#parete a giorno
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Living Room - Modern Living Room
Example of a large minimalist open concept porcelain tile living room library design with multicolored walls and a wall-mounted tv
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Contemporary Bedroom - Loft-Style Example of a mid-sized trendy loft-style ceramic tile and white floor bedroom design with white walls
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Library - Contemporary Living Room Small trendy open concept ceramic tile and white floor living room library photo with white walls and a media wall
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Ma se pò campà co' 'sta paura sul collo che scoppia 'na guerra mondiale da un momento all'altro?
Io non ci credo ma la tensione resta, anche perché non trovi più una notizia positiva da leggere per tirare un sospiro di sollievo, solo roba deprimente. Secondo gli analisti più guerrafondai in qualche modo moriremo tutti se non armiamo l'Ucraina, "mo me lo segno" avrebbe detto Troisi, uccellacci del malaugurio sempre presenti in televisione, qualcuno di questi ha detto: "preparatevi alla guerra se volete la pace", ma cosi, di punto in bianco? Mica ogni giorno ci siamo allenati a sparare contro le sagome dei possibili nemici. E poi in che modo mi devo preparare? Comincio a litigare con il mio vicino di casa o mi armo di vaffanculo per l'ENEL?
Non ho fatto nemmeno il militare, esonerato perche' orfano di padre. Io sono un tipo tranquillo, non credo di avere nemici, di armi e bombe a mano non capisco nulla, l'ultima volta che ho giocato a freccette, in un villaggio turistico, sono ancora in causa con un tizio che prendeva il sole con un costume a cerchi colorati! Questo governo fara' partire corsi di formazione per pistoleri occupabili? E che dire dei virus sempre in agguato? Non passa giorno che i giornali non scrivano di nuove pandemie in arrivo. Un futuro da immaginare con infermieri con la siringa del vaccino nella mano destra e il fucile nelle sinistra, guerre e pandemie da combattere, per non parlare delle zanzare, ogni volta ne arriva qualcuna che trasmette malattie, allora ti devi armare di unguenti repellenti e allenarti a tirare pantofole su ogni piccolo segno scuro alla parete o prenderti a schiaffi appena senti un ronzio sospetto all'orecchio!
Praticamente, per chi comanda, devi solo scegliere come morire: sparato, infettato o punto da una zanzara del cazzo. Futuro di cacca! @ilpianistasultetto
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fuori l'aria
L'altro giorno mi specchiavo allo specchio lontano a parete della sala yoga, ho alzato lo sguardo dal cane a testa in giù, su piano con la schiena, una vertebra per volta, fuori l'aria, e mi son guardata col sopracciglio ala di gabbiano che torna alto
e ho visto mamma, di tre quarti, coi capelli lunghi, più bassa, più secca. io nel volto lei.
è stato un baleno, ero distante e mi son distolta dal guardarmi un secondo dopo, o forse due, nel primo ho indugiato su lei io, tra le figure altre tra me e lo specchio, io arraffata lei trovata, un attimo, come narciso che si innamora e non affoga.
ho pensato, riflesso perso, a quel verso di victoria chang letto poche ore prima
"Così tante cose che amo che non ho mai toccato: la luna, un brivido, il cuore di mia madre".
reale come la superficie delle cose
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Mi ha toccato la guancia come faceva sempre nonno, stingendo la pelle tra le due nocche. Ho sentito salire le lacrime agli occhi, percorrere i dotti lacrimali insieme alla malinconia, le ho tenute lì; sono scese poco più tardi, in macchina, mentre percorrevo la strada buissima del ritorno. La morte è una cosa strana, si esite e, appena un attimo dopo, non si esiste più. Eppure si continua a vivere intensamente, ogni giorno, in cose piccole: nel volo delle prime rondini, nei tulipani appena sbocciati, persino nel gesto affettuoso di qualcun altro. Rivivi persino nello sforzo tutto mio di immaginarti nei giorni dei miei successi, che li hai sempre visti come tuoi. Avresti tappezzato la parete del salotto con le mie fotografie, e mi avresti stretto la guancia felice, appellandomi con quel nomignolo che ti piaceva tanto. Mi sarei lamentata del dolore, come al solito, eppure ora, mentre passo i polpastrelli in quel punto esatto, mi spiace non provarne affatto.
