#questione del confine orientale
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La questione del confine orientale nonostante fosse una questione marginale nel grande progetto di ristrutturazione democratica e di riacquisto del
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L'invasione italiana dell'Etiopia nel 1935
La guerra d'Etiopia, nota anche come campagna d'Etiopia, fu un conflitto armato che si svolse tra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936 e vide contrapposti l'Italia e l'Etiopia. L'invasione italiana dell'Etiopia fu il risultato di una politica di espansione coloniale dell'Italia fascista, guidata dal Duce Benito Mussolini. L'interesse dell’espansione coloniale italiana crebbe progressivamente agli inizi degli anni Trenta, principalmente per gli ideali del Duce, che voleva la ricostruzione di un’Impero Italiano sullo stile di quello Romano. A questo, inoltre, si aggiungeva il problema emigratorio italiano, che sarebbe stato facilmente arginabile con la conquista di colonie. L'invasione dell'Etiopia fu preceduta da una serie di provocazioni e incidenti di confine tra le due nazioni. Nel dicembre 1934, l'Etiopia aveva chiesto l'intervento della Società delle Nazioni per risolvere il contenzioso di Ual Ual e condannare l'Italia; dopo aver ripetuto tale richiesta a gennaio e marzo 1935, solo il 25 maggio fu convocato il Consiglio della Società delle Nazioni. Tuttavia, l'Italia non si sentì vincolata dalle decisioni della Società delle Nazioni e decise di procedere con l'invasione.Il 2 ottobre 1935, l'Italia dichiarò guerra all'Etiopia. La notizia inizialmente passò quasi inosservata dall'opinione pubblica, solo successivamente l'episodio fu ingigantito dalla propaganda fino a farne la provocazione che doveva giustificare la guerra. Il 30 dicembre Mussolini indirizzò alle autorità del regime un promemoria segreto - Direttive e piano d'azione per risolvere la questione italo-abissina - con il quale dava avvio alla mobilitazione vera e propria, ponendo l'autunno 1935 come data per l'inizio delle operazioni. L'Etiopia, che all'epoca era uno dei pochi paesi africani a non essere stata colonizzata, era mal equipaggiata e mal preparata per la guerra contro l'Italia. Da gennaio a luglio 1935, l'Etiopia poté importare dall'Europa, prima che entrasse in vigore l'embargo decretato dalla Società delle Nazioni, circa 16.000 fucili, 600 mitragliatrici leggere e mezzo milione di proiettili, cifre del tutto insufficienti per contrastare una nazione industrializzata come l'Italia. Con la fine della stagione delle piogge, i due corsi d'acqua non rappresentavano un grosso ostacolo, e oltre centomila uomini iniziarono a penetrare in Etiopia su un fronte di circa settanta chilometri, protetti dal cielo da 126 aerei e dotati di 156 carri armati, 2.300 mitragliatrici e 230 cannoni di vario calibro, un armamento considerevole per una guerra coloniale. Sulla destra il II Corpo d'armata del generale Pietro Maravigna era diretto su Adua. La guerra fu caratterizzata da numerose atrocità e violenze da entrambe le parti. L'Italia utilizzò anche armi chimiche, come il gas mostarda, contro la popolazione etiope. Nel maggio 1936, le truppe italiane entrarono nella capitale Addis Abeba, conquistando nelle successive 48 ore l'Abissinia. Il 9 maggio 1936 terminò la guerra, con Mussolini che proclamò la nascita dell'Impero Italiano e della A.O.I (Africa Orientale Italiana), composta da Eritrea, Somalia e Abissinia. Fonti: - Le pietre raccontano - La guerra d'Etiopia (Africa) - Wikipedia - Guerra d'Etiopia - Paranoie fasciste? Il volontariato in favore dell'Etiopia durante la guerra del 1935-1936 Read the full article
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@books-typo-and-so-on non so dirti nello specifico quante e quali esistono (non ho mai dato un esame di dialettologia anche se magari il giorno che riesco a uscire da qua e fare una bella magistrale potrei pensarci), e in generale alla fine ogni classificazione segue la sua utilità e i suoi criteri, ma di norma i gruppi principali che vengono seguiti sul territorio italiano includono:
un gruppo galloitalico che ha per confine meridionale gli appennini (e il mar ligure? i dialetti della liguria spesso sono raggruppati qua ma a quanto pare c'è qualcuno con le proprie idee su questo), per confine settentrionale le alpi, e orientale l'area del mincio o del tagliamento a seconda delle classificazioni (anche i dialetti veneti non si capisce bene che sono e ci sono varie scuole); è diviso in varie aree che coincidono all'incirca coi confini regionali anche se poi spesso si traccia un gruppo lombardo orientale distinto da quello occidentale, e uno romagnolo/marchigiano del nord distinto a quello emiliano (esistono anche grafie specifiche per tutte queste varietà); da segnalare i dialetti di transizione tra alessandria, pavia e piacenza, chiamati "oltrepadani", e quelli a nord del lago di garda tra mincio e adige, detti tridentini
un gruppo retoromanzo sparso su tutto l'arco alpino, di cui distinguiamo il friulano, il ladino e, in terra elvetica, il romancio; laddove il friulano rimane un po' più unificato, gli altri due idiomi hanno diffusione parecchio limitata e un areale frammentario, a causa del territorio montano che occupano; per il friulano coincide in gran parte col territorio regionale, anche se sulla costa si parla un idioma di tipo veneziano
un gruppo sardo a cui fino al medioevo faceva forse parte anche il corso (la moderna lingua corsa ha base toscana); si distingue solitamente almeno un gruppo settentrionale e uno meridionale, più le parlate del nord dell'isola,di transizione con il corso e il sottogruppo toscano
un gruppo italoromanzo che include anche l'italiano standard (che è un dialetto anch'esso: la lingua non esiste in un vuoto e anche l'italiano dei telegiornali, dei documenti e dell'insegnamento è una "forma" di lingua come le altre, di base fiorentina con influenze romanesche e, in qualche modo, anche delle altre varie parlate, seppure in misure minori); questo gruppo è diviso poi generalmente in almeno tre sottogruppi:
il primo, detto centrale, include da una parte il toscano, col corso e le parlate del nord della sardegna (le quali hanno in parte origine pisana, e in parte varie altre influenze dal sardo, dal corso, dal catalano, dal castigliano, dal genovese e varie altre); e dall'altra i dialetti dell'Italia centrale, con la particolare nota del romanesco che per vari motivi storici ha importanti influenze fiorentine già da ben prima che l'italiano diventasse lingua parlata nell'ottocento; a causa della forte vicinanza con l'italiano standard queste parlate non sono spesso raggruppate esplicitamente in una o più lingue (ad eccezione del corso e forse del romanesco e delle parlate sardo-corse), ovvero che sentirai talvolta parlare di una lingua romagnola, o di una lingua siciliana, ma molto più raramente di una lingua ciociara o una lingua umbra. non so dirti se c'è un motivo concreto per questa distinzione, ma alla fine è poco più che una questione sociopolitica un po' fine a sé stessa;
il secondo gruppo (detto altomeridionale o intermedio, o storicamente volgare pugliese), che di base è talmente esteso che provare a dargli un nome sarebbe un po' una riduzione in ogni caso; la dizione di "lingua napoletana" rimanda al fatto che i confini di questo gruppo coincidono pressappoco con quelli del regno di napoli, ma se a un abruzzese o un pugliese moderno gli dici che parla napoletano non so quanto necessariamente entusiasta è. in ogni caso questo gruppo copre più o meno tutta la "caviglia" dello stivale, dalle marche meridionali/marsica/ciociaria al salento/mar ionio/sila, e le distinzioni più usate tendono a seguire in parte i confini regionali; forse l'idea di raggrupparli statisticamente in un unica lingua è un po' curiosa ma non al momento non so di classificazioni alternative che si possono tracciare, anche se sicuramente ve ne saranno;
il terzo gruppo detto bassomeridionale, estremo o siciliano) copre il tacco (salento), la punta (calabria centro-meridionale) e la sicilia; viene solitamente distinto da quello altomeridionale per le tante caratteristiche strutturali che lo distinguono (intuitivamente, tra barese e leccese la differenza è molto più marcata che tra barese e napoletano), ma come ho già detto le distinzioni dipendono dai criteri, e come esistono raggruppamenti che scindono ulteriormente il gruppo intermedio, ce ne saranno alcuni che trattano quello siciliano come una propaggine molto distinta di un unico grande gruppo meridionale che va dal tronto al canale di sicilia.
