#probabilmente non gli passo nemmeno per la testa
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idettaglihere · 2 years ago
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quanto sono patetica quando non lo sento e mi manca
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algif · 1 year ago
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Il demone Bulma
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Riepilogo
Demon Bulma è il principale antagonista della serie di cartoni animati parodia di Dragon Ball , Demon Bulma Saga di Kishinpain. Si è suicidata e di conseguenza è andata dritta all'inferno. Tuttavia, attraverso mezzi sconosciuti, divenne l'immagine divisa di Janemba e iniziò a creare caos, costringendo i difensori della Terra a essere direttamente coinvolti.
Personalità
Nei panni di Bulma , che si preoccupa molto della sua famiglia e dei suoi amici dopo essere stata posseduta e trasformata nel demone Bulma, non si assume alcuna responsabilità delle sue azioni come uccidere Vegeta due volte, il loro figlio Trunks e sua sorella che era solo una bambina e non le importa chi lo prende. ferita tuttavia, torna per vendicarsi di coloro che l'hanno sconfitta, prendendo di nuovo il controllo completo della sua ospite Bulma.
Statistiche personali
Allineamento : Caotico Malvagio
Nome: Bulma Brief
Origine: Kishinpain
Genere femminile
Età: almeno metà degli anni trenta
Classificazione: demone
Statistiche di combattimento
Livello : 2-C | 2-C | 2-C
Poteri e abilità: Caratteristiche fisiche sovrumane , Intelligenza geniale , Volo , Manipolazione del Chi , Proiezione di energia , Combattente esperto , Acrobazie , Trasformazione , Teletrasporto , Generazione di onde d'urto , Aumento del danno , Creazione di immagini residue , Generazione di calore (tramite attacchi ki e aura), Viaggio dimensionale , Manipolazione del suono , manipolazione spazio - temporale e creazione di portali (a questo livello di potere può creare fratture dimensionali e distruggere spazio-tempo e dimensioni tascabili con la sua energia) Rigenerazione (almeno a metà) Corruzione (tipo 2), creazione di illusioni e controllo mentale , Alta tolleranza al dolore
Potenza d'attacco : livello multiverso basso (strappato la testa di Vegeta Base post-ToP) | Livello multiverso basso  (giocato senza sforzo con Goku SSJ4 Mastered Ultra Instinct post-ToP e frenato, che dovrebbe essere insondabilmente più grande dell'Ultra Istinto Mastered che ha combattuto contro Jiren, che dovrebbe probabilmente essere paragonabile almeno a Beerus. Ha completamente forgiato un Ultra Istinto, che è superiore all'interfaccia utente SSJ4 che è stata usata contro di lei (ha giocato completamente con Beerus e gli ha fatto un buco attraverso) | Livello multiverso basso (ha ottenuto potere da chiunque abbia mai ucciso, incluso Kefla Post-ToP [la cui forma SSJ con fusibili è paragonabile a SSJ Broly, il cui più forte di MUI SSJ4 scalando a Base Broly], Jiren e molti altri contemporaneamente)
Velocità : sconosciuta | Massicciamente FTL+ (ha tenuto il passo con Mastered Ultra Instinct SSJ4 Goku senza alcun problema e gli ha tagliato le mani prima ancora che potesse reagire, il che implica una grande differenza di velocità tra i due. Ha tenuto facilmente il passo con Beerus) 
Forza di sollevamento : sconosciuta | Sconosciuto
Forza sorprendente : Multiverso basso | Multiversale basso | Multiversale basso
Durabilità : sconosciuta | Livello multiverso basso | Livello multiverso basso
Resistenza : sovrumana
Portata : decine di metri. Interstellare con esplosioni di ki e attacchi
Dotazioni standard : nessuna
Intelligenza : Genio straordinario (intelligente quanto lo era in precedenza la sua controparte canonica . A differenza delle precedenti iterazioni di Bulma, Bulma Demone ha una discreta conoscenza delle arti marziali. È stata in grado di combattere Goku a livelli uniformi senza fallire nemmeno una volta)
Punti deboli: nessuno degno di nota
Chiave: Base | Forma Demone | Bomba spirituale post-demone
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sellwater2theocean · 1 year ago
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Sofferenze parigine- luglio
Lo sguardo mi scorre sul volto. Ne noto il pallore, ne noto le ciglia così scure e mi fisso dritta dritta negli occhi. Apro la bocca per vedermi da dentro. Noto con dispiacere una fila di incisivi leggermente ondeggianti e ingialliti. Ci passo la lingua sopra e la mia saliva sa di tabacco bruciato. Mi corre un brivido lungo la schiena.  
Non riesco ancora a vedere la mia bocca come prima, a viverci insieme senza sentirmi lì. Faccio cliccare l’unghia dell’indice sull’incisivo sinistro e mi trovo dinuovo in quel letto, lo stesso cotone nella corteccia cerebrale, lo stesso tamburo nel mio petto. Sento anche il suo, così forte in quell’incavo eburneo, liscio, tiepido. Sento le sue mani che mi cingono le spalle, tracciando segmenti brevi e percorrendoli a ritroso con le dita. Quelle dita così affusolate, delicate, che per mesi ho ammirato come si ammira una statua.
Sono catapultata in quel materasso a molle affittato da un estraneo, i capelli umidi e freschi, la frangia appiccicata alla fronte e qualche ciocca cadente sulla sua spalla. E ricordo quanto mi sembrasse un’illusione, un sogno. Sento lo schiocco dolce di un bacio sulla fronte, sento le mie labbra in risposta sul suo collo. Un dito sulla spalla sinistra scorre in un piccolo cerchio continuo. Sento i suoi riccioli così definiti e soffici e familiari, e che amo così tanto, nel palmo della mano e tra le punte delle dita.
 Respiro profondamente con l’orecchio sul suo petto, e sorrido esalando
“Perché ridi?”
“Scusa, stavo ascoltando il tuo cuore completamente tachicardico”
Il torace si solleva erratico, e sento il suo fiato caldo sulla cima precisa della testa mentre ride in risposta
“Senti come spingono le uniche tre valvole funzionanti?”
“Si impegnano.”
Ripete il mio nome per intero. Mi stringe dolcemente mentre io ripeto il suo e lo accarezzo a mia volta, come facevamo da ore. Sento sangue vivo e argenteo pulsarmi nelle orecchie.
Mi bacia la guancia, gli bacio il primo punto del volto che raggiungo e così ancora.
Alzo il volto e il mio sguardo, scuro, immagino quasi nero, incrocia il suo candido, luminoso, coperto quasi completamente dalle palpebre e da quella riga di ciglia bionde fitte e morbide.
E mentre ci avviciniamo non esitiamo un secondo, e d’un tratto sento le sue labbra morbide sulle mie e non ho neanche il tempo per abituarmici, che la sua lingua mi passa sui denti e scontra le gengive.
Non mi allontano, è una scena che non sono mai riuscita a immaginare, nemmeno nei miei sogni più intimi e innominabili. Soffochiamo minuti in quella situazione tanto sorprendente quanto agognata, da me, e probabilmente inconsciamente attesa, da lui. E come posso pensare alla dolcezza senza ricordare il dolore irrazionale che ne seguì? Il suo respiro affannato zuppo di quelle rarissime lacrime, a me sconosciute, la mia testa dolorane, la nausea, i singhiozzi. Ricordo il modo in cui l’ho costretto a respirare, mentre faticava a trovare pace nel suo panico, e la sua schiena mentre sussurrava un umido “scusa”, sparendo dietro la porta e entrando in soggiorno, mai interrompendo quel pianto estenuante. E io mi distruggevo, ansimavo, tremavo, sola. Mi ripetevo le frasi che aveva pronunciato e cercavo di studiare il tono della voce tremula che le aveva dettate insicura e addolorata, bilanciando il familiare dolore autosufficiente del rifiuto con il terrore da esso causato. È sconvolgente quando si riesca a ignorare il proprio bene quando si ama così ciecamente un’altra persona- soprattutto quando questo amore non è corrisposto.
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charrednewt · 1 year ago
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PREDAZIONE
So che cosa ho visto e so che non è stato per via del buio. Insomma, era una notte buia, certo, ma non abbastanza da farmi dubitare. E non andate a dirmi che sia stata colpa della nebbia: mi ricordo chiaramente di aver guidato attraverso al massimo un po’ di foschia, del tipo che va a posarsi su tutte le strade da queste parti quando l’autunno si fa inoltrato.
Divento un’autista parecchio prudente quando sento avvicinarsi la stanchezza e gli occhi iniziano a pizzicarmi, specialmente se sto guidando in campagna; quello era il motivo principale per cui non avevo ancora sorpassato la corriera, nonostante stesse andando ad una velocità a malapena accettabile. Dopo un paio di chilometri passati nella sua scia la mia frustrazione si era diluita in una sorta di placido cameratismo, una strana punta d’affetto per i suoi fanali posteriori rossi. Per questo motivo la comparsa nel mio retrovisore di un paio di fari che si avvicinavano rapidamente mi diede particolarmente fastidio; anche solo nel riflesso, la luce bianca era una stilettata dritta attraverso la mia tranquillità. Non era facile vedere attraverso quell’alone, ma sembrava appartenere a un’auto di grossa taglia, un SUV o qualcosa di simile. Fantastico, pensai, Probabilmente uno di quegli stronzi che credono la strada gli appartenga. Non un’idea che avevo intenzione di mettere in discussione quella notte, non mi andava di competere in velocità; prima avessi visto passare oltre quel totem d’arroganza, meglio sarebbe stato. Le luci stavano avvicinandosi: chiunque fosse al volante aveva acceso anche gli antinebbia, nonostante non ce ne fosse davvero il bisogno quella notte.
Quello che non vedevo erano segni che il SUV stesse rallentando. Nemmeno una freccia accesa per un sorpasso, nessuno spostamento sull’altra corsia. Cos’è, vuole sorpassarci all’ultimo secondo? Mi chiesi mentre la mia confusione si cristallizzava in ansia. Ci ha visti, no? Non può non averci visti. Si è addormentato? Oddio, si è addormentato al volante?! I miei pensieri correvano frenetici, sembrava che la sagoma del fuoristrada stesse riempiendo il retrovisore ogni secondo di più e, contemporaneamente, il tempo si stesse dilatando per fare spazio ad ogni dettaglio dell’incidente che incombeva sulla mia testa. Potevo sterzare in tempo per schivarlo? Sarei sopravvissuta se la risposta fosse stata “no”?
Mi lanciai sul volante, virando bruscamente a destra con tutto il peso del mio corpo e del mio panico. L’auto sobbalzò spaurita di lato mentre il SUV ci piombava addosso: la confusione era tale da farmi vedere doppio, sicuramente, perché vidi di sfuggita otto luci sul muso lanciato a tutta velocità. Colpì di striscio la mia fiancata facendomi tremare i denti nelle gengive, ma non con lo schianto devastante che avevo temuto; riuscii a mantenere la presa sul volante e a frenare con un orrendo stridio delle ruote prima che la mia stessa velocità potesse farmi finire fuori strada, nel fosso soffocato dai canneti.
L’aria sapeva di gomme bruciate.
Le mani mi tremavano mentre riportavo la macchina in carreggiata, a passo d’uomo. Non cercai di ripartire. Mi aspetto che adesso non mi crediate, liberi di farlo, ma i miei fanali funzionavano benissimo e la scena che stavano illuminando mi aveva lasciato troppo sbalordita per fare altro che stare a guardare. Avrei dovuto vedere una carcassa accartocciata: e invece a una dozzina di metri da me, portata fin lì dalla forza della collisione, stava svolgendosi una lotta gigantesca. Il SUV - beh, quello che avevo scambiato per un SUV – era balzato sul dorso della corriera e vi si aggrappava saldamente con le sue otto zampe, ognuna spessa come un tronco d’albero e liscia e nera come la notte tutt’intorno. Il contrasto con il resto del corpo era netto, linee scure che tagliavano il grigio metallico della carrozzeria; un modello che vedo in strada ogni giorno, che si sarebbe confuso tra le auto parcheggiate in una concessionaria. Sembrava che le zampe scomparissero appena sotto la portiera del lato del passeggero: era una creatura unica? Stava indossando il guscio vuoto di un’automobile come un paguro? Era impossibile a dirsi, non con gli scossoni disperati della preda al di sotto. Già, perché neanche la “corriera” era davvero un veicolo: nella luce combinata dei miei fanali sbiaditi e degli otto fari incandescenti del “ragno” – occhi, forse? - il suo corpo si rivelava segmentato e tinto di un’iridescenza animale che nessuna verniciatura avrebbe potuto riprodurre. I riflessi disegnavano pozze di luce sull’asfalto mentre si torceva; nel suo inarcarsi per lottare contro la presa del suo avversario vidi file di zampe corte e tozze che si agitavano sul ventre della creatura. In confronto le ruote a lato sembravano piatte e finte, sagome vestigiali fuse all’esoscheletro esterno. Persino i finestrini per i passeggeri non erano altro che macchie regolari disegnate su ogni segmento.
I fanali posteriori brillavano debolmente e disegnavano scie rosse nella notte mentre il corpo serpentino si dimenava nel combattimento: il rumore di metallo urlante e colpi sull’asfalto riempiva ogni angolo della scena, eppure per qualche ragione sembrava più basso di quanto ci si potesse aspettare. Rispetto a un incidente con auto vere, intendo.
La creatura-bus smise di cercare di disarcionare il suo aggressore e iniziò invece a raggomitolarsi su sé stessa, chiudendosi in modo simile a un onisco gigantesco, ma il ragno era più rapido e risalì la curva della schiena fino alla testa prima che questa potesse essere protetta. Puntò il raggio accecante delle sue otto luci dritto attraverso la griglia del radiatore della preda: la corriera mandò uno stridio altissimo tornando a contorcersi; riuscii a vedere la sagoma vaga di una testa tondeggiante, ridicolmente piccola in confronto al resto, che saettava fuori dal carapace cromato del cofano e fendeva l’aria con grosse mandibole squadrate. Mirando alle zampe del suo avversario, forse. Ma la battaglia era già finita: il ragno schivò i morsi andando a piantarsi dritto nel ventre della corriera. Doveva avere anch’esso zanne di qualche tipo e forse del veleno, perché i colpi frenetici della preda si ridussero nel giro di pochi secondi a spasmi, poi a brividi, fino a smettere ogni movimento.
Il silenzio improvviso mi premette sulle orecchie come una morsa coperta di cotone. Ero fradicia di sudore gelato che il terrore non mi lasciava tempo di notare e sulla strada non c’eravamo che io e il ragno. Per chilometri e chilometri. Sembrava che anche il ragno lo sapesse: la sua sagoma, orribilmente familiare nel profilo, era immobile sul corpo della preda e l’alone degli occhi rendeva difficile distinguerne i contorni. Mi puntavano, obliterando ogni ombra nell’abitacolo. Ebbi appena il tempo di pensare che neanche la mia auto sarebbe stata abbastanza veloce per salvarmi, prima che le luci diventassero di scatto più vicine e più luminose di quanto fosse sopportabile, otto piccoli soli affollati sul mio parabrezza. Chiusi gli occhi per paura potessero scoppiarmi nelle orbite, forse urlai persino per il dolore che mi attraversò di lampo le tempie; nell’oscurità chiazzata dietro le palpebre sentii il suono di otto zampe massicce che correvano via e di qualcosa di pesante che veniva trascinato sull’asfalto, sempre più in lontananza. Quando la mia visione fu tornata e smise di essere un insieme di macchie sfocate, la strada era di nuovo vuota.