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IL RAGAZZO E LA MONTAGNA
C'era una volta un giovane esploratore, la cui più grande passione era addentrarsi in tundre, scendere in ghiacciai e percorrere deserti alla ricerca della Gemma Preziosa.
Ogni luogo della terra aveva una propria Gemma Preziosa - scintillante, tenebrosa, rubescente o lattiginosa - e lui aveva viaggiato già mezzo mondo ed esplorato mille lande impervie per trovarle e collezionarle tutte.
Nella sua casa aveva una stanza intera piene di tali meraviglie, tutte racchiuse in teche di cristallo, ma il giovane esploratore non amava tornare nella propria casa, se non per riporvi i suoi tesori.
Intendiamoci, adorava la propria casa e la propria città, voleva bene ai suoi genitori e stava bene con i suoi tanti amici, ma il suo animo inquieto lo portava puntualmente a guardare le nuvole fuori dalla finestra, desiderando di poterle cavalcare e andarsene via col vento.
Un giorno sentì parlare dell'Ultima Montagna e di come al suo interno fosse la celata la pietra più preziosa di tutte: il Cuore di Gea.
L'Ultima Montagna si trovava nel paese di Finisterrae e il suo vecchio mappamondo non aveva ancora finito di girare che lui si era già messo in cammino.
Non fu un viaggio facile, né per le gambe né per il cuore, perché dovette salutare molte persone - Finisterrae era lontana - e parte del suo percorso lo dovette fare a piedi, passo dopo passo, senza mai più incontrare anima viva (tranne i ragni, che gli tennero compagnia nelle lunghe notti insonni ma che però non erano gran conversatori).
Quando arrivò all'Ultima Montagna rimase con la bocca spalancata per qualche minuto (i ragni controllarono preoccupati se ci fossero delle carie ma uscirono soddisfatti): un'enorme montagna scintillante di materiale translucido giallo paglierino svettava fino a quasi bucare la volta del cielo.
Ma il suo stupore si tramutò ben presto in preoccupazione quando, a un esame più attento, il giovane esploratore si rese conto che la montagna era in realtà un enorme conglomerato di Crisoberillo come non se n'erano mai visti in alcun libro di geologia.
Molto bene - pensò con stanca autoironia, guardando il suo piccone - sulla Scala delle Durezza di Mohs il crisoberillo ha un punteggio di 8,5 ma volendo considerare il bicchiere mezzo pieno mi è andata anche bene... la montagna poteva essere fatta di Rubino o di Zaffiro!
E cominciò a scavare una galleria per raggiungere il Cuore di Gea.
Man mano che avanzava a fatica all'interno della montagna, egli si rese conto di una cosa molto strana: per ogni colpo di piccone e di scaglia di crisoberillio che cadeva a terra lui sentiva di perdere qualcosa.
Ma cosa? - si chiese.
Non lo so - si rispose.
E allora pensò di riempire quei vuoti nel cuore immaginando il momento in cui avrebbe finalmente scalzato dalla roccia il Cuore di Gea... la gioia di sentirlo pulsare tra le proprie mani, gli occhi socchiusi per schermarsi dal bagliore di mille soli di puro cristallo, lo stupore delle persone al suo ritorno, la teca gigante già pronta al centro della sua collezione.
Quello di cui in un primo momento il Giovane Esploratore non si rese conto è che ogni picconata stava sottraendo un minuto alla sua vita e le picconate erano tante e il tempo scorreva avanti in una sola direzione, dritto come la galleria che sventrava la montagna.
Le mani che impugnavano il piccone invecchiavano, come invecchiavano le domande che lui si faceva...
Perché? Da dove? Verso cosa?