Si segnalano poi le parlate provenzali e arpitane nelle valli del piemonte occidentale (oltre che in alcuni comuni di puglia e calabria), i vari dialetti germanici (alemanni in piemonte, bavaresi nel triveneto), le minoranze slave al confine con la slovenia e in alcuni comuni del molise, albanesi in vari comuni di tutto il sud, greche in salento e nel reggino, catalane ad alghero e quelle galloitaliche in basilicata, sicilia e sardegna
Ciao, straniera qui (ed era così bello quando hanno detto che c'è la possibilità di vedere Sanremo anche per gli Italiani all'estero... Grazie a questo anch'io potevo mettere Rai1). Una domanda su Geolier – sinceramente ho pensato che cantasse metà in francese, un amico mi doveva spiegare – perché non siamo pronti per la discussione (sul dialetto?...)? (Se è qsa stupido mi puoi rispondere in priv)
Ehi ciao, molto felice che il festival sia visibile anche all'estero finalmente!
Per Geolier e il francese, questo perché il napoletano deriva dal latino, perciò ha elementi in comune con le altre lingue romanze come appunto il francese.
Con il "non siete pronti per questa discussione" mi riferisco al fatto che l'Italia e gli italiani non vedono di buon occhio dialetti e lingue minoritarie, inoltre in questo paese i meridionali, ed in particolare i napoletani, sono vittime di pregiudizi, perciò Geolier è nettamente svantaggiato cantando in napoletano. Gli italiani cantano e ascoltano da decenni canzoni inglesi e spagnole senza capirne il significato, ma col napoletano si lamentano perché "non si capisce", questo paese non è altro che la fiera dell'ipocrisia.
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“ [I]l profilo nazionale dello stragismo jugoslavo della primavera 1945 nella Venezia Giulia appare decisamente asimmetrico: vale a dire, i morti sono quasi tutti italiani. Non c’è da stupirsi. Quella che spinge la sua onda fino alle rive dell’Isonzo è una rivoluzione nello stesso tempo nazionale e sociale e nella regione il potere da abbattere è tutto e solo italiano. Ci sono anche vittime che italiane non sono, perché la vera discriminante è l’accettazione o meno del potere nuovo, quello creato dal movimento di liberazione a guida comunista: di conseguenza, in Istria vengono colpiti elementi croati ostili alla lotta partigiana e nel Goriziano sacerdoti e laici sospetti di simpatie per i domobranci [corpo di volontari sloveni collaborazionisti degli occupanti nazisti]. Si tratta però di fenomeni tutto sommato marginali, perché la maggior parte della popolazione slovena e croata, anche a prescindere dalle simpatie per il comunismo, nel movimento di liberazione vede il protagonista del riscatto nazionale e quindi non lo ostacola, anzi, lo sostiene anche come interprete di una cruenta volontà di resa dei conti. La forma assunta da tale ostilità diffusa non è però quella del pogrom o della rivolta contadina, come nel settembre istriano dal 1943, quanto piuttosto quella dell’ampia collaborazione con l’Ozna [polizia politica comunista jugoslava] nell’individuazione dei bersagli da colpire; più tardi, per decenni, si trasformerà nella diffusa omertà su luoghi e circostanze delle stragi, anche quando a parlare non si rischierà più altro se non la riprovazione sociale. Tutta diversa è la situazione degli italiani: si identificano storicamente con il potere e, politicamente, per i quadri del Mpl [Movimento popolare di liberazione] non è agevole distinguerli dai fascisti: un po’ perché fa comodo; un po’ per l’impegno che nei decenni precedenti il regime di Mussolini ha sciaguratamente profuso nel saldare i due concetti, Italia e fascismo; ed un po’ anche perché, alle orecchie slovene e croate, sembrano dire in fondo tutti le stesse cose: e cioè, che la Venezia Giulia deve rimanere in Italia e che gli italiani devono continuare a comandare. Nell’ottica dunque delle nuove autorità, sia che si guardi al passato – il fascismo – o al presente – la diffidenza generale verso i poteri popolari, con l’unica eccezione della classe operaia – ovvero ancora al futuro – la permanenza, data per scontata, dell’Italia nel mondo capitalista – ce n’è d’avanzo perché il gruppo nazionale italiano venga guardato con pregiudiziale sospetto. Qui la “pulizia” dev’essere quindi larga e, semmai, sovrabbondante, perché è meglio non correre inutili rischi. Ma allora, è vero quel che spesso si dice e si legge e cioè che, a parte le responsabilità personali conclamate, obiettivo della repressione sono stati “gli italiani soltanto in quanto italiani”? Come abbiamo visto esser usuale quando si ragiona di storia di frontiera, la risposta non è lineare. La formula infatti è vera e falsa nello stesso tempo. È certamente falsa se il termine “italiano” viene utilizzato nel suo significato etnico, perché una prospettiva del genere è manifestamente estranea alle linee-guida della repressione, che dicono esattamente il contrario; è invece vera se “italiano” viene inteso come una categoria politica, cioè come espressione della volontà di appartenenza allo Stato italiano a prescindere dall’origine etnica di chi la esprime, perché – questa sì – viene considerata colpa grave, reato che può di per sé condurre alla morte. Non possiamo però nemmeno scordare che sul campo, al di là degli ordini e nel tumulto delle passioni e dei rancori, i piani si possono confondere e le percezioni delle vittime, che poco sanno delle strategie concepite a tavolino, possono talvolta ben corrispondere alle intenzioni di alcuni dei loro persecutori, che quelle strategie interpretano a proprio modo. “
Raoul Pupo, Adriatico amarissimo: una lunga storia di violenza, Laterza (Collana Cultura storica), settembre 2021. [Libro elettronico]
#Raoul Pupo#Adriatico amarissimo: una lunga storia di violenza#Storia del XX secolo#nazionalismo#nazionalismi#fascismo#questione del confine orientale#antifascismo#Venezia Giulia#Storia d'Europa del '900#Isonzo#lotta partigiana#Croazia#seconda guerra mondiale#Istria#Trieste#Fiume#Ozna#partito comunista jugoslavo#domobranci#Mussolini#Gorizia#movimento di liberazione#citazioni#saggistica#saggi storici#storia di frontiera#secondo dopoguerra#partigiani jugoslavi#Dalmazia
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO PRIMO - di Gianpiero Menniti
L'ARTE DEI CORPI
L'arte cristiana non ha modelli di paragone se non nelle forme dell'arte cosiddetta "pagana", quella antica dei greci e di Roma. Le ragioni sono più d'una: la collocazione della Chiesa nell'Urbe e l'immergersi nella tradizione occidentale della narrazione per immagini rappresentative; l'esigenza di ampliare la sfera di un pubblico che non sapeva leggere e scrivere; l'alternativa all'iconoclastia bizantina come affermazione d'indipendenza della chiesa romana rispetto alla chiesa orientale che aveva centro a Costantinopoli. Ma la ragione più profonda risiede nella dimensione teologica del cristianesimo, nel sacro che è espressione di corpi e nell'annuncio evangelico della "vita eterna". Il "Credo" che è la preghiera simbolo dei cristiani annuncia il giudizio per «i vivi e i morti» e la «risurrezione della carne». Il cristianesimo non è religione dell'anima: questo concetto, che è platonico, venne introdotto da Agostino d'Ippona vissuto tra il IV ed il V secolo d.C. ma non appartiene alla fede delle origini. Così, il rapporto tra corpo e anima non è mai stato pienamente risolto se non in una sorta di commistione tra il visibile e l'invisibile, senza prescindere dal primo come manifestazione sacra nella scia dell'esempio del Cristo incarnato. Il cristianesimo è religione del corpo. Ma l'ambiguità di un rapporto mai risolto ha dato vita ad opere che hanno posto l'accento sul corpo entro caratteri variabili, sotto l'influenza di tratti interpretativi spesso confliggenti con l'ortodossia ufficiale: basti riflettere sulle vicende di alcuni dipinti di Caravaggio: dalla "Madonna dei Pellegrini" (1604/1606, Cappella Cavalletti, Basilica di Sant'Agostino, Roma) a "La morte della Vergine" (1605/1606, Louvre, Parigi), senza dimenticare opere accolte come "La Deposizione" (1602/1604, Musei Vaticani) oppure "Le sette opere di Misericordia" (1606/1607, Pio Monte della Misericordia, Napoli) o il "Seppellimento di Santa Lucia" (1608, chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa) fino a "La resurrezione di Lazzaro" (1609, Museo Regionale, Messina). Si tratta di testi pittorici nei quali il Seicento della Controriforma esprime, attraverso Caravaggio, una nuova interpretazione dell'afflato religioso con una carnalità prorompente, vissuta nell'alveo di un'espressione di fede intensa, visibile, angosciata, straziante, spasmodica. Se ne trova plastica rappresentazione nella "Santa Teresa d'Avila" di Bernini non a caso ribattezzata "Estasi di Santa Teresa" (1647/1652, cappella Cornaro, chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma): qui, il richiamo è ad un amore per il Cristo che trafigge, che lacera il corpo e lo consegna in uno spasmo voluttuoso alla follia del sacro. È il sacrificio del corpo che diviene raffigurazione dell'Agnus Dei, ripetizione rituale del dolore che assume il corpo come necessità, come medium della percezione del trascendente. La riflessione degli artisti sul rapporto tra il corpo e la fede cristiana è dunque un processo molto lungo: si afferma come arte figurativa ma poi corre attraverso il distacco dell'arte occidentale dal "modo greco" delle immagini iconiche - altra forma di rappresentazione del corpo sacro - abbandonate per conferire realismo patetico alla sofferenza del Cristo in croce, finendo per questa via con il costituire una svolta che ha segnato la storia della nostra civiltà. Infine, sulla scia del lento affermarsi della "morte di Dio" proclamata da Nietzsche, il XX secolo ha abbandonato definitivamente il legame tra arte e senso del sacro, ricercando quest'ultimo oltre il confine della materialità del corpo per gettarsi nel limbo dell'astratto, del non figurativo, del surreale, del non più esprimibile entro i canoni del realismo. Che non ha risolto, tuttavia, l'annosa questione del rapporto tra la materia e la trascendenza, la natura umana e quella divina, tra corpo e anima. Oscillando tra presenza e disfacimento. Come nel caso di Francis Bacon e del suo “Studio dal ritratto di Innocenzo X, Figura con carne” (1954, Art Institute of Chicago) proposto in varie versioni.