Guidai fino a casa più veloce che potevo. La stanchezza mi era passata del tutto, come si può immaginare. L’auto era praticamente indenne, anche se c’erano alcune ammaccature e due graffi profondi nel punto in cui il ragno l’aveva colpita nella sua carica. Anche io stavo bene, si può dire.
Ma così tante cose mi rendono irrequieta adesso, tanti piccoli pensieri che non riesco a mandar via.
Per esempio, avete notato quanti elicotteri ci sono in giro ultimamente?
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dylan-diary · 2 years ago
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CLEA ISOLDE EDEVÁNE
15 aprile, 2023 da Dylan Thomas Edeváne
Parte 1
Lavorare nelle ore notturne lo stancava molto, ma quel giorno in particolare si sentiva più stanco che mai. Clea, sua figlia, aveva avuto le coliche dalla notte precedente, non era riuscita a dormire e lui assieme a lei. Avevano passato molte ore al pronto soccorso del Los Angeles Community Hospital e dopo aver dato delle gocce alla bimba e averlo tranquillizzato che nelle ore successive si sarebbe calmata, erano ritornati. Aveva preso ciò che gli avevano prescritto ed era rimasto a casa assieme a lei, sperando che almeno Clea riuscisse a riposare. 
La sua ragazza, Grace, lavorava in un diner ma era tornata solo quando lui doveva entrare nuovamente a lavoro ed era finalmente riuscito a far addormentare la piccola, aveva montato su scuse così assurde, affatto valide dato che lei aveva orari specifici e tornava ad ogni pausa. In un’altra situazione lo avrebbero fatto innervosire, ma era troppo stanco per dare spago ai propri pensieri, anche perché erano ormai due mesi che andava avanti così ed era esausto anche di litigare.
Prendeva le ordinazioni con una lentezza tale che persino la ragazza che aveva messo come caposala, Lesli, gli disse di ritornare a casa. Non se lo fece in realtà ripetere, era il proprietario e capo del pub, non voleva lasciare troppo lavoro ai suoi dipendenti ma né la notte né il giorno aveva dormito, perciò per non intralciare si diresse a passo svelto di sopra.
Quando rientrò a casa, sua figlia dormiva ancora tranquilla. Il silenzio regnava nel suo appartamento tranne un vibrare continuo sul comodino della ragazza. Erano le tre di notte, chi le scriveva con così tanta insistenza? La curiosità cresceva ed una strana sensazione andava ad insinuarsi nello stomaco. Non voleva prenderlo, non voleva. Era oltre la fiducia, la privacy. Il telefono vibrò ancora, illuminò il suo volto nella più totale oscurità, ormai si trovava troppo vicino e poté leggere solo un nome e un messaggio senza toccare niente. 
Lui non rispose, uscì dalla stanza lasciandola lì, andando in cucina a prendere da bere. Voleva solo finire dentro ad un bicchiere, versare pure sé stesso lì dentro e perdersi per sempre. Quella era la madre di sua figlia e sempre lei aveva buttato tutto al vento per una scopata, o forse per molto di più. Era riuscita a distruggere tutto in un solo secondo. Non riusciva a pensare con lucidità ed in realtà bere non lo avrebbe aiutato, al massimo a dimenticare quella notte fino al giorno successivo. Magari sarebbe riuscito a crollare sulla sedia e finalmente riposare.
« Mi hai guardato il telefono. »
Grace uscì dalla stanza in punta di piedi infilandosi la vestaglia con velocità appena fu fuori, accostando dietro di sé la porta. Il tono che aveva era accusatorio e mentre l’uomo prendeva un sorso del liquido ambrato gli venne da ridere, 𝑙𝑒𝑖 era arrabbiata. 
« Sei seria? Parli di fiducia? Fatti sbattere da Omar e parla di fiducia con lui. Non ti avrei mai guardato il telefono se quel coso non avesse vibrato così tante volte. Forse pensava che ti ci potevi masturbare.
Nostra figlia ha avuto le coliche tutto il giorno e tutta la notte mentre ti sbattevi un altro, perciò non parlarmi di fiducia e stai zitta. »
Le ultime due parole le disse in un modo così freddo che vide come si era ammutolita, perdendo quella sorta di spavalderia. Non aveva alzato la voce nemmeno un secondo, il pensiero che Clea potesse svegliarsi e non riposare come stava facendo rimaneva un punto fermo nella sua testa. 
Grace non poteva parlare di fiducia, i pensieri ora giravano come un tornado. Nell’ultimo mese aveva detto che il capo non l’aveva pagata e che la clientela era sempre meno, probabilmente l’avevano licenziata e lei usciva per vedere quella persona, oppure era vero ed Omar era un cameriere come lei, un cliente, un tizio conosciuto in metro. Le teorie si facevano strada nella sua mente e per cacciarle decise di prendere un altro sorso, anzi finire direttamente tutto il bicchiere e fermò il desiderio di lanciare contro il muro quest’ultimo. 
« Io - Io.. »
Le parole della ragazza le morirono in gola. Stava probabilmente capendo solo in quel momento la situazione per davvero o almeno era quello che lui pensava, quando alzò gli occhi verso di lei, non c’era colpevolezza ma anzi solo rabbia e questo lo fece infuriare dentro.
« Non dovevi comunque leggere i miei messaggi. Te ne avrei parlato. »
Lì non riuscì a trattenersi e si lasciò andare ad una risata molto aspra e notò come Grace diventava rossa in viso. Si notava come negli occhi dell’uomo non c’era alcun tipo di ilarità ma che fosse solo uno sfogo personale. 
« Mi prendi pure in giro. »
« Ma ti ascolti quando parli? Ci credi davvero? Non me ne avresti parlato chissà per quanto. Volevi farlo? Bene. Ora è perfetto, prego. » 
Disse lei sedendosi sulla sedia che aveva indicato qualche attimo prima, con fare spavaldo. Una delle cose che a Dylan piaceva molto ma che in quel momento odiava. Come ogni altra cosa di lei. 
« Te l’ho già spiegato. Continuava a vibrare. Sei stata via tutto il giorno e tutta la notte, al diner non faresti mai un turno così lungo e diciamo che il mio istinto ha fatto 2+2 mentre il tuo telefono vibrava continuamente. Che fai non gli rispondi? Poverino, starà aspettando la sua stronza. » La sua voce per l’ultima frase suonò come addolcita a mò di bambino, solo per prenderla in giro. 
« Come mi hai chiamato? » alzò leggermente il tono per poi rimanere in silenzio in ascolto, capì che stava cercando di sentire se la figlia dormiva.
La rabbia era così forte che le mani tremavano visibilmente, tanto che il liquido all’interno del bicchiere andava da una parte all’altra come se presto si sarebbe trasformato in un mare pieno di onde. Sembrava che quello che aveva fatto non aveva un reale significato, che fosse giustificabile e che la sua reazione fosse esagerata. Non si sarebbe però fatto manipolare da quell’atteggiamento, la persona che aveva davanti era minuscola per lui e non gli importava se trovava un milione di scuse, se lo avesse accusato di qualsiasi cosa, non avrebbe accettato nulla.  
Provava in realtà più ribrezzo per sé stesso per non essersene accorto, per essersi fidato di una persona che invece lo aveva deluso. Respirare stava diventando difficile, perché era troppo da digerire. La loro figlia dormiva beata nell’altra stanza e ora si sarebbe dovuta sorbire sicuramente mille sballottamenti che non avrebbe mai pensato di doverle infliggere. Tutto l’amore che provava era svanito in quel messaggio e la rabbia, tristezza, delusione lo invadevano come un cavallo di troia.
Era stanco e in quel momento il sonno era scomparso come una nebbiolina, ma sentiva le occhiaie pesargli sotto gli occhi.
« E tu hai ben pensato di tradirmi e non di parlarne apertamente, giustissimo. Poi non hai nemmeno provato a comprendere perché? Tu hai preso il doppio turno e sia i miei genitori che i tuoi non vivono a Los Angeles, dobbiamo cavarcela da soli. Era per avere il meno tempo possibile momenti totalmente scoperti. Io non lascio mia figlia con una qualsiasi sconosciuta e Consuelo c’è solo il pomeriggio. Io però non ho bisogno di giustificarmi, tu hai sbagliato e questo discorso non riparerà nulla, dovevamo farlo prima e non lo hai fatto. »
Lo sguardo di Grace era un misto tra deluso e arrabbiato, ogni volta che aveva quell’espressione corrucciata le si formavano delle rughe profonde in mezzo agli occhi. Cose che prima notava di lei e trovava meravigliose ora non avevano lo stesso valore, il ribrezzo per le sue azioni era troppo forte. Sapeva che ben presto il suo metodo per tenere tutto fuori sarebbe saltato allo scoperto, risultando l’uomo freddo che le persone che chiudevano con lui trovavano davanti, un muro che aveva imparato a tenere su e che gli era sempre tornato utile. 
« Ho conosciuto Omar una sera alla tavola calda, avevamo litigato e lui era lì che mi regalava sorrisi. » si fermava ogni tanto, come a scavare dentro la sua testa un ricordo che le faceva male, ma nello sguardo di Dylan non c’era pena ma l’ascoltava. « Mi ha offerto la cena prima che tornassi a casa, che come sai noi mangiamo dopo il servizio. Mi ha aspettato alla macchina e mi ha chiesto di uscire il giorno dopo, perché aveva sentito che non avevo il turno. »
« Mi ricordo quel giorno, la mattina dopo ti ho portato la colazione e abbiamo fatto l’amore prima che io andassi a lavoro, mi hai detto che però saresti andata a lavoro quando io staccavo. »
« Sì » rispose senza nemmeno guardarlo. 
« Tu hai fatto sesso con me la mattina e la sera sei uscita lo stesso con quell’uomo. » registrava le informazioni ma dentro di lui sentiva come dei vetri che si rompevano mostrandogli un verità che non voleva, il dolore che provava era niente in confronto alla rabbia che non si calmava.
« Da lì è iniziata la nostra relazione, diciamo »
« Grace » la ragazza alzò gli occhi verso di lui di scatto, come ripresa da qualcosa. « Mi fai schifo. Hai detto che il problema ero io, che non dimostravo niente. Abbiamo fatto sesso lo stesso giorno che hai iniziato una relazione con questo uomo, mi hai detto che mi amavi lo stesso giorno, mi hai detto ti amo tutti i seguenti giorni. Tu vuoi farmi sentire in colpa perché ho messo nostra figlia prima di te, ma in realtà quello che volevi era scappare dalle tue responsabilità. Io non sono fuggito, non ho guardato un’altra donna, non mi sono messo a fare un doppio gioco, perché anche se ne avessi avuta la possibilità avrei messo voi al primo posto e tu invece hai messo prima te, su ogni cosa. Spero che questo uomo ti renda felice perché con me non avrai più niente a che fare, sei la madre di mia figlia e nient’altro. Non voglio più vederti se non in occasioni che riguardano mia figlia, per il resto tu non sei nessuno per me. »
Lei si alzò mentre l’uomo parlava, come se le parole che stava pronunciando fossero stupide, orribili e non per lei. Lo guardava ogni tanto mentre si mordicchiava le unghie, come per capire cosa fare.
« Quindi è finita? »
« Ah perché volevi continuare questa relazione poliamorosa? » scoppiò a ridere. 
« Smettila di prendermi in giro, non provi nemmeno a sistemare, a dirmi che possiamo migliorare, abbiamo una famiglia insieme. »
« Vero, abbiamo una figlia, ma sei stata tu a fare l’unica cosa che io non vorrò mai sistemare. Hai perso la mia fiducia totalmente, non è recuperabile e non lo sarà. Non possiamo migliorare perché lo hai deciso tu, non so cosa tu pretendessi da me avendo una relazione a mia insaputa.
Ti dirò cosa succederà ora, tornerai a dormire e domani chiamerai quel ragazzo per chiedergli di ospitarti, o tua madre, o chiunque tu voglia e te ne andrai. Porterò Clea a fare una lunghissima passeggiata, perché anche se ha 6 mesi non voglio che le rimanga impresso la madre che porta via le cose. Capiremo poi come fare per la custodia, se vuoi passare in modo legale lo farò perché di mia figlia m’interessa. Vedi tu cosa fare.»
Dylan era serio mentre parlava, non c’era compassione o comprensione, si era rotto tutto. Come se a quella casa fatta di vetro avessero tirato un martello e lentamente, in quelle ore, fosse crollata ogni cosa. Il suo unico pensiero era rivolto a Clea, a come avrebbe fatto per vederla il più possibile. La ragazza si alzò senza dire nemmeno una parola, solo in quel momento l’uomo si accorse che stava piangendo ma non gli importava, tornò in stanza dalla loro figlia e non uscì più. Lui rimase lì provando a capire cosa fare, a quanto avrebbe dovuto pagare per un buon avvocato probabilmente avrebbe dovuto chiamare i suoi fratelli, ma ci avrebbe pensato poi. Erano le 7 di mattina ed erano ormai due giorni che non dormiva, ma non gli importava di nulla nemmeno di sé. Stava pensando a tutte le cose che aveva sbagliato, ma non avrebbe cambiato nulla. A quante volte aveva baciato lui mentre poco prima aveva baciato Omar, o viceversa. A quante cose gli erano sfuggite, quanti segnali che per stanchezza aveva lasciato correre. Un tradimento rimaneva quello, pure sei lei avesse detto qualunque altra cosa. Non sapeva cosa sarebbe successo poi, ma non avrebbe mai lasciato andare la sua bambina. 
La mattina seguente lei si svegliò dopo che Dylan aveva già fatto la doccia, aveva preparato lo zaino con tutte le cose che servivano a Clea per la passeggiata e aveva già avvisato a lavoro che si sarebbe preso un giorno o forse due. Non aveva dormito nemmeno un secondo, solo rimuginato su come comportarsi, aveva guardato molti avvocati e allo stesso tempo aveva guardato su internet. La custodia andava sempre alla madre, nel momento in cui l’aveva letto dalla sua bocca uscivano solo imprecazioni. Lui aveva un lavoro stabile, poteva mantenerla, la casa era sua mentre lei non aveva niente eppure rischiava la figlia e pure la casa. 
« ‘Giorno, vado a svegliare Clea. Torneremo verso le 18, perciò vedi come fare. Ciao Grace. »
Il suo tono non era cambiato dalla sera prima, sentiva il peso delle due notti e la stanchezza non passava, ma l’adrenalina nemmeno. La donna non rispose, annuì con la testa mentre i suoi occhi gonfi e rossi facevano intuire che non aveva dormito nemmeno lei, ma questo a lui non importava affatto. 
Passò la giornata con Isolde, che grazie alla medicina sembrava più tranquilla. Aveva fatto un finto picnic sulla spiaggia, cullandola con il rumore del mare e raccontandole storie sul surf. Si erano spostati poi al parco, anche se ovviamente con lei di soli sette mesi l’unica cosa che riusciva a fare era trascinarsi sul prato e Dylan provava a non fargli mangiare la terra. 
Alle 18 in punto furono a casa e trovarla a luci spente fu quasi un sollievo, guardare la ragazza che ancora prendeva le sue cose o peggio piangeva era l’ultima cosa che voleva. Non provava affatto pietà per lei e nemmeno per averla cacciata così, pensava solo che doveva andare incontro alle conseguenze delle sue azioni ma mentre entrava notò un biglietto sul tavolo, si aspettava qualche minaccia. Sistemò Clea sulla moquette che Consuelo puliva giornalmente solo per lei e lesse il biglietto.
“Hai ragione, stavo scappando dalle mie responsabilità che sono davvero troppe. Non mi sento una madre, nemmeno una buona fidanzata. Non so ancora cosa voglio dalla vita, voglio scoprire e fare nuove esperienze. Quindi ti lascio Clea, so che con te starà bene e sarà amata come merita, come io non riuscirei a fare. Mi dispiace per tutto. Stai bene.”
