#quattro luglio 1944
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Una strage ~ 10. Le storie di Masseto
Una strage ~ 10. Le storie di Masseto http://wp.me/p5hAe5-jd
«Ho vissuto a Meleto tutta la mia vita» Nella metà del 1944, Meleto[1] è un paese che vive ai margini del comune di Cavriglia nel lembo estremo della provincia di Arezzo, abitato da circa 500 persone. A causa dei bombardamenti alleati su San Giovanni Valdarno, il centro più grande dei dintorni, ospita in quel periodo molti sfollati che occupano case di amici o affittate da abitanti del…
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Festival di Bayreuth 2023
Dal 25 luglio al 28 agosto torna in Germania il Festival di Bayreuth, che attrae ogni anno un pubblico internazionale di appassionati di musica da tutto il mondo per assistere alle rappresentazioni di Wagner in uno dei teatri più prestigiosi del mondo. Si tratta di un'esperienza di culto per gli appassionati, che si immergono completamente nella musica e nell'atmosfera magica del festival. Ritrovo annuale di tutti gli appassionati di Richard Wagner, il Festival di Bayreuth iniziò la sua storia nel 1850 quando il celebre compositore ebbe l'idea di creare una rassegna musicale dedicata alle sue opere e aperta al maggior numero di persone, pensando ad un festival a prezzi popolari se non gratuito. L'amicizia con Ludwig II di Baviera, suo devoto ammiratore e mecenate, gli permise di realizzare il suo sogno, infatti il sovrano, oltre ad assicurargli una sicurezza economica e regalargli una villa prima a Monaco e poi a Bayreuth, gli finanziò la costruzione di un teatro, noto come il Festspielhaus. Basato su un precedente progetto di Gottfried Semper per un teatro a Monaco, mai realizzato per le opposizioni dei ministri del regno, il teatro di Bayreuth fu costruito tenendo conto dei suggerimenti di Wagner, infatti l'orchestra viene nascosta sotto il palco in modo che il pubblico non venga distolto dal seguire l'opera, sono eliminati i palchi per non creare distinzioni di ceto sociale ed economico e inseriti alcuni accorgimenti tecnici e strutturali per rendere l'acustica perfetta. La prima edizione del festival si svolse dal 13 al 30 agosto 1876 con la rappresentazione, per la prima volta, del ciclo delle quattro opere che compongono L'anello del Nibelungo, L'oro del Reno, La Valchiria, Sigfrido e Il crepuscolo degli dei Il successo fu immediato, dato che non solo nel regno di Baviera ma in tutti i salotti della Germania non si parlava che del Festival di Bayreuth. Alla morte del compositore, avvenuta a Venezia nel 1883, la direzione passò alla moglie Cosima (1886-1906) e al figlio Siegfried (1908-1930). Alla morte di Siegfried, subentrò la moglie Winifred, che lo diresse fino al 1944. Il festival riprese nel 1951 sotto la doppia direzione di Wieland e Wolfgang Wagner, figli di Winifred e nipoti di Richard, e la lunga pausa fu dovuta non per la ricostruzione post-bellica ma anche alle polemiche sorte dall'amicizia che legava Winifred a Hitler, che visitò spesso il festival. Alla prematura morte di Wieland nel 1966, unico direttore rimase, e lo fu fino al 2008, il fratello Wolfgang. Tra le personalità presenti al festival ci furono re Ludwig II, gli imperatori Guglielmo I di Germania e Pietro II del Brasile, Pyotr Ilyich Tchaikovsky e, negli anni più recenti, Angela Merkel e numerosi esponenti della vita politica e del jet set tedesco. Arturo Toscanini fu il primo direttore non tedesco del festival nel 1930-31, ma non fece più ritorno a Bayreuth dopo l'avvento del nazismo. Read the full article
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Per quelli che deridono quest’uomo, questa è la sua vita prima che conoscesse la futura regina Elisabetta (da Wikipedia)
Filippo era nato il 10 giugno 1921 presso Villa Mon Repos, sull'isola di Corfù; unico figlio maschio e quinto nato del principe Andrea di Grecia e della principessa Alice di Battenberg,[7] fu battezzato con rito ortodosso nella chiesa di San Giorgio presso la cappella del Palaio Frourio (l'antica fortezza di Haddokkos) alcuni giorni dopo la sua nascita. Suoi padrini furono la nonna paterna Olga Konstantinovna di Russia, lo zio paterno Nicola di Grecia e la comunità di Corfù, rappresentata dal sindaco Alexander Kokotos e dal presidente del consiglio comunale cittadino Stylianos Maniarizis. Alla nascita era membro della casata di Glücksburg, la famiglia regnante in Danimarca, ed era principe di Grecia e Danimarca in virtù della sua discendenza diretta da Giorgio I di Grecia e Cristiano IX di Danimarca, nonché titolato a succedere ad entrambi i troni.
Pochi mesi dopo la nascita di Filippo, morì a Londra suo nonno materno Luigi di Battenberg. Luigi era stato naturalizzato cittadino britannico e, dopo un onorevole e lungo servizio nella Royal Navy, aveva rinunciato ai suoi titoli di origine tedesca e aveva adottato il cognome "Mountbatten", più inglese rispetto al tedesco "Battenberg". Dopo i funerali tenutisi a Londra, Filippo e sua madre ritornarono in Grecia, dove il padre rimase al comando di una divisione dell'esercito che fu coinvolta nella guerra greco-turca (1919-1922).[8]
La guerra non fu favorevole alla Grecia e i turchi vinsero, creando la moderna Repubblica di Turchia. Il 22 settembre 1922 lo zio di Filippo, il re Costantino I di Grecia, fu costretto ad abdicare e il principe Andrea, assieme ad altri, fu arrestato dal governo militare insediatosi. Il comandante dell'esercito reale (il generale Georgios Hatzianestis) e cinque politici furono passati per le armi e si temette per la stessa incolumità del principe. Nel dicembre di quell'anno, però, il tribunale rivoluzionario decise di bandirlo per sempre dal suolo greco.[9] L'incrociatore britannico HMS Calypso permise quindi alla famiglia di lasciare la Grecia (Filippo fu trasportato in una cassa di arance). La famiglia si trasferì in Francia e si stabilì a Saint-Cloud, sobborgo di Parigi.[10]
Filippo crebbe quindi in Francia ma, nel 1928, sotto la guida di suo zio Louis Mountbatten, fu inviato nel Regno Unito per frequentare la Cheam School, vivendo con la nonna Vittoria Alberta d'Assia a Kensington Palace e con lo zio Giorgio Mountbatten a Lynden Manor.[11] Nei successivi tre anni, tutte le sue sorelle sposarono nobili tedeschi e sua madre fu ricoverata in una casa di cura dopo che le era stata diagnosticata la schizofrenia, il che le impedì quasi del tutto di avere contatti col figlio.[12] Suo padre si spostò in un piccolo appartamento a Monte Carlo.[13] Nel 1933 Filippo fu inviato alla Schule Schloss Salem in Germania, diretta da uno dei suoi cognati, il margravio Bertoldo di Baden.[14] Con la salita al potere del nazismo, il fondatore della scuola Kurt Hahn, che era ebreo, fu costretto ad aprire una nuova scuola a Gordonstoun, in Scozia, a causa delle persecuzioni razziali, e quindi anche Filippo si trasferì in Scozia.[15] Nel 1937 sua sorella Cecilia, suo cognato Giorgio Donato d'Assia e due suoi nipotini perirono nell'incidente aereo di Ostenda; Filippo, appena sedicenne, partecipò ai funerali che si tennero a Darmstadt. L'anno seguente lo zio e tutore Giorgio Mountbatten morì di cancro alle ossa.
Dopo aver lasciato Gordonstoun nel 1939, Filippo entrò nella Royal Navy, diplomandosi l'anno successivo al Britannia Royal Naval College di Dartmouth come miglior cadetto del suo corso.[16] Nel 1940 fu assegnato al servizio attivo e trascorse quattro mesi sulla nave da guerra HMS Ramillies con il compito di proteggere i convogli dell'Australian Expeditionary Force nell'oceano Indiano. Dopo un imbarco di due mesi sulla HMS Kent, sulla HMS Shropshire e in Ceylon (oggi Sri Lanka), fu trasferito dall'oceano Indiano alla nave da battaglia HMS Valiant nel Mediterraneo. Tra gli altri incarichi fu coinvolto nella battaglia di Creta e ottenne delle note di merito per il suo servizio durante la battaglia di Capo Matapan, ottenendo la croce di guerra greca al valore.[16]
Filippo fu promosso da guardiamarina a sottotenente dopo una serie di corsi a Portsmouth.[17] Nel giugno del 1942 fu assegnato sulla HMS Wallace, che fu coinvolta nelle operazioni dello sbarco alleato in Sicilia per la liberazione della penisola italiana.[18] Promosso tenente il 16 luglio 1942 alla età di soli 21 anni, nell'ottobre dello stesso anno divenne primo tenente della HMS Wallace e uno dei più giovani ufficiali della marina britannica. Nel 1944 si imbarcò su un nuovo cacciatorpediniere, il HMS Whelp dove prestò servizio nel Pacifico, nella 27ª flottiglia britannica.[19][20] Era presente nella baia di Tokyo quando fu firmata la resa del Giappone. Nel gennaio del 1946, Filippo fece ritorno nel Regno Unito sulla HMS Whelp e fu nominato istruttore presso la HMS Royal Arthur, il campo d'addestramento della marina a Corsham.[21]
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La data del 30 agosto 1941 segna l'effettivo inizio dell'assedio della città di Leningrado; giorno in cui si ebbe l'ultimo collegamento ferroviario con la città e in cui i soldati tedeschi raggiunsero il fiume Neva. Ancora prima dell’invasione della Russia da parte delle forze naziste, il 22 giugno del 1941, furono messi a punto con l'Operazione Barbarossa i piani che portarono verso Leningrado forze consistenti in più di un milione di uomini, 600 carri armati e 1000 aerei. L’armata nazista prese il controllo di Leningrado nell’arco di quattro settimane, già dal 21 luglio del 1941: Hitler sembrava infatti ben deciso ad una rapida presa della città per utilizzare le stesse forze militari in vista di un attacco a Mosca. All’inizio dell’azione tutte le previsioni e le tappe vennero rispettate e mano a mano che i nazisti conquistavano territori, le truppe russe venivano messe in fuga. Al comando dell’operazione c’era il feldmaresciallo Von Leeb al quale Hitler aveva ordinato di provocare all’esercito russo perdite assai più devastanti di quelle causate all’esercito francese; Leningrado era infatti destinata a diventare la prima grande città russa conquistata dai tedeschi. In tutta la sua lunga storia Leningrado non era mai stata attaccata e ora i suoi abitanti si preparavano a difenderla. Sin dai primi giorni della guerra centinaia di migliaia di leningradesi si arruolarono nell’esercito formando intere divisioni militari. La prima linea di difesa passava sulla Lugà, a un centinaio di miglia a ovest della città: questa linea fermò i tedeschi per qualche settimana. La seconda linea di difesa era collocata presso l’istmo di Karelia a circa 25 miglia da Leningrado, mentre il sistema di difesa estremo era collocato a circa 22 miglia dalla