#pugni sul muro
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i cccp salgono sul palco e mi chiedo se sono ancora fedeli alla linea quella linea a cui mi piacque pensare d’esser fedele anche io ma che non seppi davvero mai tracciare o spiegare o spiegarmi e forse come tanti convenuti come me a questa gigantesca festa di classe operaia di chi era vivo negli anni ottanta non mi frega poi troppo della risposta perché giovanni lindo ferretti di adesso fa di tutto per interpretare al meglio il giovanni lindo ferretti di allora ed in fondo è questo quello che volevo quello che volevamo e queste le aspettative che abbiamo prodotto e questo che vogliamo consumare in attesa di crepare e certo non che il magone non sia presente e che sia dovuto al pensare invece alle aspettative che avevamo in quegli anni distanti di mondo da cambiare e di mondo poi in cambiamento quando crollò il muro ed una linea almeno ed intendo quella che separava l’est dall’ovest venne cancellata e dicevo il mondo in cambiamento ed adesso che innegabilmente è cambiato ma non come avremmo voluto cambiarlo noi e lo vediamo cambiato e ce lo diciamo come sei cambiato quando incontriamo qualcuno di quei vecchi amici e lui lo dice a noi ed allora se non altro consapevoli che è un carnevale una festa in maschera una interpretazione alziamo i pugni chiusi al cielo quando compare una bandiera del pci e balliamo e non studiamo non lavoriamo non guardiamo la tv non andiamo al cinema non facciamo sport e chiediamo di essere curati e ammettiamo la paranoia emiliana mentre invitiamo yuri a sparare e se ne vanno due ore e con loro tanto lo strato di polvere che avevamo su certi ricordi quanto l’illusione d’aver contato qualcosa di aver fatto qualcosa ed invece forte sale un gusto amaro di chi ha fallito come uomo e come generazione e del fatto che non ne frega nulla a nessuno noi compresi però tu amami ancora e fallo dolcemente un giorno un mese un’ora che la vita la mia non è ancora finita e ci sarà forse tempo per dare un senso a tutto quanto o se non altro a farsene una ragione che il senso manchi come qui manca la punteggiatura
#la verità ed altri disastri#cccp fedeli alla linea#concerto#senza punteggiatura#senza maiuscole#senza senso#amami ancora
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Cose che non voglio mai dimenticare:
- il primo viaggio dopo il covid, a Roma con mia cugina. speravo di incrociare certi occhi, riconoscerli. ero felice, mi veniva voglia di piangere. la città era come nei ricordi di bambina. e quando me ne stavo per andare, mentre sedevo al parco del colle oppio, una tristezza incontenibile.
- la prima volta che mi hai detto al telefono, dopo essere venuti, che ti era sembrata più intima delle altre.
- mio fratello neonato che mi tende la mano dalla culla, per dormire accanto a me.
- quando N. mi ha detto che mi trovava interessante, per me lui era tipo chris hemsworth. (maledetto, sei il mio più grande what if)
- quando ho costretto mio padre a portarmi al cinema per vedere le winx, mentre mamma era a letto con la febbre. non potevo aspettare, dovevo sapere il segreto di bloom e di domino.
- quando mia mamma mi ha portata in libreria per la prima volta. eravamo alla casa al mare in Calabria, la libreria si chiamava Victoria ed odorava di nuovo e infinito.
- il tuo sguardo davanti alla metropolitana quando il primo incontro si era esaurito, noi due silenziosi. volevamo dire tante cose, tu hai parlato per primo come sempre e mi hai chiesto di non dimenticarmi mai di te. promesso.
- i miei cugini piccoli che mi regalano disegni.
- le risate genuine la notte di halloween a casa mia con G. e F., avevamo sedici anni e tutto ci sembrava facile, eccetto la matematica.
- le serate con il medico bono di cui M. era innamorata. una parte di me, quella più buia, si compiace se pensa che ha sorpreso il medico a fissarmi e scattare foto di nascosto.
- quando il prof di arte si è "sottomesso" (rega' non come pensate voi, non fate i porci), dopo essersela presa con me inutilmente. che soddisfazione è stata per la me di diciassette anni, lasciargli intendere che lo avevo mandato a fanculo. che io ero quella forte. ammetto che in questo c'è del sadismo, dovrei chiedere a Freud?
(ci sono tante altre cose, ma sono più intime e le scriverò sul mio diario)
Cose che voglio dimenticare, ma probabilmente non lasceranno la mia mente:
- il vuoto negli occhi di mio cugino A., soprattutto quando ride voglio scordarlo. è anche più triste. un tempo era un bambino turbolento, che mi faceva tanto ridere, adesso nemmeno parliamo.
- mio fratello che tira i pugni nel muro durante la quarantena.
- le incessanti liti dei miei prima della mia laurea.
- le urla a casa dei nonni il 12 dicembre.
- tu che ti arrabbi con me.
- l'università.
- le attenzioni che ho dato a quel coglione di G. che vive di fronte a me. che tempo sprecato, per una persona così piccola.
- quando le merde dei parenti mi regalavano vestiti di taglie più grandi perché "tanto tu sei come tua cugina A., avete la stessa taglia" e non era vero. non ero grassa, ma ci ho sempre creduto guardandomi allo specchio.