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i-am-a-polpetta · 4 years ago
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@brancam3nta ha dato vita a questo gioco super figo perché lei è una content creator che fa partire catene che "fanno ridere ma anche riflettere".
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Non ho foto carine di inizio Gennaio perché a inizio gennaio è successa una cosa che qui non posso scrivere perché è troppo pesante. Le foto immediatamente successive sono dei miei selfie di altissima qualità in cui passo in rassegna i miei Best pigiami disagio perché al tempo io e @lemele facevamo a gara a chi avesse il pigiamino più carino (scusa ma il tuo dei narvali>>>>>>>tutto <3).
L'ultima foto è quella del cosplay di mammina pancina resdora version fatta ieri sera.
In entrambe le foto avevo mal di testa. Sai che novità direte voi. Eppure, nonostante l'anno devastante per la mia testolina, io non rinnego niente.
Ho perso tante persone, occasioni, cose, tempo, me stessa e probabilmente mi sto ancora cercando dietro la scia di qualche tramonto o nel suono delle onde del mare.
Ho conosciuto persone che hanno fatto e stanno facendo un sacco la differenza spostando l'ago di quella dannata bilancia verso la bellezza e l'attaccamento alla vita piuttosto che verso la negatività altamente tossica della mia persona.
Ho visto più di cento tramonti.
Ho girato più di cinquanta video.
Ho fatto tredici alberi di natale.
Ho visto il mondo dal pavimento più di sessanta volte.
Sono andata al mare, a Milano (dove posso dire di aver preso casa), a Treviso, a Bologna, affanculo.
Ho conosciuto la persona che ama il giallo e anche se probabilmente lei non può dire di essere contenta come la sono io (soprattutto perché io sono una chiavica e sono più le volte in cui le rovino la vita che le altre) io le voglio bene sopra ogni cosa (e chi ha letto i post di quest'estate già sa).
Ho visto le stelle ogni singola sera per quattro mesi a fila.
Ho dato valore ad una panchina, a dei fiori, a delle canzoni, a dei tatuaggi trasferelli, al tempo, all'attesa, ad una scala di ferro, ad un caffè seduti davanti ad una chiesa, ad una tazza colorata, ad un cinema con la scritta al neon che sfarfalla, alle bruciature del sole, alle albe color cremisi, ai tramonti sopra Milano, alle passeggiate per bologna, a tiger, al bubble tea, al dolore, ai cerchietti sulle guance, alle persone che ti vogliono bene anche se sono lontane, alle canzoni cantate in bicicletta, agli Spritz sui navigli, ai treni presi per caso, alle date, alle cene, alle parole dette fino a tardi, a felicità di Albano e per ora noi la chiameremo felicità delle luci della centrale elettrica, alle videochiamate, a tutte le volte che mi son sentita dare giustamente della stronza, ai buongiornissimi con Gesù di mia nonna, alle corse fatte fino alle tre del mattino, ai concerti a cui non siamo andate, ai vinili, alla musica, alla vita e all'anima che mi sono state regalate nonostante io non le meritassi per niente.
Se dovessi scrivere una lettera alla kla di un anno fa le direi Esattamente questo: "siamo partite male kla, malissimo ma ci rifaremo un pochino per tante cose. Tu porta pazienza e smettila di pensare di non essere mai abbastanza perché non è vero, anche se tanto so che non lo farai. Fotografa i fiori, i tramonti, il mare, qualsiasi cosa ti renda felice e sii paziente, non oltrepassare mai determinati confini e prenditi sempre cura di chi è in difficoltà. Ricordati che voler bene non è mai sbagliato. Ascolta un sacco di musica e cantala ogni volta che ti sentirai triste. Metti tutto l'amore che puoi in ciò che farai per gli altri. Passerai un mese intero sdraiata sul pavimento e non ti ricorderai nemmeno come ti chiami e ti sentirai persa e rassegnata come mai prima d'ora. Ma non preoccuparti: vai in stazione e ritrova quell'equilibrio oltre il punto di rottura. Dai sempre una carezza e un bacino sulla fronte prima di salutare e mi raccomando il "fai a modo". Ah piccolo spoiler, forse dovresti comprare una nuova felpina gialla ma il perché non te lo dico perché così rimane una sorpresa.
Ah un'ultima cosa, ricordati che vivi si muore quindi VIVI, anche quando è tutto troppo difficile, tu VIVI.
Sii coraggiosa che quest'anno farai un sacco di cose belle.
Firmato Una te un pochino più grande, un pochino più cieca, un pochino cresciuta e un pochino più felice nonostante tutto".
Grazie a @brancam3nta per questa catena e grazie a @lasagnefrittee, @implosioni e @momenti-prepuzi per il tag.
Aspetto le vostre foto di inizio e fine ♥️: @ciaci90 @vogliofarelafotografa @orandablu @macheproblemiho @neltempodiuncaffe @squittire @souvlakispac3station @momentidicri
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intotheclash · 4 years ago
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Fu il Maremmano a vederci; molto prima che noi sospettassimo della sua presenza. quel cazzo di terreno sembrava non finire mai. Grande come dieci campi da calcio e tagliato a strisce sottili dai fitti filari della vigna. notammo la sua testa sbucar fuori dalle foglie delle viti, ad un centinaio di metri di distanza, ci guardò per un istante, poi di nuovo chino sul lavoro. Nemmeno un cenno di saluto.
"Ecco dove si era infilato quel diavolo!" Esclamò Sergetto, già madido di sudore. Come tutti noi, del resto.
"Ma come cazzo avrà fatto ad accorgersi che stavamo arrivando?" Aggiunse Bomba, che zampillava come una fontana.
"Come ha fatto? Fai più casino tu che un trattore con i cingoli!" Ringhiò il Tasso. "A me, 'sta storia ha già rotto i coglioni. Non sarebbe dovuta andare in questo modo. E poi siamo arrivati quassù per aiutarlo e lui neanche ci caga."
"Piantala, Tasso! ti vuoi già rimangiare la promessa?" dissi. Ma neanche a me era piaciuto l'atteggiamento di Pietro.
"A parte il fatto che non ho promesso un cazzo di niente. Comunque sono qui e ci resto. Ma nessuno può impedirmi di lamentarmi."
Finalmente raggiungemmo il nostro amico. Compatti e armati delle nostre migliori intenzioni. O quasi. Il Maremmano attese qualche secondo prima di aprire bocca. Neanche ci guardò, rimase chino sul suo lavoro come uno schiavo dell'antica Roma. Era a torso nudo e i suoi muscoli guizzavano al ritmo imposto dalla zappa. "Cosa ci fate qui?" Chiese improvvisamente, restando concentrato sulle erbacce da togliere, evitando di  ferire le viti. "Già, cosa ci facciamo qui? Sai com'è: stamane non avevamo un cazzo da fare, non sapevamo come divertirci, così ad un idiota è venuto in mente di venirti a trovare e noialtri, idioti lo stesso, abbiamo accettato. Eccoci qua!" disse Tonino, guardando storto Sergetto.
"Zappare è uno dei nostri giochi preferiti!" Aggiunsi
"Dopo la gara di seghe! Naturalmente!" Disse Bomba.
"Siamo venuti ad aiutarti, ecco cosa! stronzetto di un borioso Maremmano!" ringhiò, al suo solito, il Tasso.
Ammutolimmo e lo fissammo. Che fosse impazzito? Anche il Maremmano posò la zappa, si raddrizzò la schiena, e lo fissò. Il Tasso rimase interdetto. Un velo di timore oscurò il suo sguardo. Di certo non si aspettava tutta quella attenzione. Si grattò, perplesso, il cranio malamente rasato e riprese:" Allora? Si può sapere che cazzo vi è preso? Cosa c'è che non va?" Pietro fece un passo verso di lui, con una lentezza esasperante, non tradiva alcuna emozione il figlio di puttana. Era un attore nato. Perché io ero sicuro che stesse giocando. Aveva fatte sue le nostre regole e le stava usando, ciò mi fece capire ancora di più che quello che stavamo facendo era giusto.
"Com'è che mi hai chiamato?" Sibilò a non più di due palmi dal brutto muso del Tasso.
Quest'ultimo, stavolta, esitò a lungo prima di rispondere, faceva correre lo sguardo da lui a noi, da noi a lui, in cerca di un appiglio. La situazione in cui si era messo non doveva piacergli affatto e probabilmente non sapeva come uscirne. Ma noi niente, duri e impassibili come le rocce dei nostri monti. Alla fine si fece coraggio. Non era una femminuccia, cazzo, era un lottatore. E, anche se la voce spezzata tradiva la sua poca fiducia in se stesso, rispose: "Ma che cazzo vuoi, Maremmano? Cosa ti avrò detto mai?"
"Come mi hai chiamato, poco fa?"
"Borioso! ti ho chiamato borioso!"
"Borioso?"
"Puoi giurarci! E allora?"
Il Maremmano fece una pausa che sembrò interminabile. Si scrollò la polvere di dosso, si sfregò le mani e con gli occhi piantati in quelli del tasso disse: " Bella parola. Mi piace. Dove l'hai imparata?" E gli fece l'occhiolino. Scoppiammo a ridere all'unisono, come una banda musicale cui il maestro ha dato il via con la bacchetta. Un crescendo di risate. Il Tasso sputava fiamme, ma, al contempo, si vedeva che si sentiva sollevato. Il pericolo era stato scongiurato. "Brutti figli di puttana!" Ci aggredì. "Questa me la pagate! E tu sei il più figlio di puttana di tutti, Maremmano. E me la pagherai più di tutti!"
Il Maremmano lo abbracciò stretto, ancora ridendo," Ho capito, te la pagherò, ma un altro giorno. Ora risparmia fiato e energie, che qui c'è un sacco da fare. Siete venuti per questo, no?"
"Borioso. Ma dove l'hai pescata 'sta parola? Lo sai almeno cosa significa?" Chiese Tonino avvicinandosi al Tasso.
"Certo che, a volte, fai proprio delle domande a cazzo! Non lo so no cosa significa! l'ho sentita ieri sera, alla tele. Stavo guardando un film di guerra. C'erano due che discutevano incazzati e, a un certo punto, uno ha detto borioso all'altro."
"Quindi?"
"Quell'altro ha fatto la faccia offesa, ha alzato il culo e se ne è andato via."
"E tu hai pensato bene che se ne sia andato per via della parola."
"Certo che è stato per quello!"
"Si, ma tu, prima di usarla, potevi almeno chiedere il significato a tuo padre!" Disse Bomba.
"Certo che glielo ho chiesto, idiota. Cosa credi?"
"E lui che ti ha risposto?"
"Guarda il film e non rompere i coglioni! Ecco cosa mi ha risposto."
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soextrafabsocharlotte · 4 years ago
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Alla Stamberga
«Mo` ti spiego come entrarci. Pronta?» nella sua voce vibra un sorriso, che si allarga beffardamente intanto che Tristran piega la testa in favore di quella della SERPEVERDE, stendendo poi un braccio accanto al suo viso per indicarle le radici dell`albero «Lo vedi quel nodo tra le radici che sta là? Eh, lo devi colpire. Tipo facendoci levitare sopra un sasso» la istruisce passo passo, scoccandole uno sguardo «O puoi anche andare là e farlo con le mani, se proprio ci tieni a diventà `na frittatina» soggiunge con una risata. Le mani, quelle a misura di Gianni Morandi, se non spostate continuerebbero a stringere indisturbate le spalle della CHARLESTON, ma lo sguardo di Tristran nel frattempo è tornato a cercare quello di CORNELIA «Ma te lo sai che presto Wes fa gli anni, veeero?» la domanda, che risuona ironica ma con una nota di dubbio, lascia quasi pensare ad un`interrogazione a tappeto.
« Puoi bloccarlo tu » verso CHARLOTTE « Se vuoi » tanto il punto esatto dove colpire dovrebbe averglielo ben indicato il coetaneo « E poi corriamo verso il tunnel » in realtà, avrebbero tutto il tempo per camminare ma vabbè, la corsa fa parte dell’hype legato a quel posto segreto. Torna con le iridi su TRISTRAN quando quello accenna al compleanno di Wes e muove appena il capo « Certo! Cosa credi che il tuo amico non me lo ripeta tipo continuamente?! » retorica nel chiederlo mentre le labbra si increspano in un sorrisetto divertito. « Avete qualcosa in mente? »
« Farlo con le mani.. sembrano più cose da cavalieri della magia. » non da signorine, ma è certa che non ci andrà a farlo con le sue nude mani e così vicino all’albero. « Ma che domande fai, logico che lo sa! » spostando lo sguardo proprio verso la CORVONERO che conferma senza che lei debba farsi reggere il gioco. « Praticamente lo sanno anche i fantasmi e pure pix. » mentre che tira fuori dal fodero la propria bacchetta magica, impugnata con la destra si guarda intorno cercando un “sasso” che possa bastare per colpire le radici del platano quindi e adocchiandone uno, si scosta da TRISTRAN con un « Permesso. » per meglio sistemarsi tra il sasso, il nodo dell’albero e l’albero stesso, così che non venga colpita da alcun ramo birbino. Facendo un semicerchio col polso che conclude con un colpo di frusta repentino della mano tenterebbe di incantare una di quelle rocce, non attaccata al terreno, per direzionarla verso il nodo del platano con un gesto veloce ma non impreciso così che il platano non si scompensi e che l’incantesimo agisca fin quanto richiesto dalla volontà e concentrazione della Serpeverde che pronuncia precisa un « Roccia Locòmotor. » da oggi colpitrice di radici di platani.
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« Giusto...» senza però sbilanciarsi troppo, salvo poi sbuffare una risata dalle narici «Ci dovremmo vendicare con uno scherzo. Tipo fingendo di non ricordarcelo» rilancia con un fare sicuramente più amichevole e divertito, prima di annuire all`ultima domanda della HARRIS «Seh, gli volevamo organizzare `na festa a sorpresa...» i suoi occhi si alzano a seguire il movimento della roccia spostata da CHARLOTTE, e con il mento fa cenno verso la stessa direzione «Alla Stamberga» conclude con un sorriso più ampio «Quindi oggi possiamo iniziare a cercare `na stanza adatta, vedere se ci stanno fantasmi in mezzo alle palle... cose così» fa spallucce, lanciando un`ultima occhiatina alla SERPEVERDE.
« Permaloso com’è, finiremmo per dovergli chiedere scusa in maride » scherza ma un fondo di verità nelle sue parole c’è e probabilmente gli altri due lo sanno bene. Poi, però, si passa a parlare seriamente del compleanno e l’idea della festa a sorpresa le fa allargare un sorrisone « Oh » spostano gli occhi sui due coetanei. « Ma che bella idea! » sulla Stamberga « Nessuno ci verrebbe a cercare là » ragiona quasi a voce alta « Possiamo organizzare quello che vogliamo, invitare chi vogliamo» più o meno ma vabbè. Rimane qualche istante in silenzio e sembra riflettere su qualcosa prima di aggiungere.
« Mi piace, e gli diremo pure che non abbiamo niente per lui. Nemmeno mezza figurina da regalargli… poi le scuse in maride solo alla festa! » che manco le fa e le vuole, ma in caso non ci sarebbe spazio nemmeno per un doppione di quelle. Fantastico. Piega il labbro da un lato ed anche la testa quando guarda la roccia che preme sul nodo ed ecco che il platano sembra, forse essere fermo. Ovviamente, dato che non si fida - mai - sempre meglio far andare avanti TRISTRAN. « Siiii! Una di quelle stanze carine-carine, magari possiamo fare noi i fantasmi, tipo col dress-code tutti bianchi così possiamo mettere in ordine ma non troppo. »
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stillhazefromtheblock · 3 years ago
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senza pagare
Le iridi chiare tornano sul bff prima di slittare del tutto verso Haze. « Shottino? ». Un po’ di shottino solo io e te, Haze?