Quando le domande diventano opprimenti, i colpi del piccone rallentavano, salvo poi riprendere forza al pensiero della gemma che ogni giorno si avvicinava.
E poi, dopo mille eternità l'ultima picconata, la parete che crolla ed ecco il Cuore di Gea, sospeso nel buio luminescente di un antro nel ventre della colossale montagna.
Ma il Giovane Esploratore non poteva più definirsi tale.
Non stava più esplorando nulla e di certo non era più giovane.
Con passo incerto e polverose mani tremanti si avvicinò al Cuore di Gea e fece per prenderlo.
Ma si fermò.
Verso cosa? E perché?
E poi la domanda giusta.
Da dove?
Da dove vengo? Cosa ho lasciato? Chi ho lasciato?
E voltandosi vide che la lunga galleria che portava all'esterno era disseminata di corpi, congelati nell'atto di colpire la roccia.
Erano tutti lui, metro dopo metro sempre più vecchio, bloccati nell'attimo in cui aveva deciso di cancellare un ricordo per fare spazio al pensiero della Gemma Più Preziosa.
Sono morto? - si chiese.
Sì, ogni volta - si rispose.
Il Cuore di Gea lo guardava con occhio pulsante ma la mano, dimagrita e raggrinzita, scese sul fianco.
Non era quello che voleva... quello era ciò che aveva deciso di volere per cancellare i veri desideri, quelli che lo tenevano vivo in attesa del domani.
E il vecchio ragazzo si voltò e tornò indietro, accarezzando con una mano sempre più giovane tutti i sé che aveva lasciato morire per non aver voluto ricordare come vivere.
E li perdonò tutti, uno a uno, finché la luce del sole non gli baciò le palpebre socchiuse e lui non ritrovò la voglia di esplorare, mai perduta ma solo addormentata sotto a una pesante coperta di tristi rimpianti.
E come il mappamondo tornò a girare, il vero Cuore di Gea riprese a battergli nuovamente nel petto, perché Finisterrae è quel luogo che comincia nel punto in cui appoggi il piede per iniziare il viaggio verso il domani.
Questo post è dedicato a @seiseiseitan, per me il più grande esploratore <3
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Le Fosse Ardeatine
Dieci metri piú in là del Quo Vadis la strada si biforca: a sinistra prosegue l’Appia Antica; a destra inizia la via Ardeatina. Prendemmo a destra. Man mano che proseguivamo nel cammino, m’accorsi che s’era formata una fila indiana di persone che, da sole o a piccoli gruppi, sembravano andare nella stessa direzione. Dopo cinquecento metri la strada smette di salire: segue una brusca discesa, che piega sulla destra. Proprio lí, poco dopo la svolta, nel compatto muro di fogliame che ci aveva fin allora accompagnati, s’apriva un varco. Vi entrammo: c’era uno spiazzo, a ridosso di una di quelle creste rossastre di tufo, che cosí frequentemente segnalavano allora nei dintorni di Roma la presenza di cave di pozzolana. Sullo sfondo, lungo la parete, s’aprivano due-tre grandi cavità oscure: si vedeva che erano state aperte, o riaperte, di recente, perché cumuli di terriccio fresco le fronteggiavano. Da quelle cavità un fitto via vai di persone, in gran parte militari, – poliziotti, carabinieri, pompieri, – ma tutti con delle povere tutacce blu o marroni, e fazzoletti colorati qualsiasi stretti intorno al volto. Mio padre trovò un masso da una parte e mi ci fece sedere. «Aspettami qui, – mi disse, – non muoverti». Capii che non era il caso d’insistere. M’accoccolai lí e cominciai a guardarmi intorno, mentre mio padre s’avviava verso uno di quegli ingressi. Mescolati a quelli che erano o parevano militari c’erano anche molti civili: uomini e donne aggrondati, generalmente vestiti di nero, che entravano e uscivano guardando fisso di fronte a sé. A un certo punto passarono due uomini, sorreggendo una donna: era