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Storia del Ciclismo Italiano: Una Passione Che Pedala nel Tempo
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Il ciclismo italiano ha una storia ricca e affascinante che abbraccia più di un secolo di competizioni, eroi e momenti memorabili. L'Italia è stata una delle nazioni dominanti in questo sport, contribuendo a definire il ciclismo come lo conosciamo oggi. In questo articolo, esploreremo la storia del ciclismo italiano, dalle sue radici agli iconici ciclisti e alle competizioni che hanno segnato il panorama ciclistico. Le Radici del Ciclismo Italiano Le prime biciclette furono introdotte in Italia verso la fine del XIX secolo, e subito catturarono l'immaginazione del pubblico. Nel 1885, l'italiano Luigi Vittoria vinse la prima gara ciclistica su strada a Milano. Questo evento segnò l'inizio del ciclismo competitivo in Italia. La Gazzetta dello Sport e il Giro d'Italia Nel 1909, La Gazzetta dello Sport, un giornale sportivo italiano, organizzò la prima edizione del Giro d'Italia. Questa gara a tappe è diventata rapidamente una delle competizioni ciclistiche più prestigiose al mondo. Il Giro d'Italia ha sfidato i ciclisti con percorsi epici attraverso le montagne italiane, il che lo ha reso una sfida temuta e ammirata. Ciclisti italiani come Fausto Coppi, Gino Bartali e Felice Gimondi hanno dominato la competizione, guadagnando il rispetto e l'ammirazione di fan di tutto il mondo. La Rivalità tra Coppi e Bartali La rivalità tra Fausto Coppi e Gino Bartali è una delle storie più leggendarie nella storia del ciclismo italiano. Questi due ciclisti hanno dominato il ciclismo negli anni '40 e '50 e rappresentano due diverse personalità e stili di guida. Coppi era noto per la sua eleganza sulle montagne, mentre Bartali era un uomo di fede profonda, famoso per aver nascosto documenti falsi nella sua bicicletta durante la Seconda Guerra Mondiale per aiutare gli ebrei a sfuggire alla persecuzione nazista. La loro rivalità ha catturato l'immaginazione del pubblico e ha reso il ciclismo un evento seguito con passione in tutta Italia. Il Campionato del Mondo Il Campionato del Mondo di ciclismo su strada è un'altra importante tappa nella storia del ciclismo italiano. L'Italia ha ospitato il Campionato del Mondo diverse volte e i ciclisti italiani hanno conquistato numerosi titoli mondiali. Campioni come Alfredo Binda, Fiorenzo Magni, Gianni Bugno e Paolo Bettini hanno portato l'onore italiano in questa prestigiosa competizione. Il Ciclismo Contemporaneo L'Italia continua a essere una forza importante nel ciclismo contemporaneo. Il ciclista Vincenzo Nibali, noto come "Lo Squalo dello Stretto," ha vinto il Giro d'Italia, il Tour de France e la Vuelta a España, dimostrando la versatilità e il talento degli atleti italiani. Inoltre, il ciclismo su strada italiano ha una forte tradizione nelle classiche delle Ardenne e nelle gare di un giorno come la Milano-Sanremo. Il Futuro del Ciclismo Italiano Il ciclismo italiano continua a prosperare e ad attrarre nuovi talenti. Le squadre italiane sono ben rappresentate nelle competizioni internazionali, e il paese rimane una delle destinazioni più popolari per gli allenamenti e le gare ciclistiche. L'Italia ha anche una forte tradizione nel ciclismo su pista e nel ciclocross. In conclusione, la storia del ciclismo italiano è una storia di passione, talento e dedizione. Le leggende del passato e gli eroi contemporanei hanno contribuito a definire il ciclismo come uno sport di prestigio in Italia e nel mondo. Con una base di fan appassionata e ciclisti talentuosi, il futuro del ciclismo italiano sembra essere promettente, con ulteriori successi e vittorie in attesa di essere scritte sulla strada. Foto di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay Read the full article
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«Siete stato a vedere il ghetto, mein lieber Malaparte?» mi domandò Frank con un sorriso ironico. « Sì » gli risposi freddamente. «Molto interessante, nicht wahr?». « Oh sì, molto interessante » risposi. « Non mi piace andare nel ghetto, » disse Frau Wächter « è molto triste». «Molto triste? perché?» domandò il governatore Fischer. « So schmutzig, così sporco » disse Frau Brigitte Frank. «Ja, so schmutzig » disse Frau Fischer. « Il ghetto di Varsavia è senza dubbio il migliore di tutta la Polonia, il meglio organizzato, » disse Frank «un vero modello. Il governatore Fischer ha la mano felice, in questo genere di cose». Il governatore di Varsavia arrossì di piacere: « Peccato » disse con aria di modestia «che mi sia mancato lo spazio. Se avessi avuto un po’ più di spazio, avrei forse potuto far le cose assai meglio». «Eh sì, peccato! » dissi. «Pensate» continuò Fischer «che nello stesso spazio nel quale, prima della guerra, vivevano trecentomila persone, vivono ora più di un milione e mezzo di ebrei. Non è colpa mia se ci stanno un po’ stretti». « Agli ebrei piace viver così » disse Emil Gassner ridendo. « D’altra parte» disse Frank «non possiamo obbligarli a vivere in modo diverso». « Sarebbe contrario al diritto delle genti » osservai. Frank mi fissò con uno sguardo ironico: «Eppure» disse «gli ebrei si lagnano. Ci accusano di non rispettare la loro libera volontà». « Spero che non prendiate sul serio le loro proteste » dissi. «V’ingannate,» disse Frank «noi facciamo di tutto perché non protestino». «Ja, natürlich » disse Fischer. «In quanto alla sporcizia,» continuò Frank «è innegabile che essi vivono in condizioni deplorevoli. Un tedesco non accetterebbe mai di vivere in quello stato: neppure per scherzo! ». «Sarebbe uno scherzo divertente» osservai. «Un tedesco non sarebbe capace di vivere in quelle condizioni » disse Wächter. «Il popolo tedesco è un popolo civile» dissi io. «Ja, natürlich » disse Fischer. « Dobbiamo riconoscere che non è tutta colpa degli ebrei » disse Frank. « Lo spazio in cui son chiusi è piuttosto scarso per una popolazione così numerosa. Ma, in fondo, agli ebrei piace vivere nella sporcizia. La sporcizia è il loro condimento naturale. Forse perché sono tutti malati, e i malati, in mancanza di meglio, tendono a rifugiarsi nel sudiciume. E' doloroso constatare che essi muoiono come topi». «Mi sembra che non apprezzino molto l’onore di vivere,» dissi io «voglio dire l’onore di vivere come topi». « Non intendo affatto criticarli » replicò Frank « quando dico che muoiono come topi. E' una semplice constatazione». «Bisogna tenere presente che nelle condizioni in cui vivono è molto difficile impedire agli ebrei di morire » disse Emil Gassner. « Molto si è fatto » osservò il Barone Wolsegger con voce prudente «per diminuire la mortalità nei ghetti, ma... ». «Nel ghetto di Cracovia» disse Wächter «ho stabilito che la famiglia del morto deve pagare le spese del seppellimento. E ho ottenuto buoni risultati». «Son sicuro» dissi ironicamente «che la mortalità è diminuita da un giorno all’altro». «Avete indovinato: è diminuita» disse Wächter ridendo. Tutti si misero a ridere, e mi guardarono.
Curzio Malaparte, Kaputt, Introduzione di Mario Isnenghi, Collana Oscar n.1102, Mondadori, 1978; pp. 111-13.
