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INANNA DISCENDE NEGLI !NF3R1: ANALISI DEL POEMA E DELLA LA SOCIETA' SUME...
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Bruce Chatwin, l’esteta irrequieto (…e gli incontri con Malraux, Jünger, Klaus Kinski, Nadežda Mandel’stam)
Bruce Chatwin aveva gli scarponi al collo e la faccia da angelo in ceramica. “Bruce è un nome di cane in Inghilterra (non in Australia), ed era anche il cognome dei nostri cugini scozzesi. L’etimologia di ‘Chatwin’ è oscura, ma lo zio Robin, suonatore di fagotto, sosteneva che in anglosassone chette-wynde voleva dire ‘sentiero tortuoso’. Il nostro ramo della famiglia risale a un fabbricante di bottoni di Birmingham, ma in un angolo remoto dello Utah esiste una dinastia di Chatwin mormoni, e di recente ho avuto notizia di un signor Chatwin e signora, trapezisti”, scrive, declinando l’oro della sua stirpe, nel documento autobiografico Ho sempre desiderato andare in Patagonia. Tra gli avi nobili, Chatwin, figlio di buona famiglia – padre avvocato e impegnato nella Royal Navy – nato il 13 maggio del 1940, cita uno “zio Geoffrey, arabista e viaggiatore del deserto, che al pari di T.E. Lawrence ebbe in dono dall’emiro Feisal un aureo copricapo (poi venduto), e morì povero al Cairo”. Ecco: Chatwin fu l’opposto di T.E. Lawrence. All’avventura spiritata preferì l’ordinario nomadismo; alla dissipazione lo spirito ironico; alle vaste campiture narrative con aggettivi magnetici una scrittura lucida, con dedizione all’intarsio. Mi è sempre parso che Chatwin proponga un’irrequietezza da sorbirsi in cottage, in sedentaria solidarietà; d’altronde, le Moleskine si comprano immaginando un fittizio Capo Horn, decrittando le imprese che non condurremmo mai.
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A proposito. In Patagonia è ritenuto il libro più bello di Chatwin: inizia con “un pezzo di brontosauro” e fonda una breve azienda turistica. Pubblicato nel 1977, è ‘di culto’ da quando Chatwin vaga nella Patagonia celeste, era il 1989. Nello stesso tempo, Chatwin fa qualcosa di antico – piglia l’acutezza di Ruskin e di Walter Pater – e di moderno – viaggia on the road. E viceversa. Per me, il libro più bello è Le Vie dei Canti (1987) – l’idea che l’identità aborigena coincida con il poema di un sognatore, che annodi nel canto le storie di tutti, mi affascinò a lungo. Chatwin segue il filo del racconto più che il criterio dello studio, per questo ci incanta. Porzioni di libro sono la – fittizia – trascrizione dei propri appunti. “Nella Muqaddima di Ibn Khaldun, filosofo che considerò la condizione umana dal punto di vista del nomade si legge: ‘Il popolo del deserto è più vicino dei popoli stanziali alla bontà, perché è più vicino al Primo Stato e più lontano da tutte le cattive abitudini che hanno corrotto i cuori di chi ha lasciato la vita nomade’”. Chatwin insegna, insomma, che il miglior modo di viaggiare è leggere i viaggi altrui – oggi, d’altronde, non potremmo fare altro. E che viaggiare è seguire le tracce di altri, fare i segugi.
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La dinamica proposta da Chatwin funziona. Deserto contro città; tenda contro casa; nomadi contro stanziali; cacciatori contro operai. In verità, l’uomo è il culmine di un contraddittorio: è un nomade stanziale. Ci muoviamo per lavoro ma vogliamo una casa a cui tornare; se siamo reclusi in casa vaghiamo svagandoci, tentando l’ascesi o l’ascesa del divano, mentre il nostro destino è umettato di fiction. Ogni uomo si muove per trovare una sede: Alessandro Magno viaggia tra Macedonia e India per porre il proprio palazzo a Babilonia. Anche Dio, infine, vuole casa in un Tempio.
