#orto senza fatica
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greenthink · 5 months ago
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Coltivare senza acqua ''resoconto-primo tentativo''
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Negli ultimi anni, la domanda di metodi di coltivazione sostenibili è diventata sempre più urgente.
Personalmente, ho deciso di affrontare questa sfida in modo diretto, ispirandomi alle pratiche di Fukuoka, iniziando un progetto di giardinaggio che non dipendesse dall'acqua.
Attraverso questa esperienza, mi sono avvicinata a un modo di vivere più consapevole e rispettoso dell'ambiente.
 ''Progettare un Orto Sostenibile''
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Decidere di progettare un orto per la coltivazione senza acqua è stata una sfida molto stimolante .
Ho iniziato a cercare un’area del mio giardino che potesse soddisfare le esigenze delle piante senza richiedere irrigazione costante.
Dopo aver analizzato attentuali varie zone, ho scelto porzioni di terreno semi-ombreggiate, dove la luce solare non colpiva direttamente le piante per tutto il giorno.
La scelta si è rivelata cruciale per proteggere le mie coltivazioni dal calore estremo. Per preparare il terreno, ho coperto la superficie con paglia e fieno.
Questo strato non solo ha aiutato a mantenere l’umidità nel suolo, ma ha anche ridotto la crescita delle erbacce, permettendo alle piantine di prosperare.
Dopo aver fatto ciò, ho piantato le piantine che avevo acquistato, senza arare la terra, innamorata del pensiero di vedere crescere il mio orto sostenibile.
 ''La Fortuna della Pioggia''
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Sono stata incredibilmente fortunata, poiché da aprile fino a tutto giugno, le piogge sono state frequenti, questo ha alleviato la mia ansia riguardo alla mancanza d’acqua; non ho mai dovuto annaffiare le mie piante. 
Anzi, ho colto l’occasione per raccogliere l’acqua piovana attraverso le grondaie del tetto e conservarla in bidoni.
Queste riserve si sono rivelate preziose, permettendomi di mantenere le piante ben nutrite e idratate senza dover dipendere da fonti esterne fino ad ora. 
Grazie a queste condizioni favorevoli, fino ai primi di luglio ho avuto ottimi risultati. Fragole dolci e croccanti, insalate di vario genere, finocchi, aglio e cipolle sono cresciuti rigogliosi, e ho potuto raccoglierli con grande soddisfazione.
Ogni raccolto era una piccola vittoria, un segno che il mio approccio alternativo alla coltivazione stava funzionando.
 ''Le Sfide del Caldo Estivo''
Tuttavia, la fortuna sembra avere un modo di cambiare rapidamente. 
Dopo i primi giorni di luglio, le piogge sono cessate e il sole ha iniziato a picchiare con intensità, portando le temperature a sfiorare i 40 gradi. 
Nonostante la zona che avevo dedicato all'orto fosse relativamente ombreggiata, le piante mostrano segni di stress idrico. 
La mia gioia iniziale si è trasformata in preoccupazione, poiché le piante continuano a chiedere acqua, e io mi sono trovata di fronte a una dura realtà: non ho abbastanza acqua per tutte. In questa situazione, ho dovuto prendere decisioni difficili. 
Ho dato priorità ai pomodori, le piante che avevo coltivato con tanto amore e che promettevano di offrire un raccolto abbondante. Con il caldo intenso e la scarsità d’acqua, ho dovuto affrontare la sfida di gestire le risorse in modo intelligente e strategico, cercando di salvaguardare quello che potevo. 
 ''Conclusione''
  Ho imparato che, sebbene le condizioni possano essere difficili, la resilienza e la pianificazione possono fare la differenza. Dopo questa esperienza di coltivazione senza acqua, posso affermare con certezza che i cavoli sono particolarmente adatti a questo tipo di pratica agricola. 
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Probabilmente, il mio terreno si è rivelato ideale: queste piante accusano poco il freddo e, grazie alla mia abbondante pacciamatura, non richiedono annaffiature frequenti.
Nel mio orto, i cavoli verdi, rossi e il cavolo nero hanno prosperato, dimostrando una resistenza sorprendente alle condizioni climatiche avverse. 
Purtroppo, non tutte le piante hanno avuto la stessa sorte. Le fragole, ad esempio, hanno risentito molto del caldo e stanno cominciando a seccare, mentre anche le zucchine sembrano soffrire, producendo solo fiori (per fortuna, comunque, molto buoni). 
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I pomodori, invece, richiedono ancora la mia attenzione quotidiana, necessitando di un litro e mezzo d’acqua per pianta ogni giorno per far fronte al caldo.
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'' Se qualcuno ha consigli o pratiche da suggerirmi per migliorare i risultati del mio orto in queste condizioni, sarei molto grata.
La condivisione di esperienze e suggerimenti è fondamentale per crescere insieme e affrontare le sfide della coltivazione sostenibile.''
La mia avventura continua, e ogni giorno rappresenta una nuova opportunità per imparare e adattarsi.
un abbraccio a tutti
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susieporta · 4 months ago
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Nove di Denari
"La Passione interiore per l'Amore"
Ci stiamo inoltrando nella potente "ondata autunnale".
E le prime "scosse energetiche" sono oltremodo rappresentative di ciò che andremo ad affrontare nei prossimi mesi.
Non sarà certo una passeggiata.
Conosciamo l'intensità di questo Viaggio. Abbiamo percorso lunghi tragitti sottoposti alla forza di queste frequenze.
Sono scombussolanti, travolgenti, a tratti debilitanti.
Esse, quando penetrano nel nostro Sistema, lo modificano.
Per sempre.
I prossimi mesi saranno altamente trasformanti. Si moltiplicherà la potenza di questo movimento cosmico.
E faremo i conti con la Verità più e più volte. Con occhi spalancati. Senza filtri. Senza distorsioni.
Ma tra ieri e oggi questo è stato chiaro.
Siamo oltre la metà del percorso di rinnovamento cellulare e i temi che emergono dalle profondità, sono proprio quelli più reconditi, più sopiti, più nascosti. Quelli che avevano innescato "bombe" distruttive nel corso della nostra Vita, ma che non riuscivamo mai ad afferrare, ad individuare, a riportare alla memoria e all'associazione di Coscienza.
Tutti i nostri gesti, le nostre avventure su questa Terra sono per anni rimaste legate alla "simbologia". Sono frutto di associazioni, di schemi inconsci, di eredità genetiche, di automatismi appresi. Di ricordi.
Siano questi Simboli di origine antica o di "fattura contemporanea", essi si muovono in ogni nostro passaggio di apparente "scelta".
Lo schema sa. Noi spesso non sappiamo.
Siamo totalmente all'oscuro di ciò che muove i nostri passi, i nostri sguardi, le nostre parole, i nostri dolori.
Siamo "analfabeti simbolici".
Imparare ad interpretare i nostri meccanismi inconsci è un lavoro a tempo pieno.
Non si spezza un meccanismo malato, con una pillola.
Occorre perseveranza e lucidità, volontà e coraggio.
Lo schema vorrà sempre "tornare indietro", riportarci nella zona di sicurezza e ripetitività. E' il suo compito preservare i confini del movimento e dell'esperienza.
Occorre la sincera voglia di "risolvere", non di metterci una pezza ogni tanto.
Questo è un Tempo che, se speso nella giusta Direzione interiore, "trasforma il Piombo in Oro".
Ma non da solo.
Non senza l'impegno dell'Incarnazione a partecipare attivamente alla "processo di riabilitazione".
La stanchezza e la fatica, oltre che la Resistenza, fanno parte di questo Viaggio solo se non ci siamo fino in fondo appassionati all'obiettivo, se non lo abbiamo "sentito" dentro come Missione, come Compito, come Opportunità di Rinascita.
Non c'è esperienza più bella che annaffiare giorno dopo giorno le piantine del nostro orto. Anche quando trasportare l'acqua diventa un'impresa. Anche quando fa caldo e vorremmo starcene rintanati in casa. Anche quando non vediamo ancora alcuna pianta germogliare.
La "determinazione muove il Mondo".
La Spada del Maschile ci guida e ci sprona a proseguire con sguardo fiero e posato.
E no.
Non è vero che "capitano tutte a noi".
Non è vero che... "speriamo siano solo cose belle".
Le "cose" accadono. Non sono "né belle né brutte".
Sono schemi. Schemi che risuonano bene, o schemi che vanno modificati nella loro struttura d'origine.
Le "cose" che accadono sono esattamente ciò che il nostro "potere creativo" è in grado di portare nella Materia.
E se siamo ancora ingabbiati dentro a schemi disfunzionali, già possiamo intuire cosa ci proporranno come ennesima esperienza.
La differenza è che l'Autunno amplificherà di cento volte tanto il nostro potere creativo sulla Materia.
La Materia si renderà particolarmente duttile e i nostri piani energetici vedranno moltiplicata la loro forza e capacità di imprimere la Generatività nel quotidiano.
A voi le degne conclusioni.
Completiamo con volontà e passione le pulizie interiori.
Sarà fondamentale "creare" con Coscienza, Purezza d'Intento e Amore nella Materia.
Ci accorgeremo subito se il lavoro tanto sudato nei mesi precedenti, ha davvero scalfito le nostre zone d'Ombra più resistenti e "intoccabili". Sarà chiaro, limpido, lampante.
Non lesinate sul "lavoro interiore". Mai.
Aiutate il vostro nucleo Originale a manifestarsi nel modo più autentico, più connesso, più libero da interferenze possibile.
E non dite: "Sono stanco".
No, non sei stanco. Sei demotivato. E' diverso.
Ritrova la Passione per te stesso e per i tuoi immensi obiettivi e vai.
Sfodera la tua Spada Lucente e, con sguardo fiero, affronta.
Perderai? Apparentemente sì, tante relazioni, tanti luoghi, tante parti di te stesso.
Ma non saranno una "perdita". Esse saranno un tassello in più alla tua crescita e alla tua prossima realizzazione interiore.
Saranno "Vita".
Mirtilla Esmeralda
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heresiae · 3 years ago
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Sono una di quelle persone che ha la fortuna di avere in famiglia una baita a 2000 metri di altezza (circa...).
Niente elettricità, rete idrica, servizi, niente... tutte le prime 13 estati della mia vita le ho passate lì.
Quindi conosco la fatica di base della vita quotidiana off-grid.
Ogni due o tre giorni va fatta legna e questo solo per il bisogno quotidiano, il che significa cercare tronchi caduti, trasportarli fino alla baita, tagliarli prima con la motosega e poi ad ascia. Fidatevi, non avrete voglia tutti i giorni di tagliare legna, ma lo dovrete fare dalla primavera in poi se volete scaldarvi in inverno.
Significa anche che non tagli solo i ciocchi, ma li tagli anche a listelli e ammassi la "sbaia" (i rami degli abeti caduti), perché i ciocchi non prendono fuoco magicamente, prima devi fare il tuo fuocherello (e non è che puoi portarti su un pallet di diavolina).
Significa che al mattino fa effettivamente un freddo becco finché non accendi la stufa. Significa che i tubi vanno mantenuti puliti perché se no cor cazzo che l'accendi al primo colpo (se l'aria non tira, il fuoco non si accende). E sto parlando dell'estate, in inverno toccherebbe svegliarsi la notte per riattizzare le braci.
Significa che se vuoi cucinare sulla stufa, devi cominciare a preparare 1-1,5 ore prima, a meno che non volete spendere soldi per una bombola a gas e un fornello rudimentale (il forno però ti tira fuori cose che ti fan piangere dalla gioia).