« Oh, che, io? » aggrottando la fronte e scagliando addosso a Merrow uno sguardo in cui lei sarà probabilmente in grado di leggere una cosa tipo ‘io non c’entro niente e non ho nulla con nessuno dei due, quindi posso accollarmi tranquillamente sta cosa senza rischiare di finire a pezzettini nel bidone dell’organico fuori nel vicolo, giusto?’. « Se loro vanno a ballare… » altra innocente alzata di spalle « accollata ». Un’altra occhiata delle loro alla Grifondoro prima di proferire un « ‘nnamo Xavì » cominciando a muoversi verso il bancone dove approderebbe con ambo i gomiti, molleggiando in avanti per sovrastare di poco il chiasso della musica dal vivo ed interloquire con il barista. « Due shot per me e per il mio amico, per favore » analcolici, ovviamente, che tanto il menù passa soprattutto quelli, indicando Xavier con un rapido scatto laterale del capo « direi che se non ci sono obiezioni… » le iridi glaciali che cercherebbero conferma in quelle del Serpeverde « per la scelta della pozione potremmo rimetterci a te » rivolta al barman « stupeficiaci! Altrimenti vai » scegli « tu Xavì, per me è uguale. Basta che non sia contrastiosa, che l’abbiamo già presa: non vorrei rischiare troppa benevolenza, che tutta in una volta potrebbe anche uccidermi ».
« Che c’hai, il singhiozzo? » il tono piatto mentre lo sguardo viene portato verso di lei proprio al termine di quel nome a metà. « È la contrastiosa che ti fa parlare così tanto, quindi? » o sei tu di norma, Coleman? « Stupeficiala. » con un buon shot. « Ancora qui sei? » neanche un secondo dopo, al barman. Ergo, ti muovi che vuole bere?
« No è che il tuo nome intero forse mi fa un po’ cagare perché sembra quello di un farmaco per il reflusso, non ti dispiacerà se ne taglio un pezzetto, mh? » ironica al punto giusto, sostenendone lo sguardo.
E quando i due bicchierini arrivano… « Ti dovrebbero licenziare. » per quanto tu sia lento, barman. Gentile, educato, simpatico e carino come sempre. Osserva il bicchierino avvicinarsi, circondandolo subito dopo con la mano destra sollevando il gomito e simulando un cin-cin in aria, mentre un passetto viene fatto in avanti, avvicinandosi appena un po’ a lei, proprio perché mentre avvicina il vetro del bicchiere alle labbra è la mancina a richiudersi in un pugno facendo spuntare solo l’indice in fuori, lo stesso che tenta di essere appoggiato sotto il mento di lei con l’intenzione di farla sbrodolare con una leggera spinta verso l’alto e quindi all’indietro, durante quella rapida bevuta. Sperando di riuscirci, cosicché da poter buttare giù il suo ed eventualmente ridere.
« Lo scusi, le direi che è ubriaco, ma è semplicemente un c*glione e non vorrei discriminare inutilmente le categorie sbagliate » facendo spallucce verso il barista prima di portare il bicchiere alle labbra e divenire vittima del simpaticissimo scherzetto. Istantaneamente va indietro con le chiappe, sporgendo lievemente le braccia che rimangono protese in avanti, in una mano ancora il bicchierino da shot. Se ne rimane lì sbrodolata fino alla giugulare, le labbra schiuse, la mano che sorregge il vetro parzialmente bagnata dal liquido dapprima in esso contenuto. Quanto meno è riuscita a berne una parte, anche se pochissimo. « Prendi-dei-tovaglioli. » lapidaria « o vedremo quanto è profondo il tuo buco del c*lo perché puoi assicurarti che lo infilo da lì e te lo faccio sputare da sopra» scrollando la mano che brandisce il bicchiere. Attenta princi, t’è caduta la tiara. Intanto quello che aveva da asciugare lo asciuga comunque tranquillamente con il dorso della mano e del braccio, fregandosene palesemente di un suo eventuale giudizio: non ha intenzione di aspettare i suoi tovaglioli. Ed è anche stanca di sorbirsi le sue lamentele sulla noia e la scontatezza delle sue risposte. « Non sono un’intrattenitrice e tu non mi paghi per intrattenerti » detto con nonchalance, il tono di chi sta ripetendo il proprio numero telefonico « sappiamo benissimo entrambi da che parte della sala dovresti essere, e non è né con me, nè con lui » andando ad indicare con uno scatto del capo il barista, intento a versare distrattamente da bere ad altri clienti poggiati al bancone. «Né con Delation, a dirla tutta» alludendo chiaramente a Merrow e scrollando la testa in segno di disapprovazione « perciò te lo dico chiaro e tondo, se cerchi una balia per innescare improbabili reazioni in qualcun altro» la tocca piano, eh « lì è pieno di quaranta-cinquantenni che non vedono l’ora di sentirsi lusingate dalla tua presenza ed avere qualche ultimo secondo di gloria prima di finire nel pattume dei rimpianti giovanili» e dice il tutto fissando di fronte a sé una bottiglia di vetro striata da motivi geometrici particolari « ma per il resto ti ricorderei che la tua sala comune non è la mia, a che Casata appartengo, e che i c*glioni Tassofessi a quest’ora dormono sotto lenzuolini di flanella, non sorseggiano cocktail in un pub per maggiorenni ». Una reazione che nasce dalla consapevolezza di essere solamente un diversivo. Un diversivo che probabilmente sta facendo ingramare non di poco la migliore amica.
« Sei proprio stupida. » il primo commento che ci tiene a dare, così de botto, senza nemmeno pensarci. « Tu non sai proprio niente. » o solo quello che ti è stato riferito. « Quindi dovresti sapere benissimo che la parte della sala in cui dovrei essere me la scelgo io, sempre e comunque » si dà il caso che non abbia intenzione di dover utilizzare chissà quale termine per andare dritto al punto « e che c’è qualcosa che si sa bene » e che quindi puoi sapere anche tu « che se non avessi scelto di star qua, sarei a divertirmi con Delation. » giusto perché è il suo migliore amico, ricordiamolo. « Quindi » rimarcando piuttosto bene un concetto che già di per sé dovrebbe essere stato piuttosto chiaro « prima di dar aria a quella bocca, prova a sentire quello che si muove nella tua testa » aka non dire parole troppo affrettate, pensaci un po’ su « o il cappello parlante ha seguito la lamentela di una bambina che gli diceva ‘Non mandarmi a Tassorosso che non voglio risultare più imbecille di quanto già…’ continuo? » bloccandosi così giusto perché ha già parlato abbastanza.
[…] Si rimpasta la bocca, deglutisce; diventa tutta zigomi ed occhi da iceberg cerchiati di nero. Solo a questo punto dopo aver abbassato le palpebre andrebbe a voltarsi verso il bancone con un movimento secco. « Tu » tentando di richiamare l’attenzione del barista. « Tu, sei sordo? Devo forse tirarti un Redùcto tra le chiappe per farti scattare? » cambiando completamente registro, inviperita. « In questo fo*tutissimo buco del gramo dimenticato da Merlino la servite qualcosa senza i vostri esperimenti da pozionanti falliti dentro? » ora più simile ad una iena; insomma, si sta girando un bel po’ di specie animali. « Se deve essere analcolico per le vostre politiche aziendali del crup, che quanto meno sia decente, che per fortuna quello di prima me l’ha sbrattato per metà lui addosso » scatto della testa verso il Serpeverde. Respiro profondo che le dilata ampiamente il petto, braccia conserte, ora rivolge nuovamente la figura interamente a lui « richiamo quella colonia secolare di pidocchi dall’ufficio di Doragon per farmi rismistare? » chiaro riferimento al cappello parlante.
Cattura quell’umettata di labbra e quell'intenzione a trattenersi, la stessa che sembra nascere in lui dove le labbra non fanno altro che smuoversi in quello che permette di diventare subito dopo uno schiocco, lasciando che la lingua batta fortemente sul palato e le sopracciglia si flettano, come se in quel modo volesse ancor di più affacciarsi al 'discorso' appena fatto. Ma poi si volta di scatto verso il barman che è diventato il capro espiatorio di tutta questa barzelletta per partire con una sfrecciata degna di chi almeno una volta è corso sulla scopa. « D'altronde fanno tremendamente schifo. » in aggiunta, proprio al discorso di lei « Oltre al fatto che più che sbrodolarselo addosso » e lo sbuffo di divertimento è inevitabile « avrebbe voluto vomitartelo, addosso. » scegliendo lo stesso giro di parole per dar un peso maggiore a queste. « Sai cosa? » al barman, dandogli del tu che non gli spetta. « Non vi meritate nemmeno uno zellino per quest'acqua sporca. » giusto per ricordare che tipo ancora non hanno pagato? Ed è pronunciandolo che si ritrova a portare le iridi chiare sulla Corvonero, assottigliando di poco le palpebre per non dare nell'occhio in ciò che, con un passo all'indietro dal bancone, dovrebbe essere piuttosto chiaro. « Dipende. » sei ancora in prova, insomma. Ma basta un « Corri. » per cambiare le carte in tavola. Perché quel che fa è voltare le spalle al bancone e compiere uno scatto necessario per fuggire da lì, verso l'uscita del locale. Lo sguardo che punta indietro nel controllare che Haze faccia lo stesso. Aspettandoselo, in realtà. E nel mentre, in tutto ciò, ride.
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sfiorisce · 3 years ago
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D. una volta mi scrisse "sei una forza della natura " , sono passati anni dall'ultima volta che abbiamo parlato e di tutte le cose che ci siamo detti quelle sono le parole che più mi sono rimaste impresse.
Ci ho pensato e ripensato, non sapevo nemmeno quanto consapevolmente fossero state scritte.
Spesso mi domando cosa penserebbero di me ora le persone con cui ormai non ho più a che fare: direbbero che sono sempre uguale?
Ma D. quelle parole me le scriverebbe ancora?
Mentre attraversavo il corridoio dell'ospedale mi ripetevo quella frase dentro la testa per autoconvincermene al massimo, mi immaginavo proprio la sua voce che le pronunciava, ad ogni passo, con l'ansia che mi torturava.
Ma poi alla fine quando ho visto mio nonno per la prima volta sulla sedie a rotelle dopo l'ictus ho pianto lo stesso, i miei sforzi erano stati vani.
Non vedevo mio nonno da mesi, non sapevo che aspetto avesse dopo quello che gli era successo, se fosse dimagrito, se mi avrebbe riconosciuto, se avrebbe parlato, infatti sapevo solo che non era più in grado di pronunciare bene le parole.
Avevo il terrore di non capirlo.
Io ero riuscita semplicemente a piangere e a correre verso di lui per abbracciarlo, mi sentivo una scema. Che senso aveva piangere?
D. è stato il mio primo ragazzo, la prima volta che mostravo a qualcuno con tanta sincerità più sfaccettature della mia personalità.
Mi aveva visto al settimo cielo, piena di energia, di gioia, mi aveva sentito ridere, coinvolgere le persone che mi circondavano nella mia felicità, poi mi vedeva piangere, arrabbiarmi, distruggere tutti i miei stessi pensieri positivi, urlare, mi vedeva parlare senza sosta persa nei miei discorsi poi mi vedeva improvvisamente rimanere in silenzio.
Ai suoi occhi ero incredibilmente imprevedibile, mi diceva.
Se penso alle mie nonne sono sicura del fatto che si meriterebbero quelle parole. Per immaginarmi un briciolo di forza e di coraggio indosso una collana di corallo che mi è stata regalata da nonna, con quella immagino di essere lei che è sempre stata così bella, così sicura di sé, così piena di amore.
Se potessi tornerei a quando ero più piccola e facevo la ballerina.
Non me ne importava di come apparivo allo specchio, ero probabilmente più in carne delle altre ma non mi vergognavo a stare al centro o davanti.
Indossavo le mie mezzepunte rosa, il mio tutù di cui andavo tanto fiera, il body spesso messo per sbaglio al contrario e con i capelli legati come meglio potevo entravo nella sala da ballo per le prove. Ero la più piccola ma mi sentivo al pari delle ragazze più grandi di me anche di sei o sette anni.
Facevo sempre il massimo, a casa mi allenavo tutti i giorni per il battement, per la prima posizione e mi immaginavo un pubblico davanti.
Ballavo sempre, che fossi da sola o in presenza di qualche membro della mia famiglia; mamma doveva continuamente ricomprarmi le ballerine perché le usavo troppo.
Mi ricordavo tutte le coreografie e non mi spaventavano i saggi in cui avrei dovuto ballare per più esibizioni.
Nei teatri avevo il mio camerino, mi ricordo che lo specchio era pieno di luci, c'era chi mi preparava l'acconciatura e chi mi truccava,  mi sentivo bellissima.
Prima di esibirmi, dietro le quinte, non avevo paura di niente, non mi spaventava il pubblico ed ero sicurissima di me, sapevo che ci sarebbero stati i miei genitori e i miei nonni pronti ad applaudirmi. Era stata mia nonna poi a insistere che facessi danza classica, era molto fiera di me.
Se qualcuno mi avesse detto  "sei una forza della natura" dopo che ero stata sul palco gli avrei creduto senza pensarci nemmeno per un secondo.
Ma adesso che mi sento inadeguata, sola, con il respiro che mi manca e la notte gli incubi, non so più dove sia il mio tutù.
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lyalu17 · 4 years ago
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Gruvia week 2021 ~ April 4th ~ Tears.
Allerta spoiler per chi non è al passo con le scan on-line (attualmente al capitolo 78) della 100YQ (anche se un po' di avvenimenti le ho modellate un po' a mio piacimento) buona lettura, e buona Gruvia week <3
Qualche dedica perché sì:
Questa one shot è dedicata alle Gruvia shippers che ho conosciuto da quando, nell'ormai lontano 2019, entrai ufficialmente nel mondo delle fanfiction come scrittrice ("scrittrice" insomma...) e che mi hanno fatto sclerare in tutti i modi possibili, facendomi un po' "virtualmente compagnìa" con l'amore per le opere d'animazione giapponese. L'aver conosciuto, anche se solo attraverso uno schermo, così tante persone, in quasi due anni che sono in giro per i siti di fanfiction, mi rende davvero felice. Grazie a questo ho iniziato a fare cose di cui nemmeno mi credevo capace, come migliorarmi nel disegno, scrivere nel rating rosso o anche solo scrivere e far leggere le mie fic a qualcuno che non fossero solo amici e parenti stretti, "esponendomi" un po' di più attraverso internet. Davvero, grazie a tutti voi, che non elenco solo perché siete davvero così tanti che non voglio rischiare di dimenticare qualcuno. E anche perché se no le note diventano un papiro assai più lungo della fanfiction stessa. Quindi solo una cosa: GRAZIE A TUTTI QUANTI!
Bene! Ora lascio la scena ai nostri Gruvia, ci rivediamo alla fine❤️
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Se avesse dovuto descrivere la sua vita in una parola, quella più giusta sarebbe stata lacrime...
Lacrime versate per tutto: Per quei bambini che non volevano mai stare con lei, perché ogni giorno con la piccola Juvia significava pioggia.
Per quel ragazzo che, stanco di non poter mai godere di un giorno di sole in compagnia della sua ragazza -o forse semplicemente stanco di lei- l'aveva lasciata, incurante dell'ennesimo macigno che posava sul suo cuore, già abbondantemente appesantito dal senso di colpa per via di quel potere tanto grande quanto fuori controllo.