riversa in avanti, con il volto cereo e le gambe rigide; le punte delle scarpe, tenacemente congiunte, come per un’inconscia resistenza nervosa dovuta a qualche dolore, rigavano la polvere. Ma la cosa piú impressionante per me era che da quelle bocche d’inferno veniva un fetore di fronte al quale quello dei poveri morti accatastati nelle bare qualche mese prima nel cimitero del Campo Verano mi sarebbe sembrato insignificante: forse a causa di un forte sbalzo di temperatura tra quelle fredde viscere della terra e il calore esterno, partiva dalla parete, e percuoteva tutti coloro che si trovavano lí davanti, una corrente, un vento intenso, un flusso mortifero compatto e come oleoso, che ci avvolgeva e ci sovrastava, permeando ogni molecola dei nostri apparati sensori, non solo il naso e l’olfatto, ma la bocca e il gusto, e impastandosi con tutta la nostra percezione. Il puzzo della morte, quando è particolarmente forte, si materializza, si fa corposo, si può toccare, diventa esso stesso una creatura vivente, una forza della terra. Cominciavo ad avvertire un ormai noto fremito di disgusto nello stomaco, quando mio padre riemerse dall’oscurità, con gli occhi rossi e il fazzoletto piantato anche lui davanti alla bocca e al naso. Disse: «Andiamo», e non ci fu verso di farlo parlare, fin quando, nel bar di piazza Tuscolo, non sorbimmo insieme un bicchiere di limonata. Sobriamente mi raccontò che proprio lí erano stati trucidati quei prigionieri italiani, politici e militari, di cui aveva parlato il giornale il giorno prima della morte di mio nonno Carlo, e che perciò da quel momento, poiché non aveva avuto ancora un nome, la strage poté chiamarsi, – e da allora s’è chiamata, – delle Fosse Ardeatine. Solo nelle settimane successive, e solo a brandelli, interrotti da lunghi silenzi, mia madre e io sapemmo il resto. Mio padre raccontò di aver visto le file dei prigionieri in ginocchio, non ancora decomposti, addossati l’uno all’altro, qualcuno caduto in avanti, con le mani legate dietro la schiena e un foro immenso nel cranio; disse che, a eccezione forse del primo, tutti gli altri avevano dovuto sapere, con un anticipo da pochi a molti minuti, quello che stava per accadergli. Raccontò anche che frotte di topi grassi fuggivano in giro quando uno degli addetti alla riesumazione spostava in uno di quegli angoli bui la luce della sua lampada.
A. Asor Rosa, L'alba di un mondo nuovo [2002], Torino, Einaudi, 2005
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Fai attenzione alla tua ombra. Ogni uomo ha un fratello che è la sua copia esatta. È muto e cieco e sordo ma dice e vede e sente tutto, proprio come lui. Arriva nel giorno e scompare la notte, quando il buio lo risucchia sottoterra, nella sua vera casa. Ma basta accendere un fuoco e lui è di nuovo li, a danzare alla luce delle fiamme, docile ai comandi e senza la possibilità di ribellarsi. Sta disteso per terra perché glielo ordina la luna, sta in piedi su una parete quando il sole glielo concede, sta attaccato ai suoi piedi perché non può andarsene. Mai. Quest'uomo è la tua ombra. È con te da quando sei nato. Quando perderai la tua vita, la perderà con te, senza averla vissuta mai. Cerca di essere te stesso e non la tua ombra o te ne andrai senza sapere che cos'è la vita.
Giorgio Faletti
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Il mio vicino era un ex tossicodipendente. E si è suicidato.
Ieri, mentre cercavo le chiavi davanti a casa, al ritorno dalla palestra, mi viene incontro una signora accompagnata da un bambino, che ho inquadrato subito, rintracciando in lui alcuni connotati che ben conosco: quelli di un figlio che adora la madre.