[ 1ª ed. originale nel 1944 presso l’editore Casella di Napoli ]
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Giornata della Memoria, Heinz il primo gay a raccontare la storia dei triangoli rosa: “Noi, dannati fra i dannati”
I rossi erano i prigionieri politici, i gialli erano gli ebrei, il verde era destinato ai criminali comuni. E poi c’erano loro, i “finocchi”, i “froci”, i “degenerati”, contraddistinti da un triangolo rosa affisso sul petto. Un lembo di stoffa “più grande degli altri di circa due o tre centimetri”, perché così gli omosessuali “erano riconoscibili anche da lontano”. Heinz Heger, studente universitario poco più che ventenne, era uno di questi. E per la sua relazione con il figlio di un gerarca nazista venne spedito in un lager nel 1940. Non ne uscì fino al 1945, dopo anni di torture e violenze, lavori forzati, rapporti amorosi instaurati con un solo obiettivo, quello di sopravvivere. La sua storia è raccontata in un libro, Gli uomini con il triangolo rosa, uscito per la prima volta in lingua tedesca nel 1972. “Si tratta della prima testimonianza in assoluto di un deportato gay nei campi di concentramento”, spiega Giovanni Dall’Orto, storico e curatore della nuova edizione italiana, pubblicata quest’anno da Edizioni Sonda. “All’epoca il romanzo fu accolto da un successo mondiale, perché la persecuzione degli omosessuali era del tutto ignota. È solo grazie a Heger se altri deportati iniziarono a raccontare le proprie storie. Per questo, rappresenta una pietra miliare del nostro tempo”.
Gli uomini con il triangolo rosa
Heger arrivò nel campo di concentramento di Sachsenhausen con un vagone bestiame nel gennaio del 1940. Qui chi aveva il triangolo rosa doveva rispettare delle regole diverse dagli altri. “Potevamo dormire solo in camicia da notte e con le mani fuori dalle coperte”, racconta Heger. “Un omosessuale non poteva ricoprire un ruolo nel campo, né scambiare una parola con i detenuti degli altri blocchi: questo per evitare che potessimo traviarli”. Un trattamento che si traduceva spesso in punizioni corporali, assegnazione ai lavori più usuranti, esecuzioni sommarie. “Secondo le stime, i gay internati nei campi di sterminio nazisti sono stati circa 30mila”, chiarisce Dall’Orto. “Un numero che non è comparabile a quello degli ebrei, contro i quali il regime agì per sterminarli fisicamente. Ma si tratta comunque di una persecuzione che aveva l’obiettivo di tenere sotto controllo l’omosessualità, sfruttando la detenzione come deterrente”.
Come testimonia lo stesso Heger, avere il triangolo rosa voleva dire far parte dei “dannati fra i dannati”, cioè coloro che stanno al gradino più basso della gerarchia interna al lager. “Il loro destino in quel periodo era un terno al lotto, dipendeva dalle convinzioni di chi si trovavano davanti”, continua Dall’Orto. “Questo perché il nazismo non stabilì mai in modo ufficiale cosa fosse l’omosessualità. Le idee predominanti erano tre: una degenerazione di tipo fisico, una malattia mentale o un vizio morale”. In quest’ultimo caso si interveniva, proprio come successe a Heger quando da Sachsenhausen fu trasferito dopo pochi mesi nel lager di Flossenbürg, vicino al confine cecoslovacco. “Su ordine del comandante supremo delle Ss Heinrich Himmler, nell’estate del 1943 venne aperto un bordello per detenuti”, si legge nel libro. “Noi omosessuali eravamo obbligati a frequentarlo regolarmente per ‘guarire’ dal nostro orientamento”. Tentativi di rieducazione come questi o veri e propri esperimenti medici, spiega Dall’Orto, non erano rari. “Alla base c’era sempre il programma di eugenetica del Reich: gli individui degenerati non dovevano contaminare la razza con una prole a sua volta difettosa”. Un’alternativa poteva essere quella della castrazione, offerta anche allo stesso Heger in cambio della promessa di essere rilasciato. Ma l’austriaco non accettò, consapevole che la sua “posizione” nel lager – prima amante di un kapò, e poi kapò a sua volta – avrebbe potuto comunque garantirgli la salvezza.
Chi era Heinz Heger
“Sulla figura di Heger è necessaria una precisazione: in realtà si tratta di uno pseudonimo”, spiega Dall’Orto. Dietro al suo nome si celano due persone: Josef Kohout, il vero protagonista, e Hans Neumann, un amico giornalista che ha materialmente scritto il libro basandosi su 15 interviste raccolte fra il 1965 e il 1967. “Non è un dettaglio da trascurare. Gli uomini con il triangolo rosa non è un documento storiografico, è un romanzo scritto da un narratore terzo che certamente ha influenzato alcuni aspetti del racconto”. Fra questi, il sadismo a tratti erotico dei nazisti descritto in diverse scene. “Si tratta di suggestioni che derivano dal clima degli anni Sessanta, quando fu scritto il libro. Era il periodo del film Salon Kitty, di Salò di Pasolini. Il nazista veniva spesso dipinto come un degenerato sessuale, un aguzzino che si masturba mentre fa bastonare le vittime”, commenta Dall’Orto. “Una dimensione che non ha riscontro nelle ricerche storiche”.
Ma ciò non significa che la testimonianza di Heger abbia meno valore. “A parte questi dettagli, non ci sono finzioni nel racconto. È stato tutto verificato dal lavoro degli storici. Heger è riuscito a far parlare della persecuzione degli omosessuali quando ancora era un tabù”. E non è un caso che abbia scelto di celarsi dietro a uno pseudonimo. “All’epoca della pubblicazione del libro, essere gay era ancora un reato in Germania, mentre in Austria era stato depenalizzato da poco”, aggiunge. Il famoso paragrafo 175 del codice penale tedesco sull’omosessualità, infatti, fu abolito completamente solo nel 1994, dopo la riunificazione. “Il nazismo di fatto ha inasprito una norma pre-esistente, in maniera simile a quanto avvenuto in Italia durante il regime di Mussolini”.
Nazismo e fascismo a confronto
Per la nuova edizione italiana de Gli uomini con il triangolo rosa, Giovanni Dall’Orto ha scritto anche un saggio sulle differenze fra nazismo e fascismo riguardo alla persecuzione dell’omosessualità. “Germania e Italia offrono due esempi analoghi di resilienza della tradizione culturale”, spiega lo storico. “Come il nazismo non ha fatto altro che inasprire una norma che già c’era, così il fascismo ha perpetuato quella tendenza pre-esistente a non punire direttamente l’omosessualità”. Un compito che, secondo Dall’Orto, era ed è tuttora relegato alla Chiesa cattolica. “Introdurre delle leggi anti-gay avrebbe causato scandali su scandali e tutti ne avrebbero discusso. In Italia vigeva quindi una sorta di patto sociale fra Stato e mondo omosessuale, una tolleranza repressiva che, con l’avvento del fascismo, si è mantenuta”.
Uno dei metodi utilizzati era quello del confino, anch’esso già presente nell’ordinamento. “Le stime parlano di diverse migliaia di omosessuali colpiti, a cui vanno aggiunti i 93 condannati al confino politico”, continua lo storico. “Le persone venivano rimosse chirurgicamente se la polizia riteneva che turbassero in qualche modo la serenità del paese”. Questo tipo di approccio spiega, secondo Dall’Orto, anche perché in Italia la comunità gay si è formata molto tardi. “I movimenti di liberazione omosessuale sono nati laddove c’erano delle leggi repressive. Da noi per molto tempo non c’è stata alcuna coscienza politica su questo tema”, conclude. Da qui la necessità di parlarne e di leggere ancora oggi il racconto di Heinz Heger. “È importante che le generazioni più giovani sappiano di avere una storia e di come si è arrivati ai nostri giorni. E forse una testimonianza del genere, che lascia una memoria nelle persone che lo leggono, è il modo migliore per farlo”.