Ma in quel momento era proprio quello stesso sole che le si stava posando sulla pelle, riscaldandola e guarendo ferite vecchie di anni...
Guardava la propria mano, tenuta stretta da quella di quel moretto senza maglietta -eppure le era sembrato che l'avesse fino a pochissimi istanti prima- e col marchio della propria gilda sul petto scolpito. Attraverso i raggi che gli arrivavano dalle spalle, coprendo in parte la vista dei suoi lineamenti, la ragazza riuscì a vedere l'espressione seria e determinata del mago. La teneva stretta, senza accennare a lasciarla andare, rischiando di cadere con lei nel vuoto. La teneva stretta come se la sua vita fosse la cosa più importante di tutto, come se lei fosse più importante di tutto.
E sì, lo era eccome, più importante di tutto.
Quasi non sembrava che fossero due nemici intenti a lottare, come invece era stato fino a poco prima...
"Non vincerai!" urlava il moro, completamente zuppo dalla testa ai piedi, sotto la pioggia incessante che si chiedeva da dove diavolo arrivasse.
"Shin shin do..." ripeteva invece, quasi fosse uno strano mantra di cui lui ignorava l'esistenza, la padrona delle acque che aveva di fronte. "Juvia ha già vinto, gli Element Four dovevano solo catturare Lucy Heartphilia, ma la gilda di Fairy Tail non accetta la sconfitta..." continuava, mentre tornava quell'espressione così fastidiosa sul volto pallido. Ogni tanto usciva fuori uno strano sorriso, che gli fece seriamente chiedere se avesse davanti la stessa persona o se fosse sotto il controllo di qualcuno che si divertiva a darle quegli sbalzi d'umore.
Però, doveva dire che, a parte tutto, era forte... accidenti se lo era!
Non che ne dubitasse, faceva parte del gruppo di maghi più forte di Phantom Lord e il suo potere magico, da quel che sentiva, era molto alto. Sapeva di avere un'avversaria temibile davanti.
Lo aveva messo davvero in difficoltà e poche volte gli era accaduto. Era una sua avversaria eppure non riusciva a trovarle un solo difetto -forse uno sì, l'espressione impassibile, come se niente le interessasse, che le albergava la maggior parte del tempo sul volto e che, non sapeva perché, lo infastidiva non poco, facendogli preferire di gran lunga il sorriso che la sostituiva ogni tanto in quegli strani sbalzi d'umore- che potesse fargliela odiare. Non che quella fosse la definizione giusta dei suoi sentimenti verso i propri avversari, ma di solito, o almeno il più delle volte, gli era indifferente il motivo per cui qualcuno agisse in un modo o in un altro. Poche erano le occasioni in cui si interessava davvero a qualcosa oltre che sconfiggere chi voleva fare del male alla sua famiglia, e quella ragazzina dai grandi occhioni azzurri rappresentava decisamente una di quelle eccezioni...
Schivò, appena in tempo e non senza difficoltà, un attacco della ragazza -la donna della pioggia, così la chiamavano, ma lui vedeva solo una ragazzina alla mercé di qualcuno troppo codardo per combattere in prima persona, spinta da chissà quale motivo o, più probabilmente, da nessuno in particolare- e riuscì ad evitare un'onda d'acqua che lo avrebbe spinto giù da quel tetto se lo avesse preso. La pioggia continuava a cadere sulle loro teste, innervosendolo più di quanto non facesse già l'intera situazione.
Phantom Lord aveva distrutto la loro casa, e non voleva lasciar andare Lucy, progettando di riportarla da suo padre. E così, mentre Natsu si occupava del Dragon Slayer del metallo, Elfman del tizio che controllava la terra -non ricordava come si chiamasse e non gli importava nemmeno- a lui era toccata quella ragazzina, che in verità gli sembrava una di quelle bamboline di porcellana. Di quelle imbacuccate con abiti eleganti, carine con quei boccoli, ma con l'espressione vuota, troppo vuota...
"Shin shin do..." fu l'ultima cosa che Gray sentì uscire dalle labbra appena un po' rosee dell'azzurra, poco prima di essere travolto da un altro attacco, che stavolta lo prese in pieno, spingendolo davvero quasi giù dal tetto. Quasi, perché sembrava che quella massa d'acqua puntasse a farlo indieteggiare o, al massimo, lasciarlo a terra senza sensi.
Almeno da quello che sentiva: Il potere magico di quell'attacco era di molto inferiore a quello emanato dalla ragazza.
Al limite della pazienza e sinceramente stanco di quello scontro che non portava a nulla -se non il nervoso che gli prendeva nel vederla così impassibile- il ragazzo ghiacciò in un sol colpo tutta l'acqua attorno a loro. Persino la pioggia si era congelata, e questo smosse, finalmente, qualcosa nel volto di Juvia, che si corrugò in un'espressione di stupore, facendo ghignare interiormente il mago del ghiaccio. Almeno non era più così vuota adesso...
In poche mosse -non affatto facili, e ancora una volta il ragazzo convenne col fatto che fosse davvero forte- riuscì a sconfiggere la ragazza, che però rischiò di cadere lei dal tetto, evitandolo solo perché il moro era stato abbastanza lesto da afferrarle la mano in tempo.
"Lascia cadere Juvia... hai vinto... lei è una nemica della tua gilda..." era quello il suo destino ormai. A Phantom Lord una degli Element Four che veniva battuta da una fatina era una vergogna, e quella stessa gilda che le aveva dato una casa tempo addietro l'avrebbe adesso ripudiata. Tanto valeva morire no?
Gray cosa stesse farneticando quella ragazzina non lo capiva, ma una cosa gli era chiara: Non sapeva distinguere un avversario da un nemico...
"Abbiamo combattuto e ti ho sconfitto, questo non fa più di noi due avversari..." le disse prima di tirarla su e, quando la vide al sicuro, inginocchiata sulle tegole rossastre e senza più il rischio di cadere di sotto, si concesse un sospiro di sollievo. "Il mio obbiettivo è un po' come il tuo, non avevi motivo per combattermi perché il tuo interesse era obbedire agli ordini..." allo sguardo sorpreso dell'altra rispose con un mezzo ghigno che -lui non lo sapeva- causò l'ennesimo scompenso all'altezza del petto di Juvia...
"Dovevi catturare una mia compagna e nient'altro... allo stesso modo io devo riportarla a casa nostra, nient'altro... meno ancora lasciar morire qualcuno..." spalancò gli occhioni color oceano e solo in quel momento si rese conto di avere il viso sì bagnato, ma non dalla sua stessa pioggia...
Guardando in alto si accorse che il sole -no, non se l'era immaginato, non era una specie di miraggio che le si era presentato negli ultimi attimi di vita- non era più coperto dai nuvoloni grigi, e ora splendeva in modo quasi accecante...
Era così che splendeva di solito? Juvia non lo sapeva, non perché non lo avesse mai visto o non avesse mai provato il calore di quella enorme e lucente stella, ma perché era passato così tanto tempo da quando aveva vissuto quella sensazione sulla pelle, che ormai l'aveva completamente dimenticata, arrivando quasi a pensare che non esistesse più. Non per lei almeno...
Era passato tanto di quel tempo dall'ultima volta che il cielo era stato sereno in sua presenza, tanto di quel tempo da quando quel calore che sembrava penetrarle fin dentro le ossa, rimarginando tutte le ferite del suo animo, le aveva sfiorato la pelle diafana l'ultima volta...
Perché hai salvato Juvia?
Quelle parole premevano per uscire, erano proprio lì, sulla punta della lingua, pronte a lasciare le labbra carnose dell'azzurra. Ma si arrese all'incredibile sensazione di benessere che sentiva in tutto il corpo. Era stanca, stremata, eppure si sentiva bene. E che c'era di male, dunque, nel lasciarsi cadere distesa, chiudere gli occhi e riposare un po', godendosi quella bellissima sensazione appena ritrovata?
"Sai, Juvia stava davvero male..." gli aveva detto Lucy, ancora con quell'uniforme addosso, mentre tornavano in quella che era stata la casa che i due avevano condiviso per quei sei mesi. Il cuore gli tremava al solo pensiero che avrebbe rivisto la bluetta. Era andato via da solo perché sapeva che, se lo avesse seguito, si sarebbe messa in pericolo, e non poteva, non doveva permetterlo.
Non lei, che in quegli anni, così come in quei sei mesi, gli era stata accanto accettando tutto, anche la sua indifferenza...
Se ci fosse stata Ur lo avrebbe riempito di scappellotti fino a renderlo ancora più idiota di quanto già non fosse, e avrebbe fatto bene. "Ha pianto tanto per te..." continuò la ragazza, che non nascose una punta di rabbia, forse la stessa che aveva messo in quello schiaffo. Probabilmente non era stato solo il pensiero che avesse tradito la gilda o le sue parole di finto disprezzo a spingerla a quel gesto, e una piccola parte di lui sapeva che quel dolore, ancora un po' persistente, alla guancia sinistra era nulla in confronto a quello che aveva inferto all'azzurra. "Era stremata... quando l'abbiamo incontrata è svenuta... se non fosse stato per Natsu si sarebbe fatta male..." aveva evitato di dirlo, ma lui glielo aveva letto negli occhi che quel più di quanto non gliene abbia già fatto tu era sulla rimasto sulla lingua, pronto ad uscire, ma consapevole di quanto già lui stesso sentisse il peso della colpa che albergava nel petto, per nulla intenzionato a lasciarlo in pace.
Lo aveva capito da solo, quando se li era ritrovati davanti, che se non fosse stato per il rosato nemmeno Lucy si sarebbe trovata lì, e nessuno di loro sarebbe stato sulla strada di casa, pronto a far rinascere Fairy Tail. "Spero solo che si riprenda..." concluse la bionda, e lo sapevano entrambi -forse anche il fiammifero, che cavalcava pochi passi più avanti- che non si riferiva solo alla salute fisica della ragazza...
Era un idiota!
Pensava di agire per il meglio e tenerla al sicuro ma le aveva causato solo altra sofferenza...
"Siamo arrivati!" disse il rosato quando giunsero alla dimora che lui conosceva fin troppo bene. Il timore gli attanagliava le viscere, eppure uno strano fremito dentro lo spingeva sempre di più a voler entrare...
E così mentre Wendy li accoglieva alla soglia, pregando loro di non fare rumore, poiché che la maga dell'acqua si era appena addormentata, il moro non poteva evitare di rimirare quella casa che sì, gli era mancata da morire, così come la bluetta, che riposava tranquilla sotto le coperte marroncine. Aveva le gote arrossate e il candido panno sulla fronte gli indicava che avesse la febbre. "Juvia-san ha bisogno di riposo, non dovete assolutamente svegliarla..." sussurrò loro la ragazzina dai codini blu-violetti. "Io ho finito alcune erbe che potrebbero servirmi nel caso la febbre dovesse risalire, vado a fare un po' di scorte..." continuò, senza che il moro l'ascoltasse molto in realtà, assorto com'era a guardare la ragazza addormentata. "Ti accompagno io Wendy! In due faremo prima." intervenne la bionda. Il bosco lì vicino poteva nascondere molte insidie e non poteva permettere che la piccola vi si addentrasse da sola. Inoltre, tra non molto sarebbe subentrata la sera ed era meglio che rientrassero il prima possibile. Presero due cestini di vimini, uscendo dalla porta e, poco prima di chiuderla, la testolina della piccola Dragon Slayer si affacciò per salutare. "A dopo ragazzi, e Gray-san ..." non attendendo che si voltasse, non lo avrebbe fatto, troppo preso dalla bluetta. "Sono felice che tu sia tornato..." sorrise sincera, chiudendo definitivamente la porta e lasciando la maga dell'acqua alle cure dei due nakama.
Il moro prese posto sulla sedia accanto al letto senza spiccicare parola, mentre il rosato osservò il cielo, appena un po' rossastro per l'imminente tramonto, dalla finestra e, dopo qualche minuto di silenzio, si decise a dirgli ciò che gli più premeva in quel momento...
"Non puoi restituirle i mesi che ha passato da sola..." non parlava solo per lui, ma anche per sé stesso, lo aveva capito il moro. Anche lui aveva lasciato qualcuno pensando di fare la cosa giusta, finendo però col ferire ulteriormente chi voleva proteggere. Lo ascoltò in silenzio, era certo che lo dicesse per il bene di entrambi. Era uno di quei momenti in cui frecciatine e rivalità erano bandite dalla conversazione. "Ma puoi fare in modo che quello che passerà insieme a te sia così bello da oscurare almeno in parte il dolore di questi mesi..." era un consiglio che aveva intenzione di seguire, e giurò a sé stesso -insieme al rosato. Lo sapevano entrambi, e mai si sarebbero derisi a vicenda per ciò- in quello stesso istante, che avrebbe reso ogni momento con lei indimenticabile. Serviva anche a lui, dopo così tanto tempo lontani...
"Vado a cercare Lucy e Wendy, non svegliarla..." annunciò Natsu dopo un po', notando il tramonto sempre più vicino. "E rivestiti ghiacciolo!" sbuffò in un finto rimprovero, non voltandosi nemmeno, perché lo sapeva benissimo che si era già tolto il mantello nero -ne aveva sentito il fruscìo mentre scendeva, carezzando la pelle nuda del moro- che l'altro indossò di nuovo mugugnando uno dei suoi coloriti insulti al suo indirizzo, decretando, in parte, un ritorno alla quotidianità della loro famiglia, facendo ghignare il Dragon Slayer. Quello rappresentava un altro passo in avanti sulla strada della ricostruzione della gilda, la cui fine sarebbe stata sancita solo dal sorriso di Luce...
Uscì, seguendo col suo olfatto il profumo fruttato della maga celeste, mentre Juvia si agitava appena sotto le coperte, facendo scivolare sul cuscino il panno, ormai quasi asciutto, che lui raccolse e raffreddò un poco coi propri poteri, rimettendolo al suo posto e risistemando meglio le coperte perché stesse più comoda e non prendesse freddo. Quella di poco prima era una promessa che avrebbe iniziato a mantenere sin da subito...
Le lacrime a bagnarle il volto, e la bionda che, munita di fazzoletti, gliele asciugava cercando di non far colare il mascara sul candido abito a sirena, con la scollatura a cuore ad incorniciare il prosperoso seno, completato dal lungo strascico e dal velo che scendevano sinuosi verso il pavimento, ripiegandosi ai piedini della bluetta, avvolti nelle bianche décolleté tacco dieci. "Calmati, cerca di respirare. Pensa che tra poco sarai sposata con l'uomo che ami e che ti ama e non puoi farti vedere col trucco sbavato. È il tuo giorno, il vostro giorno, e devi essere perfetta!" cercava di tranquillizzarla, non riuscendo molto bene nell'intento. "L-Lucy-san parla facile, lei ha g-già passato questo momento, o-ormai è solo un ricordo..." era vero, almeno in parte. Erano passati sette anni da quando avevano ricostruito la gilda, e appena cinque da quando Natsu aveva preso coraggio e, una volta conclusasi la missione dei cento anni, le aveva detto ciò che tra loro era rimasto un po' in sospeso con quel staremo insieme per sempre giusto? prima di partire per quell'avventura, conclusasi con la sconfitta dei draghi sacri. Ma non era lontano quel ricordo. Era ancora vivido e, ogni volta che ci ripensava, lo stomaco le si attorcigliava come quel ventisei Luglio di ormai un lustro fa...