L’ingresso del mio e dei palazzi accanto si raggiunge attraverso un vialetto molto stretto, quindi la donna ha dovuto seguirmi ed è sembrata subito sospetta.
“Mi perdoni se la disturbo” mi fa con l’accento torinese e la R moscia, “sa per caso se quell’appartamento - indica le finestre di Davide - sia vuoto?”
Resto interdetto e subito aggiunge “non si spaventi, siamo parenti di chi ci abitava. Sono la moglie del fratello e l’appartamento appartiene a lui”, indicando il figlio e tirando fuori dal portafogli il documento del bambino, a conferma della corrispondenza del cognome.
Cercando di essere gentile e allo stesso tempo di non dare troppe indicazioni, le dico che sono sempre fuori e quindi non posso averne la certezza.
Prosegue: “non abbiamo notizie di ciò che accade nell’appartamento. Io e mio figlio - come se lui avesse potuto scegliere - abbiamo fatto 500 km per venire a controllare.” Controllare.
Continuo ad ascoltare e intanto mi avvicino al portone. Lei mi viene dietro. Ci tiene a far vedere che si muove con disinvoltura perché è già stata qua. Resto impassibile.
Tira fuori dalla borsa una risma di bigliettini stampati in casa. Sopra c’è il nome Paola e un numero di telefono: “cerco alloggio in questa zona”. Si affretta a spiegarmi: “Paola non è ovviamente il mio vero nome, ma voglio verificare se la casa, che il mio ex compagno (ora è diventato ex compagno) vuole vendere e io invece voglio mettere a frutto per lui - indica di nuovo il figlio - viene affittata in nero a mia insaputa. Sa, prima di procedere per vie legali...”
Fingo ingenuità e domando come mai, se le cose stanno come dice e “la legge è dalla loro parte” non siano nella facoltà di fare nulla. “Lui (il padre) non sa che siamo qui” mi fa il bambino, prendendo alla sprovvista la madre, che aggiunge subito: “non vogliono fare niente con questa casa, perché era della madre ed è la casa d’infanzia e preferiscono vendere e non pensarci. Se conosceva Davide, ha capito di che tipo di gente parliamo”. Eccola finalmente manifestarsi, con il sorrisino di chi allude senza pudore e si aspetta di trovare complicità, per definizione.
“Aspetta e spera di trovarla, stronza”, penso, ma traduco in un più urbano: “Davide era una persona molto carina, in effetti.”
Capisce che non ha molto spazio di manovra, ma procede dritta: “mi raccomando, non dica che siamo passati al mio ex compagno, se lo incontra.”
Non rispondo e mi congedo cortesemente, chiudendo il portone dietro di me.
Qualche minuto dopo, aprendo la finestra del bagno prima di fare la doccia, mi accorgo che si è spostata al cancello dell’appartamento al piano terra e sta raccontando di nuovo la storia. Inoltre noto che da ognuna delle cassette della posta pende uno dei biglietti di Paola (evidentemente la voglia scalpitava, strillava, tuonava nel petto di Paola oh Paola).
Durante tutto il tempo della doccia ripenso a Davide, alla sua gentilezza, al giorno in cui è venuto a presentarsi, lento lento, mentre ancora facevo i lavori; al grido che ha lanciato quando ha scoperto della morte dell’amico Roberto, alle schitarrate a cantare Jolene e a tutta la bella musica che ho imparato attraverso una parete sottile sottile. Penso al dolore che leggevo nei suoi occhi e che so bene riconoscere. Poi penso a Paola, che avrà le sue ragioni, ma che, purtroppo per lei, ha incontrato la persona sbagliata.
Finisco di preparami ed esco di casa. La donna se n’è andata e sono io a non resistere stavolta: mi avvicino alle cassette e rimuovo uno per uno tutti i biglietti, frutto di una macchinazione goffa e miope.
Mi dispiace per il bimbo, di cui ho potuto leggere il nome di battesimo e forse pure qualcosa in più. Mi dispiace per Davide e per il dolore che non incontra comprensione. Mi spiace per le persone, che diventano “gente” sulla bocca di chi non conosce la fortuna che ha. Non mi spiace per Paola, la donna senza vero nome.