- quando le persone a cui voglio un bene dell'anima mi hanno detto che non faccio un cazzo, mettendo in dubbio il mio disagio.
(e altro)
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I sentimenti vanno espressi, se non con le parole, almeno con i gesti, con gli sguardi, persino con i pugni sul muro se necessario. Ogni cosa che rimane dentro diventa più grande, così vale per l'amore che si teme non corrisposto, tanto vale per l'odio che crea risentimento anche verso ciò che non ne è fonte.
Fabio Privitera
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Il mio amico, il cappio
Non ho mai visto La ballata di Buster Scruggs, in compenso conosco piuttosto bene il meme del James Franco sornione che sdrammatizza il cappio ghignando: “First time?”. Non ne conosco la storia e non so cosa l’abbia spinto a tanta nonchalance, molteplici evasioni sospetto, un complice appostato a liberarlo, forse, ma stasera mi sento forte in lui, o meglio, più vicino a lui, ché in realtà assomiglio tutto al nonnino disperato. Sono giorni ormai che mi pare di svegliarmi con un cappio al collo, una corda che si fa d’ora in ora più stretta fino a non lasciarmi respirare. Sento d’aver fatto il passo più lungo della gamba assumendo un’altra dipendente senza potermelo realmente permettere, e oggi infatti ho ricevuto una notizia che m’ha serrato il collo sì forte da mozzarmi il fiato. Non ho ancora elaborato e non so se lo farò. Sono spacciato. Ma che alternative ho? Penso che non ho altra scelta se non sorridere, ai bambini, agli amici, al mondo, alla corda, e farmela amica. Chissà, magari mi ci abituo, quante persone vivono col cappio al collo ogni giorno, ardendo in sé come il tizio della copertina di Wish you were here? Il pollo Mike ha tirato avanti 18 mesi senza testa, penso di poter sopravvivere a un cappio. Dovrei. Credo. Vorrei tanto slegarmelo di dosso e andarmene. Fuggire. A volte sogno di farlo e scappar via, lontano, senza dir nulla a nessuno. Più che puntuali, alle tre meno un quarto, tracotanti, arriverebbero i primi clienti, trovando tuttavia la saracinesca abbassata. Sul muro un caloroso messaggio d’addio: “Non serviam”, i genitori allora inizierebbero ad urlare, prendendo il locale a calci e pugni, mentre i figli ridono festanti, in un girotondo eversivo. Non accadrà, ma mi placa l’animo, tanto più che mi son legato da solo, quindi dovrò solo abituarmi a dormirci sopra e pian piano imparerò a vivere, lieve come il James Franco del meme, pronto a schernire tutti con un beffardo: “First time?”, finalmente lui. Chissà se alla fine muore o sopravvive. Spero tanto non muoia. Lo spero così tanto.
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2.
Usciamo da questo dannato quadro prima pieno ed ora privo di vita. Tu sei in piedi davanti alla porta spalancata, io ai piedi del tavolo di un marrone quasi rossiccio. Cerco di alzarmi, di ricomporre le parti di me che tanto brutalmente hai spezzato, vivisezionato a forza di colpi alla rinfusa per la tua rabbia, il tuo odio e forse un po' d'amore.
Non vedo, mi strappo gli occhi alla ricerca del buio completo, alla ricerca di qualcosa che mi protegga da te. Forse le tenebre. Forse l'inconscio. Forse il nulla.
Mi strappo i capelli. È questa la disperazione o la pazzia? È forse la fine di tutto?
Per terra una pozza di sangue e grido amore con le mani ricoperte del mio stesso scuro e denso sangue. Mi avvento su di te, belva assettata di morte, è una supplica. Uccidimi, non sono ancora morta e sento l'aria riempirmi i polmoni in fiamme, stanchi. Il petto mi esplode, i muscoli riprendono a funzionare fin troppo bene. Sono incontrollabile. Sono qualcosa di mai visto e ho paura di me stessa mentre cerco di strapparti il viso, il cranio ricoperto di muscoli minuscoli, carne, vene, nervi e null'altro. Sei nella mia testa, mi controlli, mi manipoli i pensieri. È successo o è stata un'altra illusione.
Un colpo fisso al petto e due nella schiena. Ti chini e mi baci sulle labbra secche, assettate, sporche ma calde. Siamo una guerra. Io che mi aggrappo con le unghie alla tua schiena. Al mio tocco la carne si scioglie, si strappa in maniera perfetta, gocce di vivo sangue caldo ricoprono le mie dita fredde.
Corro.
Scappo da te.
Il buio della notte mi culla.
Chiudo gli occhi grandi.
Ti sembro una bambina persa e disperata, una tua creatura progettata per la sofferenza e la distruzione pura.
Ti sento piangere, o forse stai ridendo, chi lo sa, le mie spalle sono l'unica cosa che vedi di me ed io una distesa di scuro, buio, inferno.
Guardaci.
Amore, caro amore mio.
Noi siamo morti.
Tu prima ed io dopo.
Ricado sul riccone cazzuto e svanisco.
Sono io ad avermi ammazzata e sono io che la vita l'ho poi continuata.
Tu muori sul pavimento freddo e guardami con gli occhi che supplicano amore.
Io non ti vedo.
