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#pensieri cavallereschi
maimoncat · 1 year
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Poco fa ho visto la produzione del Glyndebourne di Alcina, con la regia di Francesco Micheli. È una produzione fantastica, che si può noleggiare a 11 euro. Ho pensato di postare qui un disegno di due anni fa delle sorelle
Morgana, sebbene non appare nel Furioso, ha un ruolo importante nell'Innamorato di Boiardo, dove è uno degli antagonisti soprannaturali principali del romanzo. Assume aspetti di quasi ogni fata dei racconti bretoni (l'altro mondo subacqueo, l'amante rapito, il cervo bianco dalle corna d'oro) mescolati alla Fortuna personificata dell'immaginario italiano: infatti porta i capelli corti col ciuffo, e Orlando deve rincorrerla e acciuffarla per raggiungere i propri scopi. Come nel ciclo bretone, è un personaggio ambiguo, non buono, ma con aspetti anche umani. Nel folklore italiano è diventata la fata malvagia per eccellenza, e al Sud si dice che viva su un palazzo fluttuante sullo Stretto di Messina. In Sicilia è anche conosciuta come la madre delle fate e delle Donne di Fuora.Alcina appare in entrambi i Romanzi cavallereschi, ed è una maga ingannatrice, che incanta gli eroi Astolfo e Ruggiero per tenerseli sulla sua isola, finchè non se ne annoia e li muta in piante, rocce ed animali. Quando peró Ruggero fugge, grazie all'aiuto della strega Melissa, l'incantevole fata conosce per la prima volta l'abbandono e desidera morire, cosa per lei impossibile. Anche lei trovó gran successo nelle leggende, venendo identificata con la Regina Sibilla, la sovrana delle fate. Da lei Händel trasse la sua omonima operaLogistilla è stata inventata da Ariosto, e le vicende che la riguardano sono un'allegoria per la difficoltà di evitare i piaceri e i vizi, ricompensata però dalla vera gioia della Ragione e Virtù (il suo nome infatti deriva dal greco λόγος, "parola", "ragionamento"): Ruggero per raggiungere il suo bellissimo palazzo che rispecchia i pensieri della gente, pieno di oggetti meccanici o miracoloso, deve prima attraversare l'ardua strada piena di ostacoli sull'isola delle fate, venendo continuamente tentato dalle damigelle di Alcina. Forse è proprio per questa sua natura allegorica, che Logistilla è stata perlopiù dimenticata. Appare solamente nella fiaba della "Regina Marmotta", raccolta da Gherardo Nerucci, e aggiunta alle "Fiabe italiane" di Calvino. Lì il suo nome diventa Lugistella, e così, dato che Alcina nel Furiosa è paragonata al Sole, ho voluto dare alle tre fate un tema astrale.
Hab vor kurzem die fenomenale Glyndebourne Produktion von Alcina geschaut, also wollte ich mal hier dieses alte Bild von den Mädels posten.
Morgana taucht zwar im Furioso nicht auf, spiel aber im Innamorato eine wichtige Rolle als magische Shurkin. Boiardo gab ihr sowohl Eigenschaften der Bretonischen Feen (unterwasser Zauberwelt, entführter Liebhaber, weißer Hirsch mit goldenem Geweih) als auch der Italienischen Glücksvorstellung: sie trägt nämlich ihr Haar kurz und Roland muss sie verfolgen und am Schopf packen, um zu siegen. Morgana wurde zu der bösen Fee schlechthin im Italienischen Glauben und man sagt, sie lebe auf einem schwebenden Achloss auf der Straße von Messina. In Sizilien glaubt man auch, sie sei die Mutter der Feen und Donne di Fora.Alcina kommt in beiden Ritterepen vor, und ist eine tückische Zauberin, die die Ritter Astolfo und Ruggero bezaubert und auf ihrer Insel fest hält. Danach verwandelt sie sie aus Langeweile in Pflanzen, Steine oder Tiere. Doch als Ruggero dank der Hexe Melissa entkommt, spürt sie zum ersten Mal den Schmerz des Verlassen Werden und wünscht sich den unerreichbar en Tod. Auch sie spielt später eine Rolle in der Italienischen Folklore, wo sie mit der Sibylle, der Feenkönigin gleichgestellt wird. Händel basierte auf Alcina seine gleichnamige Oper.Logistilla wurde von Ariost erfunden und ihre Geschichte ist eine Allegorie für das schwere Überwinden von Genuss und Sünde um Verstand und Tugend zu erreichen (ihr Name selbst kommt vom griechischen λόγος, "Wort", "Gedanken"). Um iheen Fabelhaften Palast, voller technischen und magishen Wundern, muss Ruggero einen weiten schweren Weg überwinden, und den Versuchungen der Alcina wiederstehen. Eben wegen ihrer allegorischen Natur hat sie keinen Platz im Volksglauben gefunden. Nur im Märchen der "Murmeltierkönigin" von Gherardo Nerucci und Italo Calvino gesammelt, taucht sie als Lugistella auf. Darum wollte ich im Bild die Feen mit Himmelskörpern verbinden.
Recentoy watched the amazing Glyndebourne production of Händel's Alcina, so I wanted to post this old picture I had done of the girls.
While not appearing in the Furioso, Morgana plays an important role as Supernatural villain in the Innamorato. Boiardo gave her both elements of Breton fairies (underwater Other World, kidnapped lover, white deer with golden antlers) and of the Italian depiction of Fortune: she has short hair and Roland needs to chase her and grab her by her forelock to succeed. She also found much success in Italian folklore, where she became the go-to evil fairy of Folktales. In the South, she's believed to live on a floating palace on the Strait of Messina and to be the Mother of fairies and Donne di Fora.Alcina appears in both chivalry poems, and is a cunning sorceress who lures the knights Astolfo and Roger on her island and traps them there, before turning them into plants, rocks and animals out of boredom. But when Roger escapes thanks to the witch Melissa, the beautiful Fairy discovers the pain of abandonment and loss. She too found a place in Italian legends, where she was identified with the Sibyll Queen, ruler of the fairies. Händel based his opera "Alcina" on this facinating figure.Logistilla was invented by Ariosto, and her story is an allegory about the hardships at overcomming pleasures and vices in pursuit of reason and virtue (her name comes from the greek λόγος, "word", "reasoning"). Before reaching her truth-revealing castle, full of technological and magical wonders, Roger must go through the dangers of the fairy island, while resisting Alcina's temptations. It's probably because of her allegorical nature that Logistilla barely had an impact on the folk tradition. She only appears in the tale of "the Groundhog Queen", collected by Gherardo Nerucci and Italo Calvino, under the name Lugistella. I tried to use an astral theme with these characters, since Alcina is compared to the Sun too.
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Non è grave
Ero in prima media. Credo fosse maggio, aprile al massimo; non ricordo il mese, in realtà, però ricordo che l'appuntamento era stato fissato durante l'orario scolastico, perché i miei genitori sono venuti a prendermi dopo l'ora di arte. Siamo andati all'ospedale, perché i miei professori avevano detto ai miei che potevo avere dei disturbi specifici dell'apprendimento, o "essere un DSA" come spesso dicono i docenti. Non avevo idea di cosa ciò volesse dire, e non mi sono preoccupato. Poi i test, quelli li ricordo abbastanza bene. Prima un piccolo dettato, fare dei disegni, ed infine operazioni matematiche. Ebbene, i timori dei miei professori, se tali si possono definire, si rivelarono fondati; non sono dislessico, ma ho la disgrafia, la discalculia e la disprassia (disturbi di coordinazione motoria fine). Per quanto riguardava il me stesso di undici anni, questo spiegava perché scrivo come un cane, perché alle elementari riuscivo a cavare dal flauto solo un cacofonico ragliare, e perché non sono mai stato un asso dell'aritmetica; inoltre un mio compagno di classe era dislessico ed aveva degli strumenti compensativi. E per un po' è andata così; non ero un ragazzino intelligente come non lo sono da adolescente. L'odio è venuto dopo. Ci sono molte cose che non posso fare, i miei limiti sono troppi, qualsiasi cosa diventa una sfida. Non posso disegnare, suonare uno strumento, devo fracassarmi il cranio sulle operazioni matematiche più semplici, l'ora di ginnastica è una tortura; vedo tutti attorno a me che possono fare ciò che vogliono, mentre io ho una palla al piede, sarò sempre l'ultimo, scartato dalla selezione naturale. Un DSA, lo stupido della classe, gli "strumenti compensativi" come attestato di inettitudine e incapacità.