Significa che o porti su tipo 500 bombolette di gas per le lampade o vai di candele a tonnellate (e se hai animali / figli piccoli non sono proprio il massimo della sicurezza).
Significa avere il bagno gelido, a meno che non hai acceso il boiler per l'acqua calda per farti la doccia (farsi la doccia significa accendere il boiler e nutrirlo ogni 15-20 minuti perché il focolare è più piccolo e quindi brucia legna quanto il mio Jimny consuma benzina sopra i 60km/h, ma è più che possibile farsi più docce in due settimane... non è necessario soffrire, io questa cosa dell'articolo l'ho capita poco).
Significa farsi il bucato a mano. Auguri con le lenzuola e l'acqua fredda (a meno che non abbiate collegato il boiler anche al lavatoio).
Significa anche che, a meno che tu non viva vicino a un pastore o non abbia le tue risorse (ovvero mucche e galline), le proteine te le scordi (burro, formaggio, carne, uova, etc...) o vai periodicamente fino al supermercato (tempo, benzina, soldi...).
Significa prendersi cura quasi quotidianamente di un orto (hello topini!).
Significa anche che, grazie al cambiamento climatico, puoi ritrovarti senza acqua.
Per questo per noi è sempre stata una baita da vacanza. Potrebbe cambiare, Madre sta cominciando a fare dei lavori non solo di manutenzione, ma miglioramento, come la strada che finalmente arriverà fin davanti alla baita, i pannelli solari e un tubo fisso per l'acqua dalla sorgente (sì, il tubo lo mettiamo e togliamo ogni anno perché se no la neve lo porta via/rovina). Si metterà forse anche a posto il "secondo piano" della baita (aka, sotto tetto) per separare zona giorno da zona notte (ora è un monolocale). Naturalmente noi non siamo il Canada, quindi i giorni di sole sono sufficienti in pressoché ogni stagione. Peccato che d'inverno sia impraticabile anche solo uscire dalla baita (neve).
C'è anche una cisterna sulla nostra proprietà dove l'acqua sembra esserci sempre, ma è da pulire e mettere a posto (perché l'acqua scorre via, non si riempie).
In realtà siamo tutte e tre (io, Madre e Sorella) abbastanza improntate a finire i nostri ultimi anni da quelle parti o in un posto simile, ma lo faremo con calma.
Tra l'altro, ormai sto facendo pace con il fatto che non mi sarà mai possibile possedere casa a Torino dove voglio io, quindi in qualche anno (che si misura in decine) potrei cercare una casetta in una valle vicina e lavorare in remoto stabilmente (ormai sto lockdown mi ha insegnato un po' di cose...).
In definitiva, l'off-grid non è per tutti, bisogna essere preparati e, soprattutto, bisogna farlo solo parzialmente. La vedo più facile se un gruppo intero di persone decidesse di mettere insieme le proprie risorse per andare a vivere full off-grid, con animali, un piano agricolo e investimenti seri in pannelli solari e tubi fino alla più vicina fonte d'acqua (ovviamente in baite già costruite) e molte conoscenze in questione di auto-produttività (artigianato), ma farlo solo in coppia/famiglia a caso con delle case mobili poi, è un semi suicidio fisico/mentale, specie se non si è mai neanche passato un paio di settimane in una situazione del genere.
Naturalmente ho incontrato persone che vivono stabilmente da quelle parti, ma sono persone particolari ed erano più che preparate a staccarsi quasi del tutto dalla rete sociale/di risorse (notate che ho scritto "quasi").
E mi raccomando, fate corsi di primo soccorso seri prima.
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diceriadelluntore · 5 years ago
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Fatiche
Il racconto è un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo.
Italo Calvino
Questo post è dedicato a tutti quelli che stanno incessantemente lavorando per il bene di altri, nei modi che ormai conosciamo: sono alla prova di una fatica erculea. Proprio di questo voglio raccontarvi.
Le 12 fatiche di Eracle (che verrà equiparato nella tradizione successiva all’eroe etrusco-romano Ercole) sono uno dei miti più incredibili e famosi della mitologia greca. Le sue gesta secondo molti filologi, mitografi e studiosi erano raccolte in una saga, l’Eracleia, databile intorno al 6 secolo a.C., purtroppo perduta; è da varie altre fonti che si possono raccontare queste 12 fatiche. Eracle (Heraklês, composto da Ἥρα, Era, e κλέος, "gloria", quindi "gloria di Era") era figlio di Zeus e Alcmena. Zeus annunziò agli dei, riuniti sul Monte Olimpo in congresso, che sulla terra stava per nascere un uomo del suo sangue. Era, gelosa, fece in modo che invece di Eracle nascesse prima Euristeo: Zeus aveva stabilito che i troni di Tirinto e di Micene sarebbero stati destinati al primo nato della stirpe di Perseo, anticipando la nascita di Euristeo, questi divenne così il re delle due città.
Zeus mentre Era dormiva, attaccò al seno suo figlio Eracle, che solo così avrebbe potuto ottenere l'immortalità. Il piccolo agguantò un seno della dea con troppa forza, svegliando la dea e, facendo schizzare parte del latte verso il cielo, creò così la Via Lattea. Questa da allora divenne la strada percorsa dagli dei per raggiungere il palazzo del re e della regina degli dei. 
Le vicende del nostro sono infinite, e riguardano imprese già epiche persino da neonato: Era mandò due grandi serpenti, raccapriccianti per spire neraste, per strangolare il piccolo che però scacciò senza nessun problema.
Il fulcro principale della leggenda è il suo ritorno presso Euristeo, che lo chiamò a suo servizio. Eracle consultò l’oracolo di Delfi, e la Pizia gli ordinò di ubbidire: Eracle rabbioso per il responso, uccise la moglie Megara, figlia del Re Creonte, sovrano di Tebe e i tre figli da lei avuti. Rinsavito, gli fu imposto di essere ai servigi del Re per 10 anni, e di compiere 10 fatiche (ricordatevi questo particolare). Un’altra versione racconta che Eracle si presentò spontaneamente a Euristeo perchè l’oracolo gli aveva predetto che al termine della servitù sarebbe divenuto immortale. Egli, quindi, sarebbe impazzito ed avrebbe ucciso i suoi familiari dopo aver compiuto le fatiche (Euripide per esempio nell’Eracle segue questa versione).
Sia come sia, Eracle per Euristeo compì dodici fatiche, dalle 10 pattuite, una per ogni anno di servigio, perchè due per motivi che spiegherò Euristeo non le volle conteggiare. Descriverle per filo e per segno è opera a cui dedicare molte pagine, ma per brevità le sintetizzerò, anche aiutato dal fatto che alcune sono patrimonio delle storie universali: 
1 - la lotta con il leone Nemeo, mostruoso leone invulnerabile, che Eracle riuscì a vincere strangolandolo; lo scuoiò e usò i suoi denti per tagliare la pelle invulnerabile e farne la leontè, il mantello con testa leonina che lo raffigura in tutte le iconografie. Gli abitanti di Nemea istituirono i giochi nemei proprio in ricordo dell’impresa dell’eroe;
2 - l’uccisione dell’Idra di Lerna, drago dalle 8 teste mortali e una immortale, che infestava le paludi di Lerna, nell’Argolide. Eracle con l’aiuto del cugino Iolao, uccise l’Idra e intinse le sue frecce con il sangue dell’essere, cosicché le ferite risultassero insanabili; siccome Eracle ebbe l’aiuto di Iolao, Euristeo non volle conteggiare questa fatica;
3 - la caccia al cinghiale di Erimanto, che viveva sul monte Erimanto, in Arcadia;
4 - la cattura della cerva di Cerinea, meraviglioso animale dalle corna d’oro, inseguito per un anno sui monti dell’Arcadia prima di essere catturato dall’eroe;
5 - la caccia agli uccelli Stinfali, favolosi animali del lago Stinfalo, in Arcadia; avevano ali, rostri e artigli di bronzo. Lanciavano le loro penne di bronzo per uccidere gli uomini. Eracle li uccise con le frecce avvelenate del sangue dell’Idra;
6 - la conquista del cinto d’Ippolita, Regina delle Amazzoni. Ippolita possedeva una preziosa cinta donata da Ares, suo padre. Ippolita accolse amorevolmente Eracle e i suoi aiutanti, ma Era scatenò l’ira delle altre Amazzoni, che sospettavano che l’eroe volesse rapire la loro regina: ne scaturì una guerra, dove Eracle con l’aiuto di Teseo riuscì a rubare la cintura;
7 - la ripulitura delle stalle di Augia: il re dell’Elide possedeva migliaia di capi di bestiame, le cui stalle non erano pulite da anni (secondo Apollodoro da trenta anni). Eracle gli propose una ricompensa qualora ci fosse riuscito in un solo giorno: Augia gli propose la decima parte del bestiame. L’eroe pulì le stalle deviando il corso di due fiumi, l’Alfeo e il Peneo. Augia non volle però corrispondere la ricompensa, e secondo certi autori fu maledetto da Eracle, secondo altri fu ucciso; e nemmeno Euristeo concordò quest’impresa come fatica proprio perchè frutto dell’astuzia e non del lavoro fisico (da cui le 12 e non le dieci);
8 - la cattura del Toro di Creta, cioè il magnifico Toro bianco che Poseidone aveva inviato a Minosse, re di Creta, per sacrificio al dio del Mare. Minosse non lo fece, e il toro divenne furioso; Eracle domò l’animale, lo trasporto in una immensa rete e Euristeo lo liberò nella piana di Maratona;
9 - la cattura delle cavalle di Diomede, re dei Bistoni nella Tracia, che possedeva una mandria di cavalli spiranti fiamme dalla bocca, che nutriva con carne umana: lottò con Eracle e il suo sangue fu l’ultimo che tinse le fauci dei feroci corsieri (Stazio, Tebaide);
10 - la cattura dei buoi di Gerione, re di Eritea, presso Cadice. Aveva tre corpi dalla cintola in su secondo la maggioranza dei favolisti. Possedeva una mandria di meravigliosi buoi purpurei, perchè li nutriva del sangue degli uomini. L’armento era custodito da un gigante, Euritione, dal cane bicipite Orto e secondo altri favolisti da un drago, tutti sconfitti da Eracle. A dimostrazione di questa fatica, avvenuta al confini del mondo allora conosciuto, l’eroe issò due colonne, all’imbocco del mare sconosciuto (quelle che poi si chiameranno nell’immaginario le Colonne d’Ercole); durante il viaggio di ritorno, l’eroe passò anche per l’Italia, dove fondò due città, Ercolano e Crotone, e mentre tentava di passare lo Stretto tra Reggio e Messina, uno dei buoi si allontanò: cercandolo, seppe che gli  indigeni chiamavano la bestia vitulus, così chiama Outalía tutta la regione, da cui Italia (ipotesi registrata anche dall’Accademia della Crusca);
11 - la raccolta dei pomi d’oro delle Esperidi, figlie di Atlante e Esperide: custodivano nell’antica Mauritania (che coincide con l’odierno Marocco) un bellissimo giardino, in cui cresceva la pianta dai pomi d’oro che Era aveva ricevuto da Gea per le sue nozze con Zeus. Eracle convinse le Ninfe a farsi dire il luogo segreto dove fosse il giardino, e si sostituì per un po’ ad Atlante nel sostenere la volta stellata, per acquisire tre pomi da portare a Euristeo;
12 - la cattura di Cerbero, il leggendario cane a tre teste a guardia del palazzo di Ades; Eracle si inoltrò nel boschi attorno Sparta, dove la leggenda pone la discesa negli inferi, e con una colossale catena riuscì a condurlo al palazzo di Euristeo.