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'Invece di difendere gli ebrei caro pietista coi soldi, perché non pensi ai poveri italiani?' L'iniziativa delle magliette rosse di qualche giorno fa ha portato diversi politici di destra e 5 Stelle a una replica a cui ormai siamo abituati. Qualcosa che possiamo riassumere più o meno così: "Voi buonisti o radical chic coi soldi siete sempre in prima fila per difendere gli immigrati e non vi interessate mai degli italiani". Mmmm ma dove è che avevo già letto questo esatto tipo di replica, solo con qualche parolina diversa? Ah ecco, nei giornali del 1938, quando l'Italia fascista introduceva le leggi razziali contro gli ebrei. Vi riporto, testualmente, un articolo de La Stampa del 1938, rintracciato grazie all'ottimo archivio digitale del quotidiano torinese. La storia è questa: un magistrato svizzero scrive a un giornale locale una lettera in cui chiede di usare un linguaggio più gentile nei confronti dei cittadini ebrei esiliati e perseguitati. La lettera del magistrato fornisce al giornale l'assist perfetto per dimostrare quanto esso sia vicino al popolo (e al potente di turno) e lontano da questi buonisti e radical chic coi soldi. Solo che, al tempo, i buonisti li chiamavano "pietisti". Per il resto cambia poco. Leggete pure qui: Un magistrato ticinese ha inviato una lettera a « L'Idea Nazionale» di Lugano, pregando di non essere ingenerosi, di non esagerare nel linguaggio, di avere, insomma, pietà del poveri ebrei perseguitati ed esiliati. Il giornale, riferisce l'«Italpress », risponde cosi: « Apprezziamo il buon cuore, il senso umanitario e la generosità che ha mosso indubbiamente il nostro magistrato: pietà per gli ebrei sta bene, ma chi ha pietà per le vittime degli ebrei? Chi ha pietà per le nostre povere operaie, alle quali ditte ebraiche pagano 55 centesimi per una camicia da uomo, 15 centesimi per un grembiule, 1.20 franchi per un paio di pantaloni da uomo, 6 franchi per un vestito completo di imballaggio, porto di ritorno a carico dell'operaia a domicilio? Chi ha pietà per i nostri commercianti rovinati dai magazzini giudaici con una concorrenza accanita e sleale? Non facciamo del razzismo. La politica razzista, l'orgoglio di razza, l'esclusivismo protezionista ad oltranza, sono proprio caratteristiche degli ebrei, anche se per fare un affare diventano piccini, striscianti e complimentosi. La questione ebraica esiste. Oggi non si può ignorarla. Per il bene stesso degli ebrei, non si può tollerare una Invadenza ulteriore nel Ticino, Spiritualmente siamo troppo lontani dalla mentalità, dal costumi e dalle idee semitiche, e commercialmente non siamo disposti a fare da schiavi e da battistrada al capitalismo, all'egoismo e allo strozzinaggio tradizionale del trafficanti giudaici». Come vedete, ci sono tutti gli elementi delle becere risposte che oggi vengono avanzate a chiunque critichi la politica in tema di immigrazione dell'attuale esecutivo: 1) Chi solleva una critica viene subito messo alla berlina per il suo status economico (Nel 1938: è un magistrato, quindi è ricco. Oggi: "È un comunista col Rolex"); 2) Anche quando la richiesta è puramente simbolica la replica è feroce (1938: "Usare un linguaggio non esagerato", Oggi: indossare una maglietta colorata); 3) Mettere in contrapposizione cose che non c'entrano nulla per alimentare l'odio di classe: (1938: la persecuzione degli ebrei vs lo sfruttamento delle operaie italiane. Oggi: giovani italiani che emigrano vs immigrati che ci rubano il lavoro); 4) La replica : "Non è razzismo, ma esiste un vero problema" (1938 uguale a oggi); 5) Ci stanno invadendo (1938 :"invadenza ulteriore nel Ticino". Oggi si parla di invasione dall'Africa); 6) Riferimenti generici al cattivo capitalismo. Di cui poi, la storia insegna, il fascismo si rivelò il miglior cane da guardia. Meno di un anno dopo la pubblicazione di questo articolo, iniziò la Seconda Guerra Mondiale. Ora, riterrei un po' patetico dire che ci troviamo di fronte a uno scenario simile o suggerire che stiamo per scendere in guerra. Ma la sempre maggiore aggressività del linguaggio nei confronti delle voci critiche rispetto agli attuali governanti non promette mai niente di buono, questo è sicuro.
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Antonio De Lisa- Memoria dell’Olocausto (Gerusalemme 2009)
Antonio De Lisa- Memoria dell’Olocausto (Gerusalemme 2009)
Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto a Gerusalemme
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Sulla sommità di Har Hazikaron, il Monte della Memoria, nella zona occidentale di Gerusalemme, sorge la grande struttura di Yad Vashem, il museo dell’olocausto, la testimonianza della persecuzione e dello stermino sistematici di circa sei milioni di Ebrei, attuati con burocratica organizzazione dal regime Nazista e dai suoi collaboratori.…
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27 Gennaio - Giornata della memoria
“Sarà bene ricordare a chi non sa, ed a chi preferisce dimenticare, che l'olocausto si è esteso anche all'Italia, benché la guerra volgesse ormai alla fine, e benché la maggior parte del popolo italiano si sia mostrata immune al veleno razzista” - Primo Levi
L’Italia è il paese dell’ipocrisia, questo si sa. Ma credo che ogni anno, in questo periodo, si tocchi (forse) il picco massimo. La legge n.211 del 20 Luglio 2000 dice che la Repubblica Italiana “riconosce il 27 Gennaio come “Giorno della memoria” al fine di ricordare le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.”
Vorrei soffermarmi un attimo sulla frase che ho evidenziato in grassetto. Quante volte in questi anni, a scuola, sui giornali o in tv, abbiamo sentito parlare in modo approfondito del regime fascista italiano che ha deportato gli ebrei? Della collaborazione e dell’aiuto che abbiamo dato ai tedeschi? Francamente se ne parla pochissimo, se non quasi mai. E tutto ciò non è altro che la dimostrazione di un fatto che ho sempre sostenuto: siamo un paese senza memoria storica. Nella Giornata della memoria si tende a "esternalizzare" ogni colpa ai tedeschi. Per la maggior parte di noi italiani e per la maggioranza dei libri di storia italiani, i campi di sterminio e la Shoah furono "cose" dei tedeschi, dei nazisti e di Hitler. E il pensiero generale è ancora quello: non si riportano mai i numerosi campi di concentramento e smistamento presenti in Italia o gli sgomberi dei ghetti, e sembra sia più bello dimenticare che il tanto amato (dagli stupidi, sia chiaro) Mussolini si alleò con Hitler. Non ci ricordiamo che gli ebrei non furono gli unici ad essere deportati (seppur erano la maggioranza, in quanto la propaganda nazifascista era essenzialmente incentrata su di loro), ma potevi essere deportato per il tuo orientamento sessuale, perché avevi handicap, per il tuo pensiero politico, perché eri prigioniero di guerra, ecc. Non esiste memoria storica e si vede: ci siamo adagiati pensando che il passato sia qualcosa di chiuso e ci ritroviamo a esternare ogni giorno un facile razzismo e a gridare "ci rubano il lavoro e le donne". Muore uno straniero? “Eh vabbè, uno in più uno in meno, che differenza vuoi che faccia?”
Perché tutto questo accade? Perché non si ricorda o si fa finta di non ricordare quello che siamo stati? Io credo la causa principale risieda nel fatto che non abbiamo mai fatto veramente i conti con il nostro passato. La Germania dopo la seconda guerra mondiale ha avuto un lungo processo di “denazificazione”, processi e condanne a chi si era macchiato e reso complice di una delle pagine più nere della storia. In Italia tutto questo non solo non c’è mai stato, ma i tanti volenterosi complici dello sterminio hanno continuato a vivere senza pene né pentimenti, e molti di loro fecero pure carriera, diventando parte degli apparati del nuovo Stato. Così facendo, in Italia, si è sempre alimentato il mito de “Italiani brava gente”, ovvero: “ma sì, abbiamo avuto la dittatura, siamo stati fascisti, ma eravamo meno cattivi degli altri eh, sotto sotto non volevamo”.