Una volta ne ho parlato con mia madre, e lei ha risposto:"Non è grave." Ed in teoria ha ragione; non sono certamente un disabile, né mi permetterei mai di definirmi tale. Eppure, per me è una tragedia.
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stellastjamessongs · 2 years
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The Wedding day pt 2
Darren dimostrò ancora una volta di essere abile a comprendere il suo stato d'animo e ciò comprendeva anche i momenti di silenzio nei quali si perdeva nei propri pensieri e in quei gesti che ne tradivano il crescente nervosismo a poco a poco che si avvicinava il momento temuto. Ne invidiava la posizione: il suo massimo problema sarebbe stata la possibilità di annoiarsi a morte, ma non aveva alcun interesse personale nei confronti degli sposi, del proprio ex e di qualsiasi altro invitato. Da parte propria, invece, aveva la sensazione che quella giornata avrebbe cambiato il corso della sua vita e, per quanto si fosse preparata al momento, non poteva nascondere la tensione crescente. Tuttavia sorrise quando, dopo aver parcheggiato, le aprì la portiera in quei gesti cavallereschi che aveva apprezzato fin dal primo incontro in aeroporto e si strinse al suo braccio. Confidò che fosse bravo a scorgere un ringraziamento anticipato e sentito di tutto ciò che avrebbe fatto nelle ore successive per aiutarla ad affrontare il tutto.
Erano giunti con un buon anticipo che consentì loro di selezionare un paio di posti nella fila dedicata alla sposa e che fossero in una posizione più o meno centrale. Aveva scorto da lontano Lance e Jasmine che invece sostavano dalla parte dello sposo e si erano salutati con un cenno, ricordando con sollievo che almeno avrebbero avuto almeno un paio di certi alleati con cui era assicurata una conversazione degna di tale nome. Non aveva potuto fare a meno di percepire un irrigidimento involontario all'ingresso, da un'entrata laterale, dello sposo e del testimone. Seppur non potesse al momento studiarne i lineamenti da vicino, le figure di entrambi risaltavano nei loro smoking eleganti, più ricercato e ricco quello di Nathaniel, più sobrio quello di Patrick. Erano intenti a parlare tra loro e sorridevano lieti, mentre la stanza si riempiva gradualmente, rendendo sempre più intenso il brusio di fondo e la trepidazione. Fino a quando le prime note dell'organo che intonavano la marcia nuziale non risuonarono nel silenzio e tutti si misero in piedi e si volsero verso l'ingresso, in attesa che iniziasse la sfilata delle damigelle che sembravano tutte rispecchiare uno stesso archetipo: snelle, alte e dai capelli chiari. Stella le conosceva tutte di vista a eccezione dell'ultima che avrebbe scoperto essere l'accompagnatrice di Patrick: una giovane dai capelli castani ma con abbondanti colpi di sole, gli occhi chiari e la figura esile. Indossavano tutte lo stesso abito di quella tonalità di verde tanto cara alla sposa con poche variazioni negli accessori o nella rifinitura dello scollo. Infine giunse Tiffany a braccetto di suo padre: aveva optato per un abito  a sirena di pizzo, dal color avorio chiaro che ne metteva in risalto la figura longilinea e le forme con un ampio scollo a V e le maniche lunghe. Il corpetto era impreziosito da una cintura in raso. Era stretto fino alle ginocchia e si apriva infine in una gonna ed era dotato di un lungo strascico. I capelli erano semiraccolti e ricadevano in boccoli di un biondo dorato. Camminava con sicurezza ed eleganza, come se tutta la sua vita, fino a quel momento, l'avesse condotta a quella lenta sfilata verso la navata, godendosi ogni singolo passo e ogni sguardo che le era rivolto. Seppur consapevole dei molti scatti e dei filmati, incrociò lo sguardo dello sposo e sembrò dimentica di tutto, a eccezione del padre che baciò affettuosamente, prima di prendere posto accanto all’amato e rivolgersi al celebrante. Se non altro, considerò Stella tra sé e sé, in quella fase, era un'invitata come tutte le altre e nessuno le avrebbe rivolto lo sguardo.  Si era concentrata sulle varie fasi della celebrazione. Il suo cuore, tuttavia, aveva avuto un guizzo più rapido quando era giunto il momento dello scambio delle promesse e degli anelli. La voce di Tiffany era sembrata vacillare, farsi tremante e roca, seppur sorridesse sempre, ma Stella si era concentrata sul testimone. Non poté fare a meno di chiedersi se anche lui l'avesse cercata con lo sguardo, se si fosse posto il problema della sua presenza o se semplicemente lui stesso stesse pensando che avrebbero dovuto loro stessi ripetere analoghe parole e compiere gli stessi gesti. Aveva sospirato profondamente e il suo volto si era fatto più granitico. Non importava quante volte si fosse ripetuta che non avrebbe dovuto importarle, quel pensiero restò a lambiccarla fino alla fine della cerimonia, tanto quasi da dimenticarsi il ragazzo al suo fianco.
Infine gli sposi percorsero insieme la navata, mano nella mano, scambiando sorrisi e saluti con gli ospiti più vicini, gli amici e i parenti. Patrick aveva atteso, seguendo con lo sguardo la coppia appena sposata, prima di porgere il braccio all'ultima damigella. Quest'ultima gli rivolse un sorriso adorante e gli si avvicinò a baciarne la guancia, prima di lasciarsi condurre a sua volta. “La parte più semplice è andata,” commentò Stella in un sussurro, stringendosi nel pellicciotto, quasi sentisse freddo, nonostante fossero all'interno. Lei e Darren, come di rito, si erano messi in fila per porgere il saluto e le felicitazioni alla coppia e se Stella rimase del tutto neutrale allo scambio di saluti con Nathaniel, si sentì quasi assordare dallo squittio deliziato di Tiffany. Non le era sfuggito, tuttavia, il modo in cui lo sguardo l'avesse letteralmente trafitta, studiando la sua figura in quello sgargiante colore acceso. “Stella!” aveva trillato, chinandosi a baciarla rumorosamente su entrambe le guance, attenta a non sgualcirle la pettinatura. “Ma guarda chi ha abbandonato i suoi abiti color pastello e dalle decorazioni floreali e che scollatura audace... immagino che sia merito tuo,” aggiunse in direzione di Darren. “L'ho sempre pensato che avresti dovuto osare di più, sei davvero molto... captivating!” Si era poi volta al suo accompagnatore, scambiando un bacio di saluto anche con lui, prima di presentargli ufficialmente il proprio sposo e poi congedarli in attesa di rivedersi al ricevimento.