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FOIBE E REVISIONISMO STORICO La destra è riuscita a coinvolgere anche una buona parte della sinistra Il revisionismo storico ha avuto una funzione importantissima in questi ultimi vent'anni nel determinare il cambiamento di orientamento dell'opinione pubblica rispetto ai valori della Resistenza italiana. Con il revisionismo storico si è cercato di trasformare vittime del fascismo e del nazismo in carnefici. Per fare questo si è scelto soprattutto la zona del confine orientale d'Italia, che è stata storicamente una zona molto difficile per i rapporti fra italiani, sloveni e croati, in quanto il fascismo in queste terre è stato una dittatura molto più violenta rispetto a quello che è stato nel resto d'Italia. Un fascismo specificamente razzista, antislavo, che ha portato alla italianizzazione forzata centinaia di migliaia di persone e una repressione etnica. È stato usato il fatto che non si fosse parlato della storia del confine orientale in Italia, in questo dopoguerra, per introdurre, così, nel dibattito politico una questione come quella delle foibe, facendo credere alla gente che prima non fosse accaduto assolutamente nulla. Si è cioè isolata questa vicenda del resto della storia del confine orientale, dimenticando ciò che è stata la seconda guerra mondiale nel territorio del Friuli Venezia. Coloro, infatti, che combattevano con la Repubblica Sociale in quei territori erano a diretto servizio dei nazisti, dei battaglioni Mussolini, della milizia difesa territoriale, della Decima Mas e di altre formazioni come la guardia civica, e giuravano direttamente fedeltà ad Hitler nel nostro territorio. Tutte queste cose sono state nascoste, sono state naturalmente dimenticate. In questo modo si sono presentati i fascisti, che hanno combattuto durante la seconda guerra mondiale al fianco dei nazisti e hanno sterminato e massacrato intere popolazioni, come coloro che avevano salvato il confine orientale d'Italia dall'invadenza slava, dimenticando che, se avesse vinto il nazismo, quei territori non sarebbero mai più stati in Italia. Quindi, con questo “gioco”, in sostanza, si è fatto passare ciò che è successo nel dopoguerra in tutta Italia contro i fascisti come un preciso progetto del movimento di liberazione jugoslavo non contro i fascisti ma contro gli italiani in quanto tali. In questo tipo di visione, la destra è riuscita a coinvolgere, purtroppo, anche una buona parte della sinistra. La funzione della propaganda revisionista è stata proprio quella di legittimare l'entrata dei fascisti nella scena politica e poi anche al governo. Attraverso il revisionismo storico si è sempre più equiparato coloro che avevano combattuto con la Repubblica Sociale ai partigiani, passando attraverso il discorso che tutti i morti sono uguali che poi tutti, comunque, hanno combattuto per un ideale indipendentemente da quale fosse, questo ideale. Chi ha iniziato questo discorso è stato a suo tempo l'onorevole Violante, che a Trieste nel 1998, in un incontro organizzato dall'università con Gianfranco Fini, ha cominciato a parlare dei "ragazzi di Salò". Da allora in poi è stato un continuo distanziarsi sempre più rispetto alla all'impostazione della precedente lettura della Resistenza. Dal carteggio intorno alla foiba di Basovizza - quella che viene considerata il simbolo, il monumento nazionale - che si trova oggi nei negli archivi di Washington, risulta chiaramente che non è mai stato infoibato nessuno, e che il tutto è assolutamente frutto di propaganda. La grande attenzione a questi fatti è funzionale alla criminalizzazione della Resistenza jugoslava, che fu la più grande resistenza europea. Di riflesso, si criminalizza tutta la Resistenza, e si apre il varco per criminalizzare anche quella italiana, come sta dimostrando Pansa con i suoi libri. Dobbiamo renderci conto che la Repubblica italiana non ha mai fatto veramente i conti con le responsabilità del fascismo. Dietro al discorso delle foibe c'è proprio l'interesse di continuare a nascondere queste responsabilità. Vincenzo Sardiello
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Russia – Ucraina. Stoltenberg: la Nato non accetterà mai l’annessione della Crimea
Anna Tortora
La pace non vuole proprio entrare nel cuore e nella mente di qualche segretario… “Stoltenberg smentisce Zelensky su Crimea, la NATO vuole che guerra continui: -l’Ucraina deve vincere questa guerra perche’ difende il suo territorio. I membri della Nato non accetteranno mai l’annessione illegale della Crimea. Ci siamo inoltre sempre opposti al controllo russo su parti del Donbass nell’Ucraina orientale -. Jeans Stoltenberg, segretario generale della NATO
A che titolo Stoltenberg dichiara che la NATO non accetterà annessione della Crimea alla Russia? Non dovrebbero essere ucraini a decidere se accettare o meno che Crimea ritorni russa? Le dichiarazioni del segretario generale della NATO al giornale tedesco Welt appaiono come una smentita dell’apertura di Zelensky di ieri. Il presidente ucraino aveva chiesto ai russi di rientrare entro i confini precedenti all’invasione quindi aveva implicitamente aperto la strada alla rinuncia a Crimea e repubbliche di Lugansk e Donetsk. Stoltenberg dice che persino questo è troppo. Per la Nato l’Ucraina che l’Occidente armerà all’infinito deve riconquistare pure la Crimea. E’ l’ennesima dimostrazione che gli Usa, e i loro burattini europei, boicottano la trattativa perchè vogliono una guerra per procura che duri anni per mettere in crisi la Russia. Stoltenberg ha sostanzialmente chiuso la porta aperta da Zelensky facendo capire chi comanda. Stoltenberg ordina agli ucraini che devono vincere questa guerra anche se durerà anni. Tanto a morire sono ucraini e russi non certo i signori della guerra che inviano le armi. Ovviamente le parole di Stoltenberg sull’illegalità dell’annessione sono ridicole visto che la NATO nel 1999 ha fatto una guerra contro la Serbia per imporre la secessione del Kossovo dove ora c’è un’enorme base americana. Tra l’altro va ricordato che nel referendum in Crimea l’85% della popolazione si era espressa per il ritorno nella Russia da cui quel territorio era stato separato solo negli anni ’50. L’istituto di sondaggi statunitense Gallup confermò che il risultato corrispondeva agli orientamenti della popolazione (fonte: Stephen F. Cohen, War with Russia, 2019). Chiediamo al governo italiano di prendere le distanze dalle parole di Stoltenberg ma non abbiamo alcuna fiducia che lo faccia visto che dal Pd alla Meloni sono tutti servi della Nato. Sempre più si conferma il ruolo di destabilizzazione della NATO e la necessità per l’Italia e l’Europa di liberarsi da questo strumento dell’egemonia statunitense. Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea
Il prof. Gastone Breccia commenta le parole di Zelensky sulla Crimea: Il messaggio di Zelensky è per Biden, se gli USA vogliono umiliare la Russia, Zelensky non vuole questo, troppi i costi per il suo Paese.”