Quante volte si parla dei crimini di guerra italiani in Etiopia (quasi 300mila morti), dove su ordine di Mussolini interi paesi furono bombardati con bombe chimiche? Quante volte si parla degli oltre 200 campi italiani sparsi per i Balcani, nei quali, durante l’occupazione della Jugoslavia, morirono circa 250mila internati? (Provate un po’ a cercare il campo di concentramento di Arbe). Non se ne parla, questo è il fatto. E la colpa è anche nostra, sia chiaro. E per nostra intendo noi comuni cittadini, perché i mezzi per poterci informare ci sono tutti, e parlo di fonti storiche, che hanno una ricerca alla base, non parlo quindi delle migliaia di bufale che ormai girano sulla rete. Non stupiamoci poi se in giornate come quelle di oggi sentiamo dire “che palle, ancora gli ebrei? Ancora Auschwitz?" o cose come "Il fascismo? Il duce? Ha sbagliato solo nelle leggi razziali.” “Solo ". Come pretendere dall’italiano medio scuse o ancor meno qualche forma di imbarazzo?
“La storia insegna, ma non ha scolari.” - Antonio Gramsci
Se mai vi interessi o ve ne freghi qualcosa, vi lascio alcuni link: Questo è un documentario del 1989 realizzato dalla BBC dal titolo “ Fascist Legacy” sui crimini di guerra italiani in Libia, Etiopia e Jugoslavia. Pensate che i diritti dell’opera sono stati acquistati dalla RAI nel 1991, ma non l’ha mai trasmesso in tv. Qui il link: https://www.youtube.com/watch?v=2IlB7IP4hys
Qui vi lascio invece un sito che riporta sempre i crimini di guerra italiani, con tanto di fonti storiografiche: http://www.criminidiguerra.it/
Per ultimo, un sito che riporta tutti i campi fascisti, da quelli di internamento a quelli di smistamento ecc, presenti nelle colonie e in Italia: http://campifascisti.it/
#shoa#olocausto#giornata della memoria#giorno della memoria#crimini di guerra#fascismo#basta dimenticare#fascist legacy
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6 film (+2) da vedere a Pasqua. Da “Mission” a “Il pranzo di Babette”, da “La passione di Cristo” a “Al di là della vita”. La redenzione dell’individuo in un mondo caduto
Pasqua è festa e pratica, spoliazione e banchetto, ferita da cui sorge la vita, sepolcro come culla, stimmate come buco nero, fauci di silenzio. “Life”, l’inserto dello “Spectator”, dedica uno speciale a “The best films about faith to watch this Easter”. Lo firma Melanie McDonagh e qui se ne dà traduzione. Mai come oggi la nostra vita è in sepolcro, o meglio è ‘televisiva’, in differita, astratta – anche l’Eucarestia, per carnalità defunta, si svolge via etere. Quindi, ecco una lista di film che adornano la Pasqua, la festa. Io ne aggiungo un paio. Il film davvero ‘pasquale’ di Martin Scorsese è “Al di là della vita” (1999): estremo, magnetico, scomodo, magistrale. È giocato sui tre giorni decisivi – passione, morte, resurrezione – della vita di Frank Pierce/Nicolas Cage, paramedico che non riesce ad accettare la fine di una paziente. Troppo poco considerato nella filmografia di Scorsese, va rivisto. L’altro film è “L’isola” (2006), di Pavel Lungin, pellicola che racconta la conversione di un marinaio, e che riflette intorno alla figura del ‘folle di Dio’. Va visto, in questo caso, con i “Racconti di un pellegrino russo” sotto al braccio. (d.b.)
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I film ‘religiosi’ più belli, spesso, non sono quelli ovvi, con preti, chierici e storie bibliche (alcuni, per carità, sono notevoli, troppi, però, sono inguardabili). Al contrario, i film più riusciti catturano il cristianesimo lateralmente, ne esprimono il numinoso, i fondamenti della fede, attraverso un ritratto, un modo di vivere. Durante la Settimana Santa, ecco alcuni film utili a esplorare il mistero.
“La passione di Cristo”, 2004. Film realizzato da Mel Gibson mescolando inglese, aramaico, latino. Controverso. Accusato di essere a) molto violento e b) antisemita, benché gli eventi della Passione sono molto violenti e tutti i protagonisti, tranne i Romani, sono ebrei. Mel Gibson attinge dai Vangeli, enfatizza adottando la visione tardo medioevale sulle sofferenze di Cristo. Uno film per il Venerdì – ma non per gli schifiltosi. Il sequel si intitolerà “La resurrezione di Cristo”.
“Uomini di Dio”, 2010. Il film di Xavier Beauvois è basato sulla storia vera dell’assassinio dei monaci di Tibhirine, in Algeria, da parte degli islamisti. Un ritratto straordinariamente commovente del martirio, una esplorazione che penetra nel valore della parola obbedienza, della vocazione monastica. C’è perfino dell’umorismo. La storia di un’altra Passione.
“Silence”, 2016. Il film più inconsueto di Martin Scorsese, basato sul romanzo del giapponese Shusaku Endo. In un certo senso è un fallimento: Andrew Garfield non è adatto come protagonista (Adam Driver lo surclassa), il missionario gesuita incaricato di rintracciare in Giappone il suo maestro, Ferreira (Liam Neeson), inspiegabilmente apostata. Eppure, ci sono alcune scene meravigliose, indimenticabili. È una indagine, tra l’altro, sulla natura di Cristo crocefisso, e sulla persecuzione dei cristiani nel Giappone del XVII secolo.
“Mission”, 1986. Resta memorabile il film di Roland Joffé sulla missione gesuita in Sud America, con immagini indelebili – il gesuita che marcia sopra le cascate, con il suo carico – e un cast straordinario, in cui spiccano Robert De Niro e Jeremy Irons. La trama si concentra sulla redenzione dell’individuo e sul modo in cui si manifesta la fede in un mondo decaduto, dove la realpolitik vince sulla religione e in cui due potenze cattoliche, Spagna e Portogallo, combattono per i loro interessi schiacciando i nativi.
“La vita è meravigliosa”, 1946. A meno che uno non abbia il cuore inaridito, è il film di Natale preferito da tutti, è l’affermazione più esuberante del valore di ogni singolo essere umano (e una conferma della gerarchia angelica svelata dallo Pseudo-Dionigi l’Areopagita).
“Il pranzo di Babette”, 1987. In superficie, è la storia di una francese rifugiata in Danimarca, all’epoca della guerra franco-prussiana, presso la casa delle figlie di un pastore protestante. Quando vince la lotteria, Babette decide di organizzare un pranzo di commiato. Il film di Gabriel Axel è una favolosa metafora dell’Eucarestia.
Melanie McDonagh
*In copertina: Martin Scorsese mentre gira “Al di là della vita”
L'articolo 6 film (+2) da vedere a Pasqua. Da “Mission” a “Il pranzo di Babette”, da “La passione di Cristo” a “Al di là della vita”. La redenzione dell’individuo in un mondo caduto proviene da Pangea.
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Alla scadenza dei 500 anni dell’istituzione del Ghetto di Venezia, il primo ghetto, Donatella Calabi con il coordinamento scientifico di Gabriella Belli e il contributo di vari studiosi, ha realizzato una mostra “Venezia, gli ebrei e l’Europa 1516 – 2016”, volta a descrivere i processi che sono alla base della nascita, della realizzazione e delle trasformazioni del primo “recinto” al mondo, allora destinato agli ebrei.