Non ho più gli occhi e strappami dai miei incubi e paure.
Portami all'inferno che la mia anima come la tua sia dannata in eterno.
Amore, caro amore mio.
Porta i miei occhi con te nel più profondo buio che io non possa mai più guardare nessuno, che l'ultimo a vedere, guardare, amare, sia stato tu.
Amore, dannato amore mio.
Esco dalla casa buia a piedi scalzi, calpesto i frammenti di vetro sparsi sul pavimento sporco. I piedi mi si attaccano al suolo ed ogni passo è una doppia fatica.
Il quadro resta sul muro in attesa di essere accolto o distrutto. Nel cammino il fuoco è alto. Potrei prendere una matita, disegnare su un foglio bianco il calore che sento sul corpo nudo. Stringo le mani a pugni e conficco le unghie nella tenera carne, poi mischio, il tuo sangue con il mio e siamo un tutt'uno che vivi in me e vivo in te. Avvolgo le braccia intorno al corpo e il mio sguardo si perde. Ti sento freddo alle mie spalle, un tocco leggero sulla mia pelle fredda. Mi abbracci da dietro, le braccia sotto le mie, è una promessa di protezione e ci siamo uccisi, distrutti, massacrati.
Mi marchi il corpo con il tuo calore e ricomponi parte dopo parte di me con le tue lacrime, vedo di nuovo ed il calore delle fiamme non è calore, è il nostro Inferno.
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credo di aver buttato il planning di tutte le sessioni dalla gioia di aver finito quella di gennaio
ora dovrò pianificare tutto lacrime urla pugni sul muro testate alla scrivania
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“Levò la maglia lanciandola a terra assieme a tutti gli altri indumenti, di cui si sarebbe preoccupato in seguito, e solo in quel momento, nel riaprire gli occhi dopo averla fatta passare su dal collo, si accorse di essere così esausto da non aver nemmeno badato ad accendere la luce. Scocciato, privato di qualsiasi tipo di delicatezza, colpì il tasto sul muro, prontamente sbuffò stropicciandosi le palpebre cercando adattare il più presto possibile la vista e dopo si girò indietro.
Non l'avesse mai fatto.
Rimase immobile, colto alla sprovvista dal proprio riflesso allo specchio, la bocca asciutta e la gola secca, perso ad osservare la pelle pallida arrossata sulle spalle ossute, sui gomiti graffiata ruvidamente dall'asfalto, violacea per le botte prese sulle braccia magre, il ventre piatto, vuoto ed il torso asciutto, marcato al costato e al trapezio, si alzava ed abbassava con ritmo lento quasi alienante. (...)
Le iridi scure incontrarono le gemelle, ebbero difficoltà a distinguere le iridi dalle pupille e si fissarono vicendevolmente alla ricerca di un nonnulla fino a quando non sviarono sulla figura ombrosa e sconfinata alle sue spalle, proiettata macabramente sulle anonime mattonelle del muro. Quel nodo alla gola che l'aveva ammutolito trovò l'appoggio di una decina di affusolate dita di pece, che ansiosamente si avvolsero attorno al suo collo ed incominciarono a premere sulla carotide, a stringere sempre di più, negandogli il respirare.
Come un micio di malaventura, spaurito balzò girandosi nella sua direzione, la schiena inarcata in avanti venne delineata vertebra dopo vertebra, al posto degli artigli due pugni alti al petto, ma lo stesso identico e patetico sguardo terrorizzato da un pericolo inesistente.
Si era visto ridicolo, allo specchio.
Aveva soffiato contro niente meno che la sua stessa ombra.”
#fanfiction writer#writercommunity#writerscorner#jjk spoilers#jujutsu kaisen#jjkfic#character analysis#angst#self hatred#panic attack#body dysmorphia#fushiguro megumi#gojo satoru#yuji itadori#read on ao3
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Vengo picchiata spesso, anche per idee differenti.
Ho j capelli lunghi e per la maggiore cj sonk i capelli strappati, la cosa divertente è vedere tutte le ciocche con la radice bianca che si appoggiano nel lavandino e per assurdo sulla spazzola diventano quasi difficile da togliere, ogni volta che vengono strappati si arruffano e diventano syranj , come se fossero più secchi.
Che peccato lo penso sempre.
Mi dispiace ricevere j pugni in volto, con gli anelli mi spacca sempre il labbro infatti sul labbro è rimasta una lieve pallina ,non penso andrà via.
Mi dispiace avere sempre bernoccoli in fronte ma purtroppo quando mi strappa i capelli cado spesso sul muro ed è difficile stare attenti.
Mi dispiace avere sempre le gambe così rovinate ma quando mi da i calci ha spesso le scarpe.
Mi dispiace avere i lividi sul seno ma quando mi colpisce tocca sempre il seno.
Mi dispiace avere spesso il mal di testa ma è inevitabile.