La villa che avrebbe ospitato il ricevimento non era molto distante e, in attesa che gli sposi tornassero dal loro servizio fotografico, gli invitati erano stati accolti in una stanza lussuosamente arredata. Stella notò che le rose bianche si alternavano a quelle artificialmente colorate della stessa tonalità di verde che era il motivo dominante della festa. Era stata allestita una gran tavola su cui erano disseminate pietanze da buffet in una ricca varietà tra dolce e salato, i baristi erano già collocati dietro un bancone pronti a soddisfare gli ospiti con cocktail, vini e champagne per i più disparati gusti. Vi erano inoltre piccoli tavoli circolari che consentivano di accomodarsi, nell'attesa di spostarsi nella sala da pranzo, quando fossero giunti gli sposi. Si sentì letteralmente travolgere dal brusio incessante, dalla calca quasi opprimente di ospiti, seppur fosse positivo il fatto che avrebbero potuto più facilmente confondersi tra la folla e questo avrebbe dovuto rendere tutto molto più semplice. Aveva già avuto modo di scorgere, a distanza di sicurezza, anche i signori Douglas e, con un po' di accortezza, avrebbe potuto evitare situazioni imbarazzanti. Con un sorriso più rilassato, si era volta verso Darren e stava proprio per esprimergli quel sollievo, quando riconobbe la sagoma di Patrick. Molto più vicino di quanto si sarebbe mai augurata. Stava sorseggiando un po' di vino con la sua accompagnatrice e facendo vagare lo sguardo sulla sala, fino a quando non incontrò il suo sguardo.
Il sorriso si congelò sulle labbra di Stella che si strinse istintivamente più forte al braccio del suo accompagnatore. “Non ti voltare – lo incalzò a bassa voce – ma ho appena incrociato lo sguardo di Lucifero” continuò a spiegare muovendo appena le labbra. Attese e le sembrò che il tempo si fosse congelato, augurandosi che tornasse a dedicarsi alla ragazza che aveva di fronte e fingesse educatamente di non averla vista. Fu invece con un sussulto che lo vide mormorare qualcosa in direzione di lei e porgerle il proprio bicchiere. Non c'erano dubbi: si stava avvicinando. “Ok, sta arrivando, ok, niente panico: vorrà solo fare un saluto educato e distaccato,” mormorò più a proprio beneficio che a quello del suo accompagnatore. Finse di non averlo notato e di essere totalmente assorbita dal giovane al suo fianco a cui iniziò a carezzare i capelli sulla nuca, quasi lei stesse ne avesse bisogno per rilassarsi.  “Dannazione a lui – soffiò invece al suo orecchio in tono evidentemente polemico e indignato - avrebbe potuto rendermi le cose più semplici: non poteva perdere i capelli o ingrassare di venti chili da quando mi ha mollata?!”  
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darthdodo · 4 years
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Giochi senza frontiere nei rigurgiti di certi Delfinati e nelle mani di quelle Società di Nazioni Ladroedificate
Alla fine della seconda guerra mondiale il conflitto aveva piegato le nazioni, i reduci, i sopravvissuti, ogni individuo disparato, disertore o mercenario, tra le fazioni in armi di un continente in fiamme, in macerie, in miseria; dove tutti ora nei rispettivi eserciti vincitori e non, erano degli scampati che avevano perso qualcosa, o che come fantasmi vagavano alla ricerca di una stabilità, una normalità, una vivibilità.. in un deserto di polvere, desolazione, devastazione, come cittadini senza colore, bandiera, riferimenti.. ridotti a soli testimoni, e contingenza di combattenti pronti alle logiche più spietate delle nuove armi, micidiali, non convenzionali, e le più imprevedibili che si ricordino in numero e in letalità.
Per varie ragioni le diverse parti si contendevano altrettante diverse forme di supremazia, di violenza, di crudeltà, nel singolar tenzone in rappresaglie e ritorsioni in sfregio a tutto quello che si credeva immaginabile, onorevole sul campo, e occidentale fuori dai teatri dello scontro, nella cultura che rapprendeva anime e pensieri nei calderoni dei codici di comportamento, in dei pretesti giustificabili cavallereschi perfino, mentre si sradicavano scrupoli e si trasformavano le persone in bestie, spremendole, riducendole in recipienti svuotati e riempiti di tutto e quella disumanità indispensabile oltre la leggerezza e l’indifferenza dei più cruenti potentati, in una primavera nuova forma di devianza, di ferocia finalizzata oppure nell’ingenuità che ancora si riteneva come tanti pilastri della civiltà moderna una scelta non sacrificabile; nel corso di un decennio ad ogni riconoscimento di successi ottenuti e spartiti sul campo come dei trofei, dei souvenir, delle mostruosità di cui vantarsi al raggiungimento di una vittoria totale, augustea, accettabile nei costi e nei sacrifici, nei danni collaterali, e negli spargimenti dei dispiegamenti mostruosi anch’essi ad ogni campagna militare della storia, che ogni volta in un clima d’odio e incertezza innescava un gioco delle ombre, legittimando, scandendo, suggestionando i tempi della propaganda, le motivazioni feroci e nell’eredità di un esperienza incancellabile residuata dal primo conflitto mondiale, e rinnovata come una fede negli schieramenti e nelle organizzazioni militari di tutto il mondo, vedeva il suo destino compiersi proprio laddove si difendevano e si coltivavano forme di precisione, di repressione, di automatismi e di autocompiacimenti reciprocamente sadici e rinchiusi nei frutti avulsi di chi alla fine si convince o semplicemente viene costretto a passare per vie traverse, a uccidere impunemente o magari obbligato per difesa a decidere fra se stesso e gli altri simili.. 
Un guazzabuglio di interessi, favori che sfiorano condizionano, dilaniano apparentemente da lontano le questioni di una guerra che asseconda quei campioni del dolce vizietto di guidare le truppe da dietro-le-quinte quasi giocassero ai soldatini e intanto manovrassero il filo conduttore che tira quei burattini e li spinge fino alla morte, conducendo esperimenti comportamentali, etologici, a cascata consequenzialista e a scalata sui gruppi umani.. 
Un destino inevitabile, imperdonabile, irrimediabile che il più delle volte fa la differenza tra salvarsi con un gesto estremo di puro istinto, sferrando un colpo di grazia fatale per poterlo raccontare oppure induce ogni uomo che recita il padrenostro ad un gesto di estrema ratio in una vera e propria carneficina della maturazione individuale capace di tramutare e cambiare le persone  nella culla dell’accondiscendenza bestiale che esiste in quella indole macellaia e semplicemente omicida lievita di aggressività tipica di chi si offre come volontario e di solito ha tanti esempi al suo fianco..
Scrupoli infranti nonostante le mille spiegazioni di questi artisti della menzogna, fra alibi e compromessi, debolezze, errori e orrori, che spingono perfino i più pignoli a considerare le circostanze fino ad omettere le parti e le motivazioni che esistono negli eroi e in ogni uomo pieni di principi, tra le pieghe dell’umanità e la temperanza o fermezza (ma che anche per certi smidollati valgono il tempo di un amen) limiti nei quali pure altri mietitori di morte invece si distinti, conferiscono una radiosa dedica per meriti straordinari.. salvatori agli occhi dei loro figli e delle generazioni che li giudicano, lasciando quei gesti e quei punti di vista, a posteriori, luogo per ritenersi ancora forti e meno codardi di poter travisare fatti inaccettabili, inenarrabili, insopportabili; eppure malgrado la ferocia e la lucida mentalità fredda che fa dei sopraffatti carne di prima scelta gli scrupoli in essi resistono e aleggiano nello spirito degli indecisi, degli indifesi, e degli indifferenti ancora e anche perché e per quanto gli uomini, spinti dalla sete di vendicarsi, e avranno sempre la volontà di lottare moralmente.. li accompagneranno per sempre nel loro cammino contro avversari irriducibili.. spingendo le vecchie generazioni contro le nuove generazioni sulle corde vigliacche della sufficienza o dell’arroganza in chi sta per scoprire e tastare da vicino (in ciascuno) sul ring e in quel limite che corre lungo la schiena di un essere umano (dal sangue freddo o dal sangue marcio e bastardo) messo alle strette o con le spalle al muro quando s’imbatte in un mitra spianato.. e allora non razionalizza o si da la briga più di capire cosa é nel suo puro diritto iniziativa o una reazione di difesa ad una minaccia reale poiché questo rappresenta adesso un’intenzione e quel sacro (nel giusto o nel torto) valore morale che non é più moralmente sbagliato contrastare o deplorare. 
