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dylan-diary · 1 year ago
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dylan-diary · 2 years ago
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CLEA ISOLDE EDEVÁNE
15 aprile, 2023 da Dylan Thomas Edeváne
Parte 1
Lavorare nelle ore notturne lo stancava molto, ma quel giorno in particolare si sentiva più stanco che mai. Clea, sua figlia, aveva avuto le coliche dalla notte precedente, non era riuscita a dormire e lui assieme a lei. Avevano passato molte ore al pronto soccorso del Los Angeles Community Hospital e dopo aver dato delle gocce alla bimba e averlo tranquillizzato che nelle ore successive si sarebbe calmata, erano ritornati. Aveva preso ciò che gli avevano prescritto ed era rimasto a casa assieme a lei, sperando che almeno Clea riuscisse a riposare. 
La sua ragazza, Grace, lavorava in un diner ma era tornata solo quando lui doveva entrare nuovamente a lavoro ed era finalmente riuscito a far addormentare la piccola, aveva montato su scuse così assurde, affatto valide dato che lei aveva orari specifici e tornava ad ogni pausa. In un’altra situazione lo avrebbero fatto innervosire, ma era troppo stanco per dare spago ai propri pensieri, anche perché erano ormai due mesi che andava avanti così ed era esausto anche di litigare.
Prendeva le ordinazioni con una lentezza tale che persino la ragazza che aveva messo come caposala, Lesli, gli disse di ritornare a casa. Non se lo fece in realtà ripetere, era il proprietario e capo del pub, non voleva lasciare troppo lavoro ai suoi dipendenti ma né la notte né il giorno aveva dormito, perciò per non intralciare si diresse a passo svelto di sopra.
Quando rientrò a casa, sua figlia dormiva ancora tranquilla. Il silenzio regnava nel suo appartamento tranne un vibrare continuo sul comodino della ragazza. Erano le tre di notte, chi le scriveva con così tanta insistenza? La curiosità cresceva ed una strana sensazione andava ad insinuarsi nello stomaco. Non voleva prenderlo, non voleva. Era oltre la fiducia, la privacy. Il telefono vibrò ancora, illuminò il suo volto nella più totale oscurità, ormai si trovava troppo vicino e poté leggere solo un nome e un messaggio senza toccare niente. 
Lui non rispose, uscì dalla stanza lasciandola lì, andando in cucina a prendere da bere. Voleva solo finire dentro ad un bicchiere, versare pure sé stesso lì dentro e perdersi per sempre. Quella era la madre di sua figlia e sempre lei aveva buttato tutto al vento per una scopata, o forse per molto di più. Era riuscita a distruggere tutto in un solo secondo. Non riusciva a pensare con lucidità ed in realtà bere non lo avrebbe aiutato, al massimo a dimenticare quella notte fino al giorno successivo. Magari sarebbe riuscito a crollare sulla sedia e finalmente riposare.
« Mi hai guardato il telefono. »
Grace uscì dalla stanza in punta di piedi infilandosi la vestaglia con velocità appena fu fuori, accostando dietro di sé la porta. Il tono che aveva era accusatorio e mentre l’uomo prendeva un sorso del liquido ambrato gli venne da ridere, 𝑙𝑒𝑖 era arrabbiata. 
« Sei seria? Parli di fiducia? Fatti sbattere da Omar e parla di fiducia con lui. Non ti avrei mai guardato il telefono se quel coso non avesse vibrato così tante volte. Forse pensava che ti ci potevi masturbare.
Nostra figlia ha avuto le coliche tutto il giorno e tutta la notte mentre ti sbattevi un altro, perciò non parlarmi di fiducia e stai zitta. »
Le ultime due parole le disse in un modo così freddo che vide come si era ammutolita, perdendo quella sorta di spavalderia. Non aveva alzato la voce nemmeno un secondo, il pensiero che Clea potesse svegliarsi e non riposare come stava facendo rimaneva un punto fermo nella sua testa. 