Le vicende dell’Alcide (patronimico che deriva da Alceo, nonno materno dell’eroe) non finirono qui, ma le lasciamo ad un altro racconto. Quello che vale è il significato simbolico di queste gesta: 
- per alcuni, una minoranza, le dodici fatiche rappresentano i dodici segni zodiacali, ma questa visione è molto debole;
- le imprese di Eracle, spesso compiute con un atteggiamento di sfida alla morte rappresentano una tradizione di mistica interiore e le Fatiche possono essere tranquillamente interpretate come una sorta di cammino spirituale;
- il ruolo dell’accordo, del reciproco rispetto dei patti, del valore della conoscenza, del do ut des;
- la forza magica del varcare i confini e trovare forze e aiuti quando si cammina oltre il limite delle concezioni, dei luoghi e delle fatiche.
Vi lascio con la raffigurazione più bella e straordinaria dell’eroe:
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L’Ercole Farnese, conservato al MANN di Napoli: copia di un bronzo di Lisippo ad opera di Glicone di Atene (mette la firma sotto la pietra a cui si appoggia l’eroe), opera del II secolo: l’eroe è scolpito in un momento di pausa, appoggiato alla sua clava di ulivo (pianta sacra a Zeus) con il leontè; ma è il particolare della mano che va dietro la schiena davvero magnifico:
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L’eroe infatti tiene nella gigantesca mano i tre pomi d’oro rubati nel giardino delle Esperidi.
Appena sarà possibile, andiamo a vederlo, o rivederlo, nel meraviglioso Museo napoletano, forse il più importante museo per l’archeologia greco-romana del mondo.
Un abbraccio e questo post è stato scritto con lo spirito di “serenizzazione” che una volta @kon-igi​ mi ha scritto in privato, come cosa da fare di questi tempi complicati.
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merrowloghain · 4 years ago
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08.11.76 Pressi Foresta Proibita / Capanna Guardiacaccia - Hogwarts
«Ti lagni sempre che non ti offro mai avventure»  «Quindi oggi ti regalo un`avventura»
«Vuoi fo-»rtunarti «un`altra zucca?»
Poi sorride, facendole segno con il dito verso «La torta» La torta, maiuscolo. La torta di mele preparata da Jude e lasciata incautamente a raffreddare sul davanzale della sua finestra. Ecco cosa intende rubare «Lui se ne può fare un`altra. Tanto mica è il suo compleanno»
Acquattati dietro le fratte, ecco quindi che il Grifondoro se ne esce con quell`idea, facendole corrucciare la fronte non appena indica «La tort- ma tu sei un genio!» bisbiglia infiammata di sacro ardore, che si riflette negli occhioni chiari con un intento inequivocabile d`approvazione, trattenendosi dall`atterrarlo lì dov`è per renderlo un quattordicenne felice. Torna a fissare la torta, con la stessa espressione che avrebbe uno Kneazle davanti ad un topino enfatico ignaro del suo destino segnato «Si, è vero. E poi la torta di Jude dicono che sia buonissima. Senza contare che io mangio solo torta di mela come dolce: tutto il resto mi fa schifo.» insomma, Jude, è deciso. Si volta verso Tristan, un sorriso affilato sul volto spigoloso «Come procediamo? Ci nascondiamo da zucca in zucca e poi ci appiattiamo contro il lato della capanna?»
«Facciamo una gara a chi la prende prima. Tu a piedi, ed io con la magia»
«Ah-ah! Saresti un po` troppo veloce con la magia, tu. Qui ci vuole un gioco di squadra. Dovremmo capire se Jude è in casa...» «Dai, proviamo!» ed è su questo pensiero che si concentra, focalizzandosi sulla torta messa là sul davanzale, alla mercè di ladri di galline come loro: s`immagina la torta staccarsi dal suo ripiano, iniziare a levitare e muoversi per venirle incontro, come se scorresse su un`invisibile funicolare. Bacchetta puntata in direzione dell`obiettivo, e movimento a scatti ascendenti per completare un tutto con un «Mòbilicòrpus!» a voce bassa, stando ben attenta «Se esce fuori Jude, devi distrarlo, Gringo!»
Del fumo esce dal comignolo della capanna di forma quantomeno atipica, di legno e pietra, con quel bel tetto fin troppo imponente. Dalla finestrella incriminata, quella con il bottino di caccia di... ah no, con l`odorosa e invitante torta della nonn-, del Guardiacaccia. Dicevamo, oltre i vetri di quella finestrella, lo strizzare d`occhi di Tris non si farà sfuggire il sentore di un lovale illuminato, oltre cui... passa proprio la stazza imponente del Benbow. Ansia. Ma no, è di spalle e sembra defilarsi in pochi istanti. Ignaro di tutto. Sì, perché intanto la povera torta di mele sta fluttuando infedele verso la postazione dei due Studenti. Con calma eh. Ma chi va piano va sano e va lontano. Poi, a metà strada, non passa inosservato, sebbene vagamente ovattato, un abbaiare possente e tra l`eccitato e il preoccupato. Prima quello, poi sbuca da dietro il vetro chiuso della finestrella il musone di un cane, l`inconfondibile bovaro del bernese che sta quasi sempre alle calcagna del padrone. Lingua a penzoloni, zampotte a sostenerla in un`intuibile posizione eretta umana, mentre il tartufo si schiaccia comicamente al vetro, creando condensa, appannandole quindi pure la visuale. Sembra stia fissando il punto in cui c`era la torta, ora lasciato tristemente vuoto. Abbaia di nuovo, volge il capo verso l`interno della casupola, come a richiamare l`attenzione di qualcuno.
Tristran avrà anche la corporatura da palo, ma, a far da palo, lascia un po` a desiderare. Il sorriso spensierato che reca in volto evanesce difatti all`improvviso al passaggio della sagoma-formato-frigo «Oh cazz...» impreca sottovoce, e gli ha detto proprio Felix, in questo caso, dato che fortunatamente Jude gli dà le spalle. Neanche il tempo di nascondersi dietro il tronco, e il cagnolone sembra aver fiutato profumo di crimine «Giù!» bisbiglia concitato il Grifondoro, accucciandosi veloce al suolo e cercando di portare anche Merrow con sé, strattonandola per il maglione. A metà strada tra isteria e divertimento, che la situazione è davvero paradossale, si fruga addosso per impugnare di nuovo la bacchetta. Agisce di istinto, cercando uno spiraglio tra le frasche attraverso il quale prendere la mira verso la casupola, puntando nello specifico alla finestra dietro alla quale il cane si sta agitando. Agita la bacchetta da sinistra verso destra «Mùto, Mùto!» dice velocemente, nel tentativo di esortare la trasfigurazione del vetro in dura e fredda pietra, come quella in cui è realizzata Hogwarts. Dura, fredda, e soprattutto non più trasparente, cercando di oscurare almeno per un po` la vista sull`esterno agli abitanti della casa. Non proprio il migliore dei piani, ma qua si vive improvvisando.
Concentrata com`è sulla torta, sebbene il suo incantesimo non abbia bisogno che lei mantenga nessun contatto visivo ora che la torta le si sta avvicinando, per poco non crepa quando il Grifondoro la strattona per il maglione dalla scollatura tonda ed ampia, quasi mezzo denudandola se non fosse per il mantello che la copre dignitosamente, facendola finire a carponi per terra, praticamente "sfrigolando" una risata che trattiene a malapena quando Tristan comincia quello strano tuca-tuca tornando bacchetta in mano. «Mùto? Ma sei s-» non lo sapremo mai, perchè l`incanto del terzino va a buon fine, con quel vetro che diventa pietra ad ovattare appena il suono del cagnone al di là, con i suoi uggiolii da snitch infame «Porco Gramo! Corri!» che? Lei cercherebbe quindi di scattare in avanti, fuori dalla sua copertura ma sempre bassa, tentando di non risultare un bersaglio facilmente individuabile se Jude dovesse per caso palesarsi dalla porta della capanna. Cerca di raggiungere l`agognata torta, e solo quando questa sarebbe tra le sue mani al sicuro, punterebbe la bacchetta verso d`essa per pronunciare un veloce «Finìte Incantàtem!» tutto concitato, nella speranza di cercare presto dove nascondersi, tentando d`individuare persino la figura di Gringo per potersi coordinare a vista verso il DOVE fuggire. Perchè decisamente i due, non sono Corvonero.
Il vetro diventa pietra e l`abbaiare della cagnolona si tramuta in una sorta di importante piagnisteo ovattato, che forse i due Studenti faranno pure fatica a sentire tra la confusione e la pietra insieme al legno che costituiscono la divisione tra loro e l`interno della capanna. Ad un tratto è evidente come sonora la malagrazia con cui la porta d`ingresso in solido legno viene spalancata, rivelando un pezzo della mobilia dell`abitazio-... ah no, è il Guardiacaccia con un`espressione stralunata in viso. Maglione verde bosco infilato nei pantaloni pesanti e marroncini, a vita alta, con le bretelle ciondoloni lungo le cosce e una grande presina-guanto a scacchi bianchi e arancioni infilata nella mano destra. Si è fermato sull`uscio, cercandosi attorno con lo sguardo. Merrow è stata veloce, c`è da dire, e Jude riesce affettivamente ad acciuffarla con lo sguardo incredulo e le sopracciglia che balzano in alto quando sta ormai battendo in ritirata con i bottino al sicuro. Ci mette pure mezzo secondo per realizzare quello che sta vedendo, per rendersi davvero conto che a quanto pare c`è quella che assomiglia ad una studentessa che sta cercando di svignarsela con fare un pò strano. Quel mezzo secondo di ritardo è seguito dalla mano con il guanto-presina a sollevarsi a lato della bocca ad accompagnare un « Eeehi! » che suona più spiazzato ed interrogativo che altro. Se non fosse per l`inconsapevole minacciosità che un pò ci infonde una voce perfettamente consona alla stazza piuttosto intimidatoria che si porta dietro come un fardello. Ma al peggio non c`è mai fine, e nemmeno alla fortuna di quei due marmocchietti. Sì, perché quell`urlo gli si strozza evidentemente in gola quando un cane-bisonte si mette in testa di voler oltrepassare la porta già ingombrata dal ragazzone, caricandolo praticamente al ginocchio in un`esuberante gambagigia che non lo fa cadere a terra. No. Peggio, lo fa armeggiare e agganciare alla porta come nel peggiore dei film comici per qualche istante, fino a che non piomba comunque con il sedere per terra. Dopo uno spettacolino niente male ma evitandosi un livido sul sedere.
Scemo? Sì, sicuramente lo è, ma quell`incantesimo è davvero la prima cosa che gli è passata per la mente. Stringe la bacchetta vicino al corpo, tenendosi pronto a lanciare qualche altra magia se necessario, intanto che approfitta dello squarcio tra le fronde per continuare a spiare la situazione. Poi Merrow esce allo scoperto e lui suda freddissimo, ma l`eventualità di essere beccati lo colma di eccitante umorismo in egual misura, costringendolo di nuovo a soffocare una risata dietro al dorso della mano libera. Corre via? Ovviamente no, non abbandonerà la nave prima del tempo, tantomeno la sua compagna. Anche perché sarebbe un po` difficile scappare, con i muscoli della pancia dolorosamente contratti, nello sforzo di trattenere la brutta sghignazzata che quel teatrino tra Jude e il cane vuole strappargli a ogni costo. Con le lacrime agli occhi, tenta di intercettare come può il nuovo nascondiglio scelto dalla ragazza; le fa cenno con una mano per attirarne l`attenzione, indica la propria bacchetta, e infine cerca di mimare con le labbra la parola: Fulmen. Una strategia che equivale a mettere i manifesti, sì, ma almeno dovrebbe concedergli qualche secondo prezioso per fuggire. Tristran lancia un`occhiata alla cagnolona trotterellante, un po` dispiaciuto. Quindi alza la bacchetta verso l`alto, bisbigliando «Fùlmen» mentre strizza gli occhi, così da sfuggire all`eventuale bagliore accecante. Conta un secondo. Poi riapre gli occhi, si rimette in piedi, e, senza attardarsi a controllare lo stato di Jude e del cane, si lancerebbe in corsa verso l`uscita dell`orto nel tentativo di levarsi di torno.