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Chatwin viaggia con la perizia del gemmologo: non è mai ‘sporco’ né estasiato. Gli scarponi li tiene intorno al collo. Per primo, ha portato la scrivania vittoriana in Dahomey: anche l’efferato, in Chatwin, è afferrabile con la ragione, scomposto in aggettivi, vaporizzato nel racconto. La follia di Klaus Kinski – protagonista di Cobra verde, film di Werner Herzog tratto dal Viceré di Ouidah di Chatwin – è anestetizzata in una descrizione che pare giungere per angelologia da Dickens: “un adolescente di sessant’anni, tutto in bianco, con una criniera di capelli gialli. Non corrisponde esattamente all’idea che ho io di uno schiavista brasiliano, ma lasciamo correre”. Chatwin emerge dalla polvere fredda di Punta Arenas come appare da Sotheby’s, con la stessa, attenta eleganza. Per questo, adorava gli scriteriati.
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Con scriteriati intendo quegli uomini che non si adattano ai criteri di questo mondo. Dovrei dire, genio, se è genio la capacità di sdraiarsi sulla cresta della Storia, stabilirsi nella fortuna, fecondi senza caparbietà, audaci per dote e per dono, spietati eppure puri, certi del rispetto che si concede ai toccati dalla grazia. In Che ci faccio qui? Bruce Chatwin pretende l’incontro con due nomadi molto diversi da lui, per statura e scrittura: André Malraux e Ernst Jünger. Di questi, ama l’infallibile, il pudore che nessuno valica, lo spudorato carisma – non saprei come altro dire. “Malraux ha il tempismo di un opportunista di razza ed è stato testimone e partecipe di grandi eventi della storia moderna. Lui solo può raccontare che Stalin considerava Robinson Crusoe ‘il primo romanzo socialista’, e che la mano di Mao Tse-tung è ‘rosa come se l’avessero bollita’, e che la pelle bianca e gli occhi spiritati di Trotckij lo facevano somigliare a un idolo sumero di alabastro”. L’ironia ingabbia di quel tanto l’ammirazione: Malraux è il romanziere narciso, l’esistenzialista corrusco, il brigante dionisiaco, l’esteta mentitore, per cui “le persone di oggi si dissolvono nel mito” e “Mao Tse-tung, ‘il grande imperatore di bronzo’ delle Antimemorie è intercambiabile, in un certo senso, con la statua rilucente di un antico re-sacerdote mesopotamico”. Il dialogo si svolge nel 1974, Malraux morirà due anni dopo. “Concludemmo la conversazione parlando dell’Afghanistan, con i suoi fiumi verde pallido e i suoi monasteri buddhisti, dove le aquile volteggiano sopra le foreste di cedri deodara e gli uomini delle tribù portano asce da combattimento di rame…”. Allora, Malraux, pronto all’ennesima avventura, mai domo, sussurra, “e c’è sempre il Tibet…”.
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Beh, Chatwin sa fronteggiare questi personaggi – ci vuole lignaggio oltre a leggerezza per farlo. Jünger resta ai suoi occhi un implacabile enigma. Il pezzo, del 1981, è un piccolo gioiello, fin dall’incipit: “Il 18 giugno 1940 Winston Churchill concluse il suo discorso alla Camera dei Comuni con le parole: ‘Questa è stata la loro ora più bella!’, e quella sera stessa un personaggio molto diverso, con l’uniforme grigia di ufficiale della Wehrmacht, si sedette nello studio della duchessa de la Rochefoucauld al castello di Montmirail. Quell’ospite non invitato era un uomo di quarantacinque anni, basso di statura ma atletico, con la bocca fissa in un’espressione di stima per se stesso e con gli occhi azzurri di una tonalità particolarmente artica. Sfogliava i libri della duchessa col tocco sapiente del bibliomane e notò che molti recavano la dedica di famosi scrittori. Da un volume scivolò e cadde a terra una lettera…”. Chatwin è uno scrittore che ama le armonie e le superfici ben levigate – “particolarmente artica” –, la “prosa dura e lucida… imperturbabile” di Jünger e “la fermezza incrollabile delle sue idee” lo soggioga e abbaglia. Che, durante una esecuzione in un bosco francese, Jünger descriva i tremiti del bosco e dell’uomo e “una mosca che danzava in un raggio di sole”, lo repelle e lo inietta nell’apollineo. L’incontro con Jünger si rivelerà inutile – il tedesco è chiuso all’ingordigia di pettegolezzi dell’inglese. Gli concede però, “dato che Montherlant m’interessava”, di studiare una copia del foglio che stava sulla scrivania del francese, quando questi si è ammazzato. “Il suicidio fa parte del capitale dell’umanità”, è scritto, in francese. L’aforisma è di Jünger, “risale agli anni Trenta”, la calligrafia di Montherlant. Il foglio è chiazzato. “Le macchie erano fotocopie del sangue”.