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E di un cuore tanto grande, a me cosa ne resta? Di tutto quel che porto addosso, cosa di questo fa un suono? Il mio cuore che batte, o il modo in cui io faccio battere i denti dalla rabbia e dal freddo o i tasti sul mio piano? Nella mia vita, ho il cuore negli occhi: guardo tutto con una lente d'ingrandimento e riconosco, che i piccoli sassi di campagna, son stati castelli e fortezze incantate che non hanno rinchiuso soltanto principesse, ma anche il suono di segreti, e canzoni che hanno parlato per tanto tanto tempo d'amore. E cosa è per me la musica? È quel linguaggio internazionale che colpisce le corde più profonde della tua essenza, è quella colonna sonora che fa da sfondo alla tua vita e può essere: un pianto disperato, dei pugni al muro, la tua risata. E spero, che possa essere di gioia e non di scherno e di odio. La musica, è quel linguaggio che si declina in diversi generi, artisti e modi di fare musica: c'è chi sa capirti, chi ti ascolta, chi ti salva dai giorni no e nei giorni dove c'è un po' di pioggia ti regala il sole. La musica, come ho spesso imparato io scrivendone, è anche una poesia dedicata alla persona che ami, musicata da una cosa chiamata amore. E l'amore va a braccetto con la musica, questo perché alcune volte per parlare di amore si usa l'amore e la musica che scegliamo parla di noi. Diventa un modo di fare. Mi auguro, di essere sentita nelle canzoni alla radio, nei momenti più semplici e disparati, specie se sono quelle che senti quando non pensi a lui ma a "cazzo, questa cosa sembra proprio essere amore". E a me cosa è rimasto? Se non il suono del tamburo che ho per cuore che modesto e mesto, a testa bassa, mi porta via. Cosa mi è rimasto? Se non la sinfonia generata dal fruscio degli alberi, dal tramonto sul mare rosato, delle campane della chiesa e del rumore dello zucchero filato che ti si appiccica un po'da tutte le parti e ti resta addosso come melma di quando cammini. E poi c'è la musica e non solo lei, ma anche l'amore, che quella melma la scaccia via, c'è anche il fatto che sappia accarezzarti il cuore perché apprezzi i ruderi dai quali è nata: la radio, i giradischi, le prime strutture di musical e di composizione, c'è chi apprezza la sua storia perché anche dei generi che sono alla portata di tutti come il rap, sono nati per rabbia, per farsi sentire e affermare la volontà dei creatori. La musica è l'arte più apprezzata da Platone, questo perché è la più originale e suggestiva. E poi, crescendo, ho scoperto che tutto ha un suono, e solo l'orecchio dell'amore riconosce i primi balbettii di un bambino come delle note. La musica è anche la manifestazione dell'amore: per sé stessi, per la propria famiglia, per il proprio dio, la propria passione, o per i tuoi incantesimi e rituali. È anche quella frequenza che influisce sul cervello. La musica è, quell'aspetto imprescindibile della vita di ognuno di noi: è entrata a far parte della nostra vita così tanto che ormai ci fa da promemoria e veste i panni della nostra persona e della vita nella quale viviamo. Musica e amore si tengono per mano: ho capito che grazie alla musica si può parlare d'amore. E io amo tanto. Quindi, alla fine, di questo cuore cosa mi resta? Se non gli spartiti che avrei voluto comporre io, e farli suonare da te per dire "io sono una persona che amo." Cosa non so, se non gli occhi e le orecchie con cui ascolto con cuore la nostra musica, quella che rende non bella, ma vera la moa vita.-Vostra, Martina*(Jetaime)
No, non mi chiamo Martina. È stato scritto per mia sorella e so che non lo apprezzerà così come non lo apprezzo io. Ma alla fin fine sti cazzi.
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Budrio (BO), continue minacce, lesioni, offese e denigrazioni alla ex compagna. Eseguito il provvedimento per il divieto di avvicinamento per un 56enne
Budrio (BO), continue minacce, lesioni, offese e denigrazioni alla ex compagna. Eseguito il provvedimento per il divieto di avvicinamento per un 56enne. I Carabinieri della Stazione di Budrio, nella giornata di giovedì 22 febbraio u.s., hanno eseguito il provvedimento della misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa con applicazione del braccialetto elettronico, nei confronti di un 56enne italiano, celibe, già noto alle forze dell'ordine, accusato del reato di maltrattamenti nei confronti della ex compagna. Il provvedimento, richiesto dalla Procura della Repubblica di Bologna ed emesso dal Giudice per le Indagini Preliminari, trae origine dalla querela presentata da parte di una donna 39enne italiana, operaia la quale si è rivolta ai carabinieri della locale stazione, a seguito dell'ennesimo e violento litigio con l'ex compagno. La donna, in sede di querela, ha raccontato ai militari che la relazione con il 56enne era iniziata circa due anni fa Nel mese di aprile 2023, la 39enne ha ricevuto una telefonata da un numero sconosciuto, l'uomo, a causa della sua incontrollata gelosia, ha afferrato il telefono della donna e lo ha scaraventato con violenza contro il muro per poi spintonare la sua ex compagna. In un'altra occasione, il 56enne si è presentato sul luogo di lavoro della donna, in evidente stato di agitazione dettato dall'abuso di sostanze alcoliche, ed ha iniziato ad inveire nei confronti della stessa, tanto da farle perdere il posto di lavoro. Nel gennaio 2024, dopo l'ennesima lite per futili motivi, l'uomo ha iniziato a colpire il muro con dei pugni per poi afferrare la donna al collo causandole delle lesioni, tutto ciò alla presenza del figlio minore del 56enne. Le continue minacce, offese e denigrazioni, da parte dell'ex compagno, hanno causato nella 39enne un evidente stato d'ansia e di paura per la propria persona. Appurato ciò, dopo aver rintracciato l'uomo, i carabinieri lo hanno sottoposto alla misura cautelare disposta dal Giudice.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Prima lettera per papà
Eppure mi sta bene così, lasciar pezzi di stoffa d'abiti leggeri impigliati qua e là lungo il cammino. Certe volte mi perdo e cerco riparo. Seguita da ombre e viscidi viandanti. Scappavo via, a più non posso. Le gambe svelte avanzavano esperte sopra il terreno boschivo, e lunghe mani cercavano di afferrarmi in mezzo a quel buio fitto. Era crudele. Un labirinto.