Mi sento in colpa per un po’, ma solo per un po’. Poi getto via tutti i biglietti. Tanti saluti, Paola.
#ninoelesirene#pensieri#frasi#persone#riflessioni#sentimenti#letteraturabreve#emozioni#amore#aforismi#dolore#empatia#davide
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Nella casa della poesia ci sono angoli bui, dove possiamo nasconderci come se non avessimo bisogno della luce. Ho spinto la porta di quella casa in cerca di quegli angoli; ma ho anche trovato il sole che entrava dalle finestre e disegnava, sulla parete più bianca, il contorno del tuo viso. In realtà, quando si entra nella casa della poesia, ogni cosa ha un disegno così preciso come il significato di ogni parola. Solo, negli angoli bui, le ombre danno un altro senso a ciò che vediamo; e per quanto apriamo le finestre e vogliamo che il sole arrivi a quegli angoli, ci sono sempre figure che non escono dall’ombra, come se fossero i fantasmi dell’infanzia, e quanto dicono che viene da molto lontano, secondo alcuni, o da troppo vicino, secondo altri. Allora, che ci faccio io in questa casa da cui il sole non riesce a togliere le ombre? Perché insisto a guardare negli angoli più bui, fuggendo dalla luce? La risposta è nell’immagine che il sole ha proiettato sulla parete: l’immagine che ha il tuo viso e mi chiede di uscire da quegli angoli bui per sentire la tua voce il giorno in cui ti ho incontrata nella casa della poesia.
Nuno Júdice, da La casa della poesia
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Cara Agenzia Armando Testa,
sono la Venere di Botticelli, quella vera.
Quella laggiù in fondo alla sala, appesa alla parete. Come ogni giorno sono circondata da migliaia di turisti.
Fino a qualche giorno fa, sono sincera, non vi conoscevo. Poi ho scoperto che avete realizzato una Campagna Pubblicitaria per promuovere il turismo in Italia usando e distorcendo la mia immagine: #opentomeraviglia.
Mi avete fatto diventare, come dite voi moderni, un’Influencer.
Mi avete fatto sorridere.
Mi avete vestito.
Mi avete messo in altri contesti stereotipati italiani, ad esempio con la Pizza in mano,
Io non ho detto nulla.
Sono abituata a queste manipolazioni.
Lo faceva già Andy Warhol nelle sue famose serigrafie nel 1984.
Anche Chiara Ferragni è venuta a farsi un selfie con me.
Viviamo nell’epoca del turismo di massa fatto di superficialità e likes.
Magari volevate solo creare un Hype, come dite voi moderni.
Però quando ieri ho letto la vostra lettera, tracotante e supponente, pubblicata sul Corriere, non ci ho visto più.
C’è una cosa che proprio non mi torna.
Voi dite, cito testualmente: “La Armando Testa ringrazia, e Venere con noi.
Erano più di 500 anni che non si parlava di lei cosi tanto”.
Ma stiamo scherzando?
Se solo foste venuti agli Uffizi, invece di andare in Slovenia, avreste visto che io NON sono per niente con voi.
Anzi io non ho bisogno di voi.
Io vado benissimo così come sono.
Nuda, con tutti i significati neoplatonici nascosti, che non credo voi capirete mai.
Io sono da sempre, da quando Sandro Botticelli mi dipinse, dandomi il volto di Simonetta Vespucci, il simbolo della bellezza femminile nell’arte.
Per me vengono da tutto il mondo.
Un milione e 800 mila visitatori passano a trovarmi ogni anno.
Grazie a me gli Uffizi sono il primo museo in Italia, più visitato del Colosseo.
E nel mondo sono al decimo posto.
Quindi, diciamolo con chiarezza, è grazie a me che siete diventati famosi in questi giorni e non vice versa!
Tra qualche mese nessuno si ricorderà di voi, se non per la figuraccia fatta.