Grace non poteva parlare di fiducia, i pensieri ora giravano come un tornado. Nell’ultimo mese aveva detto che il capo non l’aveva pagata e che la clientela era sempre meno, probabilmente l’avevano licenziata e lei usciva per vedere quella persona, oppure era vero ed Omar era un cameriere come lei, un cliente, un tizio conosciuto in metro. Le teorie si facevano strada nella sua mente e per cacciarle decise di prendere un altro sorso, anzi finire direttamente tutto il bicchiere e fermò il desiderio di lanciare contro il muro quest’ultimo. 
« Io - Io.. »
Le parole della ragazza le morirono in gola. Stava probabilmente capendo solo in quel momento la situazione per davvero o almeno era quello che lui pensava, quando alzò gli occhi verso di lei, non c’era colpevolezza ma anzi solo rabbia e questo lo fece infuriare dentro.
« Non dovevi comunque leggere i miei messaggi. Te ne avrei parlato. »
Lì non riuscì a trattenersi e si lasciò andare ad una risata molto aspra e notò come Grace diventava rossa in viso. Si notava come negli occhi dell’uomo non c’era alcun tipo di ilarità ma che fosse solo uno sfogo personale. 
« Mi prendi pure in giro. »
« Ma ti ascolti quando parli? Ci credi davvero? Non me ne avresti parlato chissà per quanto. Volevi farlo? Bene. Ora è perfetto, prego. » 
Disse lei sedendosi sulla sedia che aveva indicato qualche attimo prima, con fare spavaldo. Una delle cose che a Dylan piaceva molto ma che in quel momento odiava. Come ogni altra cosa di lei. 
« Te l’ho già spiegato. Continuava a vibrare. Sei stata via tutto il giorno e tutta la notte, al diner non faresti mai un turno così lungo e diciamo che il mio istinto ha fatto 2+2 mentre il tuo telefono vibrava continuamente. Che fai non gli rispondi? Poverino, starà aspettando la sua stronza. » La sua voce per l’ultima frase suonò come addolcita a mò di bambino, solo per prenderla in giro. 
« Come mi hai chiamato? » alzò leggermente il tono per poi rimanere in silenzio in ascolto, capì che stava cercando di sentire se la figlia dormiva.
La rabbia era così forte che le mani tremavano visibilmente, tanto che il liquido all’interno del bicchiere andava da una parte all’altra come se presto si sarebbe trasformato in un mare pieno di onde. Sembrava che quello che aveva fatto non aveva un reale significato, che fosse giustificabile e che la sua reazione fosse esagerata. Non si sarebbe però fatto manipolare da quell’atteggiamento, la persona che aveva davanti era minuscola per lui e non gli importava se trovava un milione di scuse, se lo avesse accusato di qualsiasi cosa, non avrebbe accettato nulla.  
Provava in realtà più ribrezzo per sé stesso per non essersene accorto, per essersi fidato di una persona che invece lo aveva deluso. Respirare stava diventando difficile, perché era troppo da digerire. La loro figlia dormiva beata nell’altra stanza e ora si sarebbe dovuta sorbire sicuramente mille sballottamenti che non avrebbe mai pensato di doverle infliggere. Tutto l’amore che provava era svanito in quel messaggio e la rabbia, tristezza, delusione lo invadevano come un cavallo di troia.
Era stanco e in quel momento il sonno era scomparso come una nebbiolina, ma sentiva le occhiaie pesargli sotto gli occhi.
« E tu hai ben pensato di tradirmi e non di parlarne apertamente, giustissimo. Poi non hai nemmeno provato a comprendere perché? Tu hai preso il doppio turno e sia i miei genitori che i tuoi non vivono a Los Angeles, dobbiamo cavarcela da soli. Era per avere il meno tempo possibile momenti totalmente scoperti. Io non lascio mia figlia con una qualsiasi sconosciuta e Consuelo c’è solo il pomeriggio. Io però non ho bisogno di giustificarmi, tu hai sbagliato e questo discorso non riparerà nulla, dovevamo farlo prima e non lo hai fatto. »
Lo sguardo di Grace era un misto tra deluso e arrabbiato, ogni volta che aveva quell’espressione corrucciata le si formavano delle rughe profonde in mezzo agli occhi. Cose che prima notava di lei e trovava meravigliose ora non avevano lo stesso valore, il ribrezzo per le sue azioni era troppo forte. Sapeva che ben presto il suo metodo per tenere tutto fuori sarebbe saltato allo scoperto, risultando l’uomo freddo che le persone che chiudevano con lui trovavano davanti, un muro che aveva imparato a tenere su e che gli era sempre tornato utile. 