Un limite che ad un certo punto fa il passo più lungo della gamba di un senso compiuto e trova chiunque a prendere una decisione, una posizione, una ragione o mille buone ragioni e valide scuse per dover scegliere e reagire alla paura e/o nella maniera più umana e/o disumana possibile : e cioè rendendosi capaci di straziare il proprio nemico, e infierire finoltre ogni immaginazione, quando tutti quei soldati che combattono per ritornare a casa non vedono più nessuna causa, e nessuna luce di speranza davanti a una morte certa.
Un teatro di battaglie dove l’ideale tangibile di una distruzione a tutti i costi era é e sarà sempre motivato e indottrinato da un'educazione a uccidere, mentre degli uomini si scannano ed altri plagiati s’immolano a tal punto di sacrificarsi per la patria e per l'impero di un solo uomo, o perfino preferendo di morire  allo sbaraglio: negli sbarchi in Normandia o nelle prime linee di intere armate in grado di abbattersi come ondate di una sola invincibile forza capace di sgretolare divisioni di determinati, temerari e valorosi.
Gli Uomini che si facevano strada nel mestiere che la storia rievoca, e in quella medesima stessa volta che si ripeteva alle sue ineluttabili battute: poiché esistevano cinque modi diversi di trucidare, ammazzare o sgozzare il nemico:  nel nome di un pensiero universale e nella natura insensibile di ogni americano che veniva chiamato alle armi e alle prime occasioni uccideva d’istinto per affinarsi col tempo.. a sangue freddo come degli inglesi reclutati per sferrare attacchi memorabili o come dei tedeschi rimbambiti coll’obbedienza che entravano nelle case di ignari cittadini e con la smania negli occhi scatenavano la loro foga sugli indifesi e non ultimi ..allo sbaraglio come dei giapponesi coi paraocchi che quasi quanto i russi non scrivevano altro che la memoria di un lurido scenario sceso a patti nel dopoguerra e nelle tenebre della cortina di ferro: complici inconsapevoli che “insieme” ai compromessi di un orrore comune rappresentavano un precedente e un presentimento di quella violenza cieca che li avrebbe seguiti e maledetti consegnandoli ai loro figli e alla memoria come le gloriose pedine del triplogiochismo internazionale .. e infine nel divertimento di pochi, civili e illustri comitati fieri di riuscire a vantarsi dell’atto frenetico di togliere, strappare, spegnere una vita nel medesimo luogo d’insensibile atrocità. 
Era davvero solamente un fatto di liberazione oppure giustificare quel sangue era necessario a portare una pace di armi e di trattati, convenzioni, assemblee riunite per scrivere e poi riscrivere in calce col sangue degli innocenti quelle paginate di dichiarazioni laggiù a Ginevra. Gerarchi tra i loro mantelli che aspiravano a fottere tutto quel “ben di Dio” (sulla piazza genetica di un continente in rovine) mentre i loro alti marescialli dalle livree decorate che ricordavano la grande guerra sfilavano avanti e indietro dalle stanze dei poteri sovranisti e dei veti nazionalisti, al rintocco dei salotti totalitari.. laggiù a GINEVRA dove i capricci si abbandonano spesso alle fantasie degeneri di certi squilibrati intellettuali contavano più di governi e dittature una sfilza di cani sul piede di guerra, intenzionalmente e dichiaratamente votati all’agire, in un regime di istituzioni nei confronti dei più deboli, in accordo e codardia nello scrupolo di ribaltare le sorti delle masse di pecoroni che in quelle personalità speravano e si erano fidate fino a subirle; in quei giorni bui, che essi pativano quelle decisioni prese con freddezza, con dissennata veemenza, quasi strategicamente arroccate fino all’osceno, nel frattempo chi ascendeva agli onori e prendeva tempo.. preparava un piano per gettare nella mischia anche le giovani leve, nutrendo fila sotterranee di assassini forti della battaglia più cruenta, quella per rimanere vivi: galeotti, predoni, anonimi senza patria e sicari importati da tutte le realtà del mondo che come mercenari cercavano di riscattare il loro nome in un bagno di sangue e di portare in Europa una furia omicida facendola cadere nel baratro dell'inganno mostruoso di un mucchio di montanari coll’accento francese, inglese e tedesco: una potenza militare che abbatteva l'immaginazione e ridisegnava i canoni di una guerra non convenzionale, allora avanzava; e stabiliva in ogni paese il suo avamposto e in ogni sobborgo una batteria d'artiglieria; perché ogni regione adesso conosceva il suo nemico, ogni territorio difendeva il suo settore e proteggeva l'altro in una catena di domini che ad ogni strada presidiava quella successiva, e diventava così un tassello per preservare un sistema di vita dall'attacco dell’invasore o salvaguardare quel che restava della cultura dell’odio e dell’espropriazione dagli assalti di quella dimensione protetta che le famiglie defraudate chiamavano col significato delle parole libertà, identità, normalità, vivibilità, tranquillità.
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pangeanews · 5 years
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“Nel terrore che il mondo non abbia un significato”. Quando Virginia Woolf scrisse il romanzo rivoluzionario, “Mrs. Dalloway”
“È molto più difficile afferrare lei che per lei afferrare quanto chiama vita – ‘la vita: Londra, questo momento di giugno’”, scrive Forster recensendo Mrs Dalloway dell’amica Virginia Woolf. I tre protagonisti del romanzo gli sembrano infatti sfuggire, sottrarsi al lettore, eludere il centro di una prosa fatta comunque d’immagini fulminee, sguardi incrociati e perduti nella grande città, ancorata a un’eccezionale “sensibilità visiva” (“The Yale Review”, aprile 1926).
In filigrana alla storia traluce sempre Londra, mito collettivo e costruzione personale, e lo stesso Lytton Strachey – amico e consigliere – raccomanda a Virginia di “partire dalla realtà” (Diario, 18 giugno 1925). E lei si chiede: “Ho davvero il potere di comunicare la realtà?”. Convinta che le manchi “il dono”, diffidente verso il “basso prezzo” della realtà in sé, decide piuttosto di “disincarnarla” (19 giugno 1923).
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Lo stile dei narratori tradizionali non la soddisfa da tempo. Già in Modern Fiction – del 1919 – chiede che “la sostanza della narrativa sia diversa da quanto l’abitudine ci ha fatto credere”. In lei, che fa combaciare pratica di scrittura e teoria narrativa, s’insinua spesso “un dubbio involontario, uno spasimo di ribellione”: “I romanzi devono essere così?”. No, la vita è “molto lontana dall’essere così: “la mente accoglie una miriade d’impressioni – banali, fantastiche, evanescenti, (…) una pioggia incessante di atomi innumerevoli; e mentre cadono e prendono forma nella vita di lunedì o martedì, l’accento cade in modo diverso da un tempo”.