Tra dieci anni io invece sarò ancora, ogni giorno, circondata dai miei fan, come dite voi moderni.
Un’ultima cosa.
Sapete perché sono stata dipinta?
Per promuovere l’immagine nel mondo dei miei committenti, la famiglia dei Medici. In pratica, se non ve ne foste resi conto, io ho la stessa funzione di una vostra campagna pubblicitaria. Solo che ai miei tempi gli artisti creavano capolavori, bellezza eterna e il Rinascimento. Oggi invece i vostri creativi scopiazzano sul web dei meme ridicoli.
Tutto molto imbarazzante!
O, come direste voi moderni, Cringe!!
Cordialmente
La Venere
@Simone Terreni
#opentochiediscusaabotticelli
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[della supponenza maschile]
Appena arrivato, ho avvisato il mio giovane vicino di parete di stare alla larga dalle donne che nel nostro condominio girano a vuoto fra corridoi e marciapiedi a spasso col cane, perché dar loro confidenza significa accollarsi richieste di favori a tutte le ore; mi rispose "Tutto dipende da come ci rapportiamo con le persone".
Ottimo: ora gli suonano al campanello centomila volte al giorno e lo sento, dopo, bestemmiare a raffica😂
Il male voluto non è mai troppo.
#supponenza#supponenza maschile#maschile#uomo#uomini#giovane#giovane vicino#vicino#vicino di casa#stare#stare alla larga#alla larga#larga#condominio#girare#girare alla larga#corridoi#marciapiedi#cane#dare#dare confidenza#confidenza#richieste#favori#ore#a tutte le ore#tutto#dipende#rapportarsi#persone
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Non so se sia più National Geographic o Comedy Central
Ricapitolando: dei calabroni hanno deciso di fare il nido all'interno della vetusta fontana di ghisa in giardino. Non posso usare il fuoco perché rischierei di sciogliere i tubi all'interno, né il pesticida vista la vicinanza con l'orto. Posso solo tappare i fori da dove entrano ed escono sti teppisti con le ali.
Giorno 1: Nastro da carrozziere. Li vedo ammassarsi incazzosi desiderosi di entrare e me ne vado convinto di aver vinto. Più tardi mi accorgo che hanno forato il nastro e sono rientrati.
Giorno 2: Vista la fragilità del nastro da carrozziere uso del nastro da pacchi. Riesco a sentire i vari colpi che danno mordendo il nastro e vado a letto convinto di aver vinto.
Giorno 3: al risveglio trovo il nastro da pacchi forato. Decido allora di incastrare un pezzo di legno da un ramo. Alla sera il pezzo di legno non c'è più. Inizio ad avere paura. Modello e appallottolo dell'alluminio che spingo con forza nel foro.
Giorno 4: al risveglio vedo che gli insetti di Satana hanno praticato un foro nell'alluminio a morsi. Come faccio a saperlo? Mentre sto guardando la situazione uno di loro esce beffardamente con un microscopico pezzettino di stagnola in bocca e vola via.
Ho la stessa espressione di quando Willie il Coyote vede passare bip bip all'interno della galleria che lui ha dipinto sulla parete di roccia.
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Non so che giorno sia del mese o quale sia il cassetto dei calzini però ricordo bene che alle 15.40 di sabato 8 giugno 2002 mentre ero appoggiato alla parete in poliuretano del cortile posteriore del Principie di Piemonte a Viareggio dove si teneva la presentazione del gioco da tavolo del Signore degli Anelli ho detto per telefono a una mia collega che le avrei mandato per mail tutte le slide per il corso della 626/94 che le avevo affidato. E invece non gliele ho mai spedite.
Grazie ippocampo e corteccia prefrontale mediale.
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L'ORCO NERO - OVVERO LA SINCERITÀ
[Trilussa]
C'era una vorta, quanno ancora c'era
quello ch'adesso nun se trova più,
una regazza tanto mai sincera
che trattava la gente a tu per tu
e spiattellava coraggiosamente
qualunque cosa je venisse in mente.