"E-E se Gray-sama si accorgesse che ha fatto un errore? S-Se vedendomi così si r-rendesse conto di... d-di non voler passare l-la vita c-con Juvia?" continuava tra i singhiozzi, non riuscendo a fermare il petto dal suo muoversi a scatti nel seguire il pianto della bluetta. "Luce tra poco inizia la marcia nuziale!" si affacciò alla porta il Dragon Slayer del fuoco, con un piccolo bambino biondo in braccio, vestito di tutto punto come il padre, con uno smoking nero identico a quello del rosato, che se ne stava zitto e buono, mezzo addormentato e con la testa placidamente posata sulla spalla del padre, a sonnecchiare del dolce dormi-veglia che lo aveva catturato nei suoi appena tre anni...
"Natsu!" non urlò eccessivamente per non svegliare il piccolo. "Potevamo essere nude! Avviati, tra poco arriviamo!" gli avrebbe tirato volentieri una delle sue décolleté rosse dal letale tacco dodici, abbinate al monomanica lungo fino alle caviglie e col profondo spacco lungo la coscia destra, se solo non ci fosse stato il piccolo Igneel di mezzo...
Il ragazzo sparì dietro la porta di legno che portava alla sala della gilda -dove si sarebbe tenuta la cerimonia- per non rischiare di avere a che fare con una Lucy furiosa. Corse ad avvertire il moro, certo che lui avrebbe potuto aiutare. Era stato ottuso per troppo tempo, e non che lui potesse fargli la predica certo, ma almeno si era sbrigato prima, mentre il moro si era dichiarato appena pochi mesi dopo di lui con Lucy. Non avrebbe mai smesso di ridere per quella scena: Sembrava avesse il suo stesso ghiaccio nelle mutande -l'unica cosa rimastagli miracolosamente addosso- e il rosato aveva immortalato il tutto col Lacryma. Adesso si stava per sposare, e lui non poteva che essere più felice per l'amico...
"Allarme crisi pre-matrimoniale polaretto! Mi sa che devi intervenire se non vuoi restare come un baccalà ad aspettare all'altare!" il moro s'irrigidì, cominciando a marciare come un soldatino verso la porta di legno massello dietro la quale c'erano la sposa e la sua damigella d'onore. "Non entrare però! Io ho evitato una scarpa killer solo grazie a questo ometto qui!" carezzò la testolina bionda di suo figlio, che mugugnava di tanto in tanto qualcosa nel leggero sonno che andava e veniva. "E no! Non te lo presto! Fatti il tuo se ci tieni ghihahah!" se ne andò ridacchiando a sedere accanto a Levy e Gajeel, in attesa che la cerimonia iniziasse per affidare loro Igneel prima di andare all'altare al posto dedicato al testimone dello sposo...
"Così va meglio!" batteva le mani, soddisfatta per l'essere riuscita a far cessare le cascate dai grandi occhi blu che, ancora un po' lucidi, si facevano truccare di nuovo, riaggiustando col mascara il distastro scampato per un pelo, quando... "Juvia... ascolta io-" "Gray, tu provaci solo ad entrare e giuro che ti tiro il beauty dietro! Intesi?" la voce della bionda lo interruppe. Che avevano tutti quanti quel giorno? Era abbastanza certa che il colpevole fosse quella testa rosa, con cui poi avrebbe fatto i conti a fine giornata...
"Non entro, ma devo dirti una cosa Juvia! Ti chiedo solo di ascoltarmi..." quando aveva sentito il rosato dirgli della classica crisi pre-matrimoniale aveva sentito le gambe cedere, ma si era fatto forza, avanzando verso quella porta. Ci aveva già pensato lui, e in abbondanza, ad allungare il brodo, e capiva bene che i dubbi della sua sposa potessero dipendere soprattutto da questo. Ma vi avrebbe porto rimedio e subito...
Ottenuto il permesso di parlare dalla voce della bluetta, iniziò con quel discorso per nulla previsto.
"Juvia... senti io non sono bravo con le parole, e credo si sia capito... anche quando mi sono deciso a parlare chiaro..." lo ricordò con un dolce sorriso la ragazza: Balbettava e per questo, poco prima, l'aveva portata in un posto appartato -salvo poi scoprire, pochi minuti dopo, grazie alle battutine del rosato e del metallaro, che l'udito dei Dragon Slayer era molto più sviluppato di quanto credessero- e le aveva dedicato parole così dolci che la ragazza pianse -per la prima volta di felicità- di fronte a quel di Gray così inaspettato, così suo. Come suo era il cuore della bluetta, ormai arresasi all'idea di dimenticarsi di lui dopo tanto tempo passato a cercare di farsi notare.
Ma quel giorno il moro le aveva invece consegnato ufficialmente il proprio di cuore...
"Non ho idea di che dirti Juvia..." era vero. Non sapeva cosa dire, sebbene il cuore traboccasse di parole e sentimenti da poter esprimere, lui era sprovvisto delle prime. Dei secondi però, ne aveva in abbondanza, tutti dedicati a quella dolce ragazzina dagli occhioni color mare. "Potrei dirti che ti amo, ma la verità è che non sarebbe vero!" sussultò, facendosi aria con le mani -che aveva appena coperto coi candidi guanti lunghi fino a poco sopra i gomiti- per evitarsi di piangere. Glielo aveva detto anche quella volta, e facendola spaventare così tanto che per poco non svenne. Per fortuna non successe, perché le parole successive le fecero lacrimare gli occhi e sorridere a trentadue denti. "Juvia io per te ho pianto! E solo il cielo sa quanto preferirei farmi battere dal fiammifero spento anziché piangere!" ricordava poche volte di aver pianto e poteva contarle senza difficoltà sulle dita di una sola mano.
Quando Deliora aveva distrutto la sua vita insieme al suo villaggio. Quando Ur si era sacrificata per permettergli di vivere la sua vita senza il peso del rancore e della sete di vendetta. Quando, dopo aver ritrovato suo padre, lo aveva perso subito, e proprio per mano di quella bellissima donna che gli stava per concedere l'onore di divenire sua moglie -era certo che Silver, ovunque fosse, era libero, non più schiavo di quella forza maligna che lo aveva reso nemico del suo stesso figlio- e che era arrivata addirittura a sacrificare la sua vita più volte.
Aveva pianto quando l'aveva stretta tra le braccia, inerme e ricoperta di sangue e ferite. Aveva pianto sì, e per Gray Fullbuster era tutto dire...
Ogni lacrima che aveva versato nella vita corrispondeva ad una ferita incisa per sempre in quel muscolo in mezzo al petto. Lo stesso che, negli anni, si era imposto sul suo carattere glaciale, sciogliendo il freddo e invisibile scudo con cui proprio il suo cuore era stato ricoperto negli anni. E solo grazie a quella ragazzina che si era sacrificata più volte, per Cana durante la battaglia di Fairy Tail, e anche per lui, arrivando ad attentare alla propria vita per salvare quella di uno stupido ghiacciolo nudista...
"Il fatto è... il fatto è che se ti perdo un'altra volta sento che non ce la posso fare! Non di nuovo. Solo il pensiero che possa succedere, anche nel peggiore degli incubi, mi fa star male da morire!" aveva il fiatone, lo si sentiva benissimo nella sua voce. Aveva poggiato la fronte alla porta, allentandosi la cravatta nera abbinata allo smoking gessato. Più pensava che lei potesse decidere di non sposarlo più -se lo sarebbe meritato, aveva passato troppi anni a tenerla lontana, era naturale che si stancasse di lui- e più sentiva il petto cedere.
"Gray-sama... Juvia ti ama da... da neanche lei sa bene quanto tempo..." si era avvicinata alla porta, posandovi una mano guantata, mentre l'altra -la sinistra, che sotto la candida stoffa di seta nascondeva il piccolo diamante dell'anello con cui l'aveva chiesta in sposa- se ne stava sul petto, all'altezza del cuore. La voglia di abbassare la maniglia e togliere quell'ostacolo per abbracciarlo era tanta, ma una Lucy, che definire furiosa era un eufemismo -di lì a poco avrebbe commesso un omicidio, e che rimanesse lei vedova o uno di loro due ancora prima di pronunciare il fatidico sì, poco importava- le faceva segno di non aprire per nessun motivo. La catenina della sua borsetta rosso fuoco era perfetta per strangolare qualcuno...
"Anche Juvia ha pianto... ha pianto tanto... talmente tanto che le sue lacrime cadevano persino dal cielo..." era vero, e non doveva permettere loro di affacciarsi ai suoi occhi, non adesso!
"Ma Juvia ha smesso quel giorno in cui tu le afferrasti la mano, tenendola stretta e salvandola da un vuoto ben più grande di quello a cui Juvia sarebbe stata destinata a cadere se non ti fossi sporto per prenderla..." il nodo in gola si sentiva distintamente, e il ragazzo fece una fatica enorme per non spalancare quella porta e farle affondare il viso nel proprio petto per raccogliere le sue lacrime...
"Tu facesti vedere il sole a Juvia... in tutti i sensi... la facesti sentire una persona e non qualcosa che porta solamente pioggia e tristezza... e nemmeno qualcuno di completamente inutile se avesse fallito..." ora il trucco stava per colare a Lucy, ma resisteva valorosamente facendosi aria come aveva fatto poco prima la bluetta. E nemmeno la rabbia e la successiva emozione le avevano impedito di registrare il momento col suo Lacryma. Un Gray così romantico non era certo roba di tutti i giorni...
"Quel giorno tu hai insegnato a Juvia che anche lei poteva provare sulla sua pelle la felicità..." quel dieci Settembre rappresentava la sua rinascita, e lei avrebbe conservato quella data segnata sul più affidabile dei calendari, il suo cuore. "Gray... Juvia ti ama!"
Era tornato a respirare regolarmente, bevendo ogni parola come un assetato beveva l'acqua dopo giorni e giorni nel deserto. Un balsamo di vita, indescrivibilmente benefico, che aveva avuto il potere di calmarlo in poco tempo...
Sorrise e... "Allora, Juvia Loxar, mi vuoi sposare?" ridacchiò, ma la risposta l'aspettava davvero. Impaziente come la prima volta che glielo aveva chiesto, a casa sua, dove la ragazza era venuta per una cena intima, e lo aveva visto d'improvviso alzarsi e andare in camera sua, frugare in un cassetto del comodino, e tirare fuori una scatolina di velluto blu. Gliel'aveva porta non riuscendo a spiccicare parola. La ragazza, una volta realizzato il tutto, lo aveva abbracciato di slancio, posando la scatolina sul comò e, beh, poi erano finiti a perdersi tra ansiti e gemiti. Un sì sussurrato -ma non per questo non convinto, anzi!- mentre si incamminavano insieme, ancora una volta, sulla via della passione, gli aveva fatto apparire un sorriso dolce. Di quei pochi che dedicava solo a lei, perdendosi nel mare dei suoi meravigliosi occhi...
"Gray-sama... Juvia... sì... sì Gray, voglio sposarti!" ridacchiò, rispondendo convinta. Con il suo Gray lo sarebbe stata sempre...
Un altro sorriso -come se avesse fatto altro oltre a quello per tutto il tempo che lei gli aveva parlato. Aveva riso tutto il tempo come un bambino in un negozio di caramelle, a cui avevano detto di mangiare quanto volesse- gli comparve sulle labbra, prima di trasformarsi in una smorfia di dolore per via della presa di Erza, che lo aveva raggiunto e afferrato per la cravatta, quasi strangolandolo nel risistemargliela e trascinarlo via, dopo aver informato le due donne che la marcia nuziale sarebbe partita dopo poco.
"Ci vediamo tra cinque minuti ragazze. Tu vieni con me!" e andò via, avvolta nel suo abito color ametista, riuscendo a non scomporre lo scarlatto chignon nel tenere fermo il moro, intento a dimenarsi, smettendo di farlo solo quando fu sull'altare che era stato allestito per la cerimonia. La rossa fece segno a Gajeel di avviarsi. Avrebbe accompagnato la sposa all'altare, il vecchio Master aveva insistito per farlo lui, ma avevano preferito farlo stare tranquillo a godersi la cerimonia, con suo nipote Laxus -l'attuale Master- da officiante, e Gajeel a percorrere la navata con la sposa.
Chi meglio di lui?
Avevano iniziato insieme a conoscere il significato della parola famiglia, era giusto che vivessero insieme anche quel passo così importante. D'altra parte, Juvia era stata la sua prima -e unica per tanto tempo- amica. L'unica con cui aveva abbandonato -di poco ovviamente- la sua aria da duro. L'unica che aveva trattato decentemente nella gilda di Phantom Lord. L'unica che aveva pensato a lui quando aveva trovato una nuova, vera, famiglia...
La sposa uscì a braccetto dell'energumeno -Lucy si era già posizionata sull'altare, sorridendo dolce al sei bellissima mimato dalle labbra del Dragon Slayer del fuoco- e seguita dalle altre damigelle, oltre che dagli sguardi dei loro cari. Da Natsu, in piedi accanto a Gray, e Igneel, seduto vicino alla maga del Solid Script, che non toglievano gli occhi di dosso a Lucy -il primo con pensieri decisamente meno casti e innocenti del secondo, ormai ben sveglio e praticamente in adorazione per la sua mamma, ma entrambi con un pensiero comune: Bellissima- a Levy e i due gemelli Redfox -fieri che il loro papà ricoprisse quel ruolo così importante- e la marcia nuziale partì, fermandosi pochi istanti dopo, quando la bluetta raggiunse il moro, sorridendogli con amore, e ampiamente ricambiata.
Se quella era la ricompensa a tutte le lacrime versate in passato, beh, valeva ogni singola goccia...
"Vedrai come piangerai quando ti batterò polaretto ghihahah!" ridacchiò il rosato, prima di beccarsi uno scappellotto dal biondo Master, prima che egli iniziasse la cerimonia...
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Angolo autrice.
Buonasera a tutti! (Da me, in Italia sono ancora le 23:45 del 4 Aprile, quindi penso vada bene, ma non lo so)
Non sono riuscita a tradurla in tempo (e forse è meglio così, non sono brava in inglese😳)
Bene, come ho detto, questa è la prima volta che partecipo alla Gruvia week, e spero sia solo l'inizio di una lunga serie di edizioni. Beh, che dire? Spero che la fic sia stata di vostro gradimento, e grazie per averla letta.
Alla prossima!🖤💙
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heavenlyhazaard · 4 years ago
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L’attimo in cui avviene il tutto è scandito da un suo singolo respiro profondo per l’ansietta di trovarsi l’Helios di turno davanti, non avendo avuto il tempo materiale di squadrarlo davvero e capire non si tratti di lui, ma di Xaviér. Le ci vuole ben poco prima di tornare a sbirciare, sempre da dietro il muro, dopo aver sentito una voce ben diversa da quella del settimino. Sfarfalla le ciglia come se non fosse vero, come se fosse soltanto una visione prodotta dalla sua immaginazione, per poi riappiattire la schiena contro il muro nel constatare sia tutto reale. È contenta di vederlo? Dalle labbra schiuse come se stesse per pronunciare il suo “Xa-viér?” di routine non si direbbe, tantomeno dal modo in cui lo guarda, sull’attenti, mentre le iridi ghiaccio scivolano lungo il corpo altrui più di una volta, probabilmente per assicurarsi sia tornato tutto intero. Il passo è sostenuto, ma non corre, finendo con l’arrestarlo definitivamente, solo nel trovarsi esattamente di fronte a lui, tentando di guardarlo negli occhi per un solo istante, prima di cingergli il busto con le braccia ed appoggiarvici contro una guancia, mormorando con un filo di voce: « sono contenta tu stia bene » con tutta la sincerità di cui dispone intrisa della preoccupazione provata nel corso dell’ultima settimana.