« Ho conosciuto Omar una sera alla tavola calda, avevamo litigato e lui era lì che mi regalava sorrisi. » si fermava ogni tanto, come a scavare dentro la sua testa un ricordo che le faceva male, ma nello sguardo di Dylan non c’era pena ma l’ascoltava. « Mi ha offerto la cena prima che tornassi a casa, che come sai noi mangiamo dopo il servizio. Mi ha aspettato alla macchina e mi ha chiesto di uscire il giorno dopo, perché aveva sentito che non avevo il turno. »
« Mi ricordo quel giorno, la mattina dopo ti ho portato la colazione e abbiamo fatto l’amore prima che io andassi a lavoro, mi hai detto che però saresti andata a lavoro quando io staccavo. »
« Sì » rispose senza nemmeno guardarlo. 
« Tu hai fatto sesso con me la mattina e la sera sei uscita lo stesso con quell’uomo. » registrava le informazioni ma dentro di lui sentiva come dei vetri che si rompevano mostrandogli un verità che non voleva, il dolore che provava era niente in confronto alla rabbia che non si calmava.
« Da lì è iniziata la nostra relazione, diciamo »
« Grace » la ragazza alzò gli occhi verso di lui di scatto, come ripresa da qualcosa. « Mi fai schifo. Hai detto che il problema ero io, che non dimostravo niente. Abbiamo fatto sesso lo stesso giorno che hai iniziato una relazione con questo uomo, mi hai detto che mi amavi lo stesso giorno, mi hai detto ti amo tutti i seguenti giorni. Tu vuoi farmi sentire in colpa perché ho messo nostra figlia prima di te, ma in realtà quello che volevi era scappare dalle tue responsabilità. Io non sono fuggito, non ho guardato un’altra donna, non mi sono messo a fare un doppio gioco, perché anche se ne avessi avuta la possibilità avrei messo voi al primo posto e tu invece hai messo prima te, su ogni cosa. Spero che questo uomo ti renda felice perché con me non avrai più niente a che fare, sei la madre di mia figlia e nient’altro. Non voglio più vederti se non in occasioni che riguardano mia figlia, per il resto tu non sei nessuno per me. »
Lei si alzò mentre l’uomo parlava, come se le parole che stava pronunciando fossero stupide, orribili e non per lei. Lo guardava ogni tanto mentre si mordicchiava le unghie, come per capire cosa fare.
« Quindi è finita? »
« Ah perché volevi continuare questa relazione poliamorosa? » scoppiò a ridere. 
« Smettila di prendermi in giro, non provi nemmeno a sistemare, a dirmi che possiamo migliorare, abbiamo una famiglia insieme. »
« Vero, abbiamo una figlia, ma sei stata tu a fare l’unica cosa che io non vorrò mai sistemare. Hai perso la mia fiducia totalmente, non è recuperabile e non lo sarà. Non possiamo migliorare perché lo hai deciso tu, non so cosa tu pretendessi da me avendo una relazione a mia insaputa.
Ti dirò cosa succederà ora, tornerai a dormire e domani chiamerai quel ragazzo per chiedergli di ospitarti, o tua madre, o chiunque tu voglia e te ne andrai. Porterò Clea a fare una lunghissima passeggiata, perché anche se ha 6 mesi non voglio che le rimanga impresso la madre che porta via le cose. Capiremo poi come fare per la custodia, se vuoi passare in modo legale lo farò perché di mia figlia m’interessa. Vedi tu cosa fare.»