Il giovane guardiacaccia tuona quel richiamo, ma lei si acquatta per un secondo cercando di non esser individuata, guardandosi attorno, per poi assistere a quello sfondamento medievale che la cagnolona porta ai danni della gamba del povero Jude. Merlino impastoiato, lei praticamente sta soffocando dal ridere, ed al tonfo che l`altro fa per terra, deve premersi con forza l`avambraccio sinistro sulla bocca, per evitare di venir scoperta, gli occhi colmi di lacrime d`isteria ilare: ci dispiace, Benbow, ma ci hai appena regalato una visione che sicuramente sarà buona per produrre un Patronus, un giorno. Nota con la coda dell`occhio lo sventolare di mano di Gringo, rimanendo ferma un secondo per leggere quel labiale infamissimo, che le fa spalancare occhi e bocca come una trota, prima di chiudere entrambi con uno scatto, stringere le palpebre e le labbra tra loro, nemmeno servisse l`apnea per salvarsi da quello che percepisce come un lampo accecante, da cui probabilmente si sarà salvata grazie alla coordinazione criminale oramai brevettata, tra lei e l`altro Grifondoro. Povera Penny, di cui lei si cura a malapena, gettando una brevissima occhiata in direzione sua e del malcapitato padrone, prima di scattare veloce come un boccino in direzione di Gringo, coperta da quei preziosi secondi di confusione per battere in ritirata dietro Tristran, lasciando le due povere bestie (?) al loro fato infausto.
.oOo.
«Mi piaci. Come persona, come amico, come tutto.» deglutisce un secondo, scrutandone l`espressione sul viso «E...» nemmeno stesse prendendo la rincorsa, mordicchiandosi il labbro inferiore «Ti voglio bene, Tristran.»
«Come siamo sentimentali, oggi...»
«Nah, volevo solo dirtelo. Una volta sola.»
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ilquadernodelgiallo · 4 years ago
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Entro in enormi stanze vuote, vedo il paziente in lontananza nel suo letto, attraverso metri cubi di niente, gonfiati di follia, dove infiniti mondi coesistono, e, dopo prolungato viaggio nel silenzio, giungo nell’isola della disperazione, mentre il padrone ha già svegliato i cani e sguainato il coltello. Quando arrivo sono stanco e indifeso. Non so più cosa dire, né cosa fare. Mi conviene indietreggiare verso terra sicura, abbandonando questa scialuppa nel mare infinito. _______________ Se non hai mai provato il dolore psichiatrico, non dire che non esiste. Ringrazia il Signore e taci. _______________ Filippo, non trovi le parole per spiegarmi cosa ti succede e mi guardi con rabbia, attesa e rincrescimento, io, non trovo le parole per spiegarmi cosa ti succede, e non trovo le parole per tranquillizzarti. Filippo, sinceramente, tu sei qui, io sono qui, stiamo andando benissimo. _______________ Psichiatria è urla e pianto muto. Una volta nei reparti i pazienti urlavano di continuo, per anni. Ora urlano il primo giorno, il secondo un poco, il terzo tacciono. I farmaci – siano benedetti – hanno calato il silenzio sul mondo. _______________ io guardo l’abisso con gli occhi degli altri. _______________ Per diventare psichiatri basta avere un genitore, un nonno, un po’ matto, anche un pochino, e volergli abbastanza bene. I matti sono nostri fratelli. La differenza tra noi e loro è un tiro di dadi riuscito bene - l'ultimo dopo un milione di uguali - _______________ Penso che vada bene per te, Gina. Tu taci. Più silenziosa della lampada che sfrigola e del termosifone che singhiozza. Mi chiedo se vieni qui da tre mesi solo per il sorriso che hai intravisto la prima volta, quando sei entrata come una lenta folata d’aria, e hai alzato lo sguardo su di me. Non vuoi nulla di più di quel sorriso, Gina? Lo farai bastare per sempre? D’altronde anch’io sono qui solo per il sorriso che ho intravisto, la prima volta, quando sei entrata come una lenta folata d’aria, e hai alzato lo sguardo su di me. Cosa ci siamo detti in quell’istante, cosa ci siamo promessi, che ora ci accontentiamo del silenzio? _______________ I primi anni pensavo che la Vespa si guidasse con le braccia, poi ho imparato, come tutti, che la Vespa si guida col culo. Semplicemente si spinge di lato la sella, in orizzontale, e la Vespa segue istantaneamente il movimento. I primi anni pensavo anche che la vita si guidasse con la testa. _______________ Il mugugno ha i suoi canoni, è musica popolare. È un blues laico, che parla della fatica dell’uomo ma non cerca nessuna salvezza. È un blues interessato, perché dice: le cose mi vanno male, non posso darti nulla. È un blues bugiardo: quando un genovese si lamenta di qualcosa vuol dire che ha già in tasca la risposta. Lamentarsi è un modo frugale di cantar vittoria. Se un genovese sta veramente male, non si lamenta, tace. Il lamento del depresso è una battuta unica, ripetuta, greve. Dice: tu non c’entri, ma in qualche modo è colpa tua. Il mugugno è liberatorio: siamo uniti contro qualcuno, siamo sulla stessa barca. La musicalità è diversa, si riconosce alla prima sillaba. _______________ Ti hanno vista in una chiesa deserta, la mattina presto, su una panca a guardare in giro. Allora ti chiedo, Lucrezia: tu credi in Dio? Mi guardi sgomenta. Ogni crocifisso per te sanguina davvero, se guardi san Sebastiano senti le frecce entrare nella carne, non puoi pregare perché lo sguardo di Dio è reale e ti atterrisce. Io vorrei dirti: Lucrezia, prima guarisci e poi credi. Ma a te, che non guarisci mai, non resta che tentare di credere, tra il bisogno e la paura. Facile credere per i sani, che non credono a nulla. _______________ Luciano, per essere più forte del dolore, più forte della paura, più forte del rancore, ti sei fatto vento. _______________ Ieri ho sentito un corrispondente di guerra dire che noi europei viviamo in una bomboniera inconsapevoli dei drammi del mondo. Io conosco persone che passano la notte sotto i bombardamenti in vico Untoria, persone che la mattina scendono in trincea in via Venti Settembre, persone chiuse in prigioni senza alcun diritto in salita del Carmine, persone smarrite nel deserto a duecento metri dalla stazione Principe. _______________ Grave è la terra e grave è il tuo corpo, Giuseppina. Non scendi mai dal letto. Dal matrimonio di Piero non apri l’armadio dove dormono nel buio le scarpe buone. Per farti infilare le ciabatte ci vuole mezz’ora, un’altra mezz’ora per farti alzare, poi trascini i piedi, passo passo, e ci metti mezz’ora a circumnavigare il letto. Stai attaccata a quel letto come un naufrago all’isola in mezzo al mare. Davanti al letto sta l’armadio grande. Nella stanza ci sei tu, il letto e l’armadio grande. Nell’armadio dorme l’abito da sposa di tua madre col cappello del rinfresco e il vestito verde, viaggio di nozze sul lago di Como. Nell’armadio dorme la divisa da ferroviere di tuo padre, capostazione a Levanto. Dormono le foto in bianco e nero dei nonni contadini appoggiati alla vigna e le facce da fame dei genitori ai tempi di guerra. Dormono le foto della tua cresima al Lagaccio, cocktail al Righi, un compagno di scuola fa le boccacce. Dorme il tuo diploma di Magistrali e la firma della tua prima supplenza: alla D’Annunzio, parlavi di Pascoli, ricordi? La classe rumoreggiava, volavano aeroplanini, meglio sfuocare. Dorme il bustino con le stecche che un ortopedico maligno voleva farti indossare. Dorme una finta lettera d’amore che ti sei scritta da sola, e quella vera che hai scritto a Piero e non hai mai imbucato. Dorme la bomboniera del matrimonio di Piero, che ha avuto tre figli dalla Giusi. Dalla tua pancia sono usciti dieci figli immaginari che il Serenase non riesce a far rientrare. Sei stanca di queste gravidanze, senza padri, festa e battesimi. Giuseppina, dormi di fronte alla tua vita chiusa nell’armadio. _______________ Essere trascinati fuori dall’isola, alla luce, dopo vent’anni, non è cosa da poco, è un’esperienza terrificante, come essere spellati vivi. Ma c’è qualcosa che alla fine è più forte del terrore: la curiosità. In Reparto 77, finalmente in mezzo ad altre persone, per quanto strane, i Robinson Crusoe, dopo pochi giorni – senza farsene accorgere – spiano, osservano, scrutano, ascoltano. Non lo ammetteranno mai, continueranno ad accusarci di avergli rovinato la vita ma, appena ci allontaniamo, si divertono. Poi un giorno li troviamo a chiacchierare tranquillamente con un altro paziente. Dopo vent’anni. Noi facciamo finta di nulla, e anche loro. _______________ I pavimenti di marmo, i mobili antichi, il pianoforte: la tua mente vacilla ma il mondo intorno a te non si sbriciola, misteriosamente permane a sguardo alto. Pudicizia, pulizia, contegno, rispettabilità. Il decoro borghese, insgretolabile, è la tua salvezza, Lia. _______________ La sala d’attesa è un mondo, ed è già clinica: c’è molto da imparare. Lì l’aggressivo è aggressivo, l’ansioso è ansioso, quella è la realtà: la visita è una rappresentazione. _______________ Odi le donne, forse da giovane qualcuna ti ha respinto, e ora che hai l’eroina migliore della città e loro fanno la fila per soddisfare le tue voglie puoi ben goderti la vendetta. Perché almeno non ti lavi un po’? Più fai schifo, più loro si umiliano e più tu godi. _______________ Ma questa è la cosa bella del nostro mestiere: si passa dalla tauromachia a distendere la mano perché una farfalla in volo vi si posi leggera. _______________ Sulla soglia i miei occhi, senza che io volessi, ti hanno chiesto: chi sei? I tuoi, senza che tu volessi, hanno indicato la pioggia ai vetri. Ci siamo poi presentati l’un l’altra con parole di circostanza. Non servivano. Eravamo già complici, io e la tua tristezza. _______________ Andrea, stai nudo e immobile, senza difesa, alla gogna del lavoro, alla gogna degli altri, per portare alla famiglia i soldi del mangiare. Dov’è finito il tuo amor proprio? e il pudore, la tenerezza e il pianto? Giace in laghi sotterranei, di cui nessuno conosce la strada, in cui talvolta tu, badando di esser solo, scendi piano la sera a bagnarti con movimenti lenti e silenziosi. Non cercherò di conoscere i tuoi sentieri segreti, non cercherò di vedere come rinasce il rapporto con te stesso, ma quanto vorrei conoscere la fonte del sacro da cui sgorga l’acqua che spandendosi fa sacro il bosco e la montagna e il cielo, e ciascuno di noi. _______________ Filippo, tu hai bisogno di confini più che di ossigeno, perché l’identità è un confine. E così io, che sono anarchico per natura, sono costretto a costruire pareti. Prima dentro di te, come stanze in una casa. Poi tra te e fuori di te. E che siano muri spessi, belli alti. La libertà di abbattere i muri, la cerchiamo dopo. _______________ Anna, a colazione apri