E’ istintivo la stoppata del passo, mentre proverebbe ad essere lento la svolta del busto che, però, non avviene per via del fatto che delle iridi color ghiaccio e un caschetto biondo gli si fiondan davanti il campo visivo, percependo principalmente un contatto fisico che, in un primo momento lo irrigidisce sul posto. Il braccio destro leggermente sollevato permette di bloccare il polso e ritrovarsi così ad indirizzare il catalizzatore in direzione del colonnato, mentre l’altro braccio si attacca al proprio fianco. Le spalle ampie subiscono un impercettibile – esternamente – tremore sintomo di quel contatto fisico improvviso e non richiesto, e forse nemmeno voluto. Ma è quando la mente riaccende le candele della sua testa che si ritrova a dar un nome a quel corpo femminile, seppur in un contatto prettamente estraneo, permettendosi di far scivolare le iridi chiare proprio in direzione della sua spalla. Il respiro bloccato in precedenza per una singola ragione, viene abbandonato dalle labbra schiuse svuotando la toracica, mentre il battito cardiaco non si sa per quale stramba ragione ha perso il suo ritmo regolare per qualcosa di appena più accelerato. Lei può anche aver detto quelle parole in tutto ciò, che sanno di preoccupazione provata in tutto questo tempo, ma lui è ancora in quella fase di elaborazione, aggravata probabilmente da quella poca e praticamente nulla abitudine di ricevere qualcosa che possa essere definito abbraccio. Nella fase in cui elabora lo sguardo di lei, il suo movimento e poi proprio quel contatto che lo tiene per qualche secondo impigliato lì. Seppur sembra impossibile crederci, dopo lunghi istanti reagirebbe spostando proprio quel catalizzatore che passa dal colonnato alla schiena di lei, impugnandolo maggiormente, mentre il braccio si piega e finisce per cingerla passando dal fianco e fermandosi proprio al centro della sua colonna vertebrale, in concomitanza al braccio opposto che, invece, si solleva per cingerle il collo avvicinandola appena n po’ a sé. Il tutto condito da un respiro che torna a bloccarsi e che quindi lascia percepire quel riempimento della cassa toracica buttando fuori il petto. « In effetti non ne avevo abbastanza. » le aveva finite tutte.
« Tic. Tac. »
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la-ragazza-angelo-nero · 4 years ago
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Tu non stai bene ti si legge negli occhi ma non tutti gli sanno leggere e proprio per questo riesci a nasconderlo bene, tieni tutto dentro fino a quando non esplodi e quando succede distruggi tutto quello che trovi davanti te. Tu sei calma apparente ma dentro hai il caos.
Tu, ragazza sempre con le cuffie, io so perchè non le togli mai. Speri che con quelle parole il caos e tutto il dolore nella tua testa si plachino ma a volte nemmeno la musica può farlo perchè è troppo.
Tu che per distrarti da tutto questo dolore sei diventata la persona che speravi di non diventare, ora non sei piú quella ragazza dolce ma sei diventata una stronza apatica ma si sa che è solo una corazza la tua e che ad ogni crepa che subisce si rinforza fino a quando nemmeno il piú piccolo sentimento si mostra.
Tu che a causa di questa corazza non provi piú niente che non sia il dolore dentro di te hai provato tutte le distrazioni che trovavi iniziando con il fumo e quando hai visto che non bastava sei passata a qualcosa di piú pesante come l'alcool e la droga fino ai tagli.
Tu che sei arrivata a questo punto, dove ormai l'unica cosa a cui pensi è se saltare dal tetto o fare quel taglio. Soche in questo momento stai pensando a questo probabilmente con una bottigli e una canna.
Tu che ora non ci sei piú perchè l'hai fatto.
Tu che ora sei diventata un angelo ma non uno di quelli che descrivono tutti, tu sei uno di quello con le ali nere, uno di quelli che prende tutte le persone che come lui hanno sofferto e hanno fatto quel passo.
Tu sei un angelo custode, l'angelo custode dei suicidi e so che tra un po prenderai anche me.
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ross-nekochan · 4 years ago
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Limbo
Avevo accennato della mia conversazione con la mia coinquilina “che manco da uno psicologo” (cit.) e quindi eccomi qua a scriverla per non dimenticarla.
Il discorso è cominciato parlando della terza coinquilina 2001 (assente in quel momento), la cui sorella, a quanto pare, aveva rubato cose sue per poi rivenderle perché le servivano soldi. Dalle descrizioni sembra davvero una con la testa fuori posto perché ogni tot scappa di casa e non si sa dove va ecc. Così questa coinquilina mi chiede se io sono mai scappata di casa o se ho mai fatto cose del genere, cosa ne penserebbero i miei ecc. Figurati se mia madre con la testa che ha e con l’etica con cui ha cresciuto me e mio fratello, mi avrebbe mai permesso di fare una cosa del genere. Probabilmente dopo lo sconcerto iniziale, sarebbe venuta a prendermi per le orecchie.
Da qui poi, non ricordo nemmeno più come, mi parte il solito pippone sui miei genitori: mia madre sposata troppo giovane, troppo concentrata sulla nostra educazione sacrificando praticamente la sua vita per i figli, talmente tanto assorta ad educarci bene che ne siamo usciti troppo bene. Dopo le continue critiche che ascoltavo dalla sua bocca sulle mie cugine che cambiavano fidanzato ogni tot tempo o su quell’altra che faceva questo e quello, ne sono uscita praticamente incapace di instaurare rapporti interpersonali, specie con l’altro sesso. L’ultima sparata quest’estate: la ragazza che abita dietro da me (+1 vs me) si sposa e «che le vuoi dire ha avuto solo due fidanzati nella sua vita!». La mia coinquilina concordava, anche lei è come me in questa cosa, sebbene le sue cause siano ovviamente diverse. 
Qualche giorno prima di questa conversazione, parlando di cotte presenti e passate, lei mi diceva che non ce la farebbe a stare in una situazione di stasi, di tira e molla: «questa situazione di limbo mi manderebbe in bestia... se ti interessa qualcuno e questo non si muove allora devi fare tu il primo passo. Sennò mettici una bella croce sopra e basta, dimentichi», diceva. Mi ha fatto strano. A me piace il limbo, l’incertezza. Nell’incertezza io posso creare nella mia testa tutti gli scenari possibili (proprio io che ho fantasia zero), posso rimanere in quella costante tensione del desiderare ma senza afferrare. Ripensandoci con la mia (unica) cotta delle superiori (e della vita) fu così: 4 lunghi anni di osservazione senza un nulla di fatto. E parlando con la mia amica storica quando le ho riportato queste parole ha riso dicendo: «Tu nel limbo ci sguazzi proprio, altroché» ed è realmente così.
La premessa era necessaria perché ad un certo punto siamo arrivate a parlare della mia costante... apatia? Tristezza? Depressione? E del fatto che, a volte, penso di tornarci in terapia, però penso di non averne poi così bisogno. Lei mi dice che non è così, che se sento questa cosa dovrei andare per migliorare la situazione.
Il fatto è che mi sono rotta il cazzo di capirmi. Conoscermi mi sfianca, non ce la faccio più, non ne ho voglia. Non voglio più avere alcuna consapevolezza di me. Questo semestre è stato abbastanza devastante da questo punto di vista, per non parlare del fatto che sono sempre stata di un carattere cinico e analitico. Io non penso, io viviseziono. E arrivare al punto di conoscere altri pattern della mia psiche, quale giovamento mi porterebbe? Le consapevolezze portano solo ad altre sofferenze.
Le spiego che finché non sono in pericolo di vita (come mi successe anni fa dove veramente non vedevo più la luce in fondo al tunnel) va bene così. Io sono convinta che questa tristezza me la porterò dentro sempre, è il mio nucleo centrale, fa parte di me, è una base che non può essere demolita. Lei mi fa che queste potrebbero essere solo delle mie convinzioni e che solo provando, potrò davvero sapere se ciò che penso e dico è vero o falso.
Ecco, si ritorna al discorso di prima: a me non va di sapere se è vero o falso. Io sto bene in questo limbo dettato dalle mie convinzioni.
La sofferenza fa soffrire, ma allo stesso tempo è calda e ti culla. Non ne vuoi mai completamente uscire, le dico: «È come quando sei a letto d’inverno: sai che devi uscire ma quel tepore è così piacevole che non ti va di farlo». Apprezza la metafora, dice che è interessante e poi mi fa: «Però non pensi che magari uscita fuori dal letto, potrebbe capitarti qualcosa di piacevole che può svoltarti la giornata?»
«No, è questo il punto! A me non interessa affatto! Ed è proprio questo probabilmente la depressione: io nonostante sono consapevole che potrebbe capitami qualcosa di bello, io decido convinta di rimanere a letto. Non voglio andare a vedere cosa c’è fuori! Nonostante tutto, io imperterrita decido di voler rimanere nel mio limbo, nel calore della mia sofferenza».
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corneliaharris · 4 years ago
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Saint Valentine's Day.
« Senti ma » inizia mordicchiandosi un po` il labbro e puntando lo sguardo sui suoi anfibi che calpestano la neve « Ceh secondo te è stato strano stare lì in mezzo agli altri? » le pone così quella domanda ma non la guarda ancora in viso. « Tipo che adesso lo sanno tutti tutti » non si sa bene cosa voglia dire con questo, ma sicuramente vuole sapere cosa ne pensa lei, infatti torna pure a voltare un po` la testolina nella sua direzione per osservarla.
Quel “senti ma” la mette forse un po’ in allerta, gli occhi si posano sul profilo dell’altro e il fatto che non la stia guardando la agita un pochettino ma non dice nulla, lasciando che la domanda le venga posta. « Mh, strano… » ripete piano e poi seguono un paio di secondi di silenzio che si concede per articolare una risposta, evidentemente, con scarsi risultati visto che la prima cosa che dice è un « Non lo so » e ora è lei che distoglie lo sguardo. « Cioè io non so nemmeno cosa siamo » visto che non ne hanno mai parlato « Ma non m’interessa se lo sanno gli altri » su questo pare sicura « Anzi non m’interessa proprio degli altri, cioè che lo sappiano o meno… chissene » e quella è la loro filosofia, no? E torna pure ad alzare lo sguardo, cercando quello di Wes perché alla fine gli interessa solo di lui e infatti, dopo un po’ d’esitazione, chiede « Per te è stato strano? » e la voce esce sporcata da un velo di preoccupazione nonostante faccia di tutto per dissimulare.
Se inizialmente non trova tanto il coraggio di guardarla, alla fine il suo silenzio lo costringe a puntare di nuovo gli occhi sul suo viso per vedere la sua reazione. Resta in silenzio e la lascia parlare, i denti impegnati a mordicchiarsi un po` il labbro nervosamente e la mano che stringe un po` di più la sua. A quel "non so nemmeno cosa siano" rimane zitto, perché neanche lui lo sa e forse per ora neanche ci si è interrogato troppo. Ma sono le parole seguenti di Cornelia a fargli tirare un piccolo sospiro di sollievo, mentre al sentire quel "chissene" sul viso torna a spuntare un sorriso. Ancora non parla ma rallenta i passo, allungando l`altra mano per poggiarla sulla guancia altrui. E non risponde ancora neanche a quell`ultima domanda, preferendo allungarsi un po` con il tocco e avvicinare le labbra alle sue per stamparle un altro bacio decisamente meno sbrigativo e leggero rispetto a quello che le ha dato prima. « Chissene » le soffia sulle labbra, perché se a lei non frega nulla degli altri neanche a lui frega niente.
Parla ma l’altro non risponde e la cosa finisce per agitarla ancora di più e solo il sorriso che si allarga sul viso altrui al suo “chissene” finale ha il potere di farla tornare a respirare mentre imita lui, rallentando il passo. Il bacio non era qualcosa che si aspettava di ricevere ma lo accetta ben contenta con la mancina ancora stretta alla mano di lui e la mano destra che risale fino a poggiarsi sul collo altrui. E quel contatto ha il potere di rilassarla e quell’unica parola soffiata sulle sue labbra finisce per farla sorridere. Chissene rimane la loro filosofia.
« E non lo so che cosa siamo, so solo che ci sto bene con te » rivela allontanandosi un po` e alzando le spalle. « Però non come con gli altri » come con i suoi amici « In modo diverso » aggiunge tornando a mordicchiarsi un po` il labbro. « Però sì un po` è stato strano » alla fine risponde anche a quella domanda che aveva lasciato in sospeso. « Ma non per te, capito? » e questo ci tiene a farglielo capire, tornando a sorriderle. « E` che io ste cose non le ho mai fatte » ammette stringendosi un po` nelle spalle.
Gli rimane vicina e lascia che sia lui ad esprimersi, non lo interrompe perché la nota la difficoltà altrui, che alle fine è anche la sua e solo a quel “però non come gli altri” annuisce appena perché lo capisce, non lo sa spiegare ma sa a cosa l’altro sta facendo riferimento, probabilmente, perché prova lo stesso anche lei. E poi, alla fine, arriva anche la risposta alla sua domanda e la fronte si cruccia appena perché strano non è una bella sensazione e si preoccupa. Muove la testa in cenno d’assenso a quella domanda retorica « Lo so, ha senso » e non è ben chiaro se vuole rassicurarlo o se l’abbia capito davvero. « Nemmeno io le ho mai fatte » perché quel poco che ha avuto prima non è paragonabile « Forse è normale sentirsi strani all’inizio » ipotizza « Se vuoi.. » esita appena, distogliendo lo sguardo « quando siamo con gli altri…non so, ci comportiamo normali » ossia non come oggi « Cioè se preferisci » e nella voce non c’è nessuna inflessione strana, gli sta lasciando la scelta. E ancora non torna a guardarlo ma non ha comunque intenzione di allontanarsi.
Però quando si allontana, rimanendo comunque a pochi centimetri da lei, prova anche a rispondere a quella sua domanda. Con tutta la sincerità del mondo e mostrandogli che forse un po` per lui è stato strano. Cerca però di farle capire che quella sensazione di certo non è dovuta a lei, più che altro all`inesperienza che ha. Perché fino a qualche mese fa non si immaginava neanche minimamente di stare così con lei. « Penso di sì » concorda con lei per quanto riguarda il fatto che quella sensazione di stranezza sia dovuta forse al fatto che nessuno dei due sa bene come comportarsi. Però le parole che seguono gli fanno corrucciare un po` la fronte, gli occhi tutti su di lei mentre nota quell`espressione altrui un po` più preoccupata. « No » risponde subito togliendo la mano dall`intreccio con la sua per portare anch`essa sull`altra guancia di lei. Le alza un po` il viso guardandola più serio adesso. « Che significa normali? » chiede forse un po` stranito. « Non voglio fare così » non vuole comportarsi diversamente quando ci sono gli altri. « Se voglio stare con te o ti voglio baciare, lo voglio fare sempre » fa serio, anche con una certa enfasi. « E` stato strano sì, però abbiamo detto chissene degli altri » le ricorda, perché è stata lei la prima a tirare di nuovo fuori la loro filosofia. « Magari domani già non sarà più strano. Ci facciamo l`abitudine » torna a sorriderle, anche se un po` incerto perché quel cambio di umore altrui ora l`ha messo in allerta e ha paura di aver detto qualcosa di sbagliato.