Dylan era serio mentre parlava, non c’era compassione o comprensione, si era rotto tutto. Come se a quella casa fatta di vetro avessero tirato un martello e lentamente, in quelle ore, fosse crollata ogni cosa. Il suo unico pensiero era rivolto a Clea, a come avrebbe fatto per vederla il più possibile. La ragazza si alzò senza dire nemmeno una parola, solo in quel momento l’uomo si accorse che stava piangendo ma non gli importava, tornò in stanza dalla loro figlia e non uscì più. Lui rimase lì provando a capire cosa fare, a quanto avrebbe dovuto pagare per un buon avvocato probabilmente avrebbe dovuto chiamare i suoi fratelli, ma ci avrebbe pensato poi. Erano le 7 di mattina ed erano ormai due giorni che non dormiva, ma non gli importava di nulla nemmeno di sé. Stava pensando a tutte le cose che aveva sbagliato, ma non avrebbe cambiato nulla. A quante volte aveva baciato lui mentre poco prima aveva baciato Omar, o viceversa. A quante cose gli erano sfuggite, quanti segnali che per stanchezza aveva lasciato correre. Un tradimento rimaneva quello, pure sei lei avesse detto qualunque altra cosa. Non sapeva cosa sarebbe successo poi, ma non avrebbe mai lasciato andare la sua bambina. 
La mattina seguente lei si svegliò dopo che Dylan aveva già fatto la doccia, aveva preparato lo zaino con tutte le cose che servivano a Clea per la passeggiata e aveva già avvisato a lavoro che si sarebbe preso un giorno o forse due. Non aveva dormito nemmeno un secondo, solo rimuginato su come comportarsi, aveva guardato molti avvocati e allo stesso tempo aveva guardato su internet. La custodia andava sempre alla madre, nel momento in cui l’aveva letto dalla sua bocca uscivano solo imprecazioni. Lui aveva un lavoro stabile, poteva mantenerla, la casa era sua mentre lei non aveva niente eppure rischiava la figlia e pure la casa. 
« ‘Giorno, vado a svegliare Clea. Torneremo verso le 18, perciò vedi come fare. Ciao Grace. »
Il suo tono non era cambiato dalla sera prima, sentiva il peso delle due notti e la stanchezza non passava, ma l’adrenalina nemmeno. La donna non rispose, annuì con la testa mentre i suoi occhi gonfi e rossi facevano intuire che non aveva dormito nemmeno lei, ma questo a lui non importava affatto. 
Passò la giornata con Isolde, che grazie alla medicina sembrava più tranquilla. Aveva fatto un finto picnic sulla spiaggia, cullandola con il rumore del mare e raccontandole storie sul surf. Si erano spostati poi al parco, anche se ovviamente con lei di soli sette mesi l’unica cosa che riusciva a fare era trascinarsi sul prato e Dylan provava a non fargli mangiare la terra. 
Alle 18 in punto furono a casa e trovarla a luci spente fu quasi un sollievo, guardare la ragazza che ancora prendeva le sue cose o peggio piangeva era l’ultima cosa che voleva. Non provava affatto pietà per lei e nemmeno per averla cacciata così, pensava solo che doveva andare incontro alle conseguenze delle sue azioni ma mentre entrava notò un biglietto sul tavolo, si aspettava qualche minaccia. Sistemò Clea sulla moquette che Consuelo puliva giornalmente solo per lei e lesse il biglietto.
“Hai ragione, stavo scappando dalle mie responsabilità che sono davvero troppe. Non mi sento una madre, nemmeno una buona fidanzata. Non so ancora cosa voglio dalla vita, voglio scoprire e fare nuove esperienze. Quindi ti lascio Clea, so che con te starà bene e sarà amata come merita, come io non riuscirei a fare. Mi dispiace per tutto. Stai bene.”
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dylan-diary · 2 years ago
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HOW IT STARTED
15 aprile, 2023 da Dylan Thomas Edeváne
Era una sera come le altre, o almeno doveva esserlo. Un'altra notte passata ad osservare il fondo del bicchiere vuoto che faceva solo venir voglia di riempirlo ancora.
Dopo otto anni dalla morte di Sophie non era cambiato nulla, aveva finito la scuola solo per non rimanere tra le mura di un posto che gli urlava la sua presenza, che ora non camminava più tra quei corridoi.
La nascita di sua sorella era forse l'unica cosa che lo aveva un po' tranquillizzato, attenuando i pensieri ossessivi che non lo lasciavano respirare, ma che assieme a lei o all'alcol lo alleggerivano drasticamente. Innamorato o annebbiato.