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Iosif Brodskij venerava Nadežda, la moglie di Osip Mandel’stam. “Per decenni visse alla macchia, in fuga perpetua svolazzando tra gli angiporti e oscure città del grande impero, posandosi in un nuovo nido solo per riprendere il volo al primo segnale di pericolo. La condizione di ‘non persona’ divenne a poco a poco la sua seconda natura”, scrive il poeta in una memoria raccolta in Fuga da Bisanzio. Chatwin è da Nadežda nel 1978. Lei gli mostra un quadro di Weissberg. “Il quadro era tutto bianco, bianco su bianco, qualche bottiglia bianca su un fondo vuoto e bianco”. Poi fa, “è il nostro miglior pittore: che in Russia non si possa fare che questo, dipingere il bianco?”. In quel caso, il bianco non è opportunità ma prigionia, la gogna più che il giglio, non è l’innocenza ma l’assassinio, perché quel bianco è nero raddoppiato. (d.b.)
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Giorni fa ho caricato un video dove domandavo: quale prezzo sareste stati disposti a pagare per rinascere? Non sono impazzita... mi riferivo al #poema #sumero “La Discesa di Inanna negli Inferi” .... lo trovate nel link in bio tradotto in italiano con testo #traslitterato sumero .... #inanna #dea #percorsispirituali #letteratura #letteraturasumera
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“E alla luce dei lampi fuggono facce bianche atterrite e unte di petrolio”. Juan Rodolfo Wilcock, lo scrittore che fece di tutto per distruggersi
E raccolsi la sfida. La sfida era dello scrittore con un tavolo pieno di libri, si capiva che era un giornalista. Vidi sul tavolo una matassa di carta ma distinsi La nube purpurea, un sottile presagio dall’Ottocento sulla fine del mondo, e dissi al giornalista che conoscevo il traduttore, Juan Rodolfo Wilcock. Perché non scriverne, disse il compagno indiavolato?
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Wilcock nasce nel 1919 in Argentina dal consueto sangue misto anglofrancese ed emigra per necessità (pur avendo già lavorato e in patria e a Londra). Se ne va in Italia a 28 anni suonati. Per maturare questa scelta ha già visto il vecchio continente in diverse occasioni, prima da fanciullo poi da giovanotto con la fedifraga Ocampo e il vero e unico latin lover, Bioy Casares. Che bello doveva essere vederli assieme. Con Wilcock a fare da reggicandele…
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Wilcock è un autore che ti possiede con la forza di una premonizione. Leggete questo frammento dal suo Avviso ai saggi:
Presto, finché la lingua esiste: su colonne di porfido il cielo trema, porfido verde con vene di malachite incrostato di fave di madreperla e un filo d’oro che traccia d’alto in basso corsivamente l’identica Parola.
Il mondo è pieno di figli di nessuno. Tremano le colonne, dai cespugli emergono bestie con tre o più teste, bestie nuove; le stelle cadono come gocce di pioggia, sciiti e mongoli muovono eserciti e alla luce dei lampi fuggono facce bianche atterrite e unte di petrolio.
Nascondete questo rotolo nelle grotte
Ora capite perché Einaudi lo stampò nella bianca e perché i suoi versi spagnoli furono messi in circolo da Guanda nel 1963?
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In alternativa, sentirlo in questa conversazione Rai, ‘sentirlo’ perché la qualità video è infima. Vi discute la sua opera forse oggi meglio nota, La sinagoga degli iconoclasti che è l’antistoria del progresso scientifico, vera per tre quarti e falsa quel tanto che basta.
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Difficile parlare in teoria di quel che si ama. Se uno ama Wilcock ma non sa nulla della sua vita tranne che era omosessuale (capirai) e che i suoi primi libri se li stampò privatamente in Argentina dopo aver fatto discreti soldini coi suoi primi lavori come ingegnere meccanico che costruiva ferrovie transandine, ne sappiamo meno di prima. Le opere di questo poeta in terra machista si intitolano Passeggiata sentimentale e Musa minore maltratta e ancora, per chi non ne avesse abbastanza, Saggi di poesia lirica.