città per tutto il suo circondario. I primi attacchi aerei sulla città cominciarono nella giornata del 6 di settembre e proseguirono per tutto il giorno. I russi attaccavano decisamente sulla linea della Lugà e i tedeschi ripiegavano verso nord, dove il cerchio si stringeva sempre di più attorno alla città. Nei primi di settembre i fascisti penetrarono nelle linee di difesa e, nonostante la resistenza, riuscirono comunque a giungere fino al lago Ladoga. Leningrado fu accerchiata. Von Leeb cominciò l’attacco a Leningrado in condizioni di netta superiorità numerica di carri armati e aerei senza però riuscire a conquistarla per 900 giorni. Il maresciallo russo Žukov chiese l’invio di nuove riserve e riuscì a mettere insieme una notevole forza di 50.000 uomini cominciando il contrattacco. Egli ordinò: “Resistere o morire”. L’inverno del 1941 arrivò presto e fu particolarmente rigido. Tutto ciò peggiorò in maniera significativa le condizioni degli abitanti di Leningrado, già svantaggiati dai blocchi delle vie di rifornimento. A novembre, la gente cominciò a morire di fame. Ma l’inverno, inaspettatamente, aprì la via della salvezza: il lago Ladoga a nord di Leningrado aveva una parte completamente congelata e da quel corridoio, denominato ''la strada della vita'' i convogli facevano arrivare prodotti e portavano via persone. La primavera del 1942 portò nuova speranza, ma non cancellò il ricordo: la città si ravvivò, benché non fosse una resurrezione quanto piuttosto una nuova fiducia nella vita. Molti cattivi profeti già prevedevano una repentina caduta dell'impero sovietico, invece i semplici cittadini, anche solo continuando le loro solite occupazioni diedero un grande impulso morale alla resistenza. Era passato quasi un anno e Leningrado, nonostante tutto, viveva. L’armata tedesca si preparava ad affrontare il suo secondo inverno nei boschi intorno alla città e non sarebbe stato neanche l’ultimo. Il primo grande attacco dell’esercito sovietico fu posto in essere da circa 200.000 soldati da nord su due fronti nel gennaio del 1944. La linea difensiva tedesca fu distrutta e furono portati attacchi da tre direzioni. Quando le truppe russe si ricongiunsero, fu ricostituito un golfo e Leningrado terminò di essere un’isola. L'assedio era finalmente terminato. Dalla nera polvere, dal posto Della morte e delle ceneri, risorgerà il giardino come prima. Così sarà. Credo fermamente nei miracoli. Sei tu che mi hai dato questa fede, mia Leningrado. Olga Bergol'c
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“Da bambino divoravo gli atlanti”. Fosco Maraini, dalle segrete del Tibet al mignolo mozzato
Siamo un paese di avventurieri – che trovano scrittura nell’avventatezza. Mi è capitato un libro di spudorata bellezza, Afghanistan, ultimo silenzio. Lo firma Riccardo Varvelli per De Donato nel 1966: stile schietto ma con il gusto per il dettaglio, fotografie magnetiche, il viaggio come eccidio del sé, intrusione in una saggezza pietrificata. “È l’enigma dell’alpinismo. Si soffre, si rischia la vita per un risultato di cui, appena acquisito, ci si sente incapaci di gioire”; “Se sapere di vivere è più importante che vivere bisogna ogni tanto fermarsi. Stare con il cuore seduto di fronte a un paese silenzioso per misurare se stessi in rapporto a una realtà sconosciuta. Raccogliere il nan e la luce, la fatica e la neve, il deserto e la folla, ma senza mai perdere il filo. Perché esistere vuol dire tornare”. Perché non si stampano più questi libri, che consentono alla mente – quindi, al corpo – di andare in terre incognite? La letteratura italiana nasce raccontando i viaggi di questo – Marco Polo – e altri – Dante – mondi: perché ci siamo ridotti a narrare la periferia del nostro io?
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Un giorno dovrò filare la storia di Giovanni Battista Cerruti, “l’uomo che era diventato re dei terribili Sakai”, morto nel 1914 “in un piccolo ospedale di Penang, in Malesia, per una banale appendicite… il capitano che nell’illusione di compiere l’impresa risolutiva della propria esistenza aveva solcato mari, esplorato foreste, raccolto esemplari sconosciuti di fauna e flora per i musei, fondato imprese commerciali fallimentari, scoperto miniere”, questa specie di incrocio tra il Kurtz di Conrad e il Fitzcarraldo di Herzog, di cui l’editore Ecig, tre decenni fa, ripropose il leggendario romanzo-reportage, Tra i cacciatori di teste. Ecco: tre quarti di narrativa attuale andrebbe decapitata, in virtù di questi scoordinati, scriteriati, sgrammaticati, straordinari narratori di viaggio.
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Torno in me. Nella stessa collana De Donato in cui è pubblico Varvelli, “All’insegna dell’orizzonte”, ci sono i libri di Ettore Biocca – Yonoama, sugli indios dell’Amazzonia – di Gianni Roghi – I selvaggi – di Folco Quilici – I mille fuochi, Sesto continente. Li ristamperei tutti, sono più utili di un documentario – gli occhi si accontentano di guardare ciò che trasmette la superficie dello schermo, le parole portano nella quarta dimensione dell’immaginare. De Donato – già Leonardo da Vinci – pubblicava i grandi libri di Fosco Maraini. Nel libro che possiedo ne promuovono quattro: G 4. Baltoro Karaorum, Ore giapponesi, Paropàmiso, Segreto Tibet. Nel ‘Meridiano’ Mondadori, Pellegrino in Asia (2007; a cura di Franco Marcoaldi), si riproducono i libri maggiori – Segreto Tibet, Ore giapponesi – e una manciata di “Scritti scelti”; La Nave di Teseo ha ripubblicato, lo scorso anno, Case, amori, universi e Gnosi delle fànfole. Qualche anno fa l’istrione Claudio Cardelli, presidente dell’Associazione Italia-Tibet, passionaccia per i Beatles, amico di Maraini, mi ha concesso l’edizione Dren-Giong, “il primo libro di Fosco Maraini” (il primissimo è la Guida dell’Abetone per lo sciatore del 1934), nell’edizione Corbaccio del 2012, con “i ricordi dei suoi amici”.
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Fosco Maraini unisce diversi talenti: la rapacità linguistica – pari a un Gianni Brera per estro –, l’istinto narrativo, la sapienza da “etnologo poeta”. Si diceva Clituvit, “Cittadino-Luna-Visita-Istruzione-Terra”, era qualcosa tra Indiana Jones e Jack London – in realtà, deve l’amore per l’Asia a due libri particolari: Three Years in Tibet del monaco giapponese Ekai Kawagchi e With Bayonets to Lhasa dell’ufficiale inglese Sir Francis Younghusband. Era un estraneo che incontrava dei diversi, studiandoli con il rigore dello scienziato e la curiosità dello scrittore: questo lo rende, ai miei occhi, più accattivante, più spigliato di Bruce Chatwin, impegnato nella bizantina narrazione del proprio io.
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Un paio di eventi su tutti. Il viaggio come esito del fantasticare. Il viaggio, prima di tutto, lo si custodisce, lo si prepara, lo si ama nella testa, nell’ardore metafisico dell’impossibile. “Ero un adoratore, un divoratore e naturalmente un distruttore di atlanti… Isole, penisole, continenti, laghi, bracci di mare suggerivano coi loro profili personaggi, cose, favole”, ricorda Maraini. Il mondo va divorato immaginando il seguente, incendiando mappe. Il tormento enigmatico di una carta geografica è proprio quello: alla foce di un nome si elevano fiabe, sotto una macchia marrone s’ipotizzano civiltà, lotte, eresie, si vede perfino quel piccolo volto che sporge da un castello sui giunchi.
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Secondo episodio. Fosco Maraini è in Giappone. È nata da poco l’ultima figlia, Antonella. È da poco uscito il primo studio sugli Ainu. La Seconda guerra impedisce allo studioso il ritorno in Italia; dopo l’Otto settembre, l’arresto. “Rifiutandosi di aderire alla Repubblica di Salò, Fosco e Topazia, dopo un breve periodo di arresti domiciliari a Kyoto, vengono trasferiti insieme alle figlie nel campo di internamento Tempaku a Nagoya” (Marcoaldi). “Tolte alcune piccolezze, l’inizio parve buono”, attacca Fosco. Le cose procedettero in modo meno buono. Il 18 luglio del 1944, vista la scarsità di cibo, i prigionieri iniziano uno sciopero della fame. Il capo dei poliziotti accusa di tradimento i prigionieri. Fosco – così nel racconto della moglie, Topazia Alliata – “afferra l’accetta (della cucina), si taglia il dito mignolo della mano sinistra, lo raccatta e lo getta al terrorizzato Kasuja gridando… gli italiani non sono dei bugiardi. Tutti fuori di sé: terribile impressione”. Iosif Brodskij direbbe, “La più sicura difesa contro il Male è un individualismo estremo, l’originalità di pensiero, la bizzarria, perfino – se volete – l’eccentricità”. Cioè: sorprendere con una scelta superiore; capire il nemico, essere spietati con ciò che si ha – la presa psichica.
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L’effetto che ti fa leggere Maraini: partire! Segui il primo sfarfallio azzurro all’orizzonte, piglialo per l’Himalaya, parti! Ogni tigre, sembra dire l’infaticabile Fosco, in fondo, giace nella gabbia delle tue costole. Segreto Tibet è il suo libro più sgargiante, forse è uno dei romanzi più belli del Novecento italiano. Qui un cammeo che ritrae Giuseppe Tucci: “Non so perché, Tucci d’un tratto s’è immusonito. Ha l’aria di cercare qualcosa che non trova. Osserva, annota, torna sui suoi passi, ma non parla più… Ormai so che in simili frangenti occorre tacere, possibilmente cancellarsi per un poco dal paesaggio. Ho per compagno un uomo dalla mente eccelsa, ma dal carattere d’infinita complessità, tutto trabocchetti e botole nascoste. Del resto lo ripete sovente lui stesso: ‘Odio gli uomini, amo invece gli animali! Mi piacciono i puniti dal karma, non i premiati! Magari i Budda fanno eccezione… Ma noi li vediamo solo in arte’. Tucci ha in sé qualcosa di notturno, di felino, di tantrico della mano sinistra. Ed è gelosissimo della propria cittadella interiore!”.
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Uno dei libri remoti di Maraini: Gli ultimi pagani (l’ho in edizione Bur 2001). Raccoglie alcuni studi straordinari di Fosco: quello sugli Ainu, gli indigeni giapponesi, di cui racconta lo iyomande, l’uccisione rituale dell’orso; quello sui Cafiri, “gli infedeli, cioè non-cristiani e non-ebrei, in pratica i pagani, i primitivi rimasti ancora fuori dal campo dell’azione missionaria islamica”, tra i picchi di Pakistan e Afghanistan. Maraini sonda le stirpi estirpate, gli ultimi sussulti di culture travolte dal sopruso, dalle avversità della storia, dalla sfortuna; censisce le patrie perdute, gli dèi al tramonto, col cranio mozzo, l’eroismo degli inflessibili – altro che infedeli.