Blythe, suo fratello minore, aprì la porta come fosse il padrone del posto mentre si sedeva di fianco a lui con aria torva. Quel luogo aveva i colori caldi, accoglienti. Come entrare in casa per una cena di famiglia dopo che litigavate da settimane e finalmente facevate pace, perciò la soluzione migliore era bere insieme. La sensazione entrando in quel posto era esattamente quella, mista però a disagio perché Wendy, cliente assidua quasi quanto lui, non faceva che mettere Taylor Swift alla radio e la cosa stonava non poco.
«Sapevo di trovarti qui». Con il pensiero probabilmente aveva detto “ancora”, ma lo aveva taciuto solo per non farlo crogiolare più di quanto non lo stesse facendo in quel momento. Non era abbastanza ubriaco e si vedeva dall'espressione che teneva sul volto. Quella che aveva ogni giorno da otto anni, ormai. Da quella notte.
«E dove altro potevo essere.»
«Speravo non qui, ma a casa.» Il suo tono acido non lo colpì affatto, suo fratello era noto per il carattere e di certo non lo avrebbe addolcito con il maggiore che se ne stava lì a bere.
«Non ci torno a casa sta sera. Pensavo al mio bicchiere che ora è vuoto.» Fece un gesto con la mano e il barman prontamente glielo riempì mentre lui tirava fuori il portafoglio per lasciare le banconote sul bancone, che l’altro prese tornando ad asciugare i bicchieri che erano appena usciti dalla lavastoviglie.
«Ma tu guarda.» fece un sorrisino sfrontato e prese un sorso voltandosi verso il minore che non smetteva di guardarlo. «Dimmi Blythe, cosa c'è?».
Il fratello fece un sospiro come a provare a soppesare le parole, forse non voleva turbarlo di più. Odiava questa cosa, odiava che chiunque sentiva di doverlo toccare con le pinze. Probabilmente per questo amava sua sorella, lei non aveva un trattamento di riguardo nei suoi confronti. Non cercava di non tirargli il cibo in faccia solo perché lui era terribilmente triste, lo faceva e basta. Se doveva fargli una ramanzina spiegando perché l'alcol non era la soluzione doveva farla e basta, lui come suo solito se ne sarebbe semplicemente andato però non avrebbe dovuto sorbirsi lo sguardo che in quel momento aveva.
«Dylan torna a casa, non stare qua a bere. Possiamo magari portarci una birra e guardare un horror alla tv.» Era sincero ma in quel momento non ne aveva bisogno. Non voleva distrarsi con una birra. Non voleva distrarsi guardando un film schifoso che poi avrebbero commentato come tale. Non voleva niente, o per lo meno sì ma nessuno poteva restituirglielo e doveva farci i conti ogni momento.
«Lo so, Dylan. La tua risposta è sempre no a tutto.»
«No ehi, non a tutto.» Indicò con gli occhi il bicchiere che teneva tra le mani. Le battute che faceva erano l'unica cosa sana che riusciva a fare, i sorrisi che gli uscivano beffardi almeno erano reali e non quelli che regalava ai genitori quando gli dicevano qualunque cosa.
«Io penso che se tu la smettessi di buttarti via ricaveresti qualcosa da quel "buco"» Marcò l'ultima parola come fosse più importante, senza contare che non la pensava allo stesso modo. Non si stava buttando via, stava facendo l'unica cosa che riusciva a fare. Era stato scaricato dall'ultimo lavoro che aveva cercato, il giardiniere per una strada che gli faceva schifo perciò la cosa non lo aveva molto toccato, ma era la spiegazione che pur facendo qualcosa le persone sapevano solo sputargli in faccia.
«Che non volevano più i miei servizi, penso che la moglie mi guardasse troppo e quel coglione l'ha presa a male.»
«Ma non possono.»
«Sì che possono. Possono eccome.» Un'altra volta quel tono aspro era uscito quasi sputato dalla sua bocca. Non provava astio per il fratello, ma per tutto il resto che sembrava solo fare più schifo.
«Certo, mando il fratellino minore a dire che la moglie non deve fare la promiscua, ma tenersela tra le mutande. No, grazie. Passo.» Svuotò il bicchiere, serrando poi le labbra passandoci la lingua in modo duro. Il sapore era forte, ma sembrava come fosse acqua, purtroppo non quelle parole. Quelle non scendevano affatto.