“Siamo così vicini alla soglia del conflitto globale, che i russi non hanno reagito alla notizia del NYT, secondo cui 12 loro generali sarebbero stati eliminati con il concorso diretto della CIA. Se infatti lo ammettessero, sarebbero costretti a far scattare terribili rappresaglie nei confronti del nemico americano, avviando un’ escalation militare inarrestabile… Possiamo quindi capire le loro esitazioni. Ci rendiamo conto che se continua così, di incidente in incidente, l’Europa rischia di auto-distruggersi per una questione di confini tra Stati? La Russia ha tutti torti. Non c’è dubbio. Ma l’Ucraina non è senza peccato. Perchè non ha concesso l’autonomia promessa alle regioni russofone di confine? Se tiene tanto all’Europa, perché non ha cominciato ad applicare le varie convenzioni europee sul trattamento delle minoranze etniche e linguistiche e sulla cooperazione transfrontaliera? Chissà forse la mina poteva essere disinnescata. Ora Zelensky si trova nella scomoda posizione – se vuole fermare la guerra – di dover cedere molto di più di quanto sarebbe bastato a Mosca prima del conflitto… Putin insomma non si accontenterà di vedersi assegnato ciò che già ha.” Domenico Vecchioni, ambasciatore
Non solo Putin, anche gli Usa non sarebbero felici, come abbiamo visto, della Crimea alla Russia. Ora tocca a Zelensky dimostrare di essere un vero capo di Stato, l’eroe di cui tutti tessono le lodi, e fare di tutto affinché finisca il conflitto. Con buona pace di chi continua ad inviare miliardi in armi.
source https://www.ilmonito.it/russia-ucraina-stoltenberg-la-nato-non-accettera-mai-lannessione-della-crimea/
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La filosofia non serve a nulla
Andare oltre lo strumento
Fu proprio Aristotele ad asserire che la filosofia non serva a niente, in quanto essa non si fa serva e proprio per questo non è tenuta a servire. Per il sommo filosofo greco il filosofare è qualcosa di fine a sé stesso, non ha scopo alcuno se non quello del piacere di sapere. Appunto filo, che significa amore verso qualcosa, e sofia, che si traduce in sapere: l’amore per il sapere. Ma se la filosofia, per stessa ammissione di uno dei più importanti filosofi di tutti i tempi, non serve a nulla, allora perché praticarla?
Nonostante l’affermazione in questione abbia avuto luogo nel quarto secolo antecedente alla nascita di Cristo, non sono stati pochi i filosofi che hanno portato avanti il mestiere nei secoli successivi alla morte di Aristotele, fornendo un fondamentale contributo al pensiero filosofico e scientifico.
Detto questo, è bene prendere in considerazione un aspetto decisivo ai fini di questa riflessione: mi riferisco a quella che potremmo definire come la visione funzionale o se vogliamo, servile-utilitaristica che l’uomo, in particolare quello contemporaneo, ha della realtà. Il progresso, inteso come progresso tecnologico, ha viaggiato a velocità diverse durante il corso della storia. Dall’invenzione dell’aratro, ai colpi di genio di Leonardo Da Vinci, la tecnologia ha da sempre ricoperto un ruolo fondamentale nella vita dell’uomo. Inoltre, si può affermare che l’evoluzione tecnologica abbia avuto un’impennata durante le rivoluzioni industriali, che hanno radicalmente cambiato il modo di vivere dell’uomo moderno. In tutto questo, il concetto di strumento e di conseguenza quello di strumentalità, hanno assunto un ruolo decisivo e quasi indispensabile per la società. A tal proposito, Heidegger disse che per noi occidentali il pensare corrisponde all'afferrare e di conseguenza, disponiamo di un pensiero così detto prensile, in forza di cui tendiamo a piegare le cose secondo la nostra volontà. Secondo il pensiero orientale, invece, le cose vanno lasciate così come sono, senza trasformarle, né forzarle. Da ciò si desume come l’attuale cultura occidentale, sempre più globalizzata e mercificante, non riesca a rappresentarsi la realtà se non nella sua dimensione strumentale e utilitaristica. Per l’uomo-medio contemporaneo la conoscenza di un qualcosa diviene necessaria ogni qual volta gli può essere utile acquisirla: al di fuori del confine dell’utilità non gli resta che un vastissimo deserto.
Com'è possibile, allora, ridare una dignità alla figura del filosofo, specialmente nel momento storico attuale in cui la società sembra aver oscurato tutto ciò che non viene considerato utile?
Trovare una risposta a questo quesito sembra difficile, ma per chi come noi nutre ancora speranza e considera la filosofia come un elemento importante della propria vita, è doveroso non arrendersi di fronte a tanta desolazione culturale. Per fare ciò, bisogna essere in grado di staccarsi dall'approccio strumentale che abbiamo della realtà, promuovendo un’interpretazione delle cose che va oltre la loro mera funzione pratica. Dobbiamo imparare a vedere solo coi nostri occhi, facendo a meno di quei filtri che ci dicono esclusivamente se un qualcosa sia per noi più o meno utile. Non dimentichiamoci che la filosofia consiste nell'osservare criticamente ciò che ci sta intorno e non ci mostra, come spesso erroneamente si suppone, cose totalmente nuove o astratte dal quotidiano. Forse, è proprio questo luogo comune una delle cause che ha portato alla svalutazione dei saperi filosofici nella nostra epoca, nella quale detta legge solo ciò che è tangibile, scientificamente o popolarmente dimostrabile.