La mostra di Palazzo Ducale, ha consentito ad un affascinante viaggio, tra arte, storia e cultura, lungo 500 anni: dagli insediamenti ebraici in Europa dopo il 1492, (data che corrisponde alla cacciata degli ebrei dalla penisola Iberica), all’istituzione del primo vero e proprio ghetto al mondo. Si articolava secondo dieci sezioni tematiche: Prima del Ghetto, La Venezia cosmopolita, Il Ghetto cosmopolita, Le sinagoghe, Cultura ebraica e figura femminile, I commerci tra XVII e XVIII secolo, Napoleone: l’apertura dei cancelli e l’assimilazione, Il mercante di Venezia, Collezioni, Il XX secolo. Si poteva partire dal dibattito sulla sua localizzazione, per procedere sulla crescita e la conformazione urbana e architettonica di successive espansioni (il Ghetto Novo, il Vecchio e il Novissimo); quindi si affrontavano le relazioni con il resto della città (le botteghe realtine, il cimitero, l’escavo del Canale degli Ebrei), la reintegrazione novecentesca. Sull’area tuttora abitata, consistono tre ghetti, grazie a precisissime ricostruzioni multimediali, in mostra si evidenziavano le evoluzioni. (Nei primi decenni del XVI secolo la Repubblica Veneta aveva messo in atto una strategia urbana di accoglienza, fatta di garanzie e di sorveglianza. Gli ebrei, al pari d’altre minoranze, erano “preziosi” per la Serenissima (come si legge in alcuni documenti): le sue magistrature, alcuni nobili, lo stesso doge Leonardo Loredan, che era “principe” al momento del decreto istitutivo del Ghetto (29 marzo 1516), ne erano perfettamente consapevoli. A Rialto un gruppo di giudei nel 1515 aveva anche acquisito una serie di botteghe. Venezia, che aveva concesso agli ebrei presenti sul proprio territorio –quando l’Europa li stava cacciando con i citati decreti d’espulsione dalla Spagna (1492) e dal Portogallo (1496) – d’entrare in città come rifugiati di guerra, in seguito si pose il problema di come trattare la minoranza ebraica. e lo risolse con le Grida del ‘500 che appunto istituirono il Ghetto, il recinto, le porte l’orario di apertura e chiusura…. “ La posta in gioco era la presunta difesa dei valori culturali fondamentali, di tutti quei valori che “il mito di Venezia” reputava i più essenziali in assoluto: giustizia, libertà e benessere, il tutto radicato nel buon governo e non da ultimo nella difesa dell’etica cristiana,…”). Anche queste teorie e prassi si stanno riprendendo contro altri profughi, tornano Costruzioni di alti intorno a nuovi ghetti.
La sala dedicata alle strutture abitative all’interno del Ghetto, descriveva , con le moderne tecnologie-video, lo sviluppo urbano e sociale nel recinto: gli ampliamenti succedutosi nel tempo, l’illustrazione delle cinque sinagoghe e delle yeshivot, accanto a oggetti rituali d’argento e ai pannelli decorativi in cuoio, appartenenti al Museo Ebraico veneziano.
Significativa la riflessione sugli scambi culturali e linguistici, tra il castello e la città, sulle abilità artigianali e sui mestieri che la comunità ebraica ha condiviso sia con la popolazione cristiana che con tutte le minoranze presenti in una città mercantile di notevole rilevanza. Si conferma come Venezia, d’inizio Cinquecento, fosse cosmopolita e si espandesse oltre che militarmente, culturalmente, raggiungendo varie sintesi di saperi, di sapori. Ecco gli splendidi Teleri di Carpaccio , il Ritratto del doge Leonardo Loredan, (Carpaccio), firmatario della prima grida sul Ghetto.
Bisogna ricordare che Venezia dal ‘500, era diventata la fucina dei modelli tipografici, nel campo dell’editoria produceva significativi esperimenti di testi in ebraico: la piccola grammatica l’Introductio perbrevis ad Hebraicam linguam da lui pubblicata, la Bibbia Rabbinica curata da Felice da Prato, insieme ad esempi di pubblicazioni popolari, come i Responsa di Joseph Colon. I Libri di grande pregio: il testo di Lascaris di edizione aldina, la Torah di Maimonide. l’Ester di Leon Modena, uno straordinario trattato settecentesco illustrato di astronomia, medicina e anatomia di Tobia Coen.
Nel ‘700, gli ebrei veneziani erano ricchi borghesi : lo conferma un prezioso Contratto matrimoniale ebraico, su pergamena sagomata, come un “Nobile al banco” Disegno acquerellato di Giovanni Grevembroch, dipinto in abiti de veneziani.
Fondamentale la Sala dedicata alla caduta della della Repubblica Veneta con l’apertura delle porte per volere di Napoleone, nel 1797, alla caduta della Repubblica, all’eliminazione del “recinto”, e l’assimilazione dei Giudei nella città. Ritornando a pieno titolo nella società, molti famiglie, acquisiscono palazzi di prestigio, lungo il Canal Grande, fino a San Marco. Contemporaneamente gli spazi architettonici del ghetto spalancati, vennero risanati e ristrutturati, I lavori si conclusero con ampia soddisfazione agli inizi del 1930 …Dopo la reintegrazione ottocentesca, la ristrutturazione novecentesca, celebrata da immagini-video, da il ritratto di Margherita Sarfatti di Wildt e Il Rabbino di Chagall, una autorevole “Letizia Pesaro Maurognato”, di Giacomo Balla, alla fine anni ’30, il regime fascista ha fatto una tragica inversione promulgando le leggi razziali e attuando la persecuzione degli Ebrei, fino ai campi di concentramento, alla Shoa…che ricordiamo appunto in questi giorni.
L’esposizione ha sottolineato la ricchezza dei rapporti tra gli ebrei e la società civile, nei diversi periodi della lunga permanenza in laguna, in area veneta e in area mediterranea.
Ma questa mostra ci ha rammentato anche come la creazione di stereotipi, di pregiudizi dispregiativi, sia partita da lontano, tanto che anche Shakespeare, l’aveva utilizzata ne Il mercante di Venezia. Proseguirà in tanta letteratura mondiale ed innumerevoli rappresentazioni cinematografiche-teatrali diabolicamente infausta, usata per ottenere il consenso popolare verso progetti distruttivi nazi-fascisti.
Nota storica
Nei primi decenni del XVI secolo la Repubblica Veneta aveva messo in atto una strategia urbana di accoglienza, fatta di garanzie e di sorveglianza. Gli ebrei, al pari d’altre minoranze, erano “preziosi” per la Serenissima (come si legge in alcuni documenti): le sue magistrature, alcuni nobili, lo stesso doge Leonardo Loredan, che era “principe” al momento del decreto istitutivo (29 marzo 1516), ne erano perfettamente consapevoli.
Dalle Grida del ‘500
“Il luogo era delimitato da due porte che, come aveva precisato il Senato il 29 marzo 1516, sarebbero state aperte la mattina al suono della “marangona” (la campana di San Marco che dettava i ritmi dell’attività cittadina) e richiuse la sera a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dai giudei e tenuti a risiedere nel sito stesso, senza famiglia per potersi meglio dedicare all’attività di controllo. Inoltre si sarebbero dovuti realizzare due muri alti (che tuttavia non saranno mai eretti) a serrare l’area dalla parte dei rii che la avrebbero circondata, murando tutte le rive che vi si aprivano. Due barche del Consiglio dei Dieci con guardiani pagati dai nuovi “castellani”, circoleranno di notte nel canale intorno all’isola per garantirne la sicurezza. Il 1 aprile successivo, la stessa “grida” venne proclamata a Rialto e in corrispondenza dei ponti di tutte le contrade cittadine in cui risiedevano i giudei”.
Dal Castello al Ghetto, evocativo rimando al “getto” di rame e alla fonderia esistente a Canareggio prima del recinto degli ebrei – da cui sarebbe derivato il toponimo “ghetto”. La mostra, prosegue con la visualizzazione dei flussi migratori ebraici in Europa, dopo la cacciata dalla Spagna e dal Portogallo, e con un focus sulla presenza d’insediamenti ebraici in Veneto, a Venezia (in particolare nell’area centrale e in quella mercantile) e a Mestre. A Rialto un gruppo di giudei nel 1515 aveva anche acquisito una serie di botteghe: il cuore degli affari lagunari era al tempo vivacissimo e la ricostruzione in mostra del ponte di Rialto – ancora apribile nel mezzo per il passaggio delle imbarcazioni – e degli affollati spazi di scambio eretti dopo il grande incendio del 1514 è di particolare effetto. Venezia, che aveva concesso agli ebrei presenti sul proprio territorio – anche quando l’Europa li stava cacciando dopo i noti decreti d’espulsione dalla Spagna (1492) e dal Portogallo (1496) – d’entrare in città come rifugiati di guerra, in seguito alle drammatiche conseguenze della lega di Cambrai e alla sconfitta di Agnadello, si pose presto il problema di come trattare la minoranza ebraica. “ (Allora come oggi), La posta in gioco era la presunta difesa dei valori culturali fondamentali per la percezione di se stessi. di tutti quei valori che “il mito di Venezia” reputava i più essenziali in assoluto: giustizia, libertà e benessere, il tutto radicato nel buon governo e non da ultimo nella difesa dell’etica cristiana, senza la quale non sono concepibili né la giustizia né il benessere”.