il frigo e urli: non c’è il latte! Io poi vado in ospedale e non riesco a capire le persone che si vogliono ammazzare, tanto sono turbato dalla tua rabbia perché non sono passato dal lattaio. _______________ Chiara, tu ti senti sola. È agosto, la vallata è tutta in amore. Non serve a nulla chiudere gli occhi, turarti il naso, tapparti le orecchie. Abbagliante è l’estate. Non sai dove andare. La voglia di vita del mondo ti uccide. _______________ A ogni delusione della vita ti ritiri nel tuo giardino segreto, costruito in anni di pena e di attenzioni. Brutta è la vita, mille rose ha il tuo giardino: c’è un frutteto seminato l’anno che ti ha lasciata tuo marito, c’è un orto di aromatiche coltivato la primavera che hai perso il lavoro e c’è un limoneto piantato quando tua sorella è partita, fuori stagione, è venuto bene lo stesso. Del tuo giardino segreto non hai mai detto parola a nessuno. Neanche a me. Ma è lí che vai quando non mi ascolti. Sono sicuro: ne sento il profumo. Come mi piacerebbe entrare e vedere, Chiara. E infatti mi avvicino, ma tu mi tieni fuori dal cancello, mi tiri i sassi. _______________ So tutto di te, Chiara. Ma non so che biscotti mangi la mattina e come ti lavi i denti, non so come russi la notte e come ti muovi nel letto, non so come ti puzza l’alito e come stropicci i piedi, non so cosa dici quando fai l’amore e come morsichi la lingua, non so come cammini sotto la pioggia, come accarezzi i gatti, non so che sguardo hai quando ti fermi davanti alle vetrine. Chiara, di te so solo cose senza importanza. _______________ Svegliami, prima di partire. Non farmi destare dal rumore della porta che si chiude alle tue spalle. Dal rumore dei tuoi passi mentre scendi le scale e dal colpo del portone che si chiude per strada. _______________ Resta una scarpa sul davanzale, una cicca ai piedi della ringhiera, un paio di occhiali sul terrazzino. _______________ Forse non è stato agire, ma cessare di resistere. _______________ Chi è triste esce poco di casa, e spende meno di chi è allegro. L’ideale per la società dei consumi è tutti allegri e nessuno triste. La tristezza è uno stato mentale eversivo. _______________ Temi che le medicine si impossessino della tua mente e per questo le rifiuti. Sbagli, Livia: è la depressione che si impossessa della mente, le medicine restituiscono la chiave al proprietario. _______________ Torno dal Pronto con una ragazza legata alla barella, Giulia la vede, le vengono gli occhi lucidi e protesta: la contenzione è un atto violento, toglie la libertà, va abolita e basta. Giulia, hai ragione. Ma la violenza e la libertà sono tematiche psicologiche, non psichiatriche. Il paziente psichiatrico in acuto non concepisce il significato di violenza e libertà. Per lui è più rilevante la tematica esistere o non esistere. Talvolta ha bisogno di essere contenuto per ricomporsi nella sua unità, percepirsi, vivere. _______________ Se mi chiedete un’immagine simbolica della Psichiatria d’urgenza è proprio il contenere, il riunire frammenti spezzati tra loro, mettere insieme mente e corpo, riunificare la persona, come un gesso rinsalda le ossa. Far di pezzi, uno. _______________ Io ho passato la vita a convincere migliaia di persone del fatto che erano malate ed era meglio che si curassero. Altri colleghi hanno passato la vita a convincere incliti pubblici teatrali del fatto che le malattie mentali non esistono. Facciamo lo stesso mestiere? _______________ Non bisogna dire che siamo tutti uguali, bisogna conoscere le differenze. _______________ Marcello, anche oggi passiamo davanti a Oncologia, guarda la piccola folla di pazienti: ogni giorno si rinnova. Che occhi, e che sguardi di attesa. Perché qui non ci chiamano quasi mai? Perché il male che noi combattiamo non è il dolore, la paura, la speranza che vacilla. Non è perdere la vita, ma perdere se stessi. Chi piange ha chiaro chi è. Solo chi è cieco e mostra gli occhi spersi vede fermarsi il nostro passo: è lui quello presso cui sediamo. _______________ Il desiderio nulla conta di fronte all’umore, è la banderuola sbattuta dal vento. _______________ La ragione non fa che ammantare di spiegazioni razionali ciò che l’umore ha già deciso. _______________ E dopo tanti anni mi ritrovo ancora qui, alle prese col dolore inutile. Dolore che non insegna, non rigenera, non rinnova. Non dolore di crescita ma di prigione. Non dolore di potatura ma di morte. Dolore che non finisce per guarigione, non finisce per necrosi e amputazione: non finisce mai.
Paolo Milone, L’arte di legare le persone
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thetasteofthesoul · 5 years ago
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Sono una sconclusionata del cazzo. Sono inconcludente, procrastinatrice seriale all’infinito, vigliacca, codarda, impaurita da tutto. Non so che cazzo ne sto facendo della mia vita e il tempo mi passa tra le mani come la sabbia fine della clessidra, mi ritrovo a accumulare cose, fallimenti, tempo perso, serie tv senza nemmeno accorgermene e i mesi passano tic toc e poi un giorno mi sveglio dal torpore e mi rendo conto della merda in cui mi ritrovo. Perdo cose, perdo persone, perdo momenti, perdo scontrini, perdo senza sconti contro questa società iper mega produttiva e organizzata. Tengo la pressione per un po’ e poi mollo, andate tutti affanculo, vorrei qualcuno o qualcosa che mi gestisse tutto, perché devo affrontare la realtà ogni giorno, non basta e avanza che mi alzo dal letto, mi lavo, mangio, guido e vado a lavorare ogni cazzo di giorno per 10 ore della mia giornata? Quanta energia volete ancora? E invece no, devi tenere testa al capo coglione e siccome sono una codarda del cazzo ingoio tutto e il mio corpo incassa. E le tasse, e le regole, e i contratti, e le password, e i pagamenti, ma perché tutto deve essere così complicato e io deve essere così inetta nei confronti della vita? In verità crescere e starmene per conto mio mi è sempre costato una fatica immane. E sono 10 anni e più che me la meno da sola e me la smazzo, ma mi sa non ho imparato molto. Ecco, in determinate cose della vita, io galleggio. Non mi dite di andare in profondità perché mi viene l’ansia, non so tenere l’apnea. Io volo, sorvolo, galleggio, vado leggera e saltello perché certe cose della vita io le odio, mi stanno proprio sul cazzo. Io le energie le ho per altro, per le persone che voglio io, per le cose che voglio io, per i momenti che voglio io, perché devo perdere il mio tempo per delle rotture di palle del genere? Io voglio dedicare il mio tempo alle persone che amo, ad avere un orto, a guardare il cielo, a far ridere le persone, e invece mi attacco al cazzo e mi sento inetta in tutto il resto. 
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matteoironman-blog · 4 years ago
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Valeria Straneo: Un obiettivo in grande, in tutti i sensi, è fare la mia 3^ Olimpiade
Matteo SIMONE
http://www.psicologiadellosport.net
Valeria Straneo (Laguna Running), dal 2018 allenata da Stefano Baldini, nel 2012 stabilisce le migliori prestazioni italiane in mezza maratona e maratona: il 26 febbraio chiude la Roma-Ostia in 1h07'46", valida anche come Campionato Italiano assoluto e il 15 aprile chiude maratona di Rotterdam in 2h23'44".
Ha partecipato a due Olimpiadi in maratona: 7^ classificata nel 2012 a Londra in 2h25'27'' e 13^ nel 2016 all’età di 40 anni, a Rio dei Janeiro 2h29'44" e sta cercando di fare il minimo per partecipare alle prossime Olimpiadi di Tokyo. Il prossimo 6 dicembre parteciperà alla maratona solo élite per cercare di fare il minimo e cioè sotto le 2h30’, ha 44 anni ma nulla le impedisce di trasformare il suo sogno in realtà continuando ad allenarsi seriamente e duramente e ottenendo ancora risultati prestigiosi come nella mezza maratona agli ultimi campionati mondiali del 17 ottobre 2020 a Gdynia in Polonia in 1h11”39’.
Di seguito approfondiamo la conoscenza di Valeria attraverso risposte ad alcune mie domande.
Cosa toglie e cosa dà lo sport? “Per me che comunque lo faccio come professione, toglie sicuramente tempo ad altre cose ma come un lavoro normale che comunque adoro. Mi dà molto di più rispetto a quello che toglie, perché ovviamente è la mia grande passione e mi dà tantissime soddisfazioni, mi dà anche la carica per affrontare meglio le giornate, perché comunque per me lo sport, nonostante che sia un lavoro, è una valvola di sfogo molto grande e lo farei a prescindere”.
Bella questa interessante testimonianza, Valeria spiega cosa spinge a fare sport nonostante tolga il tempo per farne altre, nella vita bisogna fare scelte e lo sport è un’ottima scelta, un orto importante da coltivare nel suo caso è diventato un lavoro avendo scoperto di essere un talento e la possibilità di allenarsi ottenendo risultati prestigiosi a livello nazionale e internazionale oltre ai tantissimi benefici che ottengono tanti come lo sfogo, la carica, insomma tanti benefici.
Quali sono i tuoi allenamenti più importanti e decisivi? “I miei allenamenti più importanti e decisivi sono i lunghi. Sono maratoneta per cui è assolutamente fondamentale che io faccia i lunghissimi dai 30 ai 40km, ovviamente si parte sempre con un po' meno di chilometri, per esempio se devo iniziare la preparazione parto da 25km poi 32, 35 e arrivo fino a 40km. Anche i medi o le ripetute lunghe, quindi 3.000, 4.000 e 5.000, che patisco tantissimo però ti danno il ritmo gara e quindi assolutamente fondamentali”.
Per diventare un forte maratoneta ed eccellere a livello nazionale e internazionale bisogna simulare il più possibile la gara, bisogna adattarsi gradualmente alla fatica, e i migliori allenamenti sono quelli di lunga durata, quasi quanto la maratona, per capire fino a che punto ci si può spingere, cosa si incontra dopo un certo chilometraggio, come affrontare le crisi che arrivano ma sappiamo che bisogna aspettarle, accettarle e saperle gestire. Inoltre le ripetute lunghe è un altro lungo e duro allenamento che ottiene i risultati in gara, si tratta di ripetute di più chilometri a ritmi sostenuti per abituare la gamba a faticare e persistere nella fatica, nello sforzo a una certa velocità.
Ora quali sono i tuoi obiettivi? “I miei obiettivi adesso al breve sono la maratona di Valencia il 6 dicembre che è un po' particolare in quanto è solo per atleti élite, non c’è la ‘mass race’, per cui anche il percorso sarà leggermente diverso dal solito cercherò di correr sotto le 2h30’ perché vorrei fare il minimo per le olimpiadi di Tokyo, quindi appunto un obiettivo in grande in tutti i sensi è far la mia 3^ olimpiade il prossimo anno”.