Fa sorridere ma allo stesso tempo riflettere un racconto su Talete, il primo filosofo per professione, il quale mentre osservava le stelle finì dentro un pozzo, suscitando le risa di una donna di Tracia, la quale lo schernì per non aver fatto attenzione a dove metteva i piedi. A quei tempi di Talete ce n’era uno, forse oggi quasi nessuno, o almeno mai quante le donne che ridono. Diceva appunto Aristotele nella Metafisica:
“La filosofia non serve a nulla, dirai; ma sappi che proprio perché priva del legame di servitù è il sapere più nobile”
Fonti:
https://www.universitari.to.it/2018/11/filosofia-scienza-inutile.html
https://www.filosofiablog.it/filosofia-contemporanea/heidegger-e-il-compito-del-pensiero-il-dono-dellessere/
Umberto Galimberti - Il gioco delle opinioni
Tommaso Mosole
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Dopo 23 anni di contenzioso diplomatico e di molte pagliacciate nazionaliste dalle due parti, di cui ha fatto le spese soprattutto la grande ombra di Alessandro Magno, soggetto di tante statue da far invidia al compianto Stalin, finalmente nel giugno di quest’anno il governo greco a guida Siryza e il nuovo governo macedone, che si autodefiniscono ambedue “di sinistra”, hanno raggiunto un’intesa sulla nuova denominazione della Macedonia, accordandosi, senza troppa fantasia, sul nome di Repubblica della Macedonia del Nord. La questione sorse quando, alla fine della guerra che ha smembrato la Repubblica Federativa di Jugoslavia, dando origine a diversi Stati, nel 1993 si costituì al confine con la Grecia la Repubblica di Macedonia. Quello Stato fu riconosciuto, con quel nome, da 140 Paesi dell’ONU, tra cui Russia e Stati Uniti, ma non dalla Repubblica di Grecia che dichiarò che il nome di Macedonia poteva appartenere solo alla regione greca che storicamente così si chiama e che comprende Salonicco. Dunque dalla Grecia quel nuovo Paese fu denominato, ugualmente con poca fantasia, FYROM, Former Yugoslav Repubblic of Macedonia. La cosa non ha avuto solo una valenza nominalistica: la Grecia, membro dell’Unione Europea e della Nato, denunciando le “mene irredentiste” di Skopje, si è successivamente sempre opposta a che la Macedonia fosse integrata nell’UE e anche nella NATO. L’intralcio non era gradito né alla UE né soprattutto agli Stati Uniti, che da anni stanno cercando di rafforzare la loro presenza nei Balcani in funzione antirussa attraverso l’allargamento della Nato. L’accordo non ha quindi riguardato solo il nome, riconoscendo la Repubblica della Macedonia del Nord la Grecia si è impegnata a non ostacolare la sua integrazione nella Unione Europea e nella NATO, il che è stato accolto con soddisfazione dall’Unione Europa e dall’ONU, presenti alla cerimonia con loro rappresentanti e subito benedetto dal Dipartimento di Stato. Ma, sia in Macedonia “del Nord” sia in Grecia, non ha mancato di provocare le proteste delle opposizioni di destra, e anche di “sinistra”. In Grecia il partito Nuova Democrazia, di centro-destra, ha espresso la sua netta contrarietà all’accordo, nonostante ne avesse proposto uno molto simile quando era al governo; il partito filo-nazista di Alba dorata ha chiesto addirittura all’esercito di intervenire arrestando il capo del governo e il presidente della Repubblica, colpevoli di alto tradimento. Lo stesso partitino di destra Anel, che con i suoi voti assicura la sopravvivenza del governo Tsipras, ha espresso contrarietà all’accordo (ma ha dichiarato che non farà cadere il governo per questo!). Al richiamo di questi partiti, e di simili in Macedonia, in varie occasioni decine di migliaia di nullatenenti, non altrimenti mobilitati, sono scesi in piazza inebetiti dal nazionalismo più insensato. La mossa del governo greco riteniamo sia stata dettata dalla necessità di ottenere in cambio un maggiore sostegno da parte della Nato e dell’Europa nel suo contenzioso con la Turchia nel Mar Egeo, che si sta facendo sempre più impegnativo. Lo testimonia la sua forte spesa militare, che in percentuale sul PIL (2,5%) è la più alta nella NATO dopo quella degli USA: cinque miliardi di dollari annui. Questa funzione di pungolo della Grecia contro la Turchia, che si è manifestata anche attraverso la collaborazione con Israele e con l’Egitto, è sfruttata dalla NATO come uno degli strumenti per contrastare i giri di valzer e le aperture dello Stato turco alla Russia. Il capitale greco inoltre vorrebbe partecipare alla spartizione del petrolio e del gas del Mediterraneo orientale e sud-orientale, e l’appoggio della NATO sull’ancora aperta questione di Cipro. Da parte sua il primo ministro turco Erdo?an ha contribuito a gettare petrolio sul fuoco: durante la recente visita ad Atene non ha esitato a chiedere una revisione del Trattato di Losanna, l’accordo con il quale nel 1923 furono definiti i confini della Turchia moderna e divise le isole del Dodecanneso tra Grecia ed Italia (che le aveva conquistate nel 1912 durante la guerra contro l’Impero Ottomano per la conquista della Libia). Il Trattato di Losanna fu riconfermato dal Trattato di pace firmato a Parigi nel 1947 al termine della Seconda Guerra mondiale, assegnando alla sovranità greca buona parte delle isole già appartenute all’Italia, probabilmente tenendo conto della partecipazione della Grecia alla guerra a fianco degli Alleati oltreché del fatto che la grande maggioranza della popolazione delle isole era greca. Questo atteggiamento “revisionista” della Turchia ha alzato il livello dello scontro tra le due potenze regionali, che puntano sul nazionalismo e sulla politica estera per far dimenticare i gravi problemi sociali al loro interno, dimostra una volta di più che persistendo questo sistema economico basato sullo sfruttamento del lavoro salariato, sulla sopraffazione e sulla forza, nessun governo, si definisca esso di sinistra, operaio, socialista come è il caso di quello greco, può esimersi dal condurre una politica militarista e, in ultima analisi, guerrafondaia. Ovviamente l’atteggiamento della diplomazia greca nella questione macedone non è piaciuto alla Russia, nonostante i due paesi siano legati storicamente da relazioni di simpatia fin dalla guerra d’indipendenza del 1821, anche a causa dell’influenza della chiesa ortodossa nei due Paesi. Il governo russo ha espresso contrarietà all’accordo e pare abbia cercato anche di ostacolare l’azione della diplomazia ateniese. Su tutta la faccenda il Partito Comunista Greco (KKE) in un suo comunicato non ha trovato di meglio che condannare l’accordo tra Grecia e Macedonia per il fatto che esso apre la strada all’adesione della Macedonia alla NATO, e dunque al suo rafforzamento nella regione balcanica a scapito della Russia. Se è vero, come afferma il documento del KKE, che «le dichiarazioni del governo greco che questo accordo tende a garantire la pace, la cooperazione e la stabilità nei Balcani e nella regione sono assolutamente false, erronee e antistoriche», è altrettanto vero che la Russia con la sua azione nei Balcani, in Europa Orientale e in Medio oriente sta difendendo i suoi interessi imperialistici proprio come gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Continua il comunicato del KKE: «Il governo Syriza-Anel è diventato il miglior portabandiera dei piani della NATO e dell’UE nella regione, in favore di quelle parti del capitale greco che chiedono maggiori profitti dalla nuova divisione della regione, con la rapina e lo sfruttamento dei popoli». Evidentemente secondo questi pseudo-comunisti ci sarebbero altre “parti del capitale greco” che non vogliono aumentare i loro profitti! Ecco che il KKE si trova a fianco della destra. Ma, schierandosi con l’altro imperialismo, quello del Cremlino, accusa i destri di non opporsi alla NATO e dell’UE! Il proletariato greco come quello di tutta la regione, deve ben guardarsi dallo schierarsi su uno qualunque dei fronti dell’imperialismo. Il proletariato non ha nazione e non ha alleati. Il nazionalismo, l’irredentismo, il patriottismo, il razzismo sono bestie immonde usate dal politicantume borghese nella sua decadenza; sono l’ultimo appiglio di una classe dominante che non ha più niente di progressivo da proporre all’umanità ma solo instillare odio per impedire l’unità del proletariato come classe e per preparare nuove guerre. Non si combattono contrapponendo ad esse le parole borghesi impotenti ed ipocrite della pace e della fratellanza universale perché sono prodotti necessari del regime del capitale e della sua democrazia: è solo abbattendo questo regime che il proletariato potrà davvero liberare se stesso e l’umanità intera.
PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE
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L’antifascismo non c’entrava nulla, perché i conflitti tra italiani e slavi esistevano da prima. Pierluigi Romeo di Colloredo Mels fa il punto nel suo recente “Confine orientale” sulla questione adriatica e smantella i luoghi comuni di certa storiografia. È uscito in questo 2020 il saggio del professor Pierluigi Romeo di Colloredo Mels, Confine orientale. Italiani […]
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Sahel la terra di nessuno dove sono morti 13 militari francesi e dove sono impiegati anche 473 militari italiani
Un minuto di silenzio al Parlamento francese per ricordare i 13 soldati francesi morti nello scontro tra due elicotteri in Mali, la notizia è stata riportata da Euronews. I militari erano impegnati in un'operazione anti-jihadista, come rende noto l’Eliseo, precisando che i due velivoli stavano volando a bassa quota. Ora sarà comunque un'inchiesta a chiarire le circostanze precise di questa tragedia. La collisione tra un elicottero d'attacco Tiger e un elicottero Cougar si è verificata poco dopo che l'oscurità era scesa sulla regione del Sahel, dove è ancora attivo il sedicente Stato Islamico, L'Esercito ha confermato il ritrovamento delle scatole nere dei due elicotteri: ora dovranno essere analizzate. Sette dei morti provenivano dalla stessa base militare, a Pau, tra i Pirenei, nel sud-ovest della Francia, dove colleghi e famigliari si sono stretti in un doloroso silenzio. Intanto il presidente francese Emmanuel Macron, ha espresso "profonda tristezza", sottolineando il coraggio di tutti i militari francesi impegnati nel paese africano e la loro "determinazione a continuare la missione". Parole condivise anche dal Primo ministro Edouard Philippe, che davanti ai parlamentari dell'Assemblea Nazionale, ha sottolineato come l'uso delle forze armate ha sempre un valore politico, deve corrispondere agli obiettivi fissati e deve corrispondere agli interessi della Francia. Interessi che sono definiti dai governi e dal Presidente della Repubblica. E’ una lotta lunghissima, che non ha solo una dimensione militare", "Senza una presenza militare, senza la capacità di affrontare il nemico, senza la capacità di destabilizzare le sue rotte, le armi, i nascondigli, le riunioni, non possiamo garantire l'opera essenziale di stabilizzazione politica e di sviluppo economico del Mali". Il padre di una delle vittime esprime il proprio orgoglio per il figlio Romain: morto - dice il padre - facendo un lavoro che amava. Philippe Salles: "Sapevo che poteva esserci un rischio. Sapevo che poteva effettivamente rischiare la sua vita. Era il suo lavoro, gli piaceva".