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A una delle sue spedizioni himalayane, sul Saraghrar, cima dell’Hindu Kush, fino ad allora inviolata, è il 1959, Maraini dedica Paropàmiso (1963). La spedizione, coordinata dalla sezione CAI di Roma, conta anche Franco Alletto e Giancarlo Castelli Gattinara. Quest’ultimo, nel 2007, con Marietti, pubblica la sua versione dell’impresa, Viaggio in Himalaya, che nel sottotitolo (“Un agnostico, un comunista, un cattolico discutono durante un’ascensione nelle montagne dell’Hindu Kush”) tradisce lo stile: è una specie di libro ‘platonico’, dove l’ascesa coincide con la disciplina del capire. Maraini, in questo concerto di voci, è l’agnostico; e dice, tra l’altro. “È l’uomo l’eterno soggetto, il centro da cui tutto parte e il nucleo in cui tutto si risolve. L’altro termine è il Mistero, la comoedia della vita e della morte. Le religioni sono la somma dei messaggi che l’uomo legge in questo Mistero… Le religioni servono all’uomo, non viceversa. Il cristianesimo ha percorso il suo arco naturale di secoli, forse è tempo di riporlo, con tutto il rispetto per le grandi cose del passato, in un museo. Quante religioni non ha creato e lasciato lungo la sua strada, l’uomo!”. In montagna per sfracellare le idee di Dio.
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Se nel 1937 Maraini ha il fegato e il sale di proporsi a Tucci, in preparazione per l’ennesimo viaggio verso il Tibet, “come fotografo”; se alla fine della sua vita – nel 2004 – confessa, “ho optato per la Rivelazione Perenne, cioè il regime religioso in cui Dio parla, per chi vuole ascoltarlo, non attraverso messaggi singolari concessi in punti particolari dello spazio e in momenti particolari del tempo (Rivelazione Puntuale), bensì sempre e ovunque, nella natura e nella vita umana intorno a noi”, sarà anche perché nella villa di famiglia a Poggio Imperiale passeggiavano Bernard Berenson e D.H. Lawrence, H.G. Wells e Aldous Huxley (quello della Filosofia Perenne), Ardengo Soffici e Norman Douglas. Certo, Fosco era piccino e scatenato, me certe cose restano, tra le ciglia e sotto le unghie. Tutto, d’altronde, è letteratura, parola che fonda sedie e tavoli. (d.b.)
*In copertina: una fotografia “giapponese” di Fosco Maraini
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La famiglia Chaplin è una dinastia di artisti di spettacolo.
Charles Chaplin Senior (1863–1901) è noto soprattutto per essere stato il padre dell'attore e regista Charlie Chaplin , sposò Hannah Harriet Pedlingham Hill (1865–1928) da cui ebbe tre figli:
Sydney John Chaplin (1885–1965), adottato, nato Sydney John Hill in quanto figlio di Sydney Hawkes; si sposò due volte ma non ebbe figli.
Sir Charlie Chaplin - (Londra, 16 aprile 1889; Corsier-sur-Vevey, Svizzera, 25 dicembre 1977) - era figlio degli artisti Hannah Chaplin, conosciuta come Lily Harley, e Charles Chaplin Senior. Ebbe due fratellastri, uno maggiore di quattro anni, Sydney, nato da una precedente relazione della madre, e uno minore di venti, Wheeler Dryden, figlio della madre Hannah e del cantante Leo Dryden. Charlie Chaplin ebbe undici figli in tutto: il primo nacque dal matrimonio con Mildred Harris, durato dal 1918 al 1920, ma il bambino, Norman Spencer, nato con gravi malformazioni, sopravvisse solo tre giorni. Ne ebbe due dalla seconda moglie Lita Grey, con cui fu sposato dal 1924 al 1927 e altri otto dalla quarta e ultima moglie Oona O'Neill, sposata nel 1942 e con cui rimase fino alla morte[2].
George Wheeler Dryden (1892–1957), adottato, figlio di Leo Dryden; sposò la ballerina Alice Chapple; 1 figlio.
Charlie Chaplin junior (Beverly Hills, California, 5 maggio 1925 - 20 marzo 1968), fu un attore e agente. Morì all'età di 42 anni per un'embolia polmonare .
Sydney Earle Chaplin (Los Angeles, California, 31 marzo 1926 - Rancho Mirage, California, 3 marzo 2009), attore.
Géraldine Chaplin (Santa Monica, California, 31 luglio 1944) attrice, compagna del regista spagnolo Carlos Saura dal quale ha avuto un figlio, Shane Saura. Con il marito, il direttore della fotografia cileno Patricio Castilla invece, ha avuto una figlia, Oona Chaplin (nata a Madrid il 4 giugno 1986), anche lei attrice.
Michael John Chaplin (Santa Monica, California, 7 marzo 1946), attore. Ha due figli e tre figlie, tra cui le attrici Carmen Chaplin (New York, 4 febbraio 1972) e Dolores Chaplin (New York, 28 ottobre 1976).
Joséphine Hannah Chaplin (nata a Santa Monica, California, il 28 marzo 1949), sposata con Maurice Julien Marie Robinet (Nizza, 13 aprile 1927 - Parigi, 14 marzo 1983), attore, regista e scrittore francese noto con lo pseudonimo di Maurice Ronet, dal quale ha avuto un figlio, Julien Ronet (nato nel 1980). Ha inoltre avuto altri due figli in altri rapporti.
Victoria Chaplin (Santa Monica, California, 19 maggio 1951), attrice, sposata con Jean-Baptiste Thiérrée, attore e scrittore francese con il quale ha fondato Le cirque bonjour, quindi Le cirque imaginaire, più tardi Le cirque invisibile (Il circo invisibile). La coppia ha avuto due figli: Aurélia Thierrée (nata il 24 settembre 1971 a Losanna), attrice, e James Spencer Henry Edmond Marcel Thierrée (nato il 2 maggio 1974 a Losanna), attore.
Eugene Antony Chaplin (Corsier-sur-Vevey, Svizzera, 23 agosto 1953), produttore di spettacoli di circo. Ha avuto molti figli, tra cui Kiera Sunshine Chaplin (nata a Belfast, il 1º luglio 1982), modella e attrice.
Jane Cecil Chaplin (Corsier-sur-Vevey, Svizzera, 23 maggio 1957) attrice, è stata sposata con il produttore cinematografico e televisivo messicano Ilya Salkind, dal quale ha avuto due figli.
Annette-Emilie Chaplin (Corsier-sur-Vevey, Svizzera, 3 dicembre 1959), attrice.
James Christopher Chaplin (Corsier-sur-Vevey, Svizzera, 6 luglio 1962), attore.
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ARTE: lo scrittore Tahar Ben Jelloun in mostra con “Erice un posto unico al mondo”
“Per me è gioia e allegria”, dice l’autore marocchino. Dodici tele esposte fino a novembre 2023
Erice (TP), 20 settembre 2022 - S’intitola “Erice un posto unico al mondo”, dodici opere di Tahar Ben Jelloun in mostra nella Torretta Pepoli dal 20 settembre 2022 fino al 4 novembre 2023. Si tratta di tele realizzate dallo scrittore e poeta marocchino tra il 2010 e il 2011 e che rappresentano l’approdo di un intellettuale raffinato, testimone con la sua scrittura dei tormenti e delle istanze della società contemporanea, alla pittura. Un linguaggio a lungo inesplorato che, nel 2014, insieme ad altri artisti lo ha portato fino a Lipari, con una installazione permanente nell’ala dedicata all’arte contemporanea del Parco Archeologico delle Eolie.
Spiega Jelloun: “Fu Lorenzo Zichichi a convincermi che potevo dipingere unendo la pittura al mestiere di scrittore. Per lavorare al meglio, nell’estate del 2010, arrivai in Sicilia dove, prima ad Agrigento e poi ad Erice, ho realizzato le mie prime grandi tele. La pace e la tranquillità, i colori, l’atmosfera regale nella quale vivevo e la luce che cangiava tra sole e nuvole in piena estate, mi hanno molto ispirato. Oggi alterno la mia attività di scrittore - spesso indirizzata ai mali del mondo, alle angosce del nostro tempo, alle disavventure sentimentali e psicologiche che viviamo - a quella di pittore, che per me è gioia e allegria. Sono davvero grato ad Erice che mi ha fatto intraprendere questa seconda carriera, e quanto mai felice che alcune delle mie opere, realizzate proprio in Italia, siano oggi esposte nella Torretta della Pace, parola, quest’ultima, indispensabile al benessere dell’uomo”.
A introdurre l’esposizione di Tahar Ben Jelloun è un volo di colombe che dal Castello di Venere punteggia il sentiero che conduce alla Torretta Pepoli. Un’installazione curata da Studio PLS – collettivo di artisti e artigiani di Erice – per ricordare ai visitatori la vocazione e l’appellativo di “Erice, città della Scienza e della Pace”. La mostra è stata presentata a Erice martedì 20 settembre a margine della conferenza della Fondazione Ettore Majorana e Centro di Cultura Scientifica - istituito nel 1963 dal fisico prof. Antonino Zichichi – durante la quale sono stati presentati gli oltre 40 seminari internazionali in programma da marzo a dicembre 2023. Info http://www.ccsem.infn.it/
La mostra “Erice un posto unico al mondo” è inserita nel circuito della Erice Card che al costo di 6 euro include l’accesso a vari siti culturali e tariffe agevolate per altri servizi, tra cui la funivia. Visite tutti i giorni dal luglio a settembre (h.10-19) e ottobre (h. 10-18); da novembre a marzo aperture nei giorni di sabato, domenica e festivi (h. 10.30 – 18); da aprile a giugno aperture tutti i giorni (10-18). Ulteriori informazioni su www.fondazioneericearte.org
Tahar Ben Jelloun | biografia
Tahar Ben Jelloun è uno scrittore, poeta e saggista marocchino nato a Fes il 1º dicembre del 1944 da una famiglia benestante di etnia berbera. Si trasferisce a Tangeri, dove frequenta il liceo francese, e poi a Rabat. Qui si iscrive all’università laureandosi in filosofia. Intorno ai primi anni ’60 Ben Jelloun inizia la sua carriera di scrittore partecipando attivamente alla stesura della rivista Souffles che è diventata uno dei movimenti letterari più importanti del Nord-Africa. In patria, ha svolto per diversi anni il ruolo di docente di filosofia, ma a causa dell’arabizzazione dell’insegnamento (e non essendo abilitato alla pedagogia in lingua araba), nel 1971 emigra a Parigi, e tre anni dopo consegue un dottorato in psichiatria sociale sulla confusione mentale degli immigrati ospedalizzati. Nel frattempo ha continuato a scrivere, sempre in francese, collaborando col quotidiano Le Monde. Oggi vive a Parigi ed è padre di quattro figli. Ben Jelloun è noto soprattutto per i suoi scritti sull’immigrazione e il razzismo, ed è divenuto lo scrittore straniero francofono più conosciuto in Francia.
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25 AGOSTO 1944: LA LIBERAZIONE DI PARIGI. L'Esercito di liberazione francese e gli Alleati entrarono a Parigi il pomeriggio del 25 agosto 1944 ponendo così fine all'occupazione nazista che durava da quattro anni. Entrarono per primi gli spagnoli fuoriusciti dopo la guerra civile e inquadrati nell'esercito di liberazione, assieme ai francesi di Leclerc con una divisione corazzata. Charles de Gaulle entrò nella città liberata dalla porta d’Orléans, dopo aver percorso il tragitto inverso cui era stato costretto il 10 giugno 1940. Le forze tedesche nella capitale ammontavano a circa 20.000 uomini comandati dal generale Dietrich Von Choltitz. Male armati e tra i meno abili allo scontro diretto nulla poterono contro le forze anglo-americane e i francesi di De Gaulle e Leclerc. Inoltre, nei giorni precedenti fra il 18 e il 25 luglio, gli insorti parigini avevano eretto barricate stringendo i tedeschi in una morsa, gli scontri costarono ai francesi più di 1.000 vittime e oltre 1.500 feriti. L'ordine estremo di Hitler di radere al suolo i monumenti e i ponti di Parigi facendo terra bruciata non venne eseguito da Von Choltitz resosi conto dell'inutilità di un'ulteriore spargimento di sangue di fronte ad una sconfitta ormai certa. (con Amanti della storia)
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Mariannina Ciccone
https://www.unadonnalgiorno.it/marianna-ciccone/
Mariannina Ciccone è la fisica siciliana passata alla storia per aver coraggiosamente salvato dalla distruzione l’Istituto di Fisica dell’Università di Pisa, nel 1944.