La scelta di non cacciare gli ebrei ma di mantenerli dentro il ghetto fu vissuta come il male minore e la chiusura, da palese discriminazione, finì per trasformarsi anche in un’utile difesa, perché gli ebrei, soggetto politicamente debole all’esterno delle mura, diventarono all’interno autonomi, quasi padroni delle loro azioni. Si trasformò a poco a poco in un’istituzione quasi a sé, “uno scudo”, come scrive Riccardo Calimani, “che, pur nella precarietà dilagante disponeva, nonostante tutto, di poteri e privilegi che gli permettevano di farsi ascoltare e di trattare con i propri interlocutori all’esterno, con una libertà d’iniziativa in qualche caso sorprendente”. Cosmopolita al suo interno – ove vennero a convivere ebrei tedeschi e italiani, ebrei levantini, ponentini e portoghesi – il Ghetto di Venezia fu dunque una realtà fortemente permeabile, in costante interazione con l’esterno e in primis con la città lagunare, essa stessa straordinariamente multinazionale e multietnica, per convinzione o pragmatismo.
Il XIX secolo è scandito dal ritorno degli ebrei a pieno titolo in città e nella società: molti escono dal perimetro, alcune famiglie acquisiscono palazzi di prestigio, spesso lungo il Canal Grande, inizialmente nel sestiere di Cannaregio poi anche a San Marco. Alla reintegrazione novecentesca, seguì la persecuzione. ma la mostra si ferma su questa soglia.
Un famoso e grande plastico della città realizzato nel 1961 per una mostra a Palazzo Grassi darà vita, collegato a un dispositivo multimediale, a una sorta di atlante luminoso delle abitazioni ma anche delle architetture realizzate su committenza ebraica e/o ai molti dei progetti degli stessi professionisti ebrei, testimoniati anche da materiale documentario.
Maria Teresa Martini
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Affrontare il tema Shoa a partire da “Il primo ghetto” di Venezia a 500 anni della sua istituzione Alla scadenza dei 500 anni dell’istituzione del Ghetto di Venezia, il primo ghetto, Donatella Calabi con il coordinamento scientifico di Gabriella Belli e il contributo di vari studiosi, ha realizzato una mostra…
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Guardavamo i carri bestiame, le tavolette di legno inchiodate sui finestrini. Il treno aveva impiegato tre giorni per percorrere una ventina di miglia: doveva dar la precedenza ai convogli militari e poi, non c’era fretta. Anche se fosse arrivato a Podul Iloaiei dopo tre mesi di viaggio, sarebbe sempre arrivato in tempo. Intanto eravamo giunti a Podul Iloaiei: il treno si fermò sopra un binario morto, appena fuori della stazione. Faceva un caldo soffocante, era verso mezzogiorno, gli impiegati della stazione erano andati a mangiare. Il macchinista, il fuochista, e i soldati di scorta, erano scesi dal treno, sdraiandosi per terra all’ombra dei carri. «Aprite subito i carri» ordinai ai soldati. «Non possiamo, dòmnule capitan». «Aprite subito i carri! » gridai. « Non possiamo, i carri sono piombati; » disse il macchinista «bisogna avvertire il capostazione». Il capostazione era a tavola. Sulle prime non voleva interrompere il suo desinare, poi, saputo che Sartori era il console d’Italia e che io ero un dòmnule capitan italiano, si alzò da tavola, e ci seguì trotterellando con un paio di grosse pinze in mano. I soldati si misero subito al lavoro, tentando di aprire lo sportellone del primo carro. Lo sportellone di legno e di ferro resisteva, sembrava che dieci, cento braccia lo trattenessero dall’interno, che i prigionieri facessero forza per impedir che si aprisse. A un certo punto il capostazione gridò: « Ehi voialtri, là dentro, spingete anche voi! ». Nessuno dall’interno rispose. Allora facemmo forza tutti insieme. Sartori stava in piedi davanti al carro, col viso alzato, asciugandosi il sudore col fazzoletto. A un tratto lo sportello cedé, e il carro si aprì. Il carro a un tratto si aprì, e la folla dei prigionieri si precipitò su Sartori, lo buttò a terra, gli si ammucchiò addosso. Erano i morti che fuggivan dal carro. Cadevano a gruppi, di peso, con un tonfo sordo, come statue di cemento. Sepolto sotto i cadaveri, schiacciato dal loro freddo, enorme peso, Sartori si dibatteva, si divincolava, tentando liberarsi da quel morto gravame, da quella gelida mora: finché scomparve sotto il mucchio dei cadaveri, come sotto una valanga di pietre.
Curzio Malaparte, Kaputt, Introduzione di Mario Isnenghi, Collana Oscar n.1102, Mondadori, 1978; p. 182.
[ 1ª ed. originale nel 1944 presso l’editore Casella di Napoli ]
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“ Per moltissimi italiani la campagna antisemita scatenata nel 1938 fu il primo vero shock politico dopo il delitto Matteotti, fu il primo fatto che veramente fece aprire loro gli occhi sul conto del fascismo e segnò l'inizio del loro divorzio da esso. Non si vede perché la massa degli ebrei avrebbe dovuto essere più lungimirante e capire prima del resto degli italiani come le cose sarebbero andate a finire. Tanto più che sino allora la loro fiducia in Mussolini era stata, da un punto di vista strettamente ebraico, sostanzialmente ben riposta: non aveva infatti Mussolini aiutato i profughi dalla Germania, trattato gli ebrei come pochi altri governi europei trattavano i loro e, almeno ufficialmente, sempre negato l'esistenza in Italia di una questione ebraica? Né — ancora — si deve dimenticare che, come per tutte le minoranze da poco emancipate, una rottura con il fascismo voleva dire, per chi non avesse piena consapevolezza di certi valori di cui il fascismo era la negazione, rompere con l'Italia; e se una simile rottura era difficile per la maggioranza degli italiani, anche più difficile, psicologicamente, era per gli ebrei che all'Italia dovevano la loro emancipazione e la loro piena equiparazione. Italiani sino in fondo, per nascita, per cultura, per educazione e, in un certo senso, doppiamente italiani, perché l'Italia per essi oltre ad essere ciò che era per il resto degli italiani era anche l'emancipazione, l'eguaglianza civile ottenuta pochi decenni prima, non solo i più degli ebrei furono colti di sorpresa dalla politica antisemita del fascismo e ne furono feriti moralmente forse più che materialmente, ma, proprio perché profondamente italiani, fu loro impossibile volgere puramente e semplicemente le spalle alla patria che li rinnegava e perseguitava e relativamente lento e penoso fu il realizzare che il fascismo non era l'Italia, che il fascismo non si era ingannato o era stato ingannato sul loro conto, ma che scientemente e cinicamente aveva preparato e realizzato la loro persecuzione e che, quindi, era inutile, ingenuo e indegno sperare di convincerlo della propria « buona fede » con manifestazioni di un attaccamento che ogni giorno che passava appariva evidente non meritasse e non era più sentito da essi. Per gli ebrei meno assimilati, per i sionisti più convinti la persecuzione fu un fatto, da questo punto di vista, certo meno grave che per la massa dei loro correligionari; ad essi la persecuzione toglieva poco e, in un certo senso, restituiva addirittura molto. Rinunciare all'Italia emigrando o rinunciare ad essere completamente italiani in Italia era per loro molto più facile che per gli altri, per quelli completamente assimilati. “
Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, prefazione di Delio Cantimori, III ed. riveduta e ampliata con una nota dell’autore, Mondadori (collana Oscar Saggi n° 14, 2 voll.), 1977; vol. I, pp. 391-92.