L'operazione "Barkhane" è attualmente la più grande operazione esterna dell'esercito francese con circa 4.500 soldati dispiegati nella fascia sahelo-sahariana, un'area grande quanto l'Europa. I militari operano a sostegno di eserciti nazionali che combattono contro jihadisti affiliati al gruppo di Stato Islamico o ad al-Qaeda. Barkhane si è succeduta ad agosto 2014 ad un'altra operazione, chiamata Serval, lanciata nel 2013. In totale 38 soldati francesi hanno perso la vita nel corso di entrambe (dieci durante Serval e 28 durante Barkhane). Era da oltre 30 anni che l'esercito francese non subiva un così pesante tributo di sangue, dall'attacco di Drakkar in Libano del 1983, quando 58 paracadutisti persero la vita. Il Sahel è oggi una delle regioni più instabili del pianeta dove movimenti terroristici, organizzazioni estremiste criminali e guerre territoriali destabilizzano equilibri già fragili e incerti. Il terrorismo di matrice jihadista, nato come delocalizzazione di Al Qaeda e dello Stato Islamico, sembra essere sempre più coeso e organizzato e avere un unico obiettivo: la destabilizzazione dei governi della regione. La nascita dello Stato Islamico del Grande Sahara, fondato da Adnan Abu Walid al-Sahraoui e riconosciuto da Daesh nell’ottobre 2016, concentra attualmente le proprie forze contro l’alleanza anti-terrorismo nella regione: il G5-Sahel. Si tratta di un’organizzazione regionale di cui fanno parte 5 stati: Burkina Faso, Ciad, Niger, Mali e Mauritania. Nata il 16 febbraio del 2014, essa ha lo scopo di affrontare, attraverso la cooperazione tra questi Stati, le sfide presenti nella regione: i traffici illegali, il terrorismo, l’emigrazione fino ad arrivare al cambiamento climatico, con l’obiettivo di combattere principalmente la minaccia jihadista. Al-Sahraoui ha reso noto che l’organizzazione opera principalmente nella “zona dei tre confini” (Mali, Burkina Faso e Niger) per impedire la stabilizzazione delle Forze armate del G5, collaborando con i movimenti filo qaedisti. «I nostri fratelli Iyad Ag Ghaly e gli altri mujaheddin difendono l’Islam come », così si è pronunciato al-Sahraoui facendo riferimento al capo tuareg del movimento Ansar Dine affiliato ad Al Qaeda. I rapporti tra le due galassie jihadiste presenti nel Sahel sono molto incerti ma la minaccia rappresentata dal G5 e dalle missioni internazionali potrebbe aver spinto queste due entità a costruire un fronte comune. Lo stesso fondatore, prima di affiliarsi allo Stato Islamico, era uno dei principali esponenti del gruppo jihadista qaedista al-Mourabitun e dopo il suo avvicinamento ad Al Baghdadi venne immediatamente ripudiato da Belmokhtar. Lo Stato Islamico del Grande Sahara ha rivendicato una serie di attacchi come quello nell’ottobre 2017 in Niger che ha ucciso 4 soldati americani e 5 soldati nigerini. I movimenti terroristici hanno preso piede in questo deserto fatto di sabbia e vuoti di potere, in cui gli attori internazionali sono intervenuti con l’intento di ricostruire la sicurezza nella regione. Nel 2013, con la fine della guerra in Mali, le Nazioni Unite hanno dispiegato la Missione Multidimensionale Integrata delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA) il cui scopo è quello di sostenere la stabilizzazione politica nel Paese, garantire il rispetto dei diritti umani e la protezione dei civili. La Risoluzione 2364 ha prolungato il mandato della missione fino a giugno 2018 con la presenza di 13.200 soldati e 1.920 poliziotti. Con la Risoluzione 2359 del 21 giugno 2017, il Consiglio di Sicurezza ha approvato la creazione della Forza Congiunta FC-G5S, la quale prevede il dispiegamento di 5.000 uomini sul territorio al fine di favorire il raggiungimento della pace e della sicurezza nella regione, a supporto delle forze armate dei 5 Stati sahaliani. Nel medio periodo essa dovrebbe rappresentare una exit strategy per le forze francesi presenti sul territorio. Alla Forza Congiunta è stata integrata la Liptako Gourma Securitisation Force, creata a gennaio 2017 da Burkina Faso, Mali e Niger ed è stata poi approvata dal Consiglio di Pace e Sicurezza dell’Unione Africana (AUPSC) che ne ha concordato il mandato. Gli obiettivi principali della FC-G5S sono: combattere il terrorismo e il traffico di droga; contribuire al ripristino dell’autorità statale e al ritorno degli sfollati e dei rifugiati; facilitare le operazioni umanitarie e la fornitura di aiuti alle popolazioni colpite; contribuire all’attuazione di strategie di sviluppo nella regione del G5 Sahel. Essa opera principalmente in tre aree cruciali: l’area occidentale al confine tra Mali e Mauritania; nell’area centrale ossia la regione Liptako Gourma, nota anche come “zona dei tre confini” tra Mali, Niger e Burkina Faso, dove agiscono i principali movimenti terroristici ed è stanziato un numero maggiore di forze militari; nell’area orientale al confine tra Niger e Ciad. La presenza dell’Unione Europea nel Sahel a partire dal 2011 è caratterizzata da un comprehensive approach, la cosiddetta Sahel Strategy, che prevede il supporto ai Paesi della regione nel rispondere alle sfide di sicurezza e sviluppo. Il Sahel Regional Action Plan consiste nell’implementazione della Sahel Strategy e ha quattro priorità: contenere e prevenire la radicalizzazione; creare condizioni di vita migliori e impiego per le giovani generazioni; flussi migratori; controllo dei traffici illeciti e della criminalità organizzata. Successivamente, nel 2012 e 2015 sono state lanciate le missioni Eucap Sahel Niger per sostenere le forze armate locali nella lotta ai movimenti terroristici e al crimine organizzato e Eucap Sahel Mali per supportare l’autorità centrale nella ricostruzione di un ordine costituzionale e democratico insieme alla EU training mission in Mali (EUTM). A partire dal 2014 è stato rafforzato il sostegno al G5 Sahel come partner cruciale nella stabilizzazione della regione, stanziando 50 milioni di euro per la G5 Sahel Joint Force. Infine, il 23 febbraio scorso si è tenuta a Bruxelles l’ultima Conferenza sul Sahel per valutare gli impatti degli interventi sulla regione e confermare gli impegni presi come l’EU Emergency Trust Fund For Africa dove sono stati stanziati 8 miliardi di euro. La missione italiana in Niger L’intervento militare italiano in Niger si inserisce nel quadro più ampio europeo ed internazionale a supporto delle forze militari e di polizia del G5 Sahel. A gennaio 2018 è stato approvato dalla Camera il decreto delle missioni militari, il quale prevede un ridimensionamento della presenza italiana in Iraq e in Afghanistan e un aumento del numero di operazioni in Africa, in particolare in Libia e Niger, dove saranno presenti rispettivamente 400 e 473 soldati. L’Italia opera per la prima volta in questo Paese e il contingente affiancherà le forze statunitensi e francesi già presenti sul territorio, al fine di rafforzare il controllo sulle frontiere e sulle principali rotte migratorie. Si tratta, dunque, di una missione tesa al contenimento delle migrazioni clandestine a partire dal paese di origine che si concentra sulla zona a nord del Niger al confine con la Libia, da dove passa l’80% dei traffici migratori illegali diretti all’Europa. Il focus sulla questione migratoria dell’Italia, così come della Francia, sembra spostarsi sempre più a sud ed è per questo che la presenza in Libia e in Niger per questi due Paesi risulta cruciale ai fini di un controllo dei flussi migratori e il contrasto ai traffici illeciti di armi, droga ed esseri umani. Read the full article
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Il carso è un paese di calcari e di ginepri. Un grido terribile, impietrito. Macigni grigi di piova e di licheni, scontorti, fenduti, aguzzi. Ginepri aridi. Lunghe ore di calcare e di ginepri. L'erba è setolosa. Bora. Sole. La terra è senza pace, senza congiunture. Non ha un campo per distendersi. Ogni suo tentativo è spaccato e inabissato. Grotte fredde, oscure. La goccia, portando con sé tutto il terriccio rubato, cade regolare, misteriosamente, da centomila anni, e ancora altri centomila. Ma se una parola deve nascere da te - bacia i timi selvaggi che spremono la vita dal sasso! Qui è pietrame e morte. Ma quando una genziana riesce ad alzare il capo e fiorire, è raccolto in lei tutto il cielo profondo della primavera. Premi la bocca contro la terra, e non parlare. La notte; le stelle impallidenti; il sole caldo; il tremar vespertino delle frasche; la notte. Cammino. Dio disse: Abbia anche il dolore la sua pace. Dio disse: Abbia anche il dolore il suo silenzio. Abbia anche l'uomo la sua solitudine. Carso, mia patria, sii benedetto.