I suoi studi sulla struttura della materia e sulla spettroscopia infrarossa, pubblicati quasi tutti sul Nuovo Cimento, rivista della Società Italiana di Fisica, hanno contribuito all’avanzamento delle ricerche nel campo delle vibrazioni molecolari, fondamentali in meccanica quantistica.
A lungo dimenticata, la sua storia è tornata alla luce nel 2016, grazie ad alcune ricerche sui saccheggi del patrimonio universitario italiano da parte dei nazisti.
Mariannina Corradina Ciccone nacque a Noto, in provincia di Siracusa, il 29 agosto 1891. Seconda dei tre figli del commerciante Corrado Ciccone e Giuseppina Mirmina, scelse di studiare una materia insolita a quei tempi per una donna, per di più meridionale.
Conseguì ben due lauree all’Università di Pisa, una in Matematica nel 1919 e una in Fisica nel 1924.
Nel 1931 venne promossa Aiuto dell’Istituto di Fisica (una sorta di vicedirettrice).
Quattro anni dopo trascorse un periodo in Germania, nell’Istituto di Fisica della Scuola di Ingegneria di Darmstadt, collaborando nel campo di ricerca della spettroscopia con il professore Gerhard Herzberg, Premio Nobel per la Chimica nel 1971, costretto a fuggire in Canada per le sue origini ebree.
Rientrata in Italia, nel 1939 ha insegnato spettroscopia all’Università di Pisa.
L’estate del 1944 vide efferate violenze naziste contro civili, distruzione e saccheggi ovunque. Non vennero risparmiate neppure le università, i militari tedeschi depredarono anche l’Istituto di Fisica, in più riprese, rubando importante materiale scientifico, strumenti, libri e riviste. Il 7 luglio, quando fecero saltare in aria un’ala della facoltà, la Professoressa Ciccone, fu l’unica a rifiutarsi di abbandonare l’Istituto. Mentre i soldati saccheggiavano, la donna, con l’aiuto del custode, nascose gli “oggetti più pregevoli” nella parte non minata, dimostrando un notevole coraggio. Infuriata, si precipitò sui tedeschi urlando di farli smettere, mettendo a rischio la sua vita e riuscendo, in questo modo, a limitare i danni.
Grande è stato il suo impegno per creare e tener viva una scuola di spettroscopia sperimentale e ottica a Pisa, con insegnamenti teorici e sperimentazioni pratiche di laboratorio che furono il suo principale campo di ricerca e la passione di tutta una vita. Vinse ben due concorsi come professoressa ordinaria di Fisica Sperimentale senza riuscire a essere chiamata da nessuna università italiana.
Ha continuato a insegnare a Pisa fino al 1962, dopo il pensionamento tornò nella sua città natale, dove è morta il 29 marzo 1965.
Mariannina Ciccone è una di quelle persone che hanno dato lustro all’università italiana ma sono state lasciate in ombra e poi dimenticate dal mondo accademico.
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21 marzo 1943, il fallito attentato ad Hitler
21 marzo 1943, il fallito attentato ad Hitler
Quasi tutti conoscono, l’attentato portato alla persona del Fuhrer il 20 luglio 1944 nella cosiddetta “tana del lupo” il il suo quartier generale nella foresta di Rastenburg, nella Prussia Orientale, da un un gruppo di alti ufficiali ed eseguito materialmente dal colonnello Claus von Stauffenberg. L’operazione si concluse con quattro morti: i Generali Rudolf Schmundt e Gunther Korten, il…
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#21 marzo 1943#Attentato a Hitler#Claus von Stauffenberg#Henning von Tresckow#Rudolf Christoph Freiherr von Gersdorff
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Una strage - 13. Tre donne sedute in piazza
Una strage - 13. Tre donne sedute in piazza
P. Picasso – Tre donne alla fontana (1921) – olio su tela – Museum of Modern Art, New York anche se fossimo feriti, dilaniati, distrutti, sarebbero i nostri racconti a rimetterci in piedi. Sono il cantastorie, il creatore di sogni e il costruttore di miti, cioè la nostra fenice, a rappresentare la parte migliore di noi, quella più creativa. DORIS LESSING Dovete guardare al di là del vostro…
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Storia di Beate Uhse, che da Junker divenne regina del “sexy shop”
Tra le virago tedesche in piena collimanza col nazismo paganeggiante, antisemita, anticristiano e modernista-reazionario, come fu per esempio la diva del Terzo Reich Leni Riefenstahl, meno nota ma forse più importante e significativa fu Beate Kostlin Uhse, che fu aviatrice acrobatica durante la guerra e successivamente divenne la prima ideatrice e principale monopolista dell’industria del sesso in Germania.
Beate era la più giovane di tre figli e nacque il 25 ottobre 1919 a Wargenau nella Prussia orientale, dove suo padre Otto Köstlin proprietario terriero, aveva una grande tnuta. Sua madre, Margarethe Köstlin-Räntsch, era una delle prime donne-medico in Germania, e fin dal principio educò i figli ad una libera mentalità ed all’ idea dell’ igiene sessuale. Beate fin da adolescente era molto sportiva, frequentò la scuola di vela e si specializzò nel lancio del giavellotto. A sedici anni lasciò la tenuta dei genitori per lavorare come ragazza alla pari in Inghilterra.
Al suo ritorno dall'Inghilterra, si indirizzò subito per apprendere la tecnica dell’aviazione. Ricevette le prime lezioni di volo nel 1937 vicino a Berlino. Qui, dopo una breve relazione segreta, sposò nel 1939 Hans Jurgen Uhse, suo istruttore, dal quale ebbe un figlio. Beate si specializzò in volo acrobatico e partecipò per conto della azienda Bucker a finzioni cinematografiche pilotando aerei che mimavano azioni di guerra. Tra il 1942 e il 1944, Beate Uhse si impegnò davvero in voli militari di trasferimento, pilotando Messerschmitt sotto il fuoco degli aerei da combattimento inglesi ed ottenne il grado di capitano. Suo marito Jurgen Uhse era tra i piloti che aspettavano ogni giorno di intercettare squadroni di bombardieri americani e britannici. Il 30 maggio 1944, si scontrò con un aereo da combattimento a terra e morì. Nella primavera del 1945, la marcia dell'Armata Rossa verso Berlino spinse Beate a fuggire con suo figlio verso il confine danese dove furono catturati dagli inglesi. Come ex pilota, è stata interrogata per sei settimane prima di essere rilasciata.
Da quel momento la sua vita cambiò radicalmente. Vedova, povera, senza più casa e famiglia (il padre e la madre erano stati uccisi da soldati russi nella tenuta di Wargenau) Beate Uhse scontò il primo dopoguerra affrontando le regole del mercato nero con l’esigenza di trovare mezzi di sussistenza fin che non ebbe l’dea di pubblicare e diffondere un opuscolo sul metodo Ogino Knaus per il controllo delle nascite, problema umano e sociale che afflliggeva la vita di tante donne. Fu nel 1947 l’inizio di una avventura che la portò in pochi anni ad allargare la sua attività, vendendo contraccettivi e ‘consigli per il matrimonio’ per una buona intesa sessuale tra le coppie.
Se nel 1951 aveva appena quattro dipendenti, dieci anni dopo aveva cinque milioni di clienti che fruivano dei precetti di ‘igiene sessuale’, acquistando ogeeti diogni tipo nella catena incipiente dei suoi ‘sexy shop’. Tenace e combattiva, la Uhse fronteggiò le reazioni della morale corrente che le procurarono critiche sulla stampa e ispezioni nella rete dei suoi locali; e così continuò ad operare con successo.
Nel 1972, divorziò dal secondo marito, l'imprenditore Ernst-Walter Rotermund. Nel 1984, suo figlio Klaus morì di tumore nel 1984. Beate si ritirò gradualmente dal management dell'azienda.. Indebolita da malattie e molte operazioni, morì il 18 luglio 2001 in Svizzera. Per decenni, la sua industria dell’eros è stata una delle più conosciute in Europa con ben 1.250 dipendenti che hanno realizzato vendite per 260 milioni di euro. Gli affari sono crollati solo con l’avvento della digitalizzazione. Invece che nei negozi, i clienti acquistavano i prodotti ‘sexy’ su Internet. La società Beate-Uhse ha riconosciuto l'importanza del trading online troppo tardi, il che ha comportato notevoli perdite finanziarie. Nel 2017, la società ha dovuto infine presentare istanza di fallimento a causa dell'insolvenza. Ciò che rimane è il ricordo della fondatrice, con la sua insolita biografia.