Un obiettivo molto sfidante per Valeria ma fattibile se continua a far bene, ad allenarsi duramente e a gareggiare al meglio delle sue possibilità. Ha dimostrato in passato più volte di avere i numeri giusti e le carte in regola per poterlo fare correndo mezze maratone a tempi eccellenti sotto 1h10” la mezza maratona e sotto le 2h25’ la maratona ora si tratta di fare ancora uno sforzo avendo dalla parte sua la tantissima esperienza e l’abituazione e adattamento alla fatica e alle prove dure, avendo partecipato già ad altre 2 olimpiadi e a campionati mondiali e gare internazionali come la maratona di New York, ha davvero una chance da giocarsi.
Cosa consigli a chi predilige il divano? “Consiglio appunto di farsi forza, cercare appunto di forzarsi per i primi minuti perché sono quelli più difficili perché una volta che si comincia a fare sport, a camminare, nuotare, a uscire, dopo aver fatto attività fisica si sta veramente benissimo, è una sensazione impagabile, e bisognerebbe provare, perché poi ci si assuefa e non si può fare a meno di muoversi perché il corpo sta veramente meglio se è in movimento”.
Questi sono i messaggi che dovrebbero trasmettere in TV, sui social, in radio, su giornali e riviste e non messaggi allarmanti e di paura. Valeria ha dimostrato che con l’impegno, la costanza, la fiducia, la pazienza si possono ottenere grandi risultati, basta provare, crederci e insistere e poi i benefici sono tantissimi, certo per lei lo sport è diventato un lavoro redditizio e nemmeno se lo sarebbe aspettato, ma per tutti lo sport fa bene e crea benessere e benefici, diffondiamo queste notizie positive di resilienza.
Come stai affrontando, gestendo, superando il periodo COVID 19? “Diciamo che adesso come adesso a me non ha cambiato molto la vita perché comunque riesco a fare i miei allenamenti tutti i giorni, spostarmi di una decina di km perché di solito i luoghi dove vado a correre non è sotto casa, ma appunto devo fare brevi tragitti. E’ stato un casino quando ci hanno tappati dentro gli spostamenti erano molto più difficili, adesso non mi sto quasi accorgendo di essere in lockdown anche perché non esco fuori la sera non frequento bar o ristoranti, sono troppo stanca  la sera vado a dormire, non mi sta pesando, la cosa che mi pesa adesso è che dovrò andare in Spagna e dovrò fare un tampone nelle 72 ore, ti dico che è un casino tremendo trovare un laboratorio che ti garantisca il risultato in 72 ore, ho telefonato ad alcuni laboratori e te lo danno dopo 6-8 giorni che è tantissimo, questo è il problema più grosso, gli spostamenti lunghi non la quotidianità e speriamo che vada tutto bene perché altrimenti non so come farò a raggiungere la Spagna, senza appunto il tampone fatto nelle 72 ore, io sono ottimista, ce la faremo”.
Purtroppo bisogna starci alle regole che consigliano e impongono di rispettare ma c’è sempre una soluzione e si si organizza per fare tutto anche mentalmente, soprattutto per chi fa sport come una maratona ad altissimi livelli non ha paura di nessun muro od ostacolo, si cerca sempre di risolvere tutto ed essere fiduciosi e ottimisti.
Quali sono le tue consapevolezze ora? “Ho consapevolezza riguardo allo sport di essere alla fine della mia carriera e quindi voglio cercare di dare il massimo in questi ultimi appuntamenti che mi trovo a poter fare quindi la maratona di Valentia sperando di fare poi le olimpiadi anche la consapevolezza che è tutto molto campato per aria, puoi programmare quanto vuoi ma la natura ha il sopravvento e bisogna cambiare i piani”.
Valeria è consapevole di dove e come è partita nella sua carriera di maratoneta e ora ancora si esprime ad altissimi livelli, è un riferimento per tanti altri atleti ed è ancora in grado di poter indossare una maglia azzurra per cercare di rappresentare l’Italia al meglio come ha sempre fatto. Ora tutto è mirato nelle sue prossime gare importanti imminenti e nei prossimi giochi olimpici, grandi momenti per Valeria.
Cosa intravedi per il fine carriera, restare nel mondo dello sport? “Spero di rimanere sempre nel mondo dello sport, magari diventando allenatrice visto che nella mia città non ci sono molti allenatori, soprattutto per gli amatori e sono in tanti a chiedermi se sono disponibile per allenarli!”.
Forse è presto, meglio stare focalizzati sulle prossime Olimpiadi.  
Cosa consigli alle bambine e alle istruttrici in questo periodo di pandemia? “Consiglio alle bambine e anche a chi deve insegnare in questo periodo assolutamente di non abbattersi e continuare comunque nel rispetto delle regole, di allenarsi e di trovare modi alternativi anche di allenarsi. Per esempio mia figlia fa ginnastica artistica, ovviamente non può andare in palestra per cui fanno lezioni online dove sono tutti insieme e fa esercizi in casa, ovvio che non ha attrezzi non ha nulla però fanno più di 1 ora di ginnastica alternativa nel rispetto delle regole, si può, e non bisogna perdersi d'animo perché poi riaprirà tutto e quindi non dobbiamo trovarci impreparati”.
Concordo in questo periodo gli adulti sono di riferimento per i più piccoli che devono continuare a giocare, divertirsi, studiare e fare sport in un modo diverso, in un modo adattato e con il sostegno, la fiducia, la flessibilità e la resilienza di insegnanti, istruttrici, educatori.
Quali sensazioni sperimenti in maratona? “Le sensazioni sono diverse: concentrazione massima, perché io sono molto distratta ma quando sono in gara penso solo a quello e sono molto focalizzata sulle sensazioni, su quello che il mio corpo mi dice sto molto attenta a prendere i ristori a stare dentro la gara al 100%, sensazioni anche di fatica estrema. 42km sono lunghi non sempre va tutto liscio, so sempre di dover far fronte poi appunto a periodi bui dove davvero mi ci vuole tantissima concentrazione, questa è una consapevolezza assoluta che ho, e quindi a volte le sensazioni appunto non sono belle, la sensazione invece bellissima di tagliare traguardo se la gara è andata bene come ti aspettavi la gioia è immensa se è andata bene, comunque una gioia essere arrivata in fondo e quindi sono davvero diverse le sensazioni sia positive che negative”.
L’atleta attraversa tanti periodi e fasi, di allenamento ei gare, attraversa sensazioni ed emozioni varie e difficili ma bisogna sapersi organizzare e presentarsi pronti, efficienti, efficaci, sicuri al momento della gara importante che quando si tratta una maratona può riservare brutti scherzi, quindi coraggio con la consapevolezza che non è la prima volta, si è saputo gestire tante situazioni, tante volte e questa volta si farà bene come le atre volte con aspettative positive e fidandosi delle proprie risorse, capacità, qualità, caratteristiche già messe in campo altre volte in modo efficiente.
Cosa consigli ad atleti e allenatori per affrontare le competizioni serenamente? “Non saprei perché tutti siamo diversi, non sono per niente ansiosa me la vivo bene non come assolutamente devo arrivare a fare il risultato, la prendo un po' più distacco e divertimento, non con leggerezza, perché comunque appunto essendo anche il mio lavoro sono pienamente consapevole che è importante e che non è solo divertimento però mi dico sempre che se va male non muore nessuno, è atteggiamento distaccato, non è una questione di vita o di morte, è una gioia se riesci a raggiungere obiettivi, per cui secondo me l'allenatore non deve creare pressioni su una gara, deve cercare di stemperare l’attenzione e far divertire i ragazzi, perché secondo me è fondamentale che comunque una persona si diverta nel far sport e nel fare competizioni che non veda solo un obbligo per andare forte, non sempre si riesce a dare il massimo purtroppo però non ci deve essere secondo me pressione, e non si deve pensare che se la gara va male ci buttiamo dal ponte, contestualizzarla appunto in un contesto più di gioco, di svago, non come appunto una questione vitale”.
Ringrazio tantissimo Valeria per la sua cortesia e disponibilità e le auguro buon proseguimento di giornate, lavoro, sport e vita.
Nel libro “Lo sport delle donne” riporto un’intervista a Valeria Straneo.
http://www.prospettivaeditrice.it/index.php?id_product=425&controller=product
Matteo SIMONE
http://www.psicologiadellosport.net
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corallorosso · 5 years ago
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Aveva dato un passaggio ad una immigrata, muore dopo un anno di prigione Morto dopo un anno di carcere, che ha aggravato la sua situazione clinica, solo per aver dato un passaggio ad una donna al confine. La storia di Egidio Tiraborrelli, raccontata da Il Dubbio, fa riflettere sul sistema carcerario del nostro paese. un tetto Tiraborrelli non l’aveva: la sua casa era la sua roulotte. «Egidio si presentò da noi – ha raccontato a Il Dubbio Katia Torri, l’attivista della rete diritti in casa –, perché praticamente era senza tetto e ci aveva chiesto se potesse mettere la sua roulotte nel cortile della casa occupata». L’attivista lo descrive come un uomo gentile, generoso, che si era integrato perfettamente con gli altri occupanti, «tanto da coltivare un piccolo orto e condividere gli ortaggi con gli abitanti che li considerava quasi come figli». Una vita di sacrifici che venne coronata poi dall’ottenimento di una casa popolare. Ma i guai per Tiraborrelli non erano finiti e a stargli accanto è stata proprio la rete diritti in casa, diventata la sua famiglia, anche quando Tiraborrelli scoprì di essere stato condannato nel 2012 per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Aveva infatti dato un passaggio al confine tra est dell’Italia ad una donna, di fatto facendole varcare il confine. Egidio Tiraborrelli non era a conoscenza del processo avvenuto a sua insaputa, ma nel 2018 venne arrestato per scontare la sua pena nel carcere di Parma. Una condizione che poco si conciliava con la sua salute: Egidio aveva infatti un tumore, ma l’assistenza sanitaria nel carcere di Parma era estremamente carente. Come raccontato sempre a Il Dubbio da Katia Torri, all’interno del carcere «c’era solo un impianto della bombola di ossigeno per tutti i detenuti malati e quindi se la scambiavano a turno». Con fatica, il collettivo è riuscito a trovare un avvocato per Tiraborrelli che ha ottenuto gli arresti domiciliari tramite ricovero ospedaliero, ma ormai era troppo tardi. Dopo una settimana, Tiraborrelli è deceduto. (GIORNALETTISMO)
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sciatu · 6 years ago
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Vestito con Sacro Cuore Dolce e Gabbana
Questo post sostituisce un altro eguale che è stato censurato da Tumbrl perchè vi era un disegno a matita di Giovanni Iudice raffigurante una donna nuda. Il testo fa parte del Diario Inutile che scrivo per mia moglie.