Scipio Slataper, Il mio Carso, Mondadori (collana Oscar), 2005¹⁰; p. 84.
[ Prima pubblicazione presso Libreria della Voce, Firenze, 1912 ]
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO PRIMO - di Gianpiero Menniti
L’ARTE DEI CORPI
L'arte cristiana non ha modelli di paragone se non nelle forme dell'arte cosiddetta "pagana", quella antica dei greci e di Roma. Le ragioni sono più d'una: la collocazione della Chiesa nell'Urbe e l'immergersi nella tradizione occidentale della narrazione per immagini rappresentative; l'esigenza di ampliare la sfera di un pubblico che non sapeva leggere e scrivere; l'alternativa all'iconoclastia bizantina come affermazione d'indipendenza della chiesa romana rispetto alla chiesa orientale che aveva centro a Costantinopoli. Ma la ragione più profonda risiede nella dimensione teologica del cristianesimo, nel sacro che è espressione di corpi e nell'annuncio evangelico della "vita eterna". Il "Credo" che è la preghiera simbolo dei cristiani annuncia il giudizio per «i vivi e i morti» e la «risurrezione della carne». Il cristianesimo non è religione dell'anima: questo concetto, che è platonico, venne introdotto da Agostino d'Ippona vissuto tra il IV ed il V secolo d.C. ma non appartiene alla fede delle origini. Così, il rapporto tra corpo e anima non è mai stato pienamente risolto se non in una sorta di commistione tra il visibile e l'invisibile, senza prescindere dal primo come manifestazione sacra nella scia dell'esempio del Cristo incarnato. Il cristianesimo è religione del corpo. Ma l'ambiguità di un rapporto mai risolto ha dato vita ad opere che hanno posto l'accento sul corpo entro caratteri variabili, sotto l'influenza di tratti interpretativi spesso confliggenti con l'ortodossia ufficiale: basti riflettere sulle vicende di alcuni dipinti di Caravaggio: dalla "Madonna dei Pellegrini" (1604/1606, Cappella Cavalletti, Basilica di Sant'Agostino, Roma) a "La morte della Vergine" (1605/1606, Louvre, Parigi), senza dimenticare opere accolte come "La Deposizione" (1602/1604, Musei Vaticani) oppure "Le sette opere di Misericordia" (1606/1607, Pio Monte della Misericordia, Napoli) o il "Seppellimento di Santa Lucia" (1608, chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa) fino a "La resurrezione di Lazzaro" (1609, Museo Regionale, Messina). Si tratta di testi pittorici nei quali il Seicento della Controriforma esprime, attraverso Caravaggio, una nuova interpretazione dell'afflato religioso con una carnalità prorompente, vissuta nell'alveo di un'espressione di fede intensa, visibile, angosciata, straziante, spasmodica. Se ne trova plastica rappresentazione nella "Santa Teresa d'Avila" di Bernini non a caso ribattezzata "Estasi di Santa Teresa" (1647/1652, cappella Cornaro, chiesa di Santa Maria della Vittoria, Roma): qui, il richiamo è ad un amore per il Cristo che trafigge, che lacera il corpo e lo consegna in uno spasmo voluttuoso alla follia del sacro. È il sacrificio del corpo che diviene raffigurazione dell'Agnus Dei, ripetizione rituale del dolore che assume il corpo come necessità, come medium della percezione del trascendente. La riflessione degli artisti sul rapporto tra il corpo e la fede cristiana è dunque un processo molto lungo: si afferma come arte figurativa ma poi corre attraverso il distacco dell'arte occidentale dal "modo greco" delle immagini iconiche - altra forma di rappresentazione del corpo sacro - abbandonate per conferire realismo patetico alla sofferenza del Cristo in croce, finendo per questa via con il costituire una svolta che ha segnato la storia della nostra civiltà. Infine, sulla scia del lento affermarsi della "morte di Dio" proclamata da Nietzsche, il XX secolo ha abbandonato definitivamente il legame tra arte e senso del sacro, ricercando quest'ultimo oltre il confine della materialità del corpo per gettarsi nel limbo dell'astratto, del non figurativo, del surreale, del non più esprimibile entro i canoni del realismo. Che non ha risolto, tuttavia, l'annosa questione del rapporto tra la materia e la trascendenza, la natura umana e quella divina, tra corpo e anima. Oscillando tra presenza e disfacimento. Come nel caso di Francis Bacon e del suo “Studio dal ritratto di Innocenzo X, Figura con carne” (1954, Art Institute of Chicago) proposto in varie versioni.
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Il dramma di Cipro urla ancora il suo dolore: uccide due volte chi si volta dall’altra parte La scomparsa a 104 anni di Elsie Slonim, ultima civile della zona cuscinetto di Cipro, riporta alla mente il dramma dell’isola nel Mediterraneo orientale, dal 1974 occupata da 50mila militari turchi nel disinteresse più o meno generale. Della questione tornano a resocontare alcuni media esclusivamente per la contingenza legata alle copiose riserve di gas sottomarine presenti in loco, come se drammi personali e sangue copioso versato su quelle terre non fossero da soli sufficienti a produrre indignazione. Tra le varie occasioni in cui ho visitato Cipro, ricordo benissimo la sensazione che ho provato quando ho deciso di oltrepassare il confine e camminare nella Katekomena, la parte occupata dai turchi. Un check point d’altri tempi, come se in qualche modo il muro di Berlino fosse ancora integro. I sopraccigli in su quando ho mostrato il tesserino di giornalista, resi ancora più spalancati quando hanno visto il passaporto di chi mi accompagnava: quello cipriota dell’archeologo che mi avrebbe mostrato i “segni” della presenza turca e quello greco di mia moglie. (...) Intere famiglie dovettero lasciare le proprie abitazioni (oltre a fabbriche, negozi, fondi agricoli) quando videro apparire in cielo i paracadutisti turchi. In risposta ad un tentativo di colpo di stato greco, la Turchia inviò a Cipro i suoi militari che però sono rimasti parmenentemente lì. La Katekomena mi apparve come uno sterminato campo disabitato, abbandonato e rinsecchito. Ma un momento dopo vidi concretizzata l’opera dei turchi in loco. Tutti i simboli di fede non musulmana (quindi chiese e cimiteri ortodossi, maroniti, ebraici) sono stati squalificati o rasi al suolo. Chiese trasformate in bordelli, resort a cinque stelle, stalle con tanto di fieno ed escrementi di animali ammassati senza il minimo pudore per la sacralità di quei luoghi. Fatti immortalati da fotografie, libri e occhi che ancora oggi non dimenticano quello scempio. Cito, da cronista, alcuni esempi: nel villaggio di Peristerona il monastero di Sant’Anastasia è stato tramutato in una stalla per animali; la cappella di San Evlalios è stata rasa al suolo per puro divertimento; a Lithragkomi, della chiesa di Santa Maria di Kanakaria, risalente al VI secolo, sono rimaste solo alcune pietre di grosse dimensioni; i cimiteri ortodossi di Assia e di Tersia sono stati sventrati dai carri armati turchi; i terreni nella punta settentrionale di Cipro sono stati dai turco-ciprioti venduti a soggetti stranieri (tedeschi) che hanno edificato strutture alberghiere senza preoccuparsi minimamente del diritto internazionale di quella transazione. Potrei continuare, proprio per spiegare oggettivamente il livello di violenze e prevaricazioni che poco hanno a che fare con la politica o con la spartizione geopolitica. Non era evidentemente il caso di mescolare spregio verso altre culture con decisioni di natura militare. Ma tant’è. Il dramma di Cipro urla (ancora) tutto il suo dolore: ma ad uccidere due volte è chi, ancora oggi, si volta dall’altro lato… Francesco De Palo Giornalista freelance e scrittore
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Il Rinascimento è un periodo artistico e culturale della storia d’Europa, che si sviluppò in Italia, soprattutto a Firenze, tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna, in un arco di tempo che va all’incirca dalla metà del XIV secolo fino al XVI secolo , con ampie differenze tra discipline e aree geografiche.