«Non hanno il diritto di licenziarti. Madonna, mamma ti ammazza. »
Schioccò la lingua contro il palato in modo secco e l'angolo della bocca poi piegò verso la guancia.
Il barista fece una risata e questo fece girare anche Blythe che odiava chi prendeva parte alle conversazioni senza essere il diretto interessato, soprattutto non richiesto e prima che il fratello gli mandasse all'aria l'unico bar che sopportava gli poggiò una mano sulla spalla come a chiedergli tacitamente di starsene buono. Lui di rimando rilassò i muscoli contro le proprie dita. Si erano capiti.
«Cosa ridi James?» Si pentì di averlo chiamato per nome perché subito dopo l'attenzione di Blythe si spostò su di lui. Era la conferma che passava troppo in quel posto e ci avrebbe giocato le palle che avrebbe ricordato pure questo alle prossime ramanzine che teneva tutte nelle tasche dei suoi pantaloni, doveva solo srotolarle con non molta difficoltà.
«Penso che sia l'ultima sera che passeremo insieme. Chiudo i battenti, Dylan.» Quello sì che fu un tuffo al cuore ed il fatto che quella frase gli facesse male la diceva lunga sul suo conto. Non andava solo lì a bere ma anche per starsene per conto proprio, perché lì nessuno sapeva chi era se non il barista e non riceveva gli sguardi si pietà.
«Lo è mai?» Si avvicinò a loro e si appoggiò al bancone. «Mia moglie sta per partorire e io non posso più fare la notte, la gestione familiare non funziona più. Mia moglie sicuramente non può più lavorare da un po', io di fatto d'ora in avanti dovrò esserci e i due dipendenti che avevo mi hanno mandato a quel paese.»
Le parole che gli uscirono dalle labbra lo avrebbero cambiato per sempre.
«Lo prendiamo noi, a quanto lo metti?» Blythe si voltò di scatto e gli uscì un'imprecazione che ignorò totalmente.
«A quanto lo metti?»
Nel suo sguardo forse ci vide qualcosa perché da come lo stava guardando si capiva ci stesse pensando davvero su.
«No, non hai capito. È tuo, non lo voglio in mano a qualche stronzo. Tu conosci i clienti, mi hai dato una mano qualche volta, sei un bravo ragazzo. Diciamo che la vita ti sta regalando qualcosa, perciò prenditelo... » Lo guardò da cima a fondo come se in lui ci vedesse qualcosa che gli altri non potevano scorgere in quel momento. Eppure era importante e stava lì in piena vista. Nemmeno guardandosi allo specchio l'avrebbe notato, ma James sì. Gli stava regalando l'occasione più importante della sua vita, un impegno forse più grande di lui ma che in quel preciso istante era tutto ciò che desiderava. Negli occhi balenò un lume di speranza, di certezza e di bisogno. Blythe lo notò perché dalla imprecazione iniziale ora dalle sue labbra usciva. «Dove dobbiamo firmare?»
Si voltò verso il fratello impressionato da quel 'dobbiamo', si stava per prendere carico assieme a lui di un bar che aveva frequentato qualche volta solo per recuperarlo nelle serate più buie. Quel posto che lo aveva accolto senza giudizi lo stava prendendo ancora una volta sotto la sua ala, poteva forse chiamarlo destino ma dentro di lui si smosse qualcosa: la speranza.
Il vialetto di casa era deserto, segno che in quel momento non c'era nessuno a casa. Parcheggiò la macchina vicino al marciapiede bianco, rimanendo fermo ad osservare il volante. Pensava che avrebbe passato la serata a smaltire la sbornia ed invece eccolo lì lucido, con un nuovo impiego. James si era offerto di assumerli entrambi per i successivi due mesi, per poter insegnare loro il lavoro e lasciargli poi direttamente tutto il locale. Si chiedeva come aveva fatto per potersela meritare ma i suoi pensieri vennero interrotti dal fratello che bussava sul finestrino, chiedendogli a gesti cosa stesse facendo.
«Te lo meriti.» Sembrava avergli letto nella mente, anche se era solo una piccola parte delle mille cose a cui stava ragionando in quel momento. Annuì con la testa superandolo poi per andare verso casa.