PAGINA 01 - E se l’amore fosse solo una droga permessa e prescrivibile che ti stordisce, ti illude per poi farti male, allontanandoti dal reale, creando cicliche crisi di astinenza che non hai modo di superare? O se fosse solo una alternativa profetica come la religione dove ami per scelta illuminata ed il martirio, l’annullarsi nell’altro diventa un evento desiderato? E se l’amore fosse solo una irrazionale devozione assoluta come il calcio dove ami una squadra indipendentemente da come gioca, dall’essere bella o brutta, fedele al tuo amore o meno? Insomma, e se l’amore fosse qualcosa buono solo a illuderci, consolarci e stordirci per cui costruire chiese di parole, miti e leggende per giustificarlo e giustificarne gli effetti droganti e calmanti, cosi che in fondo anche se la vita ci tritura, esistendo questo nostro cosiddetto amore,  possiamo anestetizzare il dolore del vivere, perdendo cosi la coscienza del vuoto in cui stiamo cadendo o assolvere da ogni suo male la nostra anima cannibale. Considerando cosi l’amore, non vediamo cosa ci circonda, dimentichiamo il giusto e l’ingiusto, perché ci siamo chiusi e nascosti nel nostro piccolo e microscopico amare, come piccole lumache dentro il loro piccolo guscio. L’amore diventa il grande consolatore, che tutto giustifica nella piccolezza del nostro essere, in quanto in questo modo diventa un nostro personale limitato egoistico gustare e vedere, una piccola proprietà privata scollegata dall’universo chiusa su sé stessa. Ma l’amore non è un atomo, non puoi limitarlo, rinchiuderlo, imprigionarlo, non è grande o piccolo perché lui semplicemente è o non è, non può renderci sordi, muti e ciechi all’orrore e alla bellezza che vediamo intorno a noi perché di quella bellezza ne è parte ed a volte il fine. È l’amore come senso del dare, del prendersi cura, del rispettare ed onorare, senza altro fine che la felicità di entrambi, di chi dona e di chi accetta questo dono, è questo amore inteso come vivere per qualche d’un altro e per lui preoccuparsi e nutrirlo nel corpo e nell’anima, che lo rende la luce del mondo, che ci differenzia dai sassi e dal vento, che rende Auschwitz un abominio, che trasforma ogni guerra in orrore, e rende l’odio un non essere. È questo amore, anche quello più banale di due studenti, di una giovane coppia, di due vecchi che camminano mano nella mano, è questo semplice anonimo amore, il metro che misura ogni nostra azione e ne determina la loro grandezza o l’ignominia, che rende bellissimo un tramonto, o l’aprirsi di un fiore, che ci permette di avere empatia per chi soffre, curiosità per quanto è bello, creatività per descriverlo, illusioni per raggiungerlo. È quest’amore che ci rende sensibile alla bellezza e alla sua assenza, che ci fa conoscere la gioia più grande e più vera, che ci fa cercare la dolcezza di un sorriso, la giustizia di un’azione, la pietà ed il perdono.   È la felicità che dona la misura più alta della mostra anima, è la sua assenza la misura opposta, il dolore che diamo o proviamo. È l’amore che abbiamo ricevuto, che riceviamo o che siamo che ci fa capire la bellezza del paradiso, è la sua assenza che ci fa comprendere l’inferno con la sua bruciante terribile solitudine, la sua arsura infinita di felicità. È la sua mancanza che ci chiude nella malinconia, nell’arida sterilità da cui tutti i mostri nascono. Cosi l’amore non può essere una droga perché siamo noi a costruirlo e a distruggerlo, non ci viene da altri, non lo subiamo semplicemente, ma siamo suoi creatori e sue opere; il suo esistere evidenzia e fa risaltare con stridore quanto dell’amore è negazione e questa negazione non è una crisi di astinenza ma negazione della vita. L’amore non è un’alternativa religiosa perché è l’amore l’inizio di ogni fede, ma non è la fede, la nostra scelta di credere o non credere. L’amore non è una devozione assoluta e incontrollata che stordisce a non fa pensare perché è qualcosa che pretende di essere considerata, valutata, in modo cosciente, e coscientemente donata e ritornata, rispettata e protetta, anche se non la capiamo. L’amore è una fatica quotidiana, un orto dai bellissimi frutti e dal grande lavoro ed è questo impegno che richiede che ce lo rende prezioso, questo continuo lottare per proteggerlo che lo rende essenziale, unico e terribile. È questo suo continuo divenire che innaffia i nostri giorni e riempie i nostri silenzi, che ci rende angeli malgrado le nostre diaboliche passioni, è quest’amore l’unica legge assoluta che nessuno può infrangere, a cui nessuno può mentire che diventa la parte chiara della nostra anima, la parte più giusta della nostra coscienza, la parte più forte del nostro cuore.
This post replaces another equal that was censored by Tumbrl because there was a pencil drawing by John Iudice depicting a naked woman. The text is part of the Inuit Diary that I write for my wife.
PAGE 01 - And if love is just a permissible and prescriptive drug that stuns you, you illusion then hurt yourself, moving away from the real, creating cyclical withdrawal crises that you have no way of overcoming? Or was it just a prophetic alternative, such as religion where you love for enlightened choice and martyrdom, canceling the other becomes a desired event? And if love was just an irrational absolute devotion such as football where you love a team regardless of how it plays, being beautiful or ugly, true to your love or not? In short, and if love was just good to cheat, console and stun so that we could construct churches of words, myths and legends to justify it and justify its drogancing and soothing effects, so that in the end even if life trickles, our so-called love, we can anesthetize the pain of living, losing the consciousness of the void in which we are falling or absolving our cannibal soul from all its evil. Considering love, we do not see what surrounds us, we forget the just and the unjust, because we are closed and hidden in our small and microscopic love like small snails inside their little shell. Love becomes the great consoler, all of which justifies the smallness of our being, as in this way it becomes our own selfish, selfish personal taste and see, a small private property disconnected from the closed universe on itself. But love is not an atom, you can not limit it, lock it, imprison it, it is not big or small because it is simply or not, it can not make us deaf, mute and blind to the horror and beauty we see around us because of that beauty is part and sometimes the end. It is love as a sense of giving, to caring, to respecting and honoring, without the other end that the happiness of both, of those who give and who accepts this gift is this love meant to live for some another for him to worry and nourish him in the body and in the soul, making him the light of the world, which differentiates us from the stones and the wind, which makes Auschwitz an abomination, transforming every war into horror, and makes hatred a not to be . It is this love, even the most banal one of two students, of a young couple, of two old men walking hand in hand, this simple anonymous love, the meter that measures all our actions and determines their greatness or ignominy, which makes a sunset beautiful, or the opening of a flower, which allows us to have empathy for those who suffer, curiosity for how beautiful it is, creativity to describe it, illusions to reach it. It is this love that makes us sensitive to beauty and absence, which makes us know the greatest and most true joy that makes us seek the sweetness of a smile, the justice of an action, piety and forgiveness. It is happiness that gives the highest measure of the soul exhibition, is its absence the opposite measure, the pain we give or feel. It is the love we have received, that we receive or who we are that makes us understand the beauty of paradise, is its absence that makes us understand hell with its burning terrible solitude, its infinite happiness. It's his lack of closeness to melancholy, the arid sterility from which all monsters are born. So love can not be a drug because we are to build it and destroy it, it does not come from us, we do not simply suffer it, but we are its creators and its works; its existence highlights and highlights how much love is denial and this denial is not a crisis of abstinence but denial of life. Love is not a religious alternative because love is the beginning of every faith, but it is not faith, our choice to believe or not to believe. Love is not an absolute and uncontrollable devotion that stuns you not to think because it is something that claims to be considered, evaluated, consciously and consciously donated and returned, respected and protected, even if we do not understand it. Love is a daily effort, a fruitful vegetable garden and great work, and this commitment that requires us to make it valuable, this continuous struggle to protect it makes it essential, unique and terrible. It is this continuous becoming of water that draws our days and fills our silences, which makes us angels despite our diabolical passions, is this love the only absolute law that no one can break, to which no one can lie that becomes the clear part of our soul, the most just part of our consciousness, the strongest part of our heart.
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ultravita · 2 years ago
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Insalata
<<Ti raccolgo un po’ di insalata da portare a casa?>> mi chiede Daniela, la donna piccola e grigia di capelli che ha sposato mio zio. Teoricamente, quindi, è mia zia ma un po’ perché si sono sposati in tarda età e un po’ perché non la vedo molto, fatico a chiamarla così.
<<Certo! Grazie>> rispondo io, mentre porto con fatica il pesante aratro fino in cima al campo in cui io e lo zio Angelo stiamo lavorando.
È una consuetudine ormai da molti anni quali di andare ad aiutarli in questo periodo dell’anno, si prepara il terreno alla nuova stagione e alla nuova semina.
A volte mi pesa questa cosa, negli anni passati la trovavo solo una perdita di tempo in un giorno di riposo dove potevo farmi qualche ora in più in giro per montagna. Ma oggi no, mi sto godendo questa antica arte, il posto, la natura, il momento.
Baruffini è una piccola frazione di Tirano e mio zio è andato a vivere lì quando a conosciuto Daniela. Lei faceva la maestra nella scuola dell’infanzia del mio paese mentre Angelo dapprima l’operaio e poi l’impiegato presso l’ufficio del sindacato.
Si occupava di pensioni, disoccupazioni, e tuttora lo fa come volontariato, ed è sempre stato davvero molto apprezzato per il suo lavoro ma anche come persona.
Quando devo far capire a qualcuno dove collocarmi come parentela spiego loro che sono il nipote del “piccozza” (soprannome nato per il naso alquanto grande dello zio ma che è una caratteristica anche di mio mio padre ed in parte mia).
La giornata è baciata da un caldo sole primaverile, tutto intorno al campo dove siamo è un tripudio di alberi da frutto in fiore. I ciliegi, la fanno da padroni ed io amo il loro fiore, me lo sono tatuato ed ogni volta che assisto alla loro fioritura mi ritrovo incantato ad osservarli e penso a quell’antica frase giapponese che recita:
"hana wa sakuragi, hito wa bushi" che tradotto significa "tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero”.
Penso anche, e mi viene da sorridere, che un buon titolo per un libro potrebbe essere: “Il fiore del ciliegio se ne frega” perché è assolutamente strabiliante come ogni ciliegio fiorisca, che sia selvatico o coltivato, nel bosco o dietro casa, splendidi fiori che fanno sembrano nuvole bianche ogni volta che guardo la montagna di fronte a me. Poi, ovviamente, le ciliegie che crescono su questi alberi selvatici sono piccole e servono solo a sfumare gli uccelli, però è fantastico sapere che tutti gli anni, succeda quel che succeda, loro fioriranno incuranti di tutto ciò che accade nel mondo.
La natura sta rinascendo e con questo, umile, lavoro gli zii stanno portando avanti una tradizione secolare, volto a tenere in vita le coltivazioni ma anche il territorio. Ormai sempre più terreni che una volta erano ricchi di coltivazioni adesso sono andati persi e coperti di rovi, alberi ed erbe infestanti. Gli zii cercano di preservare i campi che hanno e, nel contempo, di avere la possibilità di mangiare frutta e verdura naturale, di certificata provenienza, senza veleni o come si dice adesso “a km zero”.
A dire la verità fin da ragazzino ho sempre aiuta mio padre a dissodare i piccoli terreni che aveva oppure l’orto con il pesante aratro, era una vera tortura, un obbligo che solo un adolescente vede come qualcosa di totalmente negativo.
Ahimè, si capisce solo con gli anni che invece tramandare queste pratiche preserva un retaggio storico e culturale inestimabile.
Mentre io sto al macchinario come un velista abbarbicato sul telaio per contrastare l’attrito dell’aratro pilotato all’altro lato della corda dall’Angelo, a piedi del campo si è formato un piccolo gruppetto di anziani del paese intento a guardarci.
È tutta gente del posto, nata e vissuta qui, abituata al lavoro duro, ora in pensione ma sempre attivi tra un orto, una passeggiata e qualche chiacchiera. Per loro è un modo come un altro per passare il tempo, una digressione della quotidianità, un motivo per tenere i legami tra gli abitanti della frazione. Qualche battuta, in dialetto, con lo zio e poi si torna alla vita di ogni giorno.
C’è anche l’anziano uomo che incontro sempre con il suo cane lungo il sentiero del pane, uno stretto percorso che conduce ad un’altra frazione di Tirano, Roncaiola.
Saluta sempre con un grosso sorriso e a volte, parlando con il cane, lo rimprovera dicendo: <<Lascia passare il viandante>>.