Il “momento rilevante” può arrivare “non qui bensì là”. L’imprevedibilità travolge ogni parametro narrativo convenzionale: “La vita non è una serie di lampioni piantati simmetricamente; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci avvolge dal principio della coscienza fino alla fine. Non è forse compito del romanziere rendere questo spirito mutevole, misterioso, sterminato?”.
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Ad Arnold Bennett, che in “Is the Novel Decaying?” la taccia di non saper infondere vitalità ai suoi personaggi, lei risponde con una critica aperta ai narratori edoardiani della generazione precedente ( Wells, Galsworthy e lo stesso Bennett): “un giorno di dicembre del 1910 il carattere umano è cambiato (…) è diventato frammentario ed elusivo” (Mr. Bennett and Mrs Brown, 1924). Altrettanto “frammentaria”, “elusiva”, specchio dello “spirito mutevole, misterioso, sterminato” della modernità sarà la sua scrittura.
In quel fatidico 1910 Roger Fry – con George Moore e Lytton Strachey tra i ‘sacerdoti’ di Bloomsbury – aveva portato a Londra la prima mostra di pittori post impressionisti, Manet and the Post-Impressionists – quadri di Manet, Gauguin, van Gogh e Cézanne – che iniziava il gruppo di Bloomsbury alla “percezione modernista”. Per Virginia è il punto di partenza di una vera estetica della frammentazione: una visuale in divenire nei vari sguardi che inquadrano il mondo e personaggi concepiti come “diamanti”, sfaccettati, ‘multipli’, indeterminabili. Discontinui si fanno stati d‘animo e percezioni, sconnessi i dettagli della realtà: il “personaggio, il carattere si disperde – o si moltiplica – in frammenti” (Diario, 19 giugno 1923). In personalità ‘aperte’, prive di contorni, il flusso di pensieri affiora alla coscienza in desideri, memorie, sogni, l’esperienza si sfalda in carrellate d’impressioni, tempo e spazio si sbriciolano nel relativo. O nelle “mille immagini infrante” della Waste Land eliotiana, uscita solo l’anno precedente.
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Bibbia del Modernismo, Mrs Dalloway è una serie di quadri in successione contro il fondale della Londra anni ’20: “ci emozionano”, “pongono un enigma” dice Virginia delle tele di Vanessa (Recent Paintings by Vanessa Bell Premessa). Il suo interesse per la pittura viene dalla sorella, dal cognato Clive, certo, ma anche da sue personali sperimentazioni.
Nei mesi in cui sta preparando il romanzo per la stampa, scambia una serie di lettere con l’amico pittore Jacques Raverat. Prima di trasferirsi nel sud della Francia, lui e la moglie Gwen – artista, née Darwin, nipote del celebre Charles – erano tra i “Neo pagani”, cerchia nata intorno a Rupert Brooke. All’epoca tra il poeta “biondo, bello e di gentile aspetto” e Virginia c’è – forse – più che un’amicizia letteraria.
Brooke è anche il simbolo dell’Inghilterra che ha perso una generazione di ragazzi, partiti per la Prima Guerra con romantici principi cavallereschi e tornati con la mente devastata, come Septimus Warren Smith, che ‘vede’ il suo compagno in armi saltare in aria e ‘sente’ gli uccelli cantare in greco. Brooke però non era tornato. D’altronde, tra fughe a ritroso nel mito della giovinezza perenne, bagni nudi in fiumi di campagna e prove generali di rivoluzione sessuale, i Neo pagani si erano sciolti in breve e parecchi erano confluiti nel più strutturato, più ideologico Bloomsbury.
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Le idee che Jacques Raverat espone a Virginia vanno di pari passo con i suoi tentativi narrativi in Mrs Dalloway (la corrispondenza sarà raccolta nel volume Virginia Woolf & the Ravverats, A Different Sort of Friendship). La difficoltà principale dello scrittore, afferma Jacques, sta nel fatto che scrivere è per sua natura “essenzialmente lineare”, consequenziale: si può leggere o scrivere solo una parola per volta. Scrivere quella parola è dunque come gettare un sasso in uno stagno e “fuori, in aria, ci sono schizzi e spruzzi in tutte le direzioni, e sotto la superficie onde che s’inseguono negli angoli bui e dimenticati”. Per avere la simultaneità della pittura, sa una parola al centro della pagina si ne dovrebbero poter “irradiare” altre correlate (settembre 1924).
Virginia respinge l’idea: i pittori non hanno una maggiore ampiezza di visione, anche gli scrittori “cercano di afferrare, consolidare, esaurire (…) quei tuoi schizzi e spruzzi”.  Lei vuole superare “la linearità della frase”, liberarsi delle “falsità del passato” (la narrativa tradizionale), e inaugurare una moderna narrativa “radiale” (3 ottobre 1924), per cui rivendica il diritto di rappresentare gli avvenimenti fuori del tempo o i movimenti della mente come forme pittoriche simultanee.
Mrs Dalloway non è in effetti un romanzo “lineare” per forma ed espressione bensì “radiale”, uno sforzo di dilatare la storia per cerchi concentrici come i tocchi del Big Ben, riprodurre gli “schizzi e spruzzi” fuori dall’acqua di Raverat. Fissa istanti di bellezza per particolari spezzati – il cielo in un lampione, una foresta di pietra e vetro nei palazzi cittadini – ma ricostruibili nell’insieme in una città omphalos: “Londra è un incanto. Esco e mi trovo rapita nella bellezza – scrive Virginia nel Diario –. Uno stupore le notti, con tutti quei portici bianchi e i vasti viali silenziosi”, di giorno vie “bagnate come il dorso di una foca”. La grande Babilonia di Gay, Thompson, Dickens ed Eliot è leggenda: “raccoglie ed eleva la vita interiore (…) mi piace Londra, per scrivere questo libro” (26 maggio 1924).
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Il libro, la Woolf lo inizia quando ancora vive con Leonard a Richmond.
È un giorno d’estate 1923, in un appartamento elegante nel cuore di Londra, a la sera la padrona di casa, Clarissa Dalloway, darà una festa: questo l’esordio e, in sostanza, quasi tutta la trama.
Dalla finestra aperta, la mattina arriva chiara, carica di aspettative, “fresca come per farne dono a dei bimbi su una spiaggia” simile “al palpito di un’onda, il bacio di un’onda; gelida e pungente eppure (…) solenne”. La città, l’aria-onda, la tensione tra presente e passato: ecco le linee portanti, il tremito lirico ritmato sul respiro del mare e immagini sfolgoranti, contro la campagna di un’Inghilterra ancora ottocentesca, il rimpianto impilato sull’inquietudine modernista.
L’intero romanzo oscillerà tra la giovinezza, con l’eredità di famiglia e la tradizione, e il vissuto e vicino: la mente vaga da un’immagine a un’altra legandole d’un filo tanto sottile da sembrare trasparente, prossimo a strapparsi. Virginia ha appena finito di leggere Proust e sta per reinterpretare nel suo stile, sorpassando l’idea fluida del tempo, quel che il cognato Clive chiama l’abilità proustiana “di riempire e colorare la bolla di sapone del presente con la visione del passato” (Proust, 1928). L’oscillazione farà avanzare solo due dei protagonisti, Clarissa Dalloway e Peter Walsh, verso il futuro. Il terzo, il ragazzo reduce di guerra, vi resterà impigliato.