[ Prima edizione originale: Einaudi, novembre 1961 ]
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Euskal Herria, 2 agosto 1968, ore 14,45 circa. Il capo della Brigada Social (polizia politica) della provincia di Guipuzcoa, Meliton Manzanas, giace sul pianerottolo di casa sua colpito a morte da alcuni proiettili, dietro di lui c’è un giovane con barba, baffi e lunghe basette che impugna una pistola. Neanche due mesi prima la polizia di Francisco Franco aveva assassinato Francisco Saverio "Txabi" Etxebarrieta, dirigente di Euskadi Ta Askatasuna, tentando di soffocare nel sangue la lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione del popolo basco. L’uccisione di Manzanas, la prima compiuta da ETA, rappresenta la morte del peggiore dei torturatori fascisti presenti nel territorio di Euskadi, di un uomo formatosi alla scuola della Gestapo e che aveva cominciato ad operare durante la seconda guerra mondiale occupandosi di consegnare alle SS tedesche gli ebrei che avevano trovato rifugio oltre il confine spagnolo. "Melitòn Manzanas - dice un alto prelato basco - era il macellaio del nostro popolo. E' stato condannato a morte ed è stato giustiziato. E' impossibile trovare un basco che lo pianga. Il suo zelo nella persecuzione non conosceva limiti. Numerose dita di ribelli rimaste senza unghie offrono ancora una discreta testimonianza del suo attaccamento al dovere. Era, se vogliamo, un malato." In seguito alla morte del torturatore Manzanas lo stato spagnolo decise che si doveva fare il processo all'ETA e si dovevano condannare, tutti in una volta, il maggior numero di attivisti possibile. Venne dunque istituito a Burgos "il grande processo contro l'ETA", così come l'hanno definito gli stessi giudici spagnoli o, più alla buona, "el sumarìsimo" (il sommarissimo). In realtà, il processo si sarebbe svolto ugualmente anche senza l’uccisione di Manzanas, dal momento che per Franco diventava sempre più un problema politico doversi confrontare con il fermento sociale di Euskal Herria in opposizione ai “30 anni di pace” propagandati dal regime spagnolo. Il 3 dicembre 1970 iniziò il processo contro 16 prigionieri baschi, tra i quali due sacerdoti, accusati di numerosi capi di imputazione che andavano dall’omicidio, al terrorismo, alla ribellione militare, al possesso illegale di armi. Xavier Izko venne incolpato dell'assassinio materiale di Meliton Manzanas, mentre Teo Uriarte, Jokin Gorostidi, Xabier Larena, Unai Dorronsoro e Mario Onaindia furono imputati di «incitamento all' omicidio». In base ad una legge franchista, i reati politici furono assimilati alla ribellione militare e vennero giudicati da Consejos de Guerra, cioè da tribunali militari. Per i responsabili di terrorismo e di ribellione era prevista la pena di morte e fu chiaro fin dal primo momento che la sentenza era scontata. Il processo si svolse a porte aperte per giornalisti e uditori di tutto il mondo grazie alla massiccia mobilitazione spagnola e internazionale che, nelle settimane precedenti, aveva costretto il Caudillo a ritrattare su alcune condizioni, nella convinzione che sarebbe bastato mostrare al mondo la crudeltà di ETA per far passare l’opinione pubblica dalla parte del governo spagnolo. In un clima di forte militarizzazione (gli imputati presenziarono al processo perennemente con le manette ai polsi), le udienze del Tribunale militare si susseguirono non senza problemi e forti scontri verbali e non tra gli avvocati difensori e i giudici affiancati dalla polizia. Il secondo giorno giunsero voci di scioperi, manifestazioni e negozi chiusi in segno di solidarietà in tutto il paese basco: c'era una grossa manifestazione a Cestona, dove la caserma della Guardia Civil era stata assediata ed erano stati costretti a far giungere rinforzi dai paesi vicini per mettere in fuga gli assedianti. Si raccontava di barricate a Tolosa e nella periferia industriale di San Sebastiàn, di gruppi molto numerosi di fedeli che si chiudevano nelle chiese in segno di silenziosa protesta. Nel frattempo ETA decise di rapire il console della Germania occidentale a San Sebastian, Eugen Beihl, facendo sapere che avrebbe subito la stessa sorte degli imputati. Il 26 dicembre, dopo aver atteso la fine dell’interrogatorio dell’ultimo dei prigionieri baschi, tutti gli imputati si alzarono in piedi al grido di «Baschi liberi». Mario Onaindia sostenne di considerarsi «prigioniero di guerra», poi balzò sul banco dove si trovava il procuratore militare provocando la reazione di numerosi agenti di polizia che fecero barriera dinanzi agli imputati. Nella confusione, un poliziotto estrasse la pistola ma un collega lo convinse a rimetterla nel fodero mentre un ufficiale, membro della Corte, sguainò una sciabola. La sala venne sgombrata e la Corte si ritirò. Le richieste di pena formulate poco dopo furono di condanna a morte per sei imputati e condanne complessive a 752 anni di reclusione per tutti e sedici. Nonostante l’esito negativo, il 28 dicembre ETA decise di liberare Eugen Beihl e il 31 Franco fu costretto a commutare le pene di morte in ergastoli, schiacciato dalle pressioni delle piazze e ormai screditato sul piano internazionale.
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Newsletter di luglio dell’Associazione Lost Orpheus Multimedia
MUSICA
In uscita il primo Cd ufficiale del Lost Orpheus Ensemble: “Ruins- Orizzonte meridiano”
E’ in uscita il primo CD ufficiale del “Lost Orpheus Ensemble”, dal titolo “Ruins- Orizzonte meridiano”. Il disco si inserisce nella corrente del rock avanzato, sfruttando le sonorità del genere per articolare un discorso che si sviluppa nei testi, di forte attenzione al mondo d’oggi. I testi parlano di giovani che scelgono di andare a studiare dal mezzogiorno vero le grandi città del nord, ma che restano delusi delle esperienze che incontrano (“Bocconiana”). Altre storie riguardano le problematiche ambientali legate al petrolio, che in alcune regioni del sud come la Basilicata, sono fortemente sentiti (“Petrolio”, “Ruins”, “SS598”). Diverse canzoni parlano d’amore ma in maniera inconsueta (“Due derive”). Poi ci sono diversi brani strumentali che hanno modo di mostrare una timbrica particolarmente raffinata nell’uso degli strumenti e del loro assemblaggio.La musica ha un impianto power pop, che sconfina nel cantautorato rock e nell’indie rock più aggiornato: si basa su melodie sempre accattivanti e scolpite, tanto da lasciare una traccia già al primo ascolto, e un suono potente realizzato dall’elettronica, ampiamente usata dal gruppo.
L’arrangiamento musicale dei pezzi è stato super curato per dare l’idea di un suono quanto mai raffinato e pieno, che accompagna testi poetici ed evocativi. La strumentazione usata è semplice, pur nella sua completezza, accanto alla voce un paio di tastiere, di cui una synth, una chitarra elettrica, un sax, un violoncello e una batteria. Tutto concorre ad esaltare i testi delle canzoni.
I componenti del gruppo sono: Daniela Moles, al canto, Antonio De Lisa, alla chitarra e al sax, Noemi Franco, alle tastiere e al synth, Emanuele Libutti, al violoncello, Jacopo Colangelo, alla batteria.
Il CD è in vendita a 10 euro ed è possibile richiederlo:
– presso la sede dell’Associazione Lost Orpheus Multimedia, in Via del Popolo 127, 85100 Potenza;
– per e-mail: [email protected]
-sulla pagina Facebook del gruppo http://www.facebook.com/lostorpheusensemble/
Uno sconto del 20% verrà praticato a chi dimostra di seguire il gruppo sulle principali piattaforme musicali, come Spotify, Deezer, Youtube, Napster.