Mentre scendevo le scale scivolavo con le piccole scarpette rosa tenue e disperatamente tentavo d'agrapparmi a qualcosa per rimettermi in piedi, ma viscide mani toccavano i miei capelli finendo per sfilarmi i fiocchetti che li fissavano alle punte.
Correvo per quel corridoio angusto che portava dalla mia camera al bagno cercando di capire dove trovare un'uscita, una via di scampo dai due aguzzini. Svoltavo a destra attraversando il bagno, a destra di nuovo ed arrivavo in cucina.
Sai, ricordo ancora, le mani tremanti, il terrore di fare il minimo rumore, il minimo movimento sbagliato. In quel momento sembrava una buona idea, sai? Prendere la sedia ed avvicinarla al bancone della cucina su cui si trovavano i coltelli, ma vedi, padre, avresti dovuto aiutarmi.
Sedevi a tavola fumando una delle tue sigarette con il bicchiere di vino davanti e la bottiglia ormai vuota. Tenevi le gambe larghe, come ad importi, come ad aver deciso. Non è così?
Prendevi il mano il bicchiere nel mentre la disperazione si imposessava di me. L'abito bianco ormai era sporco, mi dispiaceva. Era quello che mi aveva cucito la mamma prima di partire e non decidersi mai più di ritornare.
Mi chiedo ancora perché non hai chiamato il nome degli altri due prima che prendessi in mano il coltello, non me l'hai mai spiegato. A dire il vero non mi hai mai spiegato nulla, né della mamma, né tantomeno delle sue lacrime che continuavano a prosciugarla.
Sai, non mangiava più, ormai da un po'. Ricordi quando mi dicevi che ero uguale a lei? Devo ammetterlo, un po' avevi ragione.
Intanto, padre, torniamo a noi. Parliamo di una storia che non è mai esistita. Così l'hai catalogata nel verbale che hai steso il giorno dopo, nel pomeriggio non è così?
Dicevo, mi avevi lasciato il tempo di prendere il coltello ed io ricordo: il mozzicone che buttasti in terra guardandomi negli occhi per poi esordiente con un sono "è qui".
Tu non lo sai cosa succese, padre.
Mentre urlavo implorando il tuo aiuto, un ghigno di soddisfazione si dipinse sul tuo volto ed il sorriso languido che mi lanciasti tolsero il volume alle mie urla.
Ormai sussurravo. Pregavo Dio in silenzio, piangendo e singhiozzando tremante dinanzi alla realtà.
Mi portarono nella casa accanto, padre, ci separava un muro sottile di cemento, fragile da poterlo rompere accidentalmente don una gomitata. Ricordi?
Mi chiedo, padre, le mie urla ti hanno raggiunto? Sentivi il mio corpo dimenarsi mentre i miei abiti venivano strappati? Sentivi i loro gemiti? Le risate e lo scambio di idee sul da farsi ogni volta che un desiderio veniva soddisfatto? Dimmi, dolce mio papà, sentivi mentre i loro pugni spezzare le mie costole? Mentre legavano le mie mani alla testiera del letto, sentivi cadere in terra il coltello da cucina? Oh, padre, caro mio padre, sentivi la mia voce flebile che si arrendeva? Sentivi le mie lacrime cadere in terra infrangendosi sul pavimento come onde alte sugli scogli?
Mi chiedo spesso se sentivi lo sfrigolio dei fiammiferi sulla mia pelle? Le mie urla soffocate dalla cintura che mi bloccarono tra i denti e la faccia premuta contro il cuscino. In qualche modo respiravo, padre, non riuscivo a smettere di farlo, non riuscivo a morire, mi dovrai scusare.
Devo sapere, padre, dopotutto, perché pur guardandomi dalla finestra, nel mentre divoravano la mia care, nel mentre tiravano le mie trecce ed i miei occhi da bambina diventavano più cupi e sempre più vacui, perchè nel mentre le mie braccia cedettero inerme sul letto sfatto e le mie gambe cadevano esanime, che cosa facevi padre in quel momento con le mani basse infilate nei pantaloni ed il respiro corto? Perché, tu, padre, non aiutasti me? Perché?
Mi chiedo ancora, perché così tanti perché da non finire più? Perché così tante poche risposte? Perché tutti questi silenzi? Chiediti perché, padre. Fallo al posto mio, io non riesco più.
Oh, padre, aspettami ancora, aspettami così, abbiamo ancora fin troppe cose da dirci, fin troppi dubbi da colmare, fin troppi vasi di pandora da scoperchiare.