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Il 5 giugno 1944 inizia in primo corso S.A.F della Xª MAS Come prima sede fu trovata una scuola elementare a Sulzano, un paesino sulle sponde del lago d'Iseo dove il 5 giugno del '44 prese il via il primo corso, denominato "Nettuno". Il 21 luglio il Corso si trasferì a Grandola, in provincia di Como, nei locali più idonei dell'Albergo Miravalle. Pochi giorni dopo, il mattino del 4 agosto, un gruppo d'allieve intente alla ginnastica fu attaccato da un gruppo di partigiani; quattro volontarie furono prese prigioniere. Il 15 agosto 1944 terminò il primo corso, superato da 36 allieve,da cui furono tratte sia le componenti del 1° Reparto SAF X, creato ufficialmente lo stesso 15 agosto 1944 ed avente sede a Milano, sia i quadri per la struttura didattica ed amministrativa dello stesso Servizio. Fonte: decima-mas.net
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E’ in corso una vera e propria offensiva di recupero del fascismo: dalla spiaggia di Chioggia, ai campi estivi neo–nazisti, ai manifesti inneggianti alla bontà di governo di Mussolini. Più in generale il clima è di allentamento al riguardo dei principi fondamentali dell’antifascismo, sulle sue ragioni profonde, sulla realtà storica dei fatti. Ha contribuito a questa sorta di rilassatezza culturale l’attacco alla Costituzione tentato nel corso die mesi scorsi e (provvisoriamente?) respinto con il voto del 4 Dicembre 2016. Per questi motivi è bene tener viva la memoria, perché senza di essa si smarrisce l’identità repubblicana dell’Italia: il profondo significato etico e politico di questa identità conquistata con la lotta. Queste le ragioni del tentativo di rinnovo del ricordo contenuto in questo intervento, partendo dalle due stragi–simbolo compiute dai nazifascisti nell’estate del 1944 a Sant’Anna di Stazzema e a Marzabotto. Intervento che si conclude con l’elenco delle 139 stragi compiute su tutto il territorio nazionale per un totale (secondo l’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia) di circa 23.000 vittime Sant’Anna di Stazzema All’inizio dell’agosto 1944 Sant’Anna di Stazzema era stata qualificata dal comando tedesco come “zona bianca”, ossia una località adatta ad accogliere sfollati: per questo la popolazione, in quell’estate, aveva superato le mille unità. Inoltre, sempre in quei giorni, i partigiani avevano abbandonato la zona senza aver svolto operazioni militari di particolare entità contro i tedeschi. Nonostante ciò, all’alba del 12 agosto 1944, tre reparti di SS salirono a Sant’Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle sopra il paese di Valdicastello. Alle sette il paese era circondato. Quando le SS giunsero a Sant’Anna, accompagnati da fascisti collaborazionisti che fecero da guide[10], gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro in quanto civili inermi, restarono nelle loro case. In poco più di mezza giornata vennero uccisi centinaia di civili di cui solo 350 poterono essere in seguito identificate; tra le vittime 65 erano bambini minori di 10 anni di età. Dai documenti tedeschi peraltro non è facile ricostruire con precisione gli eventi: in data 12 agosto 1944, il comando della 14ª Armata tedesca comunicò l’effettuazione con pieno successo di una “operazione contro le bande” da parte di reparti della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS nella “zona 183”, dove si trova il territorio del comune di S. Anna di Stazzema; l’ufficio informazioni del comando tedesco affermò che nell’operazione 270 “banditi” erano stati uccisi, 68 presi prigionieri e 208 “uomini sospetti” assegnati al lavoro coatto. Una successiva comunicazione dello stesso ufficio in data 13 agosto precisò che “altri 353 civili sospettati di connivenza con le bande” erano stati catturati, di cui 209 trasferiti nel campo di raccolta di Lucca I nazistifascisti rastrellarono i civili, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra, bombe a mano, colpi di rivoltella e altre modalità di stampo terroristico. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni(23 luglio-12 agosto 1944). Gravemente ferita, la rinvenne agonizzante la sorella maggiore Cesira (Medaglia d’Oro al Merito Civile) miracolosamente superstite, tra le braccia della madre ormai morta. Morì pochi giorni dopo nell’ospedale di Valdicastello. Infine, incendi appiccati a più riprese causarono ulteriori danni a cose e persone. Non si trattò di rappresaglia (ovvero di un crimine compiuto in risposta a una determinata azione del nemico): come è emerso dalle indagini della procura militare di La Spezia, infatti, si trattò di un atto terroristico premeditato e curato in ogni dettaglio per annientare la volontà della popolazione, soggiogandola grazie al terrore. L’obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra i civili e le formazioni partigiane presenti nella zona. La ricostruzione degli avvenimenti, l’attribuzione delle responsabilità e le motivazioni che hanno originato l’Eccidio sono state possibili grazie al processo svoltosi al Tribunale militare della Spezia, conclusosi nel 2005 con la condanna all’ergastolo per dieci SS colpevoli del massacro; sentenza confermata in Appello nel 2006 e ratificata in Cassazione nel 2007. Nella prima fase processuale si è svolto, grazie al pubblico ministero Marco de Paolis, un imponente lavoro investigativo, cui sono seguite le testimonianze in aula di superstiti, di periti storici e persino di due SS appartenute al battaglione che massacrò centinaia di persone a Sant’Anna. Fondamentale, nel 1994, anche la scoperta avvenuta a Roma, negli scantinati di Palazzo Cesi-Gaddi, di un armadio chiuso e girato con le ante verso il muro, ribattezzato poi armadio della Vergogna, poiché nascondeva da oltre 40 anni documenti che sarebbero risultati fondamentali ai fini di una ricerca della verità storica e giudiziaria sulle stragi nazifasciste in Italia nel secondo dopoguerra. Prima dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, nel giugno dello stesso anno, SS tedesche, affiancate da reparti della X MAS, massacrarono 72 persone a Forno. Il 19 agosto, varcate le Apuane, le SS si spinsero nel comune di Fivizzano (Massa Carrara), seminando la morte fra le popolazioni inermi dei villaggi di Valla, Bardine e Vinca,nel comune di Fivizzano . Nel giro di cinque giorni uccisero oltre 340 persone, mitragliate, impiccate, financo bruciate con i lanciafiamme. Nella prima metà di settembre, con il massacro di 33 civili a Pioppetti di Montemagno, in comune di Camaiore (Lucca), i reparti delle SS portarono avanti la loro opera nella provincia di Massa Carrara. Sul fiume Frigido furono fucilati 108 detenuti del campo di concentramento di Mezzano (Lucca), mentre a Bergiola i nazisti fecero 72 vittime. MARZABOTTO Dopo l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema avvenuta il 12 agosto 1944, gli eccidi nazisti contro i civili sembravano essersi momentaneamente fermati. Ma il feldmaresciallo Albert Kesselring aveva scoperto che a Marzabotto agiva con successo la brigata Stella Rossa e voleva dare un duro colpo a questa organizzazione e ai civili che l’appoggiavano. Già in precedenza Marzabotto aveva subito delle rappresaglie, ma mai così gravi come quella dell’autunno 1944. Capo dell’operazione fu nominato il maggiore Walter Reder, comandante del 16º battaglione esplorante corazzato (Panzeraufklärungsabteilung) della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS, sospettato a suo tempo di essere uno tra gli assassini del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss. La mattina del 29 settembre, prima di muovere all’attacco dei partigiani, quattro reparti delle truppe naziste, comprendenti sia SS che soldati della Wehrmacht, accerchiarono e rastrellarono una vasta area di territorio compresa tra le valli del Setta e del Reno, utilizzando anche armamenti pesanti. «Quindi – ricorda lo scrittore bolognese Federico Zardi – dalle frazioni di Pànico, di Vado, di Quercia, di Grizzana, di Pioppe di Salvaro e della periferia del capoluogo le truppe si mossero all’assalto delle abitazioni, delle cascine, delle scuole», e fecero terra bruciata di tutto e di tutti. Nella frazione di Casaglia di Monte Sole la popolazione atterrita si rifugiò nella chiesa di Santa Maria Assunta, raccogliendosi in preghiera. Irruppero i tedeschi, uccidendo con una raffica di mitragliatrice il sacerdote, don Ubaldo Marchioni, e tre anziani. Le altre persone, raccolte nel cimitero, furono mitragliate: 197 vittime, di 29 famiglie diverse tra le quali 52 bambini. Fu l’inizio della strage: ogni località, ogni frazione, ogni casolare fu setacciato dai soldati nazisti e non fu risparmiato nessuno. La violenza dell’eccidio fu inusitata: alla fine dell’inverno fu ritrovato sotto la neve il corpo decapitato del parroco Giovanni Fornasini. Fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, dopo sei giorni di violenze, il numero delle vittime civili si presentava spaventoso: circa 770 morti. Le voci che immediatamente cominciarono a circolare relative all’eccidio furono negate dalle autorità fasciste della zona e dalla stampa locale (Il Resto del Carlino), indicandole come diffamatorie; solo dopo la Liberazione lentamente cominciò a delinearsi l’entità del massacro. 13 giugno, la strage di Niccioleta Il 13 giugno 1944, i reparti tedeschi e fascisti irruppero a Niccioleta per punire i suoi abitanti che, come in molte zone del grossetano, avevano disertato di presentarsi ai posti di polizia fascisti e tedeschi di Massa Marittima, in seguito ad un manifesto affisso in tutti i comuni della provincia di Grosseto, firmato da Giorgio Almirante. Sei minatori (Ettore Sergentoni, con i figli Aldo e Alizzardo, Rinaldo Baffetti, Bruno Barabissi e Antimo Ghigi) vennero fucilati subito nel piccolo cortile dietro il forno della dispensa, largo non più di tre metri. Il minatore Giovanni Gai riuscì a fuggire nella macchia, grazie ad un attimo di distrazione di un fascista di Porto Santo Stefano, Aurelio Picchianti, che si stava arrotolando una sigaretta. Altri 150 operai furono portati a Castelnuovo di Val di Cecina, e la sera del 14 giugno, 77 minatori vennero giustiziati sulla strada per Larderello, 21 deportati in Germania e gli altri liberati. In tutto perirono nella strage 83 operai di Niccioleta. Tra i cadaveri si scoprì tempo a dietro che c’erano anche i componenti della famoso gruppo partigiano la “Banda di Ariano”: Gianluca Spinola, Vittorio Vargiu, Franco Stucchi Prinetti e Francesco Piredda assassinati dai nazifascisti sempre il 14 giugno. Elenco degli eccidi e delle stragi riconosciute (da Wikipedia) A Strage di Acerra Eccidi dell’alto Reno B Eccidio di Barletta Strage della Benedicta Eccidio di Bergiola Foscalina Eccidio della Bettola Strage della valle del Biois Massacro di Biscari Bombardamenti di Foggia del 1943 Eccidio di Borga Strage di Borgo Ticino Eccidio di Boves Eccidio di Braccano Bus de la Lum C Eccidio di Cadè Strage di Caluso Strage di Campagnola Strage del palazzo Comunale di Campi Bisenzio Strage di Canicattì Eccidio di Capistrello Strage di Castello Strage di Castiglione Strage di Cavriglia Eccidio del Colle del Lys Eccidio di Cravasco Strage di Cumiana E Eccidi di San Ruffillo Eccidio di Santa Giustina in Colle Eccidio de La Storta Eccidio dei conti Manzoni Eccidio dei XV Martiri di Madonna della Pace Eccidio del Castello dell’Imperatore Eccidio del Ponte dell’Industria Eccidio del pozzo Becca Eccidio dell’Aldriga Eccidio della caserma Mignone Eccidio della famiglia Arduino Eccidio delle Fosse Reatine Eccidio di Argelato Eccidio di Bari Eccidio di Cadibona Eccidio di Caffè del Doro Eccidio di Cavazzoli Eccidio di Cibeno Eccidio di Civitella Eccidio di Codevigo Eccidio di Crespino sul Lamone Eccidio di Gardena Eccidio di Guardistallo Eccidio di Maiano Lavacchio Eccidio di Malga Bala Eccidio di Massignano Eccidio di Monte Manfrei Eccidio di Monte Sant’Angelo Eccidio di Pessano Eccidio di Piavola Eccidio di Pietralata Eccidio di Portofino Eccidio di Pratolungo Eccidio di San Michele della Fossa Eccidio di San Piero a Ponti Eccidio di Schio Eccidio di Trivellini Eccidio di Valdagno Eccidio di Vallarega Eccidio di Vattaro Eccidio di via Aldrovandi Eccidio di Malga Zonta F Strage di Falzano Eccidio dell’aeroporto di Forlì Strage di Forno Strage delle Fosse del Frigido Eccidio di Fragheto G Bombardamento di Grosseto Strage di Grugliasco e Collegno L Eccidio di Salussola Strage di Lasa Strage di Leonessa M Martiri di Fiesole Martiri ottobrini Strage di Marzabotto Strage di Matera Strage della cartiera di Mignagola Strage della Missione Strassera Strage di Monchio, Susano e Costrignano Eccidio di Montalto Eccidio di Montemaggio N Eccidio di Nola O Operazione Ginny Operazione Piave Operazione Wallenstein P Eccidio di Procchio Eccidio del Padule di Fucecchio Strage di Pedescala Strage di Penetola Eccidio del Pian del Lot Eccidio di piazza Tasso Strage di Piazzale Loreto Eccidio di Pietransieri Eccidio di Ponte Cantone Eccidio del ponte di Ruffio Strage della Portela R Rastrellamenti di Villa d’Ogna Eccidio della Righetta Strage di Rionero in Vulture Eccidio della Romagna Eccidio di Ronchidoso Strage di Rovetta S Eccidio di San Giacomo Roncole Strage di San Polo Eccidio di Sant’Anna di Stazzema Eccidio di Scalvaia Strage del collegino di Sesto Fiorentino Strage di Solcio di Lesa Eccidio di Soragna Eccidio di Spino d’Adda Strage del Duomo di San Miniato Strage del pane Strage della caserma di Anghiari Strage della corriera fantasma Strage della famiglia Einstein Strage di Barbania Strage di Corrubbio Strage di Costa d’Oneglia Strage di Gorla Strage di Oderzo Strage di San Benedetto del Tronto Stragi di Ziano, Stramentizzo e Molina di Fiemme T Eccidio di Tavolicci Eccidio di Testico Eccidio del Torrazzo Strage di Treschè Conca Triangolo della morte (Emilia) Strage del Turchino U Strage di Serra Partucci V Eccidio di Valdobbiadene Eccidio di Vercallo Eccidio dell’ospedale psichiatrico di Vercelli Eccidio di Vinca http://contropiano.org/news/politica-news/2017/08/12/estate-1944-le-stragi-nazifasciste-non-dimenticare-094699?fbclid=IwAR0ypcv8T_o9uUEHrRgHMUtlhFrD2q1ENyloc1n1hniBh7yoPirhaUYc4Ns
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L’oltraggio d’una minima stella rugginosa. Le traiettorie poetiche di Bartolo Cattafi
Bartolo Cattafi venne alla luce da facoltosi possidenti terrieri a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) nell’anno di grazia 1922, lo stesso che vide la prima pubblicazione del poemetto The waste land di Thomas Stearns Eliot, testo esemplare per le rotte del pensiero poetico contemporaneo. La sua fu una famiglia culturalmente e attivamente impegnata nel campo sociale. Il padre, Bartolomeo, medico molto noto e apprezzato per le sue doti umane e professionali, non ebbe la gioia di vederlo nascere perché morì quattro mesi prima. L’educazione di Bartolo fu incombenza solo della madre, Matilde Ortoleva, donna di severi e rigorosi costumi, religiosissima e con una pesante personalità, che però non poté colmare il vuoto prodotto dall’assenza di una figura paterna protettiva e rassicurante. In questo florido centro tirrenico, grazie allo zio Enrico Barresi, uomo di vasti interessi culturali, frequenta sin da giovane la casa del futurista siciliano Guglielmo Jannelli, incontrando nomi quali Giacomo Balla, Vann’Antò (al secolo Giovanni Antonio Di Giacomo), Fortunato Depero e soprattutto Nino Pino Ballotta.