Distribuito online a:
iTunes, YouTube Art Tracks, Spotify, Amazon Music, Google Play, Deezer, Groove, iHeartRadio, Napster, Simfy Africa, MediaNet, VerveLife, Tidal, Gracenote, Shazam, 7Digital, Juke, Slacker, KKBox, Akazoo, Anghami, Spinlet, Neurotic Media, Yandex, Target Music, ClaroMusica, Zvooq, Saavn, NMusic, 8tracks, Q.Sic, Musicload, Kuack, Boomplay Music, Pandora, Amazon On Demand
TEATRO
Lost Orpheus Teatro alla Rassegna “Roma Comic Off”
Lo spettacolo “Feast Food & Fashion Show” della Compagnia Lost Orpheus Teatro alla rassegna Roma Comic Off a settembre nella capitale
Il copione di “Feat Food” è qui: https://adelisa.me/2016/05/11/antonio-de-lisa-feast-food-copione/
Il copione di “Prove tecniche di Utopia” è qui: https://adelisa.me/category/g09-prove-tecniche-di-utopia/
PROGETTI
Pythagoreion- Progetto di musica e matematica
Informazioni sul progetto:
“Pythagoreion” è il titolo generale del progetto intrapreso dal Lost Orpheus Ensemble per illustrare e divulgare il rapporto tra musica e matematica.
“Derivazioni” è il titolo dell’album originale del Lost Orpheus Ensemble con le proprie musiche elaborate attraverso la generazione di processi algoritmici.
BANDI E RICHIESTE
Lezioni di musica rock, pop e jazz 2018: Teama della nuova edizione: Il suono della poesia. Per una storia della canzone moderna
Il Lost Orpheus Ensemble sta preparando un nuovo ciclo di lezioni-concerto dal titolo “Il suono della poesia. Per una storia della canzone moderna”.
I Lost Orpheus cercano cantanti
In vista dell’iniziativa citata sopra il Lost Orpheus Ensemble intende allargare la cerchia dei musicisti coinvolti offrendo la possibilità a cantanti, donne e uomini, di collaborare con il gruppo.
Si tratta di collaborare alla realizzazione di 5/6 programmi di musica dai primi anni del Novecento a oggi. Per fare un esempio si organizzeranno lezioni sul cantautorato (De Andrè, Bob Dylan), sul canto jazz e funky, sul musical, sulla musica di scena e di teatro.
Come si vede si prenderanno in considerazione tutte le forme vocali della musica leggera. Per adesso escludiamo le forme di canto lirico per motivi di tempo e di tematica. Con questa iniziativa vogliamo consolidare il rapporto con la città così ben instaurato nel corso delle passate lezioni. La sigla di Musicacittà parte da lontano, dal 2001, e dopo un periodo di pausa riprende a far sentire la propria voce nel capoluogo della Basilicata, con il nuovo nome di “Festival di Teatro e Musica Orizzonte Meridiano”.
I provini avverranno nello studio dell’Associazione Lost Orpheus Multimedia, in Via del Popolo, 127-129, 85100 Potenza. Chi è interessato può contattare l’associazione al numero 0971-37457 o a questo indirizzo mail: [email protected]
LOST ORPHEUS MULTIMEDIA
Ufficio Stampa Via del Popolo 127-129
85100 POTENA (ITALY)
tel. 0971-37457
E-mail: [email protected] Web site: http://www.adelisa.it
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Site: www.adelisa.it
E-mail: [email protected]
Deposito opere presso la SIAE
Le opere teatrali e musicali di Antonio De Lisa sono depositate presso la SIAE
Sezione Musica
Sezione Teatro – Sezione DOR (Opere Drammatiche e Radiotelevisive)
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“ Il giardino che circonda la villa del Consolato è folto di acacie e di pini. Svegliati dal chiaror degli incendii gli uccelli si muovevano sui rami, in silenzio, sbattendo le ali. «Hanno paura. Non cantano» disse Sartori alzando gli occhi verso le chiome degli alberi. Poi aggiunse, mostrandomi con la mano una macchia scura sul muro della villa: « Guardate quel muro, c’è una macchia di sangue. Uno di quei poveretti si era rifugiato qua dentro, alcuni gendarmi sono entrati, e lo hanno quasi ammazzato lì, contro quel muro, col calcio del fucile. Poi se lo son portato via. Era il proprietario di questa villa, un galantuomo». Accese un’altra sigaretta, si voltò lentamente a guardarmi: « Ero solo, » disse « che potevo fare? Ho protestato, ho detto che avrei scritto a Mussolini. Mi hanno riso in faccia». «Hanno riso in faccia a Mussolini, non a voi ». « Malaparte, non mi sfottete. Mi sono messo anche in collera, e quando io mi metto in collera... » disse con la sua aria placida. Continuò a fumare, poi aggiunse: «Avevo chiesto al colonnello Lupu, fin da ieri, un picchetto di gendarmi per proteggere il Consolato. Mi ha risposto che non ce n’era bisogno». «Ringraziate Dio! Con la gente del colonnello Lupu è meglio non aver nulla a che fare. Il colonnello Lupu è un assassino». «Eh sì, è un assassino. Peccato, un così bell’uomo! ». Io mi misi a ridere, volgendo il viso per non far vedere a Sartori che ridevo. In quel punto udimmo nella strada urli disperati, e alcuni colpi di pistola, poi gli orribili, gli insopportabili, i sordi e molli tonfi dei calci di fucile nei cranii. « Ora cominciano a scocciarmi veramente » disse Sartori. Si alzò con la sua flemma napoletana, attraversò placidamente il giardino, aprì il cancello, e disse: «Entrate qui, entrate qui». Io ero uscito in mezzo alla strada, e spingevo dentro il cancello una turba di gente istupidita dal terrore. Un gendarme mi afferrò per un braccio, io gli diedi con tutta la mia forza una pedata nel ventre. «Avete fatto bene, » disse Sartori tranquillamente «quello screanzato se la meritava». Doveva essere proprio in collera, perché aveva detto una parola grossa. « Screanzato», per lui, era una parola grossa. Rimanemmo tutta la notte seduti sulla soglia, fumando. Ogni tanto uscivamo in strada, spingevamo gruppi di gente lacera e sanguinosa dentro il Consolato. Ne raccogliemmo, così, un centinaio. « Bisognerebbe dar qualcosa da mangiare o da bere, a questi poveretti» dissi a Sartori quando, dopo aver medicato alcuni feriti, tornammo a sedere sulla soglia. Sartori mi guardò con uno sguardo di cane. «Avevo un po’ di provviste, ma i gendarmi che hanno invaso il Consolato mi hanno rubato tutto. Pazienza». «’O vero?» gli domandai in napoletano. «’O vero» rispose Sartori sospirando. Mi faceva piacere star vicino a Sartori in quei momenti, mi sentivo sicuro accanto a quel placido napoletano che dentro di sé tremava di paura, di orrore, di pietà, e non batteva ciglio. «Sartori,» gli dissi «noi combattiamo in difesa della civiltà contro la barbarie». «’O vero?» disse Sartori. «’O vero» risposi io. L’alba era ormai spuntata nel cielo sgombro di nubi. Il fumo degli incendii stagnava sugli alberi e sui tetti. Faceva un po’ freddo. « Sartori, » gli dissi « quando Mussolini saprà che hanno violato il Consolato di Jassy, farà cose ’e pazzi». «Malaparte, non mi sfottete» disse Sartori. «Mussolini abbaia, ma non morde. Mi caccerà via perché ho dato asilo a quei poveri ebrei». «’O vero?». «’O vero, Malaparte». “
Curzio Malaparte, Kaputt, Introduzione di Mario Isnenghi, Mondadori (collana Oscar n° 1102), 1978; pp. 151-53.
[ 1ª ed. originale nel 1944 presso l’editore Casella di Napoli ]
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