Perciò aspettami, nelle notti più pesanti, io, tornerò ancora a parlarti.
Per ora ti saluto, ti mando il mio dolore ed una lacrima perduta.
Con tutto il mio affetto,
la tua dolce Charlotte.
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autolesionismo
Sono mesi che non mi taglio, sono mesi che non ho nuove cicatrici sui polsi. Già dai primi giorni sentivo che sarebbe stata dura, ma ce la sto facendo, anche se non volontariamente. Sono stata costretta a fermarmi, ormai la gente cominciava ad accorgersene e a fare domande a cui non avevo una risposta, domande come “perché l’hai fatto?”, le braccia non erano più braccia ma in tutto questo il mio cuore non era stato riparato. E’ vero, senza l’autolesionismo sto diventando più forte, ma ormai non era più una questione di “dolore o non dolore”, ormai era diventata una questione di dipendenza vera e propria. Non mi considero un’ex autolesionista, io lo sono ancora, e anche abbastanza attiva, forse non mi sfogherò con i tagli, ma un modo per farmi male lo trovo comunque: pugni sul muro, ricordi taglienti, nocche distrutte... anche se in piccola forma, questo è autolesionismo, lo faccio per farmi del male e per sfogarmi allo stesso tempo. Ai pugni sul muro la gente non ci fa caso come ai tagli sui polsi, i tagli significano una cosa ben precisa, le nocche distrutte possono significare un semplice momento di rabbia cieca, e la gente non ci fa tanto caso. Le persone pensano che gli autolesionisti siano quelli con i tagli sui polsi e le felpe larghe, ma in realtà, nessuno pensa che siamo tutti, in fondo, un po’ autolesionisti.
#autolesionismo#suicidio#depressione#rabbia#pugni sul muro#nocche distrutte#tagli sui polsi#tagli#anoressia#mi manca l'autolesionismo#sfogh#arti marziali#superficialit#dolore#masochismo#masochista#autolesionista#lacrim#lacrime#pensieri#ricordi taglienti
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i segni sulle nocche
cola sangue dal naso
la gelosia rincorre la pazzia
io non ho controllo
e ti ho lasciato i segni
delle mie mani sul collo
#pugni al muro#pugni#frasi vere#frasi belle#frasi tumblr#frasi#citazione#citazione tumblr#citazioni#sangue#gelosia#sono strana#sono pazza#pazzia#segni#segni sulla pelle#segni indelebili#baci sul collo
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tumore. Fa paura anche solo a leggerlo, vero? Io ancora oggi, non riesco a dirlo ad alta voce, mi terrorizza. Iniziano a tremarmi le gambe, mi trema la voce, il cuore perde battiti e rimango ferma in un tempo sospeso nel nulla. Ho provato a combatterlo, a rendere familiare questa "parola", ma ogni volta mi prende a pugni in faccia e mi fa finire contro un muro di dolore che mi incatena i polsi e non mi lascia andare. Mi ricorda quello che ti toglie, quello che ti strappa dalle mani senza chiedere; è tuo, è suo, è di chiunque altro, non gli importa, da quel momento in poi gli appartiene. È come un esercito che avanza e non teme nulla, correre ai ripari non aiuterà, ti travolgerà in qualsiasi caso. Arriva come una tempesta in pieno cielo sereno, ti guardi intorno spaesato e non capisci, è strano. Ti ritrovi bagnato fradicio quando pensavi fosse estate e il sole potesse solo scaldare, sta volta non lo ha fatto. Ti toglie tutto, anche la voce, gridi e tutto quello che ne esce è un silenzio assordante. Silenzio. Come quello dopo la fine, quello che ti lascia quando se ne va, quando smette di esistere e smette di far esistere. Silenzio. Come quello che vorresti nella testa quando tutte le voci gridano di dolore, quando ogni perché prende il sopravvento, quando persino le lacrime sul pavimento sembravano fare un chiasso spaventoso. Non se ne esce da queste cose, si rimane incastrati nei giorni, nelle ore, nei minuti interminabili in cui speri ti arrivi anche una sola fottuta bella notizia, e invece niente. Arriva come un tuono, di quelli forti che fanno tremare le pareti, che ti spaventano mentre tu stai facendo le tue cose, come un tuono che assomiglia ad un terremoto, e se ne va come quando si dissolve la pioggia nell'aria; semplicemente smette e basta. Rimani lì, vai avanti e rimani lì, ti torna tutto indietro ogni volta che alzi la testa dal cuscino, ogni volta che ce la poggi. E non c'è sollievo, non. c'è. sollievo.