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Costruita per intuizioni subitanee, schegge d’immagini e meditazioni sottili, la storia darà un “collage”, un “mosaico”. Poiché detesta la fissità della trama – la “terrificante impresa narrativa del realista” la definisce – Virginia sconvolge la tradizione narrativa e alla trama sostituisce l’evocazione dei ricordi, la simultaneità del presente, lo spazio della città di Londra: “Qui c’è Londra – scrive sempre Forster – con tutti i suoi orologi e i negozi e i parchi pieni di sole (…). Qui c’è Clarissa Dalloway, matura, gentile, elegante, piuttosto dura, e superficiale e una terribile snob. Come ama Londra! E qui c’è Septimus Warren Smith – lei non l’incontra mai – un caso di shock causato da una bomba – molto triste – che dietro il coro sente cantare le voci dei morti, e nel cielo vede la sua apoteosi o dannazione”.
E infine c’è anche Peter Walsh, con “le sue buone maniere di gentiluomo inglese di razza”, che lei, Clarissa, aveva rifiutato di sposare. A più riprese le pare di “essere lontana in alto mare e sola”, perché é “pericoloso vivere anche un giorno soltanto”: nel tempo allargato del presente un giorno è simbolo d’eternità. L’imagery corteggia ardita la fine, gravida di riferimenti agli elementi naturali, alberi e sole, nebbia e vento, ‘epifania’ dell’altro deuteragonista: “Importava (…) di dover prima o poi, inevitabilmente, cessare di essere? (…) o non era consolante, invece, pensare alla morte come a una fine assoluta? Ma al tempo stesso credere che in qualche modo per le strade di Londra, nella gran marea delle cose, qua, là, sarebbe sopravvissuta (…). Ma cosa sognava, adesso, mentre guardava nella vetrina della libreria Hatchards? Cosa cercava di rievocare? (…) mentre leggeva nel libro aperto: Più non temere la vampa del sole/ Né dell’inverno le tempeste furiose”.
I versi shakespeariani – il canto funebre sul corpo di Imogene – coronano la meditazione sulla morte, che presto entrerà in scena: “Più non temere…” intima l’austera voce del poeta da una vetrina scintillante del centro. Il passo rallenta, quasi in eco all’“indescrivibile pausa” che ha appena preceduto il boato di Big Ben: la morte è un cambiamento e non una fine, non disperde bensì completa la vita e questa rappacifica le immagini di morte.
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L’intermittente senso di anonimato assoluto è lo stesso degli “ignavi” sul ponte di Westminster nella Waste Land, “la stranissima sensazione di essere invisibile; di passare inosservata (…) con gli altri, su per Bond Street”, “Bond Street di mattina presto durante la stagione, le sue bandiere al vento, i suoi negozi”: nel voler disancorare l’adesso da tutte le piccole cose inutili della vita ordinaria, l’insicurezza è sempre in agguato. Il battere di Big Ben e altri orologi contrappunta i cambiamenti di tempo o sfondo, il tempo cronologico spesso sfasato rispetto al tempo interiore. Mrs Dalloway orchestra l’istante: in poche ore ciascun personaggio attraversa bellezza e orrore, gioia e morte, amicizia e follia.
Mentre Clarissa Dalloway è nella penombra dall’“odore terragnolo” del fiorista Mulberry’s, un colpo di pistola rimbomba improvviso, in strada, proprio lì fuori. È uno sparo, un’esplosione? L’Inghilterra trema ancora: la Prima Guerra Mondiale è finita, ma il suo rumore non è ancora sparito dalla mente e dalle orecchie degli inglesi. La folla reagisce allo sparo, che copre per un attimo il frastuono della via, come un unico individuo, un’unica scia sonora, “voci che passavano invisibili, smorzate, veloci, come il velo di una nuvola scesa sulle colline”.
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Una macchina accosta intanto al marciapiedi di fronte. Simbolo del decoro e della stabilità anglosassoni in una società che li sta perdendo, scossa alle fondamenta dal conflitto recente, la macchina fa entrare in scena la figura più giovane e tragica: bloccato dalla folla è un uomo sui trent’anni, pallido, con il naso aquilino, il soprabito liso e lo sguardo penosamente carico di apprensione. Per Septimus Warren Smith “tutto si è fermato”, anche il sole sembra più torrido. “Il mondo ha sollevato il suo scudiscio: dove si abbatterà?” pensa atterrito, quasi la tragedia riaffiorata minacci di deflagrare in fiamme. E tuttavia non riconosce il rumore identico al colpo di pistola che l’ha reciso via dal mondo. Sta immobile, come nelle trincee che gli hanno annientato la ragione.
Per Clarissa, devota a una rincuorante immanenza ,“è probabilmente la Regina”. Septimus è invece smarrito. Lucrezia, la sua giovane moglie italiana, lo porta via.
Dopo aver increspato di curiosità le facce ai lati della via, la macchina riparte verso Piccadilly. Ma gli sguardi si sono incrociati e ciascuno ha pensato ai morti della guerra, alla bandiera, all’impero: una vibrazione impercettibile ma certa ha “toccato qualcosa di molto profondo”. La scena è magistralmente insistita nella coralità, sociale e culturale, di l’Inghilterra che sta ineluttabilmente cambiando, il cui testimone tragico è Septimus e l’ammiratore nostalgico è Peter Walsh.
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La macchina può quindi varcare i cancelli di Buckingham Palace inosservata perché veloce, libero come un pattinatore, un aereo ha iniziato volteggiare in alto: “la gente si fermava e guardava in cielo”. È un annuncio pubblicitario, ma la folla non lo sa e gli attribuisce un significato enigmatico, quasi oracolare: “Poi d’improvviso, come un treno esce da una galleria, l’aeroplano risbucò dalle nuvole, il suo rombo feriva i timpani a tutta la gente nel Mall, a Green Park, a Piccadilly, a Regent’s Street, a Regent’s Park, e la scia di fumo s’incurvava, si spezzava via via che l’aereo scendeva in picchiata, risaliva e scriveva una lettera dopo l’altra…”.
Tutti leggono le lettere una per volta, senza riuscire a dar loro un senso: come la realtà, come ciò che sta succedendo giù per le vie della città e simbolicamente all’Inghilterra, ciascuno ci vede quel che vuole.
Septimus vi decifra un messaggio dall’altro mondo: mentre continua a fissare “le parole di fumo che languivano e fondevano in cielo” gli occhi gli si riempiono di lacrime. Nell’abbaglio della follia, dai propri singhiozzi trae immagini, “forme infinite d’inconcepibile bellezza”, reagisce con esultanza infantile a fenomeni che la folla riduce a semplice obiettività. Nel suo mondo discorde non separa le impressioni, accumula piani diversi: “miro (…) alla simmetria tramite divergenze infinite, una specie di tutto fatto di frammenti palpitanti” dirà l’autrice (Virginia Woolf, VII). Con l’eccesso di vibrante sensibilità, a Regent’s Park Septimus ripete la breve gioia di Clarissa dal fioraio: ascolta armonie inesistenti, vede ciò che non c’è. Gli olmi con “le foglie accese (…) come pennacchi sulle teste dei cavalli” lo salutano vivi, lo fanno stormire con loro e sui rami passeri “ricadono in zampilli di fontana”, cantano in greco e gli dicono che la morte non esiste.
Una piccola truppa di ragazzi passa con mazze e paletti da cricket tra il via-vai, le vasche di fiori e le sdraio dove siedono anziani. Sul prato si aggirano scoiattoli impertinenti, nugoli di passeri si contendono le briciole e cani annusano gli steccati nell’aria tiepida. Ma Septimus si sente sempre solo: una voce inizia a parlargli, a lui profeta malato “passato dalla vita alla morte”, dell’“eterna sofferenza, dell’eterna solitudine” umana. Personaggio “diamante”, affastella presente e passato, il parco e la guerra, la vita e la morte. Anche lui è spinto a guardare di nuovo in alto: ricomparso in cielo come una freccia scoccata da un arco invisibile, l’aereo fila “sempre più lontano” su Greenwich, le alberature del porto, la “piccola isola di chiese grigie, San Paolo e le altre” nella campagna aperta.