Vissuto dalla maggior parte dei suoi protagonisti come un’età di cambiamento, maturò un nuovo modo di concepire il mondo e se stessi, sviluppando le idee dell’umanesimo, nato in ambito letterario nel XIV secolo per il rinato interesse degli studi classici, ad opera soprattutto di Francesco Petrarca, e portandolo a influenzare per la prima volta anche le arti figurative e la mentalità corrente.
Il XV secolo fu un’epoca di grandi sconvolgimenti economici, politici, religiosi e sociali, infatti viene assunto come epoca di confine tra basso medioevo e evo modernodalla maggior parte degli storiografi, sebbene con alcune differenze di datazione e di prospettiva.
Tra gli eventi di maggior rottura in ambito politico ci furono la questione orientale, segnata dall’espansione dell’Impero Ottomano (il quale, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 giunge a minacciare l’Ungheria e il territorio austriaco) e un’altra occidentale, caratterizzata dalla nascita degli Stati moderni, tra cui le monarchie nazionali di Francia, Inghilterra e Spagna, così come l’impero di Carlo V, che a differenza degli imperi medievali presenta un progetto di accentramento del potere, tipico delle istituzioni politiche moderne, per quanto la rinascita dell’impero di Carlo V può essere vista anche come un ritorno alla dimensione sovranazionale che caratterizzava il Medioevo.
Periodizzazione
Quando si parla di Rinascimento risulta piuttosto difficile stabilirne una data di inizio, che varia a seconda delle discipline. Nei moderni manuali di storia dell’arte, Giotto è annoverato tra gli anticipatori del Rinascimento grazie alla sua tecnica artistica innovativa, ripresa e valorizzata poi da Masaccio.
È accertato comunque che un notevole rinnovamento culturale e scientifico si sviluppò negli ultimi decenni del XIV secolo e nei primi del XV secolo principalmente a Firenze. Da qui, tramite gli spostamenti degli artisti, il linguaggio fu esportato nel resto d’Italia (soprattutto a Venezia e Roma), poi, nel corso del XVI secolo, in tutta Europa. Altri importanti centri rinascimentali in Italia, oltre alle già citate Venezia e Roma, furono Ferrara, Urbino, Siena, Padova, Perugia, Vicenza, Verona, Mantova, Milano e Napoli. Da quest’ultima città, attorno alla metà del Quattrocento, le forme rinascimentali peculiari vennero successivamente esportate nella penisola iberica.
Una prima crisi del Rinascimento fiorentino si sarebbe avuta dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) e la presa di potere da parte di Girolamo Savonarola, il quale tuttavia, se da un lato istituì una repubblica teocratica mirante a colpire gli aspetti più paganeggianti e lussuriosi sul Rinascimento, dall’altra innescò un processo di ripensamento e rinnovamento della tradizione religiosa, destinata a durare ben oltre la sua esecuzione al rogo nel 1498.
Bertrand Russell e alcuni studiosi pongono la data della fine del Rinascimento al 6 maggio 1527, quando le truppe spagnole e tedeschesaccheggiarono Roma. Per la maggior parte degli storici dell’arte e della letteratura il passaggio dal Rinascimento al manierismoavviene in Italia negli anni venti del Cinquecento e non oltre la metà del XVI secolo, mentre nella storia della musica la conclusione si situerebbe più avanti, attorno al 1600.
IL RUOLO DELLA DONNA
Col Rinascimento cambia anche il ruolo della donna rispetto al Medioevo: «finalmente, per ben intendere la vita sociale dei circoli più elevati del Rinascimento, è da sapere che la donna in essi fu considerata pari all’uomo». Soprattutto in ambito educativo la donna «nelle classi più elevate era essenzialmente uguale a quella dell’uomo», distinguendosi per le sue doti letterarie e filologiche, e contribuendo al rilancio della poesia italiana «onde un numero considerevole di donne acquistarono una grande celebrità».
Fino al Trecento, secondo Paolo da Certaldo(1320 circa–1370 circa) la donna doveva seguire come modello l’esempio della Vergine Maria accudendo la casa. Le bambine, raggiunti i tre anni dovevano dormire separate dai maschietti e indossare una veste lunga sino ai piedi. Compiuti i 12 anni diveniva compito precipuo dei genitori la sorveglianza sulle figlie, libere soltanto di lavorare in casa, stando lontane dalle finestre e conservando così le principali doti femminili: pietà, pudore e onore.
Dopo il matrimonio la tutela della donna passava dal padre al marito che eviterà nei casi più coercitivi che la moglie si affacci alla finestra o che si intrattenga sulla porta di casa per spiare o per ciarlare. Le mogli, in assenza del marito si prendono allora la libertà di andare in chiesa, al mercato, al pozzo o al mulino, tutti luoghi questi dove spesso nascono amori destinati a presto morire.
A partire dal Rinascimento in Italia, il ruolo della donna, in specie per quella appartenente all’aristocrazia e all’alta borghesia, al contrario del resto d’Europa, è particolarmente significativo: riceve un’educazione, come quella dell’uomo, basata sulle materie classiche e acquista rilievo nella vita sociale nella conduzione di feste, balli e tornei. La condizione femminile acquisisce valore come sposa, madre dedita alla cura della famiglia di cui cura gli interessi, anche politici, in assenza del marito. Tipico esempio di queste doti fu Lucrezia Borgia: perfetta castellana rinascimentale, acquistò la fama di abile politica e accorta diplomatica, tanto che il marito arrivò ad affidarle la conduzione politica e amministrativa del ducato quando doveva assentarsi da Ferrara. Fu anche un’attiva mecenate, accogliendo a corte poeti e umanisti come Ludovico Ariosto, Pietro Bembo, Gian Giorgio Trissino e Ercole Strozzi.
L’eleganza nel vestire degli uomini e delle donne italiane nel Rinascimento non ha pari nel resto d’Europa. Ad evitare eccessive stravaganze vari provvedimenti impongono regole restrittive nonostante le quali però non riescono a controllare l’influenza francese e spagnola. Le donne curano in modo particolare il loro aspetto dal colore della pelle sino a quello dei capelli che la moda prescrive dover essere biondi. L’uso dei cosmetici e del profumo sono tanto diffusi che persino nel contado divengono abituali.
Chi aspira a mostrare la propria agiatezza tramite l’abbigliamento e preziosi gioielli sono le donne della buona società e le cortigiane alle quali successivamente viene vietato di indossare stoffe pregiate che tuttavia continuano a essere usate per abiti lussuosi nascosti sotto un mantello di sargia nera. Nel 1546 Cosimo I impone alle cortigiane di portare un nastro giallo per non essere confuse con le donne di buona famiglia.
Presunto ritratto di Lucrezia Borgia nella Disputa di Santa Caterinadel Pinturicchio. L’affresco si trova nell’Appartamento Borgia.
Disputa di Santa Caterina del Pinturicchio. L’affresco si trova nell’Appartamento Borgia.
CRESCENZA CARADONNA
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IL RINASCIMENTO Il Rinascimento è un periodo artistico e culturale della storia d'Europa, che si sviluppò in Italia, soprattutto a Firenze, tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna, in un arco di tempo che va all'incirca dalla metà del XIV secolo fino al XVI secolo , con ampie differenze tra discipline e aree geografiche.
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