristi noi! Poi che morìr negli orti, Le malve, o l'appio verde, o il crespo aneto, Rivivono, e rinascono un altr'anno. Ma noi ben grandi, e forti uomini, e saggi Dormiam, poichè siam morti, in cava fossa Lunghissimo, infinito, eterno sonno; E con noi tace la memoria nostra. Or tu sotterra in tenebroso loco Sempre muto starai. Pure alla rana Donàr le ninfe interminabil canto: Non la invidio però, che ha rozza voce. […] Se come Orfeo potessi, o come Ulisse, O come Alcide, scendere in Averno, Anch'io forse verrei di Pluto al regno Per veder se tu canti a Dite ancora, E per udir che canti. (…)
(Da Lamento funebre per Bione, di Mosco, traduzione di G. Leopardi)
Bione fu poeta, musicista e guardiano di armenti; visse in Sicilia nel II secolo a. C.; morì avvelenato: in questo Lamento viene compianto dal suo "collega" e amico Mosco.
Anch'io, idealmente, dico a Giacomo Leopardi che "se potessi scendere in Averno, verrei di Pluto al regno/per veder se tu canti ancora, e per udir che canti."

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