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Clarissa e Septimus non s’incontrano mai, ma entrambi si addentrano rischiosamente nei “recessi di quella frondosa foresta che è l’anima”. Vivono brevi tregue della solitudine e il vuoto che li assediano, lei impegnata a fronteggiare l’inquietudine con l’adesione all’autorità e il distacco ironico, lui alla ricerca di senso in un’esistenza stravolta, convinto di essere minacciato dall’“ordine” della società.
Come lei con l’elegante Westminster, Septimus è legato al luogo in cui vive: Bloomsbury è il quartiere degli intellettuali e della povertà colta e artistica (per questo scelto da Virginia e Vanessa quando decidono di andare a vivere da sole, per l’imbarazzo dei parenti). Tuttavia percorrono le stesse vie di una Londra molto diversa, vicini in mondi separati, uniti solo dall’autrice e dai lettori. Sopravvissuto all’orrore delle trincee, Septimus non riesce a trovare una propria collocazione: “Londra ha inghiottito milioni e milioni di giovani chiamati Smith”. Rifugiato, estraniato flâneur, Septimus vive una città d’incubo: dopo Blake, Wordsworth, Dickens ed Eliot, per lui Londra è una sconcertante, sinistra terra desolata.
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Peter Walsh gli passa accanto al parco e più tardi sentirà la sirena dell’ambulanza venuta a prenderlo, e tutti sono paradigmi del paradosso moderno: l’isolamento nella folla, la disperazione muta nella metropoli. Peter vede anche Rezia che guarda il parco, il sentiero, una bambina che torna dalla bambinaia e lei che depone il lavoro a maglia, tutto distorto dalle lacrime.
Appoggiato allo schienale della panchina, suo marito Septimus fissa davanti a sé. Un fox-terrier, avvicinatosi per annusargli i pantaloni, si è trasformato in un uomo. Salito “ad altezze incommensurabili, disteso sulla spina dorsale del mondo”, lui sente la terra fremergli sotto i piedi, fiori rossi sbocciargli dalla pelle, “musica visibile” intona un peana sul piffero di un pastore: “Lunghe strie di sole gli lambivano i piedi. Gli alberi ondeggiavano, brandivano spade. (…) dovunque si posasse lo sguardo, sulle case, le cancellate, le antilopi dal collo teso oltre i recinti, la bellezza nasceva all’istante. Guardare una foglia tremare alla brezza era felicità”.
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Incapace di comunicare l’immediatezza esplosiva ma incoerente di quel che vede, Septimus vive nel terrore “che il mondo non abbia significato”. Disperatamente, cerca d’innestare i propri slanci poetici nel reale da cui è separato: le sue visioni attraversano eternità, bellezza e dolore, ma il peana è solo il motivetto di un vecchio mendicante fuori dell’osteria e, quando smette, gli lascia la certezza che “qualcosa di tremendo” stia per accadere. Il suo nome allude al numero magico che nel mito dà la forza per ‘vedere’, lui è Virginia nel delirio: “Su in cielo le rondini dardeggiano, descrivono curve ardite (…) con perfetto controllo quasi trattenute elastici (…); e il sole bersaglia una foglia o l’altra, per gioco, abbagliandola con soffice oro (…); e di tanto in tanto qualche campanella (magari un clacson d’automobile) tintinna su steli d’erba…”.
Ma Evans, il suo compagno morto nelle trincee, gli risponde da dietro un albero e tra le orchidee canta dei morti e del loro dolore nei secoli. Septimus Warren Smith è uno degli “eroi dimenticati” dalla società, dopo aver fatto il loro dovere, rigettati ai margini della storia, dopo averla scritta. La guerra l’ha scagliato nella follia ma, prima, lui era un ribelle: un poeta che balbettava per la timidezza, dava conferenze su Shakespeare, amava romanticamente una donna. Septimus non parte per un paese in pericolo economico e politico, l’Inghilterra della maggior parte dei soldati: la sua è l’idea poetica di Rupert Brooke, l’abbaglio di un “angolo di terra straniera/Che sia sempre Inghilterra” (The Soldier, 2-3) in cui essere sepolto (come Brooke stesso), un ideale fatto quasi esclusivamente delle opere di Shakespeare e della donna amata. Combattere nelle trincee non l’ha reso “un uomo”, l’ha distrutto con il fallimento di un mondo, polverizzando in lui illusioni e compassione.
L’apparente spensieratezza delle descrizioni cittadine si svuota: la guerra ha abolito l’età dell’innocenza. Peter Walsh, ammiratore dell’Inghilterra che ha lasciato, nota la fragilità di Rezia, “pallida, misteriosa, come un giglio sommerso” e la disperazione di Septimus.
E tuttavia la sua follia scopre le rovine di una mente lirica, paradossalmente tra le immagini più concrete del romanzo perché, ormai oltre l’esistenza, ogni percezione lui la trasforma in metafore naturali: il promontorio a picco sul mare gli sembra il divano da cui scruta l’abisso, “quell’oro liquido” che splende e sbiadisce sulle rose della carta da parati, gli alberi fuori della finestra trascinano le foglie “come reti attraverso le profondità dell’aria”, riempiono la stanza con rumoreggiare d’acqua e canto di uccelli sopra le onde.
Il distico shakespeariano si svela adesso presagio del destino di Septimus. Per inciso, era stato proprio Rupert Brooke ad iniziare Virginia alla lettura intensiva del Bardo. Lui, Septimus “non teme più la vampa del sole”, il battito cardiaco va sul ritmo delle onde: “Era morto annegato (…), giaceva su uno scoglio e i gabbiani gli stridevano sopra”.
*
Giovani ben vestiti passano, “lieti di essere liberi”: sui loro visi aleggia una gioia che il tramonto fa risaltare. Lo spettacolo appare eccezionale a chi è in India dal 1916: Peter Walsh, “sopraffatto da tanta bellezza”, assiste a un movimento grandioso di pieni e vuoti. Sfavillio di finestre illuminate, e ogni tanto il suono improvviso di un grammofono o la melodia di un pianoforte che scendono in strada: “Appassionante, misteriosa, infinitamente ricca questa vita!”. Vetture passano, innamorati assorti ritardano il rientro. Portoni di palazzi si spalancano per un’anziana dama, domestici in livrea contro colonne candide e giardini interni. “E così via, tra sprazzi e bagliori”, anche la storia va all’epilogo.
Mentre Peter vaga per la città e Clarissa si appresta ad accogliere gli ospiti alla festa, Septimus, il ragazzo che somigliava a Keats, imita il suo poeta: nell’istante cristallizzato delle Odi sfugge al tempo, verso la morte. Colui che una volta era sembrato a Rezia “un giovane sparviero (…) un giovane falco”, per il suo ultimo volo si è gettato dall’ampia finestra di una palazzina di Bloomsbury.
*
La notizia arriva – un’intrusione funesta “pensò Clarissa, nel bel mezzo della mia festa … ecco la morte …”. Una volta, lei aveva gettato uno scellino nella Serpentina a Hyde Park, ma quel giovane ha gettato via la vita. La festa deve continuare, malgrado tutto, con un misto d’invidia e ammirazione per Peter che, mai vinto, non smette di avventarsi con coraggio nella vita e per Septimus, che si è lanciato nel vuoto incontro alla fine, stringendo nelle mani il suo tesoro.
Allora strano, incredibile, si scopre contenta, “mai era stata tanto felice”, perché il gesto del ragazzo soldato le sembra una sfida, un tentativo di conservare la propria anima per “raggiungere il centro che, misticamente, ci sfugge”. Un dono per lei, in un mondo in cui niente dura abbastanza.