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Riapro gli occhi. Resto sola, in attesa sul bordo del letto. Trucco in faccia, vestiti addosso, speranza dentro. Aspetto e so che non arriverà. File di persone davanti alla cassa al supermercato, davanti ai bagni di scuola, alla fermata del bus, è un continuo attendere. Il tempo vola e noi non abbiamo ancora imparato a volare. Arrivo alle 17/17.30, attesa lunga, minuti infiniti. Alle 18 sono li, ancora un po, pugni stretti, capelli sciolti, nervi a mille. Strappo secondi dal orologio e li sostituisco con lunghi minuti. Il tempo passa, passa e alle 21 andiamo, ma andiamo? Ti guardo in volto, il tempo è soggettivo, ti strappo gli occhi e per terra una pozza di sangue. Senti bruciare, poi fuoco vero. Ti odio, ti amo e ti detesto ancora. Sei cupo, io sprizzo raggi di sole accecanti. Tu non vedi, non puoi vedere, calpesto gli occhi tuoi col tacco della scarpa, pugnale in mano e ti strappo il cuore. Pulsa sotto le mie dita fredde e godo mentre sputi sangue sul pavimento. Con l'ascia separo il tuo corpo in cinque perfette parti, mani e gambe poi corpo. Ora in sei, mani e gambe e corpo e testa. Sei pezzi da rimettere insieme, ora ti squarcio in due e faccio uscire organi, budella a destra sulla terra scura, cuore ancora in mano, sinistra fegato e stomaco poi reni, polmoni tra la testa e il nulla e milza accanto la gamba destra. Ti strappo il tuo fedele amico, riproduttore, donatore di vita. A terra ora giace l'amore e l'oggetto da me amato. Ti mangio il cuore, il sangue sui miei seni fin sulle gambe. Tu non ritardi, non mi lasci più in attesa. Mi siedo accanto, un colpo alla testa e cado. Mi hai aspettata, la mia morte arriva tardi. M'arriva. Il corridoio buio accoglie la mia figura come un sacrificio a Lucifero. Mi appoggio al muro alla mia destra. Le gambe tremanti e il respiro corto. Pezzi di vetro. Frammenti infiniti di specchi rotti. Fa freddo. Sento urla dietro alle porte per poi vedere sangue su ogni superficie. Mi aggrappo al muro, a me e ad ogni speranza che mi resta. Un passo, dopo un passo e dopo un passo ancora. E cado pesantemente sul pavimento appiccicoso. I pezzi di vetro mi si conficano nel corpo magro. In mano un frammento di specchio. Mi guardo. Maledetta curiosità. Non vedo. Non ho occhi. Non ho naso. Non ho la bocca. Una superficie netta di un corpo che non è mio. Mi tocco il posto dove una volta erano i miei occhi. Due buchi profondi. Sento sotto le dita pezzi di nervi. Carne che sembra viva. Brucia, ma continuo a premere sperando che in fondo ci siano i miei occhi. E buio dopo buio e dopo buio ancora. Il sangue ricomincia a scorrere e lo sento bagnarmi il viso. Mi cede la testa in avanti. E chiedo a Lucifero aiuto. Riesco ad alzarmi in piedi.
Lucifero.
Non ho occhi ma vedo.
Lucifero.
Non ho naso, ma respiro l'aria acre della mia morte.
Lucifero.
Non ho bocca, ma urlo.
Lucifero.
Non ho vita, ma vivo.
Lucifero.
E tu, tu prendimi, curami ogni ferita. Che solo tu tra tutti vedi il male dove c'è il bene. Quindi guardami. Distruggimi. Prendi il mio corpo e spezzalo in due. Le mie viscere sul freddo pavimento e il mio sangue che sia il bagno caldo per te. Che sei il mostro ed io la bestia. Che a fare patti con te si muore. E io che vivo insieme alla mia morte, muoio. E sono tua, corpo e anima. E ricomponimi dopo la morte. Che io sia per te arma per la gloria e tu che sia per me eterna salvezza.
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Storia Di Musica #224 - Blur, The Great Escape \ Oasis (What’s The Story) Morning Glory?, 1995
Per la prima storia di musica doppia non potevo che scegliere la rivalità del brit pop. Come quasi sempre accade nelle rivalità musicali, sono costruite ad arte dai mass media, che amano moltissimo contrapporre, nel momento di massimo successo in questo caso, due visioni della musica, dello stile, persino l’aspetto personale dei musicisti. Blur e Oasis sono stati i gruppi più famosi inglesi degli anni ‘90, per vendite, successi, premi, rivalità musicale: su quest’ultima, si sommavano tutti gli ingredienti perfetti, tra distanza geografica, sostanziale uguaglianza di età, stili musicali, personalità. Quelli che iniziano prima sono i Blur: Damon Albarn e Graham Coxon sono amici sin dall’infanzia e vengono entrambi da Colchester, nell’Essex. Hanno venti anni quando innamorati dello ska e del suono di Paul Weller con i Jam, formano i Blur: iniziano con un suono baggy, un mix di indie-dance che in quel periodo portava al successo gli Happy Mondays o gli Stone Roses, uno dei gruppi nume tutelare di tutto il brit pop. She’s So High e soprattutto There’s No Other Way, con il gruppo allargato a Alex James (basso) e Dave Rowntree (batteria), sono singoli che raggiungono la Top Ten dei singoli, e lanciano il primo disco, Leisure (1991). Nel 1992 pubblicano un singolo, Popscene, che sebbene sia un mezzo fallimento di vendita, viene considerato da molti la nascita del movimento brit pop, con l’intenzione della band di lasciare il baggy e avviare una sorta di revival del suono del mod sound degli anni ‘60, su ritmi punk e melodie