Era buia quando aprì la porta e mentre si toglieva la giacca il fratello accese tutto osservandolo, sembrava che cercasse di capire le sue intenzioni perciò per togliersi dal suo sguardo indagatore sparì in cucina per prendersi da mangiare.
«Sei convinto di questa scelta?» Doveva immaginarselo che non se lo sarebbe tolto di dosso finché lui non si fosse sentito tranquillo davvero.
«Penso sia la scelta migliore da quando è successo quello» La voce tremolò un attimo «un lavoro nostro, solo nostro. Potremmo smettere di incazzarci, potrò smetterla di sentirmi un totale fallito nel non riuscire in nulla. Tu potresti continuare a studiare recitazione.» Le nocche della mano che stringeva ora il tavolo diventarono bianche. «Ho bisogno che qualcuno creda in me. Che tu creda in me. »
«Non avrei deciso di firmare il foglio se non credessi in te.» La sua voce invece era calma. «Come ci crederebbe Sophie e so che è la sua di approvazione che vorresti, non solo la mia. Credo in te Dylan e facciamo questa cosa. »
«Siamo a casa!» La madre entrò in cucina con delle buste tra le mani che prese subito Blythe, mentre una piccola testolina bionda cercò con gli occhi qualcosa ed appena vide Dylan gli corse incontro volendo farsi prendere in braccio, cosa che il fratello fece immediatamente.
«Dylan ha una novità.»
«Quale? »
Stava firmando il contratto per il nuovo locale a Los Angeles assieme al nuovo appartamento che Blythe e Dylan avevano preso proprio sopra di esso. A trent'anni era riuscito a prendersi un appartamento proprio ed ora finalmente avevano deciso di trasferirsi.
« Edeváne's pub» disse l'uomo che stava prendendo i fogli da sopra il bancone di quello che prima era un night club ed ora solo una stanza spoglia. «Va bene, qui c'è tutto. È ufficialmente vostro.» Si diedero la mano e lui uscì dalla porta.
Lune, la sorella minore, guardava da dietro la porta e capendo che aveva il via libera entrò immediatamente guardandosi intorno. Era la prima volta che lo vedeva fisicamente e non solo in foto, perciò si poteva notare la sua curiosità, o per lo meno agli occhi dei suoi fratelli che la conoscevano.
«C'è anche il mio palo per la lap dance.» la sorella scherzava, anche se lo sguardo dei due ormai uomini non ridevano e questo la fece scoppiare in una fragrante risata. «Comunque dai è un bel posticino, ma gli manca qualcosa.»
«Cosa?» Chiese Dylan e solo in quel momento notò che la ragazza teneva qualcosa dietro la schiena, che si portò poi davanti. Era una cornice, ma non faceva vedere la foto. Si guardò intorno e all'ingresso, sul muro accanto alla porta, notò un chiodo scoperto.
«Qui sarà perfetta.» Posizionò lì la foto e sia il maggiore che Blythe le posizionarono di fianco per guardarla. Lune poggiò le mani sui fianchi dei due per abbracciarli.
Essa ritraeva l'intera famiglia, una piccola Lune tra le braccia del padre che ora non c'era più, la loro madre e i due fratelli di fronte al Sophie's.
«Hai ragione, è perfetta.» La lasciò un piccolo bacio tra i capelli della minore per poi allontanarsi a guardare ora il nuovo posto.
«Tu sei una minorenne, non potresti stare qui.»
I due iniziarono a battibeccare mentre lui se ne stava appoggiato al bancone ora guardando nella loro direzione. Gli anni erano passati, non ne aveva più 26, non era più il ragazzino che aveva bisogno di qualcuno che credesse in lui e se ne avesse avuto bisogno sapeva che sia Lune che Blythe ci sarebbero stati.
𝟏𝟒 𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚
Lune dormiva ormai profonda tra le braccia del maggiore e un leggero bussare gli fece alzare lo sguardo era Blythe.
«Volevo solo dirti che io sarò con te fino alla fine fratello.» e senza aspettare risposta uscì dalla stanza.
Dopo quattordici anni poteva dire che fosse vero, ma quella sera andò semplicemente a dormire con qualche sogno in più e due certezze al suo fianco.
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