Dal 1940 Cattafi frequentò la facoltà di Giurisprudenza della vicinissima Messina, seguendo saltuariamente le lezioni, senza entusiasmo e con scarsa convinzione. Unica passione la lettura: Melville, Conrad, Faulkner, Caldwell, Saroyan, Hemingway e gli altri scrittori compresi in Americana di Vittorini, la cui prima edizione risale al 1942; tra gli italiani: Zavattini, Vittorini, Pavese, Savarese, Malaparte, Bontempelli, Pirandello. Ben presto la sua preferenza andò verso i poeti: Machado, Jiménez, Lorça, Eliot, Hopkins, Auden su tutti, poi i nostri Govoni, Quasimodo, Ungaretti, Montale.
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L’esperienza militare del 1943, l’anno più cruciale della sua vita, lo riportò bruscamente alla realtà. Chiamato alle armi l’8 febbraio, raggiunse Bologna, dove fu aggregato al 3° Reggimento fanteria carristi, e da qui avviato al 17° Battaglione d’istruzione a Forlì, per frequentare il corso di addestramento per allievi ufficiali. Le marce estenuanti, l’equipaggiamento inadatto, il vitto carente, l’impreparazione e l’ottusità degli apparati militari, l’ubbidienza mortificante a ordini insensati gli causano (sono parole sue) un «crollo fisico e nervoso», di cui si hanno tracce marcate in vari componimenti di A dicembre Badoglio, sezione compresa poi ne L’aria secca del fuoco.
Frutto di questo primo «compitare in versi un ingenuo inventario del mondo» è un folto materiale, che il nostro organizza in due raccolte, corredandole di due brevi note introduttive, l’una datata 28 aprile 1944, l’altra 16 ottobre 1946 (entrambe inedite). Siamo d’altronde negli anni della guerra, della resistenza al nazifascismo, dello sbarco alleato in Sicilia: periodo segnato da un soffocante aleggiare di morte che si intravede anche in molte di queste primissime poesie, permeate tuttavia da un abbacinante colorismo, in cui si rispecchia la fervida smania sensoriale di un animo ancora profondamente pagano, immerso nell’ovattata fisicità di un paesaggio dalla solarità allucinante, ovvero coercitiva perché illusoria. “Cominciai a scrivere versi non so come, ero sempre in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, troppo dolci. Tutt’intorno lo schianto delle bombe e le raffiche degli Hurricane, degli Spitfire… Me ne andavo nella colorita campagna, nutrendomi di sapori, aromi, immagini: la morte non era un elemento innaturale in quel quadro; era come un pesco fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso la viottola” (Bartolo Cattafi in Poesia italiana contemporanea 1909-1959, a cura di Giacinto Spagnoletti, Guanda 1964; ristampato in Roma, Newton 1994)..
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Nell’immediato dopoguerra, Cattafi medita di trasferirsi a Milano, alternando però lunghe permanenze con periodici ritorni in Sicilia e, più tardi, con frequenti viaggi all’estero, finché, a partire dal 1956 e fino alla prima metà del 1967, vi dimora stabilmente trasferendovi anche la residenza. Stringerà qui amicizia con Sergio Solmi che gli fa poi conoscere Vittorio Sereni – diventerà presto suo fraterno amico –, il quale lo introduce negli ambienti letterari e artistici della città. In tal modo, Cattafi entra in contatto anche con Carlo Bo, Vanni Scheiwiller (suo futuro editore) Enrico Emanuelli, Giansiro Ferrata, Luciano Erba, Luciano Anceschi, Giacinto Spagnoletti, Giovanni Giudici, Piero Chiara. Le pubblicazioni si faranno così assai cospicue ed incisive, sia su rivista che in antologie, tra cui appunto la più rinomata è certamente Quarta generazione (proprio a cura di Piero Chiara e Luciano Erba, 1954).
Nel 1948 vince il «Concorso Nazionale “Pagine Nuove” per la poesia», con Corrado Govoni presidente della giuria, al quale egli era stato presentato dal concittadino poeta Nino Pino Ballotta, forse il suo primo lettore. La stessa rivista organizzatrice del premio, nel numero di maggio del 1949, gli pubblica sette componimenti che entreranno tutti – tranne Eolie, mai più ristampato – nel volumetto Nel centro della mano che, accolto da Sereni nelle Edizioni della Meridiana nel 1951, segna il «battesimo» poetico di Cattafi.
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Nel 1952 ha inizio la grande stagione dei viaggi: Francia, Inghilterra, Irlanda, Scandinavia, Spagna, Africa. Poiché ogni vicenda passa «sulla sua pelle e dentro il suo sangue», è naturale che il nomadismo di Cattafi si traduca in poesia, in presa diretta o a distanza di anni, a cominciare da Partenza da Greenwich del 1955. Dai viaggi trae anche materiale per articoli e corrispondenze che manda a vari quotidiani e periodici, tra cui «L’Ora» di Palermo, la rivista «Pirelli», «L’Italia illustrata», «L’Indicatore librario». Vagheggia di fare l’inviato speciale, anche per assicurarsi un tenore di vita dignitoso non bastandogli le modeste rendite dei suoi terreni. Di questa frammentaria e disorganica attività giornalistica mi piace ricordare il reportage Lo Stretto di Messina e le Eolie, corredato dalle fotografie di Alfredo Camisa e stampato, in bella veste tipografica, a cura dell’ACI nel 1961.
Contemporaneamente, tenta l’avventura pubblicitaria. Viene assunto in prova dalla Motta, ma si dimette dopo appena due mesi, e dalla Pirelli nella “Direzione propaganda”, in qualità di «compilatore di testi di prestigio». Annoiato e deluso, abbandona anche questo lavoro.
Nel 1958 esce il primo libro mondadoriano, Le mosche del meriggio, riassuntivo della produzione 1945-1955, col quale vince il «Premio Cittadella».
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Due anni dopo, la perdita dolorosissima della madre (la ricorderà in una toccante poesia dell’Osso, Un 30 agosto), una tormentata e deprimente storia amorosa e l’aggravarsi della sua situazione finanziaria, seriamente compromessa dall’incapacità di svolgere una stabile attività lavorativa, lo gettano in uno stato di profonda prostrazione fisica e psichica che, puntualmente, si rispecchia ne L’osso, l’anima, edito sempre da Mondadori nel 1964. Questa raccolta, l’unica che può fregiarsi di una seconda edizione, vince il «Premio Chianciano» e segna la definitiva consacrazione poetica. Sarà poi la vendita all’Enel del fondo di contrada Archi, nel comune di S. Filippo del Mela (Messina), conclusa nel 1966 dopo lunghe e complesse trattative, a garantirgli la tranquillità economica, consentendogli di dedicarsi esclusivamente alla scrittura.
Dalla fine di dicembre del 1962, Cattafi non aveva infatti scritto un verso e non ne scriverà fino al 21 marzo del 1971: un lungo periodo di astinenza poetica, durante il quale dirotta altrove le sue energie creative. Disegna, dipinge – alcuni quadri sono bellissimi –, si dedica alla fotografia.
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Il 26 giugno 1967 sposa, col solo rito civile a Callander, in Scozia, Ada De Alessandri, milanese, di ventidue anni più giovane di lui, che aveva conosciuto a Milano e ritrovato in Inghilterra durante un viaggio organizzato. Qualche giorno dopo ritorna in Sicilia, ristruttura una vecchia casa colonica di sua proprietà nella campagna di Mollerino (vicino Barcellona n.d.r.) e qui stabilisce il domicilio, conservando la residenza a Milano, dove però ormai si recherà per brevi periodi, quasi solo per curare la pubblicazione dei suoi libri o per ragioni di salute.
Nel marzo 1971, come si accennava, finisce il silenzio poetico. “Alle quattro del mattino di un giorno del marzo 1971, come morso dalla tarantola, dovetti alzarmi dal letto e cercare carta e penna. Da quel momento si aprirono le cateratte: dopo sette anni di silenzio, durante i quali non ero riuscito a mettere insieme due versi, scrissi in dieci mesi circa quattrocento poesie” (Enzo Fabiani, In Sicilia a caccia di sirene. «Gente», 22 luglio 1972).
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Da quel giorno e fino alla morte, se si eccettuano gli anni 1974-’75, durante i quali si limita a rimaneggiare e a ordinare in volume le poesie concepite nel biennio precedente, l’urgenza espressiva di Cattafi non avrà sosta o interruzione. Per dare un’idea di questa esplosione creativa, si pensi che, tra il marzo ’71 e il gennaio ’72, compone le 362 poesie de L’aria secca del fuoco, con cui vince i premi «Vann’ Antò» e «Sebèto». Esse, attraverso varie redazioni non sempre datate o databili, formeranno, per citare solo i volumi riassuntivi, La discesa al trono (1975), Marzo e le sue idi (1977), Segni e parte di Codadigallo, (questi ultimi due pubblicati postumi).
La stagione dell’ultimo Cattafi è non solo caratterizzata da uno straordinario fervore creativo, ma anche ricca di avvenimenti che si riflettono sulla poesia. Il 10 agosto 1975, dopo otto anni di matrimonio, nasce l’unica figlia, la «dolcissima» Elisabetta Maria (destinataria di quattro delle 18 dediche).