che si rifanno a grandi gruppi come i Kinks o addirittura i The Who. Il balzo effettivo avviene prima con Modern Life Is Rubbish (1993) e poi con il successo di Park Life (1994), il loro primo grande disco, un disco che celebra l’inglesità con particolare affetto per quella cockney londinese. Inizia il momento magico, con vendite di milioni di copie e una popolarità in ascesa incredibile. Che era allo stesso livello, nel 1994 per gli Oasis: i fratelli Gallagher sono nati a Burnage, un sobborgo di Manchester, da una famiglia cattolica irlandese. Noel riceve una chitarra a 11 anni e inizia a strimpellare, si appassiona al punk e a 18 anni lavora con gli Inspiral Carpets come tuttofare. In un concerto a Manchester, porta il fratello Liam a sentire gli Stone Roses (sempre loro), e Liam è come folgorato. La band che prima si chiamava Rain composta dagli amici di infanzia Paul “Bonehead” Arthurs, Tony McCarroll e Paul “Guigs” McGuigan, cambiano nome in Oasis. La loro ascesa è più tumultuosa, costellata da liti tra i fratelli (più volte si presero a maleparole e pugni sul palco), a comportamenti in pieno cliché rockstar (stanze sfasciate, comportamenti sopra le righe) e una musica che nei singoli Supersonic, Shakermaker e Live Forever è più classica e struggente, fino a quando nel 1994 Definitely Maybe, il loro primo album, li impone come quelli che riescono a trovare il compromesso più bello tra le melodie degli anni ‘60 e un fragoroso muro elettrico chitarristico. I fratelli Gallagher non eccellono per simpatia, e sparano dichiarazioni al vetriolo un po’ su chiunque, in una di questa Noel augura a Damon Albarn di prendere una malattia venerea. Fu la scintilla che scatenò la rivalità (mediatica). E il ring migliore fu l’uscita nel 1995 di due dischi, attesissimi: in ordine cronologico a settembre The Great Escape dei Blur e meno di un mese più tardi (What’s The Story) Morning Glory? degli Oasis. Dico subito che sebbene il primo round con i singoli, Country House dei primi vs. Roll With It dei secondi, vide il netto successo del primo, la sfida generale se l’aggiudicano gli Oasis, che con questo album venderanno decine di milioni di copie, anche negli Stati Uniti, dove i Blur non sfonderanno mai, battendo numerosi record. Musicalmente, i due dischi sono diversissimi: molto più classico Morning Glory, più vario e intrigante The Great Escape. Ma quello degli Oasis ha quasi tutte grandi canzoni, da Wonderwall a Cast No Shadow (dedicata ad un altro immenso personaggio di quel periodo, Richard Ashcroft), da Don’t Look Back In Anger a Champagne Supernova, canzoni che ancora oggi hanno un felice e diffuso airplay radiofonico: in loro si sublimano al meglio le influenze del passato (She’s Electric, l’intro di piano di Don’t Look Back In Anger, esempi paradigmatici) ad un linguaggio semplice e diretto, che piacque molto ai discografici, come dimostra una singolare dichiarazione di Alan McGee, il proprietario della Creation, la loro etichetta discografica: ”Non puoi buttare questo album. Parlerà ai giovani della classe operaia in un modo che i Suede o i Radiohead si sognano”. Si impongono lo stile di Noel alla chitarra e persino il modo di cantare di Liam, che non è un cantante così espansivo, ma che segnerà un’epoca. Il disco è un capolavoro di energia e di grandissime canzoni, e lascia all’altro la sperimentazione. The Great Escape è molto diverso: è quasi un concept sui dissidi di un ragazzo di quel periodo, e ci sono indizi qua e là, uno davvero grande nel titolo di una canzone, Dan Abnormal, che sia proprio Albarn in questione (il titolo è un anagramma del suo nome e cognome). Il disco è musicalmente molto più vario, ed è venato di ironia e amaro sarcasmo; anche i Blur sanno scrivere grandi canzoni (The Universal, che ha archi alla Bacharach e il cui videoclip ispirato ad Arancia Meccanica vinse decine di premi nel mondo), Chairmless Man, Entertain Me, Country House sono le punte di un disco che spazia dal punk (Globe Alone), al pop (Stereotypes), all’indie rock (It Could Be You), la canzone crooner (Ernold Same), con Albarn che si dimostra cantante estremamente versatile e Coxon divertente creatore di melodie. In definitiva, anche a distanza di anni, (What’s The Story) Morning Glory (il cui titolo fu scelto da Noel quando la sua amica Melissa Lim gli rispose al telefono con tale frase, che a sua volta proviene dal musical Bye Bye Birdie) è molto più diretto e focalizzato, The Great Escape più sperimentale negli stili, nelle strutture musicali e probabilmente più “sofisticato” nell’ascolto. Curiosamente, due anni dopo, nel 1997, i Blur pubblicano Blur, gli Oasis Be Here Now. Il secondo, attesissimo, vende ancora milioni di copie, ma sebbene bello è una copia del precedente. Albarn e soci invece prendono l’ennesima nuova strada, registrando addirittura a Reykjavík, e basta la potenza di Song 2 per capire che razza di cambiamento è stato: un cambio di rotta che li discosta ormai dal britpop per un percorso sperimentale che Albarn continuerà per decenni fino ai giorni nostri.
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