La nonna je diceva: — Lella mia,
tu sei tanto sincera e quest’è bello,
ma ar monno ce vo' un po' de furberia
in modo che te regoli er cervello,
perché nun se sa mai quer che ce tocca
quanno er pensiero sorte da la bocca.
Pr'esempio, l'Orco nero, l'antro giorno,
m'ha detto che sei bella e che je piaci;
dunque, siccome è ricco, staje intorno
e, se te bacia, lassa che te baci:
faje un po' de politica e vedrai
che quarche cosa ce rimedierai. —
Invece Lella, quanno annò dall'Orco,
cominciò a dije: — Come sete brutto!
Me parete mezz'omo e mezzo porco! —
Quello ce rise e disse: — Doppo tutto,
ho conosciuto 'n sacco de persone
che stanno ne la stessa condizzione!
— Voi, però, sete l'asso! — fece lei —
Nun ho mai visto un omo così vecchio,
grasso e peloso! Ce scommetterei
che quanno ve guardate ne lo specchio
er cristallo s'appanna pe' paura
che j'arimanga impressa la figura!
Ma che ve'mporta? Un omo che possiede
un portafojo gonfio com'er vostro
ci ha sempre quarche donna che je cede:
in certi casi è bello puro un mostro!
Io stessa, se ho bisogno de bajocchi,
spalanco la manina e chiudo l'occhi.
— Perché nun me fai fa' l'esperimento?
— je chiese l'Orco che capiva a volo,
e cacciò fòra tre pappié da cento —
Nun te darò che un bacio, un bacio solo...
— Accetto! — fece lei che stava all'erta
coll'occhi chiusi e la manina aperta.
Senza da' tempo ar tempo, l'Orco nero
j' annò vicino e sospirò tre vorte:
— Doppo 'sto bacio tornerò com'ero,
doppo 'sto bacio cambierò la sorte:
ecco... mó te lo do... tesoro mio!
— È fatto? — Ho fatto! — Ringrazziamo Iddio! —
Appena ch'ebbe dette 'ste parole
Lella aprì l'occhi e se trovò davanti
un giovinotto bello come er sole
cor manto e la corona de brillanti
e, da un bastone che ci aveva in mano,
capì che se trattava d'un sovrano.
Dice: — Dormo o sto sveja? È un sogno, forse? —
E quasi nun credesse all'occhi sui
attastò er Re, ma quanno che s'accorse
ch'annava per attasti puro lui,
incominciò a strillà: — Le mani a casa!... —
pe' fa' capì che s'era persuasa.
— Scusa, — je disse er Re — ma so' cent'anni
ch'aspetto 'sto momento, e fino a che
una donna sincera e senza inganni
nun me parlava chiaro come te,
sarei rimasto brutto com'un diavolo
e invece d'esse Re nun ero un cavolo.
Fu doppo una congiura de Palazzo
che venni sequestrato da l'Orchesse:
ar posto mio ce méssero un pupazzo
perché la gente nun se n'accorgesse,
e me fecero fa' l'omo servatico
per via d'un certo imbrojo dipromatico.
Adesso che m'hai rotto l'incantesimo
levo er pupazzo e me ripijo er trono.
Sarò chiamato Mardoccheo ventesimo
fijo de Mardoccheo decimonono
e, se tu pure approverai l'idea,
diventerai Reggina Mardocchea.
Ma prima, dimme: hai fatto mai l'amore?
t'hanno baciato quela bocca santa? —
Lella s'aricordò d'un senatore
che l'aveva baciata tutta quanta:
stava quasi pe' dijelo, però
aripensò ar trono e j'arispose: — No!
Trilussa, pseudonimo anagrammatico
di Carlo Alberto Camillo Salustri
(Roma, 26 ottobre 1871–
Roma, 21 dicembre 1950),
è stato un poeta, scrittore e
giornalista italiano.
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