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Da tempo però Cattafi accusava vari disturbi fisici, lo sa bene chi gli è stato vicino, ma la scoperta dell’insanabile ferita avviene solo il 20 aprile 1978, quando una visita radiologica rivela un «punto oscuro nella pleura del polmone sinistro», come si legge nel Diario. Le analisi seguenti confermano la funesta diagnosi: «È dunque cancro», annota il poeta il 9 maggio dello stesso anno. E tuttavia non si può negare che la malattia e il presentimento della morte accelerano spesso le spinte segrete, da sempre però operanti, e favoriscono la disponibilità dello spirito ad accogliere in sé il senso del divino e a lasciarsi invadere da esso.
Cattafi spende le ultime, residue energie lavorando alla revisione delle «poesie segniche», alla definizione di Codadigallo e alla stesura di nuovi componimenti. Aveva appena avuto il tempo di firmare le copie del servizio-stampa de L’allodola ottobrina e di salutare gli amici in un ristorante milanese, quasi presagisse non più rinviabile l’appuntamento con la morte. Una data, questa del 13 marzo (1979), che sembra preannunciata, come per una sorta di inquietante premonizione, nella poesia del lontano 1972, elevata a dignità di titolo del volume Marzo e le sue idi: «Di tutto diffido / del pugnale di bruto / della tenera carne di cesare / dello stesso destino / che passi presto il tempo / vengano alfine marzo e le sue idi».
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Cattafi è abile come pochi nel costruire versi colla perizia derivata dall’uso finissimo dell’allitterazione, dei sintagmi paronomastici, delle rime al mezzo, strumenti questi sistemati come mattoni che si incastrano alla perfezione, a cui si aggiunge la malta di un pensiero illuminato e illuminante, ma tarlato dall’angoscia esistenziale: ne vien fuori una poesia di impeccabile compiutezza fonica e – soprattutto – mentale, sempre intenta a smascherare ogni minima aberrazione con vivido spirito metaforizzante e, dunque, maggiormente efficace poiché sprigiona, grazie a questa potenza simbolica, la massima carica esplicativa.
Se una vena barocca esiste in queste liriche così cesellate è di certo quella dell’analogismo ardito, dalla visionarietà quasi orfica e, al contempo, razionalissima, strutturata grazie alla giustapposizione di elementi disparati che creano abissali scarti, fulminei lampi di pensiero, estrose immagini plasmanti lucidi concetti. In molti passaggi si riscontra, oltretutto, una marcata inclinazione dell’io a defilarsi, il che comporta un investire l’oggetto della carica di “referente”, lasciandogli svolgere quel ruolo di “attante” solitamente interpretato dall’io lirico. Le ‘cose’vengono così innalzate ad emblemi di uno status esistenziale o intellettivo, come accade nel “correlativo oggettivo” di T.S. Eliot (uno fra i modelli di Cattafi ma, ancor prima, di Montale). Anzi il soggetto, a volte, sembra talmente ben nascosto da permettere un inusuale ribaltamento di prospettiva: lo ha intuito bene Silvio Ramat, secondo il quale si dovrebbe parlare piuttosto di un «correlativo soggettivo».
La spinta analogica dei versi è talmente complessa da sfociare in una sorta di “astrattismo espressionistico” del tutto sui generis, fatto di ingranaggi inusuali, di accostamenti capaci di una forte folgorazione, di metafore dagli addendi talvolta stranianti, ma limpidi poi negli effetti. Ne risulta una poesia rarefatta ma, allo stesso tempo, concretissima, che scandaglia gli eventi in maniera scrupolosa, come un microscopio farebbe con freddi campioni biologici: la mente è sempre protesa a sondare il nucleo nascosto delle cose, ricercando quel ‘nodulo’ che le rende maligne, inconoscibili, allo scopo di comprenderne non solo le fattezze esteriori ma anche i cancerosi meccanismi interni.
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Passiamo adesso ad analizzare alcuni testi.
Nel cerchio
Qui nel cerchio già chiuso nel monotono giro delle cose nella stanza sprangata eppure invasa da una luce lontana di crepuscolo può darsi nasca un’acqua ed una nebbia il mare sconosciuto e il lido dove per prima devi imprimere il tuo piede calando dalla nave consueta, transfuga che il rombo frastorna in corsa nella mente, lungo le belle curve di conchiglia. Sarà prossimo il centro: là s’appunta il nero occhio, la nostra perla di pece sempre in fiamme, serrata tra le ciglia, che per un attimo, in un battito ribelle intacca il puro ovale dello zero.
(da Le mosche del meriggio, Mondadori 1958)
In questa lirica un senso di soffocamento, di abitudinario ritualismo corrode la percezione della realtà circostante, occlusione che tarpa le ali ai voli della mente, succuba così della propria limitatezza. È forse la vana ricerca della verità, dell’indefinibile palpito dell’universo a tarlare l’immaginario del poeta che pur vorrebbe ribellarsi al perenne fallimento di ogni sforzo cognitivo. Siamo in completa consonanza con quel limite fisico che, metaforizzato, simboleggia l’insuperabile ostacolo alla piena comprensione: ricordiamoci per un attimo della ‘siepe’ leopardiana o dell’infinita ‘scala a chiocciola’ nell’antica torre di My house di Yeats. Tutto questo induce a pensare che il vero motore della poesia di Bartolo Cattafi sia da ricercare nell’ansia gnoseologica, sebbene – in fin dei conti – essa venga sistematicamente messa sotto scacco.
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Brughiera
[…] La stagione è finita; ancora vivono il dente infisso nel centro della mano, ciò che la spina lentissima ci scrisse. Una lampada gracile, l’allodola rientra incerta, s’addentra sull’immoto colore di brughiera.
La poesia di Cattafi si popola spesso, fin dal suo primo incedere, di immagini ancipiti che contemplano insieme il caldo abbraccio di un esasperato vitalismo e il rovello spasmodico della morte, in un quadro che risente delle precoci frequentazioni col simbolismo messinese di matrice futurista (in particolare Giuseppe Jannelli e Nino Pino Ballotta), sicuramente sperimentato dal poeta negli anni universitari trascorsi all’ombra del Faro.
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Mio amore non credere
Mio amore non credere che oggi il pianeta percorra un’altra orbita, è lo stesso viaggio tra le vecchie stazioni scolorite, vi è sempre un passero sfrullante nelle aiuole un pensiero tenace nella mente. Il tempo gira sul quadrante, giunge un segno di nebbia sopra il pino il mondo pende dalla parte del freddo. Qui le briciole a terra, la brace del camino, le ali, le mani basse e intente.
L’universo interiore di Cattafi risulta sempre orientato alla continua corrosione mentale: il poeta spesso si aggrappa al dialogo, quasi sotto forma epistolare, con qualcuno a cui ‘confessare’ le proprie afflizioni, i patimenti di un eterno sottofondo di dolore che sembra incrinare finanche la struttura intellettiva.
La martellante ossessione dei pensieri è resa con un’analogia tra le più vivide e funzionali dell’intera poesia cattafiana: il movimento convulso, a scatti, imprevedibile, instancabile del passero che mima, in un’immagine di rara precisione descrittiva, l’estrema saturazione – quasi ai limiti del compulsivo – della vessata interiorità del poeta. Egli accenna ad ulteriori motivi universali: l’inesorabilità dello scorrere del tempo («il tempo gira sul quadrante»), la precarietà della condizione generale – forse con la mente ancora alla difficile ricostruzione post-bellica («il mondo pende dalla parte del freddo. /Qui le briciole a terra, […] le mani basse e intente»). Il quadro negativo è rafforzato, a mio avviso, dalle efficaci forzature allitterativo-paronomastiche, con funzione di allarme, di sensibilizzatori della coscienza personale e collettiva.
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Arcipelaghi
Maggio, di primo mattino la mente gira su se stessa come un bel prisma un bel cristallo un poco stordito dalla luce. Dal soffitto si stacca neroiridato ilare il festone delle mosche, posa su grandi carte azzurre riparte e lascia ronzando isole minime, arcipelaghi forse d’Africa e d’Asia. Intanto in cielo sempre più si svolge la mesta bandiera della luce. Prima di sera l’unghia scrosta l’isole le immagini superflue. Le carte ridiventano deserte.
(da Qualcosa di preciso, Scheiwiller 1961)
Qui si assiste a una progressiva quanto discussa inversione di rotta, che trascorre da un colorismo ponderoso ad un lucore attenuato, quasi plumbeo; da una natura dirompente, sebbene già estenuata, ad un’asettica impronta meccanicistica; da un accennato intreccio ad una raziocinante epigrammaticità.
Attraverso pochi ma significativi aggiustamenti di traiettoria i versi diventano esemplari di una nuova ‘maniera’ del poetare più astratta, quasi assiomatica. Al tocco leggero, appena accennato, subentrano nuove forme aggettivali e sostantivali che tendono ad una maggior precisione, direi geometrica, ad evidenziare un rinnovato, lucido sforzo del raziocinio: Cattafi vorrebbe “scrostare le immagini superflue” cercando, col suo analogismo pregnante, una soluzione più incisiva rispetto al descrittivismo pittorico. Le sue liriche si appropriano così un’asciuttezza tonale adesso poco incline al narrare, immettendosi piuttosto sulla difficile strada della chiarezza sentenziosa («Le carte ridiventano deserte»). Si direbbe che il poeta abbandoni, quasi a malincuore – tant’è che lo riprenderà qualche anno dopo nelle liriche de Lo Stretto –, il proprio volto mediterraneo («[…] lascia/ ronzando isole minime, arcipelaghi»), dando risalto al lato ‘lombardo’, al retaggio ‘illuministico’ come nuova forma mentis («Intanto in cielo sempre più si svolge/ la mesta bandiera della luce»), che lo rende pienamente intrinseco allo spirito della cosiddetta “Quarta Generazione”.
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Qualcosa di preciso
Con un forte profilo, secco, bello, scattante, qualcosa di preciso fatto d’acciaio o d’altro che abbia fredde luci. E là, sul filo della macchina, l’oltraggio d’una minima stella rugginosa che più corrode e corrompe più s’oscura. Un punto da chiarire, sangue d’uomo, briciola vile oppure grumo perenne, blocco di coraggio.
Non resta adesso che giocarsi l’ultima chance prima di soccombere, di cedere il passo definitivamente, ma stavolta con diversi mezzi, servendosi di risorse più adeguate, di “qualcosa” che abbia una sconcertante evidenza, enumerabile con la “precisione” che sgorga dalla certezza di un esito risolutivo.
L’evidente trasmutazione si avverte anche nel forte cambiamento linguistico: dismessi i panni impressionistici, Cattafi si veste di un profondo rigore nomenclatorio, di matrice scientifica, davvero molto raro in poesia. C’è inoltre una netta modifica del tempo verbale, coniugato ora quasi esclusivamente al perfetto che descrive un’azione già conclusa (le sue occorrenze sono numerose lungo tutta la raccolta: andammo, indossammo, vedemmo, pensammo, uscimmo, camminammo, potemmo, navigammo, portammo, chiedemmo, fummo, etc.; tantissime dunque per un libro di sole 19 poesie). Se tutto ciò rappresenti una definitiva rinuncia, che peraltro pone l’accento sulla comune sorte umana (il poeta usa esclusivamente la prima persona plurale), od un ennesimo tentativo di superamento di una soglia di dolore esistenziale ormai giunta a livelli acutissimi, non è dato saperlo.
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L’osso
Avanti, sputa l’osso: pulito, lucente, levigato, senza frange di polpa, l’immagine del vero, ammettendo che in questo unico osso avulso dal contesto allignino chiariti, concentrati quesiti fin troppo capitali. Credo che tu non possa farcela: saresti cenere nella fossa, anima da qualche parte.