*
Niente, tranne la città e “questo cielo sopra Westminster”.
L’orologio dalla torre batte l’ora che segnerà di lì a poco il termine della festa (e del romanzo): un rintocco, poi due, poi tre. Clarissa Dalloway, che ascolta Big Ben, si sente “in qualche modo simile a lui – il giovane che si era ucciso”. Il richiamo all’alto unisce gli ospiti alla festa, il morto ragazzo poeta e noi lettori prima che, per l’ultima volta, i cerchi di bronzo si dissolvano uno a uno, caldi e pesanti, nella notte di Londra.
Paola Tonussi
*In copertina: Nicole Kindman è Virginia Woolf nel film “The Hours” (2002) di Stephen Daldry; per l’interpretazione ha ottenuto un Oscar nel 2003
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senzasterischi · 6 years
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Contro la galanteria
“Eh, ma deve pagare lui. Paga l’uomo.”
È una stronzata. Penso che ormai sia chiarissimo il fatto che è una stronzata. È una stronzata l’idea che l’uomo debba pagare, debba cedere il posto, debba far passare prima la donna; come è una stronzata l’idea che debba essere l’uomo a prendere l’iniziativa, e che debba essere lui a occuparsi di tutte le incombenze pratiche che capitano sotto tiro, dall’arrostire al fare benzina al montare l’ombrellone. Arrostisce chi sa arrostire meglio e chi ne ha più voglia: ecco una legge buona per ogni scampagnata.
So benissimo (o almeno spero) di non starvi dicendo assolutamente nulla di nuovo. Spero seriamente che tutti voi abbiano già sentito questi discorsi.
Voglio dare tutto quello che ho scritto qua sopra per assodato. Ciò non significa che mi aspetto che siate tutti d’accordo o che nessuno sollevi obiezioni: sto semplicemente stabilendo un terreno di conoscenze comuni, sulle quali costruire qualcosa, e magari chiarire qualche equivoco.
Riflettevo su questo video, e ho pensato che, in effetti, il discorso spesso viene posto su basi un po’ improprie.
Molti pensano che sia sbagliato che debba pagare l’uomo, e sono d’accordo con loro.
Solo che molti pensano che sia sbagliato in quanto è “sessismo al contrario”, e questo ragionamento, secondo me, è piuttosto pericoloso. Se pensiamo che fare una battuta misogina sia “sessismo” e invece prendere in giro un uomo che piange sia “sessismo al contrario”, rischiamo di precipitare in un’infantilissima guerra dei sessi, di vedere tutto in bianco e nero e farci sfuggire molte complessità. Non è un “do ut des”, non si tratta di “gli uomini devono rispettare le donne e in cambio le donne devono rispettare gli uomini”.
Il sessismo, signori, è uno solo. E fa male a tutti.
Obbligare un uomo a pagare la cena a una donna danneggia tanto l’uomo quanto la donna.
Anzi, la donna in questione riceve a livello implicito un messaggio che è ben peggiore di qualunque perdita monetaria.
Rifletteteci. Cos’è la galanteria? Su quale basi poggia?
Se gli uomini sono costretti a pagare la cena alle donne, questo è un indizio di un pensiero ben peggiore: è normale che la donna dipenda economicamente dall’uomo.
Se gli uomini devono alzarsi e cedere il posto alle donne, questo implicitamente porta a pensare: l’uomo è più forte della donna.
Se gli uomini devono astenersi dal dire parole oscene “in presenza di una signora”, devono far passare le donne per prime, devono essere galanti, il messaggio è: le donne sono delle creature fragili, che devono essere protette e guidate, tenute sotto una campana di vetro; gli urti della vita sono qualcosa con la quale devono avere a che fare gli uomini.
Obiezione #1: «Stai esagerando, nessuno pensa quelle cose».
Certamente! È verissimo che è davvero improbabile che il ragazzo che ti ha offerto da bere ieri sera avesse pensieri misogini, e può darsi benissimo che lui sia la persona più aperta di questo mondo.
Ma – mi preme dirlo, visto che questo è solo il secondo articolo di questo blog – io sono nata eziologica, e mi rifiuto di fermarmi all’apparenza. Penso che ogni cosa possa avere più e più livelli di interpretazione, più e più cause, cause che generalmente hanno poco a che fare con l’individuo.
Però l’individuo, con le sue azioni, può lentamente smorzare una logica che non ha ideato lui.
Obiezione #2: «Sono atti di cortesia, che c’è di male a essere gentili?»
Assolutamente nulla. Anzi: una persona che non si offre di pagare durante un appuntamento, secondo me, rischia di rivelarsi piuttosto spilorcia, anche se dipende moltissimo dal contesto. Questo vale sia per gli uomini sia per le donne. Non è sbagliato essere gentili, anzi! Ma è sbagliato pensare che solo gli uomini debbano essere gentili, e soloverso le donne.
In realtà, alla fine, il mio appello è più rivolto alle donne che agli uomini: la prossima volta che uscite con qualcuno, offritevi di pagare voi. Ammesso che non sia già vostra abitudine. Poi magari lui accetta, magari no, magari fate alla romana, magari fate una volta ciascuno, ma avrete già fatto un grandissimo passo avanti.
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Concludo con una nota storica (e secchiona), se no non sono contenta. Mi rivolgo a tutti e tutte coloro che di tanto in tanto se ne escono con la frase “Ah, la cavalleria non esiste più!”
E meno male.
Ora, io a volte immagino questi individui così: chiusi nella loro bibliotechina personale, circondati da romanzi cavallereschi e libri vari di poesia provenzale, che sfogliano per la ventesima volta il De amore di Andrea Cappellano. (Nah, di solito non sono così colti).
Per chi non conoscesse Andrea Cappellano, sappiate solo che questo scrittore medievale scrisse un trattato in cui, fra l’altro, elencava le regole dell’amor cortese, e la prima regola è proprio: “Fuggi come peste nociva l’avidità e ricerca il suo contrario”.
In generale, tutti quelli che si appigliano all’idea della cavalleria immaginano un passato mitico in cui la donna veniva venerata e adorata e l’uomo si proponeva come suo umile servo. Questo passato lo troverete agevolmente fra le poesie di questo periodo, e poi avanti verso lo Stilnovo, eccetera.
Solo, riflettete un attimo. Il fatto che il momento di maggior adorazione della donna “a parole” coincida proprio con il Medioevo, periodo di, diciamo, non estrema emancipazione, secondo voi è una coincidenza?
Non siate volgari nei commenti, le signore potrebbero offendersi.
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Quando il mondo ti cade addosso, cerca di non rimanere sotto le macerie.
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La vera disperazione, quella che è troppa per essere contenuta dalla nostra anima, non ha lacrime, né gemiti. Non arriva in un momento tutta assieme, bensì si accumula giorno dopo giorno, e come la proverbiale goccia che scava la roccia, alla lunga lascia segni profondi nel cuore. Cancella i colori uno alla volta, finché non resta solo il grigio. Non ti accorgi di lei finché non ti ha avvolto nelle sue spire, ma ormai pare impossibile uscirne. E la parte peggiore forse è l'abitudine; ci fai il callo, giungi al punto in cui disperazione e normalità diventano indistinguibili l'una dall'altra.
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Preferisco essere un eroe che una bella persona, perché non è un impegno a tempo pieno.
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Non può piovere per sempre, ma ci stiamo lavorando.
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Che non ci siano dolori in grado di durare in eterno l'ho sempre ritenuto triste.
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E se non ti ami abbastanza lo farò io per entrambi.
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Non cercare di fare la mia felicità, che fai solo danni.
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