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Ma la reazione dell’altro la stupisce e le iridi tornano sul suo viso dopo quel “no” pronunciato con una certa sicurezza, le palpebre sbatacchiano e le labbra vengono appena schiuse quando anche l’altra mano si poggia sulla sua guancia. Alza lo sguardo e cerca i suoi occhi ma non risponde a quella domanda, non subito. E le parole seguenti hanno il potere di farla sorridere, senza possibilità di controllare quel sorriso « Anch’io. » mormora ancora un po’ stranita da tutto quel discorso « A me non interessa degli altri » glielo ripete « Solo che non volevo ti sentissi a disagio a causa mia » mormora, tentando di spiegare il comportamento di poco prima « Volevo facilitarti le cose, ecco. » un po’ a disagio nel dire tutto quello ma non per questo meno sicura. E sorride anche lei « Ma se a te non importa e a me nemmeno » e sembra sia così « Allora saremo solo noi » qualsiasi cosa siano « E ci abitueremo » perché tanto chissene degli altri, no? Attenderebbe un minimo cenno di riscontro prima di farsi più vicina e sussurrargli davvero vicina alle sue labbra « E comunque ora voglio fare questo » cosa è abbastanza intuibile ma nel caso Wesley avesse bisogno di un aiutino per capire, lei un attimo dopo lo sta già provando a baciare.
Le mani sono entrambe sulle sue guance a tenerle su il viso così da poterla guardare negli occhi mentre ammette che tutto vorrebbe fare tranne che nascondersi. E solo quando la vede tornare a sorridere, si permette di rilassarsi. « No Coco » scuote un po` la testa utilizzando un tono decisamente più morbido. « Non mi fai stare a disagio » ammette sollevando le sopracciglia quasi a voler sottolineare l`assurdità della cosa. « Tutto il contrario se mai » e qua torna un po` a sorridere avvicinando il viso solo per sfiorarle il nasino con il suo. Ma una conclusione alle loro paranoie adolescenziali la trovano e lui torna a sorridere contento mentre prende ad annuire. « Solo noi va bene » perché l`importante è quello. E l`ultima frase gli fa spuntare un sorrisetto più divertito sulle labbra mentre pronuncia un « Che vuoi fare? » fintamente ingenuo. Ma non c`è tanto da rispondere dato che, mentre Cornelia si avvicina, lui fa lo stesso andandole incontro per accettare più che volentieri quel bacio.
Menomale, un attimo dopo, ci pensa Wesley ad essere chiaro e bastano quelle frasi a far sparire il peso che aveva sul petto, facendole anche nascere un sorrisone più rilassato sulle labbra, che si amplia alle precisazioni successive. « Ci credo » quasi in un sussurro « E scusa se ho detto quella cosa, solo che boh » una pausa piccolissima « non sapevo cosa fosse meglio » e poi sorride a quel dolcissimo naso contro naso « Ed è meglio così… » e quelle parole sono leggermente calcate con la voce « Non sono sicura che avrei saputo comportarmi normale » ridacchiano appena perché vabbè, è ovvio che si siano spinti troppo in là per far finta di nulla. Ma basta poco per scacciare le paturnie che entrambi hanno e dopo tutto quel parlare c’è solo una cosa che vuole fare. E no, non glielo anticipa al finto ingenuo Wesley quali sono le sue intenzioni, va invece incontro al suo viso, inclinando appena la testolina, dando finalmente vita a quel bacio particolarmente sentito, a cui concede tutto il tempo del mondo  mentre le mani sono poggiate sulla nuca altrui in un tocco leggero. E quando, per forza di cose, è costretta a separarsi dal ragazzo mormora ancora troppo vicina alle sue labbra « Ora lo sai cosa volevo fare » e sul viso ha il ghignetto furbo di una che la sa lunga mentre le ciglia sfarfallano e gli sorride. Ma un attimo dopo si fa appena appena più seria, allontanandosi un poco da lui « Cioccolata? » perché è quello che serve dopo una chiacchierata a cuore aperto ma ancora non si allontana da lui, né riprende a camminare.
Sorride a quelle scuse scuotendo la testa e lasciandole una carezzina sulla guancia con il pollice. « Così è normale » decreta alla fine perché ormai è abbastanza palese. Lo sanno loro, anche se faticano a dare un nome a tutto ciò, e lo sanno pure i loro amici. Fa il finto tonto poi quando lei ammette di voler fare una cosa, ma poi è il primo ad andarle incontro in quel bacio a cui dedicano tutto il tempo del mondo. Che è giusto così. Quando si allontanano lui fatica a togliersi il sorrisetto dalle labbra e le parole di lei gli fanno subito sbuffare una risatina. Troppo impegnati con le loro paranoie, si sono pure scordati che prima si stavano dirigendo in qualche locale per prendere qualcosa di caldo. Menomale che Cornelia glielo ricorda. « Assolutamente sì » accetta quindi allontanandosi a sua volta ma solo per tornare ad afferrarle una mano così da riprendere quella camminata verso la strada principale di Hogsmeade.
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volevoimparareavolare · 5 years ago
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Cronaca nera.
L’hanno scritto sui giornali. L’hanno annunciato i reporter per radio.
Sabato mattina, una ragazza di sedici anni é morta suicida, lanciandosi sui binari mentre arrivava il treno.
Per le strade, per la piazza, nelle aule della scuola, la notizia si diffonde.
E le persone parlano. E le loro parole hanno un sapore amaro, che contorce i loro volti in smorfie, in occhiate fugaci, in commenti bisbigliati all’orecchio e cenni d’assenso col capo.
E all’inizio non ci credo, ma lo stanno facendo. Stanno cercando di giustificare il suo gesto estremo. Senza nemmeno conoscere il suo nome.
E dicono che sicuramente era una ragazza triste, senza nessuno che si prendesse cura di lei.
Dicono che forse si tagliava i polsi e mangiava poco, per attirare attenzioni.
Dicono che probabilmente stava attraversando una crisi adolescenziale, destinata a passare, a sbiadire, come una macchia scura su una maglia bianca, dopo tanti lavaggi.
Ignorando che, nel mentre, il tessuto si rovina, si consuma, si logora.
Dicono, senza sapere.
Perché non sanno nulla.
Nulla, delle dodici notifiche, nel display del suo cellulare. Delle chiamate senza risposta di suo padre, che tutta la notte ha tentato invano di contattarla. E più fissava il suo nome sullo schermo, più questo si sfumava in una massa confusa a causa delle calde lacrime che gli riempivano gli occhi. Della morsa che attanagliava il suo petto, mentre ascoltava il cellulare squillare a vuoto. Bip. Bip. Bip. Bip. E intanto raddrizzava in modo compulsivo, ossessivo, la foto incorniciata della sua bambina, sulla sua scrivania, illudendosi che tramite quel piccolo tocco continuo, potesse arrivare a sfiorarla, a fermarla, a salvarla.
Non sanno nulla, dei singhiozzi di sua madre, così forti da fargli tremare le ginocchia, girarle la testa, e darle una vertigine tale da costringerla ad accasciarsi alla parete per sorreggersi. Dei giri in auto alla ricerca di lei, per tutta la notte. Coi fari accesi, le nocche delle mani sbiancate per la forza con cui serrava fra le dita il volante, la musica spenta, il cuore che batteva così forte da farle male, da chiuderle la gola come succede l’istante prima di scoppiare a piangere. In compagnia solo di quella terribile voce, come se ci fosse una bocca umida e puzzolente, che sussurrava al suo orecchio, sputacchiandolo di saliva, di aver fallito come genitore. Di aver perso per sempre sua figlia.
Non sanno nulla, della sua migliore amica. Che si risveglierà in un mondo senza di lei, senza il suo profumo, così dolce da pizzicargli sempre le narici, senza il suo nome sull’elenco, esattamente dopo il suo, senza le sue dita sempre pronte a farle il solletico e ad asciugarli le lacrime, carezzandogli con dolcezza le guance e ripetendogli parole gentili, in grado di tranquillizzarla. Perché lei lo sapeva. Era lei quella debole, quella che necessitava di continue rassicurazioni da parte sua.
Ma loro non lo sanno. Non ne hanno idea, eppure sono abbastanza presuntuosi da poterla giudicare.
Dicono che sicuramente era sola.
Dicono che forse nessuno faceva caso a lei, trattandola come se non esistesse, come fosse invisibile.
Dicono che probabilmente non era amata.
Ma loro non lo sanno.
Non sanno nulla di quel ragazzo, che la mattina aspettava il bus alla sua stessa fermata, e arrivava dieci minuti prima solo per poterla guardare camminare verso lui, i campanelli dello zaino che tintinnavano ad ogni passo, la sua ombra morbida che si allungava sulla ghiaia. Arrivava prima per poterla guardare salire sul bus e sperare, in quella frazione di secondo, che quella mattina si sarebbe seduta accanto a lui, e non alla sua migliore amica, come al solito. Non si arrendeva, ripromettendosi ogni giorno che, il successivo, le avrebbe sorriso, e avrebbe provato a salutarla, e magari le avrebbe chiesto di sedersi accanto lui. Non sanno nulla di quel biglietto ripiegato troppe volte su se stesso, che lui teneva nella tasca posteriore dei jeans in attesa del “momento giusto” per infilarglielo in borsa e, finalmente, palesarglisi. Erano poche parole, tremolanti per l’emozione che scorreva nelle sue vene mentre scriveva. In quelle parole, aveva lasciato parlare il suo cuore. Aveva scritto che era bellissima. E non trovava mai il coraggio di parlarle. E che amava il suono dei suoi passi, perché somigliavano ad una musica. E il modo in cui i raggi del sole venivano intrappolati dalle sue ciglia, dai suoi capelli, intessendola di luce. E adorava il neo vicino al suo nasino, e moriva dalla voglia di sentire come suonava il suo nome pronunciato dalle sue labbra.
Non sanno nulla, della sua professoressa di scienze, che da qualche settimana aveva iniziato a tenerla sottocchio. A controllare se durante l’intervallo mangiasse tutta la merenda. Se non restava sola durante i gruppi di laboratorio. Se facesse i compiti correttamente. Se non avesse il mascara sbavato dalle lacrime. Se non portasse ai polsi troppi braccialetti.
Loro non sanno nulla.
E nulla non sanno, del sorriso che le ha rivolto quell’anziano signore al supermercato, quando lei , vedendolo in difficoltà con le buste della spesa, si è offerta di portargliele fino all’auto. O di quando difese quel ragazzino in bus dalle prepotenze altrui, e lui, guardandola, desiderò diventare come lei, un giorno. O della gentilezza con cui rispose al cameriere, al posto che essere sgarbata come il cliente prima di lei.
Non sanno nulla. Nulla di tutte le persone che sono entrate a contatto con lei, e ne sono state felici. Nulla di chi ricorda il suo nome con un sorriso, con una parola gentile, con orgoglio.
E continueranno a non sapere nulla, nemmeno nei giorni seguenti.
Perché i giornali non lo scriveranno, ed i reporter non ne parleranno.
Non sapranno nulla della terapia di coppia che intraprenderanno i suoi genitori, nel disperato tentativo di sopravvivere ai loro rimorsi, e cercare di convivere col fantasma della loro bambina.
Non sapranno che suo padre, quella stessa foto incorniciata che carezzava ossessivamente la notte della disgrazia, l’ha ritagliata e la custodisce, come una reliquia, nel portafogli. E ogni sera, dopo aver parcheggiato in garage la macchina, resta seduto sul sedile, le portiere chiuse, la chiave in mano. Estrae il portafoglio dalla borsa. Si rigira fra le mani quella foto. E piange. Perché quella foto é tutto ciò che resta di sua figlia.
Non sapranno che sua madre esce prima dal lavoro e ripercorre la stessa strada di quella notte, coi fari accesi, le mani serrate sul volante al punto da sbiancarsi le nocche, la radio spenta, il cuore che palpita con una velocità tale da incrinagli le costole. E cerca fuori dai finestrini, verso le rotaie, verso le strade secondarie, illudendosi di poterla ancora trovare, di poterla ancora salvare. Lei, che resterà bloccata in quell’incubo per l’eternità.
Non sapranno nulla della sua migliore amica, e dei messaggi che continua a scriverle ogni giorno, delle sue telefonate senza mai ricevere risposta, del suo posto in bus che é occupato solo dal suo zaino, e dei brividi che le risalgono la schiena mentre arrivano alla sua vecchia fermata. Brividi che le congelano le ossa, e come puntine gli forano la pelle, quando dalle portiere lei non sale. Non sapranno nulla dei suoi polsi sempre più rossi, delle sue occhiaie sempre più livide, delle sue scapole sempre più sporgenti. Inizierà ad addormentarsi spesso, ovunque, sperando di non doversi alzare mai più, perché quel mondo, senza la sua migliore amica, é diventato troppo freddo, pieno di spigoli appuntiti, di chiodi, di pezzi di vetro, ed ogni volta che schiude le palpebre, é come la prima volta. La prima volta che, aprendole, ha dovuto affrontare una realtà in cui lei non ne faceva più parte.
Non lo diranno. Non lo diranno nemmeno i giornali. Nemmeno i reporter.
Non diranno che quel ragazzo, dopo aver letto la notizia, é corso in bagno, sbattendosi la porta dietro la schiena, e ha iniziato a vomitare, vomitare, vomitare. Che si é preso la testa fra le mani come se non volesse mai più vedere niente, perché lei era l’unica cosa che valesse la pena di guardare. Che ha sfilato il suo biglietto dalla tasca posteriore dei jeans, l’ha letto, e riletto, e riletto, fino ad impararlo a memoria. E poi l’ha strappato, e ancora e ancora, fino a sbriciolarlo. E si è preso a schiaffi. Si è graffiato la faccia. Si è picchiato fino ai lividi. Fino al sangue. E ora si odia. Perché magari, magari, quel biglietto avrebbe potuto salvarla.
e anche lui, come gli altri, si sentirà responsabile della sua morte, per tutta la vita.
Non diranno nulla su quella professoressa di Scienze. Lei darà le dimissioni, perché non riuscirà ad andare a scuola e cancellare il nome di quella ragazzina dall’elenco. Sostenere la vista del suo banco vuoto. La consapevolezza che, camminando nei corridoi, non la incontrerà.
Non hanno detto niente. E non diranno niente.
Non diranno che la storia di quella ragazzina di sedici anni é la stessa di tantissime altre persone. Magari più grandi. Magari più piccole. Magari di un’altra nazionalità. Magari di un’altra religione.
E non diranno di fare attenzione. Perché proprio come quella ragazza di sedici anni, non sempre chi sta male, piange. Anzi, talvolta il viso di chi soffre di più si può sciogliere in un caldo sorriso. E tu lo amerai, quel sorriso, inconsapevole che quella é l’ultima volta che lo vedrai.
Non diranno di guardare i propri figli negli occhi, quando parlano. Di baciargli la fronte, quando sono arrabbiati. Di abbracciarli, prima che escano. Di sedersi accanto a loro nel letto, quando hanno avuto una giornata triste, di stringerli le mani, e di chiedergli come stanno, cosa è successo, e di ascoltarli per davvero. Di dedicargli il nostro tempo. Le nostre parole. Il nostro affetto.
E ricordagli che non sono soli. Ma amati. E importanti. E la loro esistenza su questa terra fa la differenza. E che i giorni brutti sbiadiranno, saranno portati lontano dal tempo, e ne arriveranno di nuovi, di belli, che varrà la pena viverli.
Tutti pensavano che quella ragazzina non era amata.
Ed invece era stata amata molto, da moltissime persone.
Ma l’amore non basta a salvare qualcuno.
Nemmeno una di queste persone, infatti, è stata in grado di dirglielo, di ricordarglielo, di dimostrarglielo, in tempo.
Il tempo.
Facciamo sempre l’errore di credere di avere tanto, tantissimo tempo, a nostra disposizione.
Che illusi. Ci sbagliamo. Ci sbagliamo completamente.
Tutto quello che abbiamo, é il presente.
Tutto quello che abbiamo, per salvare qualcuno, é ora.
-Alessia Alpi, scritta da me.
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