(da L’osso, l’anima, Mondadori 1964)
Sondare dentro il “vero”, alla fine, diventa un atto impossibile alle capacità umane; non solo: affannarsi a trovare la soluzione assoluta è un’operazione effimera, inservibile se poi la verità è sganciata dal contesto delle cose o pretenda di esaurire il reale. Non per questo Cattafi intende rinunciare, anche se un silenzio poetico, durato ben sette anni, lascia intendere che una resa, seppur parziale e provvisoria, è stata avvertita come necessaria, quantomeno per riordinare le idee in vista di una nuova battaglia contro l’inconoscibilità del mondo.
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Cancro
Il sei luglio alle cinque del mattino il tram a vapore partito da Messina emise dall’imbuto fumo faville e un lungo fischio, appena nato girai la testa verso quel primo saluto della vita. Appartengo a una razza bisognosa di auguri mi dolgo di non potere stringermi la destra con la destra baciarmi le guance quando una volta l’anno mi scorre accanto zampettando all’alba l’acquatico figlio della luna che porta la mia sorte sigillata nel pentagono della sua corazza.
(da L’aria secca del fuoco, Mondadori 1971)
La natura risulta sempre strumento o corsia preferenziale a esprimere la similitudine. Spesso trapela in Cattafi un forte senso di costrizione, di soffocamento che egli tenta di esorcizzare per mezzo di figurazioni oracolari simili ad allucinazioni (Cancro). L’andamento sospeso e misterico sfocia in sentenze spiazzanti e, talvolta, apparentemente indecifrabili.
Questa linea orfica lo accomuna a tanti illustri predecessori – penso a Yeats, a Campana e, non ultimo, a Lucio Piccolo – sospingendo il dettato in una direzione ermetica, infine addirittura “segnica”. E, paradossalmente, sembra che tanto più la poesia si faccia oscura, quanto più la sensazione è quella di una maggiore chiarezza sintetica dei messaggi. La parola aumenta di densità e consistenza, in modo tale da lasciar risplendere, in poche pennellate, una forte carica ‘universale’.
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L’allodola ottobrina
S’alzò in volo e cantò invece l’allodola ottobrina prima che giungesse concentrato il piombo dodici undici dieci.
(da L’allodola ottobrina, Mondadori 1979)
Il poeta affida ancora una volta ad un animale simbolico, adesso l’allodola, tutto un carico di impulsi attinenti ad uno stato di estrema resistenza, di sfacciato titanismo che oltrepassa il radicato dolore dell’anima. Chissà che in Cattafi non agisse una qualche reminiscenza ungarettiana di Agonia? (Morire come le allodole assetate/sul miraggio// […] Ma non vivere di lamento/ come un cardellino accecato).
È fondamentale continuare, imperterriti, a creare “pienezze di senso”, anche laddove ci si sente accerchiati da mali di sconcertante varietà: opporsi cantando (ecco il perché del corsivo per l’avverbio) anche se il mondo si dissolve. “In uno scrittore quale è Cattafi (post-montaliano e post-ermetico, sperimentatore per indole, senza dover chiedere lumi alle neoavanguardie coi loro codificati e spesso scontati azzardi), l’oggetto è sempre al centro, ha il compito di fisicizzare cioè di render concreta l’intenzione di un io storicamente perplesso quanto alla propria parte, dubbioso per forza del suo governo sulla fluidità del vivente. […] L’allodola è dunque anche il grande, persuasivo testo della persona che ha fiducia nell’oggetto, catturato di continuo e di continuo lasciato rifluire; oggetto amato infine anche nelle specie del male, del disgusto, della sventura. C’è un graduale incremento, pagina dopo pagina, degli aspetti ingrati, degli eventi penosi, eppure tutto segnala una medesima “teofania”… (Silvio Ramat, Bartolo Cattafi oltre la “quarta generazione”: il terzo tempo della poesia cattafiana, in AA.VV., Atti del Premio Nazionale di Poesia «Bartolo Cattafi» VII e VIII edizione – Barcellona P.G., 1996, 1999. Marina di Patti-Messina, Pungitopo 2000, pp. 46-49).
Tutto ciò non elimina l’azione ineluttabile della morte, che azzera qualsiasi tentativo di rivolta, distrugge ogni spasimo di volo (distinzione dalla massa?), spezza le fragili trame umane fatte di fatica, di un confuso annaspare per la difesa di una sterile sopravvivenza.
Ed è un annullamento totale, se è vero (come è vero) che il poeta si propone di cancellare addirittura la propria ombra, ultima proiezione residua del suo status di creatura terrena, che lo costringe ancora ad un’esistenza involuta.
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Creazione
In quel muro in quel foglio nell’area bianca che la tua mano cerca il mignolo bagnato nell’inchiostro sopra strisciato con fiducia azzurro corso d’acqua rapinoso vena arteria in cui scorre a occhi chiusi il mondo.
(da Segni, Scheiwiller 1986)
Si potrebbe dire che ogni enunciazione segnica produce linearità, ovvero consta di un’estensione nel tempo (oralità) o nello spazio (scrittura). Tutto ciò implica un’inevitabile distinzione tra una parola tratta dall’infinito ‘sottobosco’ dei segni in potenza e le effettive attuazioni in un discorso a sé stante: «Ségnala/ dalle un connotato/ spazio circondato d’altro spazio/ stràppalo come foglia/ all’immane foresta del non-segnato» (si legge in un’altra poesia: Pagina bianca). Da qui l’assoluta necessità della scrittura, vista come azione prometeica di conquista del barlume minimo di conoscenza possibile, sebbene ciò comporti un discernimento solo relativo dell’infinita molteplicità del reale.
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Nidiata
Coloniali parole gregarie filiformi da te lasciate in un luogo in un discorso nidiata ora straniera ritornante rimorso fosforo stridente nel sonno della sera.
Le parole – sostanziazioni del pensiero astratto (ricordiamo l’altra dicotomia saussuriana tra langue e parole) – hanno la capacità di rivelarsi ossessivo portato di una razionalità ormai destabilizzata: il poeta tenta di decrittare una realtà che gli si ribella, quasi fosse animata da palpiti cospirativi che disgregano una consistenza intellettiva faticosamente acquisita.
Perduta la vis demiurgica, l’io si trova svuotato di ogni orizzonte gnomico, dunque esistenziale; gli stessi oggetti dissipano la propria “funzione connotativa” di simboli: è un quadro dal barocchismo assai accentuato, un horror vacui che travolge anche la percezione più elementare. Insomma un’estrema negazione del mondo, sia esso identificabile con le cose (la vita) o col vano tentativo di arrestare il loro inarrestabile trascorrere (la scrittura):
I segni e il senso
I segni e il senso dei segni su soggetti scalpitanti… O apatiche scritture membra ammansite materie inerti ammucchiate in fondo all’anno scritte luminose di novembre.
Diego Conticello
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E’ la fine degli anni Venti dello scorso secolo quando un’artista e designer ungherese, naturalizzato americano, László Moholy-Nagy (Bácsborsód, 20 luglio 1895 – Chicago, 24 novembre 1946) teorizzò la distinzione tra obsolescenza naturale ed obsolescenza pianificata (o programmata come si definisce più spesso oggi).
László Moholy-Nagy sosteneva che la prima faceva parte dell’evoluzione tecnologica “normale” degli oggetti ideati dall’uomo: dall’aratro trainato dai buoi al trattore, dalle navi di legno ai piroscafi d’acciaio, dai moschetti ai fucili a retrocarica e così via.
L’obsolescenza pianificata era invece il superamento degli oggetti non perché scavalcati da una sostanziale evoluzione tecnologica ma a favore di altri più belli o alla moda ma, sostanzialmente, con le medesime caratteristiche.
Con grande intuizione l’artista ungherese sostenne che questa tendenza avrebbe dominato il ventesimo secolo. Uno dei primi casi di obsolescenza programmata riguardò le penne.
Un giovane imprenditore ventottenne Kenneth Parker, approfittando dell’assenza del padre, convinse nel 1923 il Consiglio d’Amministrazione dell’azienda di famiglia ad investire massicciamente su una lussuosa penna Duofold. Dieci anni dopo nel pieno della recessione stanziò ulteriori fondi per un’altra penna di classe alta, la Vacumatic.
La vera svolta avvenne però dopo la morte del padre, divenuto titolare dell’azienda Kenneth decise di cavalcare l’onda dell’obsolescenza programmata per fare quello che ogni bravo capitalista americano desidera più di ogni cosa: una montagna di soldi.
Così nel 1941 mise sul mercato quella che comunemente viene considerata la più meravigliosa e superflua penna della storia: la Parker 51, chiamata così perché venne messa in commercio nel 51° anniversario della fondazione della Parker Pen Company.
Il cappuccio poteva essere placcato in oro o in cromo, la clip era dorata ed a forma di freccia. Il corpo della penna era panciuto con colorazioni evocative e fuori dal comune: blu cedro, verde nassau, cacao, prugna etc.
Sulla punta colorata in “nero d’India” si innestava un pennino da calligrafia che terminava con una pallina d’oro che dispensava l’inchiostro.
Per la prima volta nella storia della penna l’inchiostro non si asciugava dopo qualche secondo per evaporazione ma penetrando nelle fibre della carta si asciugava istantaneamente per assorbimento.
La meravigliosa Parker 51 aveva però un tallone d’Achille proprio nella pallina d’oro del pennino. L’oro infatti è un materiale malleabile che con la pressione tende a deformarsi e, per ovviare a questo inconveniente, dopo tre anni, nel 1944, la Parker brevettò una speciale lega al rutenio per proteggere efficacemente la pallina d’oro.
Il rutenio, numero atomico 44, è un metallo bianco e duro, si presenta in quattro forme cristalline diverse e non si opacizza a temperature ordinarie. Piccole quantità di rutenio possono aumentare la durezza del platino e del palladio nonché rendere il titanio più resistente alla corrosione.
Il rutenio può essere impiegato come rivestimento sia per elettrodeposizione sia per decomposizione termica.
Ma torniamo alla nostra penna.
Se si esclude per il design fortemente innovativo, la Parker 51 non faceva niente di così rivoluzionario rispetto alle altre penne in commercio. L’aggressiva campagna pubblicitaria messa in campo dall’azienda convinse però i consumatori che la Parker 51 fosse il “top” dell’atto dello scrivere.
In poco tempo questa penna divenne un vero e proprio status symbol. Capitani d’industria, manager, politici non potevano farne più a meno, firmavano contratti, ricevute della carta di credito e perfino i punti delle partite a golf soltanto con la loro Parker 51.
McArthur ed Eisenhower firmarono con le loro rispettive Parker 51 gli armistizi che misero fino alla guerra nei teatri del Pacifico e dell’Europa.
Le vendite della Parker 51 passarono dai 444.000 pezzi del 1944 ai 2,1 milioni di pezzi del 1947, non malaccio se si pensa che uno di questi oggetti poteva costare dai 100 ai 400 dollari di oggi.
La 51 fu in commercio in vari modelli fino al 1972 e fu di sicuro la penna più venduta del suo tempo con un fatturato complessivo di 400 milioni di dollari (diversi miliardi di dollari attuali).
Poi lentamente, per una sorta di legge del contrappasso, anche la Parker 51 ed i nuovi modelli dal design innovativo che seguirono, subirono una forte contrazione nelle vendite.
Fu l’avvento della macchina da scrivere a sancire la fine dell’età d’oro della penna.
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