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Quanto al resto è presto detto. Fece di tutto per distruggersi in Italia. Si fece riprendere da Pasolini nelle vesti di sacerdote ebreo e questo un paese bigotto non te lo perdonerà mai. Poi si mise contro Moravia e la sua cricca quando l’industria culturale stava sbocciando e suggerì a Vassalli giovane che amore e amicizia vanno e vengono mentre solo l’odio permane, avvicinandoti agli altri.
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Detto da uno come Wilcock che lanciava epigrammi oltre poesie, l’aneddoto che coinvolge Vassalli acquista lustro e nitore.
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Un programma di Wilcock. “Appena si sente parlare di impegno morale, mettersi a letto”.
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E in effetti è giusto così, che se ne sia andato il 17 marzo 1978 mentre i giornali tiravano fuori le trombe per parlare di Moro. Sequestrano Moro lo statista e muore lo scrittore antisociale, che simpatica coincidenza.
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Se volete fare una passeggiata nel catalogo Adelphi, vi leggete in un paio di pomeriggi Fatti inquietanti per vedere Wilcock con taglio giornalistico in un’Italia accelerata da autostrade e progresso dove nessuno capiva più niente ma si facevano indagini sociologiche a strapotere mentre c’era lui, Wilcock, a tracciare biografie di prostitute di alto e basso bordo. Con occhio attento. Con compassionevole cinismo distaccato.
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O ancora, passare a Lo stereoscopio dei solitari per smettere di credere a tutto e poi Il reato di scrivere per assaporare due righe di lui giornalista aulico. Se non si vuol smettere di sognare, infine, c’è Il libro dei mostri.
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Va sempre così alla fine. Ti opponi al sistema e lui ti ingloba. Così fu per Wilcock che ebbe l’audacia di aiutare Calasso giovane nelle traduzioni – William Carlos Williams, La nube purpurea appunto e poi Marlowe, oh Marlowe.
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Come fu decisiva la lettura di Marlowe. Fin dal nome del traduttore, Wilcock. Una cosa che ti colpisce quando sei ancora abituato ai ‘referti’ letterari del liceo. E poi quelle voci del Cinquecento rimesse a nuovo, tirate a lucido, un bestemmiare giocoso e lui Wilcock che ti fa sentire il rombo del poeta giovane vissuto prima di Shakespeare. E quella nota in calce che diceva che Marlowe “sembra morisse in circostanze ignote assassinato in una taverna mentre era impegnato al servizio della corona spiando contro i Francesi”. La cosa mi piacque tanto che pensai di regalare il libro donatomi a sua volta da un professore. Aggiunsi una dedica a quella che c’era già e poi la cancellai. Passioni di ordinaria follia giovanile. Il Teatro di Marlowe Adelphi è rimasto da allora sano e salvo in bottega.
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Insomma Wilcock si consegnò legato mani e piedi a Calasso e da allora non si sa più nulla. Non se ne può sapere altro, eccezion fatta per le ricerche dei tessuti che vanno troppo a fondo e sono condannate a rimanere scollegate. Poi ci sono queste simpatiche commemorazioni a base locale, da etnografia poetica laziale. Poca cosa.
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Certo abbiamo salde in mano le sue versioni dal Finnegans Wake e le poesie di Beckett. Ma ci bastano? Quanto ancora vorremmo sapere? Temo di no. Per quello ci va buon senso e dedizione extraconiugale, extraletteraria.
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Per chi si interessa di poesia, infine, e non delle prose brevi di Wilcock di cui vi ho detto prima, suggerisco questi brani da Luoghi comuni del 1961:
Ali turchine
A chi giova il piacere dei sensi? All’intelletto, Che d’altronde sopporta dolori e infermità Indipendentemente dalla sua capacità Di godimento proprio; perché non è perfetto E sfoggia carne e peli come gli altri animali, Senza mai liberarsi dagli ingombri carnali, Senza essere del tutto lieto e neppure del tutto abbietto; Lui che sognò di volare sul mare senza confine Con dietro le spalle un paio d’ali turchine…
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Sensi
Nonostante i trionfi della scienza applicata Gli strumenti migliori per osservare l’universo Sono ancora la penetrante lampada del verso, La musica, la voce di una gola privilegiata, Oppure nella penombra delle candele sparse Il pulpito cosmatesco di diorite incrostata; Qualsiasi luce indicante dove un pensiero arse, Semplici torce o splendidi lampadari, Monasteri carpatici tra i boschi secolari, Rune d’Islanda con princìpi bruschi, Falli d’ambra nella foresta, sarcofaghi etruschi. Alla luce di questi lumi l’uomo si muove più sicuro, Vede i tramonti, vede le rive del mare, E pronuncia parole il cui senso oscuro Gli si comincia alfine a rivelare.
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Certo se vogliamo andare sul sicuro c’è il suo canzoniere italiano. Gli mise proprio questo titolo Italienisches Liederbuch ma nonostante tutto il riferimento non è Petrarca quanto invece Michelangelo che appare nella mise-en-abyme della copertina con questa citazione: “Chi mi difenderà dal tuo bel volto?”.
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E allora leggiamolo questo canzoniere supposto omoerotico. È comunque di una tempra virile che nel 1974, a 56 anni e rotti, non teme di finire a stampa così:
Fatti vedere nella tua nudità, il mondo ha questo bisogno di bellezza per diradare i pensieri cattivi che sono sempre dei pensieri vestiti, rendi visibile la sublimità senza badare se desta scalpore: non cadrà il firmamento quando cadranno le tue mutande e la tua camicetta, soltanto nei paesi freddi gli dèi portavano questi indumenti. Poi, in questo Olimpo da te scelto a dimora con tutt’e nove i colli dell’Urbe ai piedi verrà eretto un palazzo pieno di specchi e in ogni specchio una tua immagine riflessa, e lì terranno le cerimonie di Stato, i congressi, gli esami di maturità, alla presenza della verità nuda.
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Chiaro che la poesia ci piace e ci accende ma rischia di diventare una delibazione ad uso interno dei cenacoli poetici. Mentre la prosa richiede immediatamente il consenso del lettore. Per questo anche se la poesia di Wilcock mi parla nel tempo, non riesco a cancellare quel pomeriggio milanese quando mi trovavo ad attendere cose assurde in un atrio elegante e nel frattempo leggevo la penna elegante di Wilcock…
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E poi, amarlo a ritroso fin da quando aveva 26 anni e diceva in spagnolo:
Se questo istante fosse l’eternità immutabile, sempre, sempre davanti a me il tuo corpo così bello,
come lontane musiche che salgono esaltate tra luci cangianti e vapori iridati!
Voglio chinare la fronte e baciarti le mani mentre dietro ai tuoi occhi passa un giardino incredibile,
un luogo voluttuoso dove il pensiero si immerge nelle acque dolcissime e in un sogno.
E accostarmi alle tue labbra, e conoscere la morte, uno spazio di angeli, l’oblio.
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Meglio fermarsi alle ipotesi su Wilcock. Come passò dalla lingua spagnola a quella italiana? Lui se lo disse così andando a capo in spagnolo: “L’esiliato trova quella parola sola/ e per un attimo ridiventa/ in questo esilio che ti tormenta/ il poeta che non sei più”. Meglio continuare ad amarlo in via ipotetica.
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Spulciando sui siti internet arcaici della Campo e su quello ufficioso di Wilcock si raccolgono le margherite delle sue interviste giornalistiche: “Per me l’inglese è un po’ troppo folcloristico, ormai; che dire poi dell’inglese degli Stati Uniti, quando prende il volo per conto suo e si appiattisce in centoventicinque parole. È come se a un giocatore di scacchi gli dicessero: ‘Qui si gioca a modo nostro, con un solo cavallo e senza torri’. Beckett, forse non se ne accorge, ma scrive quasi in latino; il suo poema Sans, del ’70, va più indietro nel tempo, sembra sumero, anzi pittografico”.
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Da una lettera di Wilcock a Miguel Murmis del 23 giugno 1952 riscoperta da uno dei vari tesisti: “La convinzione che ho sperimentato fu di non potere cadere mai, perché ero artista fino a tal punto (bravo o meno, in questo caso non cambia nulla) che la mia chiarezza sarebbe emersa da qualsiasi lordura”.
Andrea Bianchi
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