Mi piace la parola viandante, mi ricorda tante cose, la vecchia canzone che avevamo scritto con Ivano e Mara, il bellissimo sentiero che da Abbadia Lariana conduce a Colico sul Lago di Como, ma è anche sinonimo di libertà, di nomadismo, di cultura del movimento.
I gesti dell’Angelo sono forti e decisi, domina l’aratro con esperienza e conoscenza del mezzo, io non saprei nemmeno lontanamente governare quell’attrezzo che rivolta il terreno come fosse burro.
Gli zii producono ogni tipo di verdura, fanno il vino, fanno addirittura la farina, hanno le galline per le uova e, purtroppo, anche un maiale che allevano e poi finisce nella cantina. Ma credo che anche questo faccia parte di una cultura che non c’è più, persa nei tra le corsie dei supermercati e avvolta in pellicole di plastica.
Alla fine del lavoro salgo in casa degli zii a bere in caffè, ritiro la mia borsetta di insalata fresca e buonissima ed in più Angelo ci aggiunge anche un sacchetto di borlotti surgelati spiegandomi come cucinarli.
Questo baratto tra il mio aiuto e la verdura cresciuta su quella terra è qualcosa di meraviglioso.
Torno a casa ed indosso subito le scarpe da trail, un giro di pochi km e vado ad aiutare il Guido nel suo campo, deve sistemare una botte e ha bisogno di una mano. C’è anche l’anno che sta cercando un posto dove piantare una nuova pianta di lavanda. Anche qui si respira aria di genuinità, di libertà. Adesso mio padre sta realizzando un piccolo barbecue per, lui dice, mio figlio (o meglio, per far cucinare all’Anna qualcosa per mio figlio).
Ci sono ciliegi in fiore anche qui ai quali si aggiungono anche le piante di mele, l’orto deve ancora essere seminato, ma regalerà dell’ottima verdura tra cui i pomodori che usava la Gilda per fare la salsa che poi conservava in ogni tipo di vasetti in cantina.
È arrivato anche un nuovo libro e lo metto nello zainetto da trail, mi terrà compagnia per le prossime serate senza tv.
Adesso pulirò l’insalata e cucinerò i borlotti che stasera comporranno la mia cena insieme al riso.
Gli americani direbbero: “less is more” Io dico semplicemente che le cose semplici, le cose legate alla natura, alla terra, ai nostri ricordi sono quanto di più importante abbiamo. Dovrebbero insegnarlo a scuola al posto di tante nozioni che poi non serviranno mai.
Oggi ho fatto cose e visto gente, e sono davvero felice.
E nel frattempo… i fiori dei ciliegi se ne fregano.
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dudewayspecialfarewell · 6 years ago
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SUL PERCHè JACK LONDON SCRIVEVA
La vita quella dura nell'Ovest americano, nelle terre selvagge, fugge via rapidamente. Quella vita è come un imbuto: all'inizio sei sul bordo esterno, e stai lì con tutti gli altri che ti spacchi la schiena di giorno e gozzovigli con tutti gli altri di notte e, ma senza che tu te ne accorga, rapidamente finisci al buco dell'imbuto, e lì puoi guardare di sotto, e vedi gente come te, uomini da fatica, con le cartilagini finite, gli occhi vuoti e spenti, uomini che a 40 anni sembrano averne 100. Non so come poi la spiegava Jack, io la spiego così. Se nasci in un posto sfigato non puoi pensare di cavartela facilmente, e l'operaio o il contadino o l'uomo di fatica lo vai a fare comunque. C'è un però, in questa storia. In quel piccolo spazio di tempo libero che hai nessuno ti può impedire di costruire quello che vuoi, un orto, una moglie, oppure un libro, Jack London si era impegnato con sé stesso a scrivere 100 parole al giorno, ogni giorno. 100 parole al giorno per separarlo dall'imbuto. Ironia della sorte Jack London è morto a 40 anni esatti.
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effetti-sociali · 3 years ago
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Una notte di molto tempo fa
Scrissi questo testo qualche anno addietro. Scorrendo alcuni articoli di un mio blog per cercare un articolo che non era questo mi sono soffermato a rileggerlo. Nemmeno ricordavo più bene ciò che avevo scritto, ma mi piace e lo ripropongo qui e ora.
Ci sono momenti in cui apriamo la cassettiera dei pensieri e cominciamo a frugare, senza uno scopo preciso, tra le idee e le fantasie. Ne escono fuori di solito cianfrusaglie che contempliamo come oggetti curiosi o ricordi scovati in un solaio polveroso. E’ un’occupazione che richiede poca fatica e a cui ci dedichiamo nei rari momenti di ozio.
Può capitare, a volte, anche mentre aspettiamo il tram… allora vi saliamo meccanicamente per discendervi altrettanto meccanicamente quasi senza accorgerci di essere arrivati a destinazione: se siamo fortunati. Altrimenti proseguiamo fino alla fermata successiva irritati. La sensazione è quella di aver perso tempo prezioso, come se avessimo chissà quali impegni importanti che ci aspettano.
Quel che segue è soltanto un flusso di pensieri in una tarda serata oziosa.
Una notte di molto tempo fa, ma non tantissimo, intorno alle 23, nel silenzio di casa mia oramai addormentata, ero oziosamente abbandonato sul divano del soggiorno appena rischiarato dalla luce diffusa dalle alogene del cucinino attiguo. Banalmente mi alzai a prendere una mela e l’addentai. Un cassetto, nella mente, si aprì.
Era una mela croccante, succosa. Aveva il sapore delle mele. Ridicolo? Era il gusto dei ricordi. Quel sapore che l’industria dolciaria tenta di imitare in laboratorio attraverso la sintesi di alcuni prodotti detti esteri aromatici. Essenze che esistono in natura e la cui brutta copia chimica viene utilizzata un po’ ovunque, per esempio, anche nelle caramelle. Meno banale il fatto che la mela in questione non era stata acquistata in un supermercato. Proveniva dal piccolo orto dei miei genitori dove vivono dignitosamente tre piccoli meli lasciati a se stessi. Il loro aspetto non è dei migliori eppure ad anni alterni sono carichi di frutti, molti dei quali si perdono perché non vengono colti. Non per malavoglia, ma perché sono troppi e anche raccolti non si conserverebbero abbastanza a lungo per deliziare il palato.
Riflettevo, mentre andavo avanti ad addentare la mia mela, su quei meli.
C’è chi ritiene sia giusto, ragionevole e indispensabile utilizzare prodotti chimici per aumentare la produzione agricola, per produrre, nel caso delle mele, frutti sempre più grossi e più belli. La ragionevolezza dell’argomento si basa sul fatto che i fertilizzanti chimici contengono semplicemente sostante in forma biologicamente pura presenti anche nei fertilizzanti naturali. Per esempio fare pipì ai piedi di un albero è la stessa cosa di irrorare quella pianta con dell’urea sintetizzata in laboratorio.
Tutto ciò nacque (più o meno) da un’idea di von Liebig (proprio quello dei dadi) oltre un secolo fa. Liebig attraverso alcune ricerche sul suolo pervenne all’idea che le piante ne riducevano la fertilità poiché asportavano gli elementi necessari per il loro nutrimento. Dall’approfondimento di questi studi, sia da parte sua che di altri, deriva la teoria in base alla quale, per ottenere raccolti adeguati, ciascuno dei nutrienti doveva essere presente in quantità superiore a quella asportata con le colture.
Questo provocò una vera e propria rivoluzione sia dal punto di vista tecnico che da quello culturale. Una cultura evidentemente determinata dagli interessi economici. Soprattutto il fattore culturale sarà ed è tuttora determinante per lo sviluppo e la storia dell’agricoltura da allora in poi. In seguito, negli anni ’60 del secolo scorso, “grazie” al lavoro di alcuni ricercatori che selezionarono una varietà di riso ad alto rendimento con tempi di crescita molto brevi ebbe inizio un nuovo mercato: la famosa “Rivoluzione verde”. Rivoluzione che ha permesso alle industrie chimiche profitti ultramiliardari. Industrie che oggi invadono e avvelenano le parti più povere del mondo mentre si parla di rispetto dell’ambiente e di sensibilità ai problemi ecologici.
Intanto tra un pensiero e l’altro avevo addentato una seconda mela. Il piacere era così intenso che non volevo finisse. Lo scrocchiare della polpa sotto i denti era così rumoroso che pareva un frastuono. Tutto era più intenso. Ero immerso quasi in uno stato allucinatorio. Sentivo limpidamente l’ozio che mi assaliva. La mia postura sul divano era diventata scomposta. Il bzzzz del motore del frigorifero pareva amplificato e vagare per tutta la stanza senza sosta, il ticchettio dell’orologio a muro, poco sopra la mia testa, era come lo scroscio di un temporale d’estate contro i vetri.
Intanto avevo terminato la seconda mela.
Ero sprofondato tra i cuscini, disposti alla rinfusa, del divano.
Al termine della giornata, finalmente, non stavo facendo assolutamente nulla. Era sbalorditivo: stavo oziando. Non era la sensazione di “meritato riposo” dopo una giornata di lavoro. In tal caso sarebbe stato meglio andare a coricarsi e dormire. In ogni caso il riposo uno non se lo deve meritare! “Meritato riposo” è un modo di dire che senza troppe ambiguità fa credere che se non si è faticati per il lavoro, e che non si sia svolto il proprio dovere. Personalmente non credo di aver contratto nessun debito verso il sistema, dunque nessuno può decidere quando io devo riposare.
Avevo scelto di oziare. I pensieri correvano (solo quelli) ancora ai meli.
Esiste una forma di coltura chiamata permacoltura. Il termine, che significa “agricoltura permanente”, è stato coniato da un certo Bill Mollison un perfetto sconosciuto che ricevette il “Premio Nobel alternativo” (della Right Livelihood Foundation) il 9 dicembre 1981 a Stoccolma. L’idea si basa su un modello di organizzazione dei vari elementi di un territorio, uomo, sole, vento, acqua, edifici, piante, animali, in modo da stabilire tra loro rapporti funzionali e nella prospettiva di avvicinarsi il più possibile ad un ecosistema in equilibrio, dove sia ridotto al minimo l’intervento umano.
Sono passati decenni dalla nascita della “rivoluzione verde” e addirittura oltre un secolo dagli studi di Von Liebig eppure la situazione in senso assoluto è addirittura peggiorata. “Il consumo di una famiglia africana media è più basso del 20% rispetto a 25 anni fa”. Allo stesso modo, nell’Africa subsahariana “il numero di persone sotto alimentate è più che raddoppiato, passando da 103 milioni a 215 milioni nel 1990″. [Il Sud verso la regressione di Dominique Vidal – Le Monde diplomatique ottobre 1998]
Pensavo a come sarebbe stato bello un mondo nuovo. Senza proprietà privata. Alberi da frutta che crescono spontanei attorno a città e paesi. E frutti che ognuno può raccogliere. Dove sarebbero i ladri? Chi mai passerebbe furtivo vicino a una bancarella del mercato per sottrarre di nascosto una mela? E non vi sarebbe bisogno nemmeno della “Fabbrica del sorriso” (averla chiamata fabbrica è sintomatico) e delle piagnucolose e comode elemosine e del pietismo cristiano (e non) dei paesi ricchi verso i paesi poveri.
In lontananza, sulla strada, a pochi metri dalle finestre, fin troppo frequentemente, nonostante l’ora tarda, correvano le auto e interrompevano il flusso dei miei pensieri.
Rammentai un libro letto parecchi anni fa: “L’importanza di vivere” di Lin Yutang. Con grande sforzo cercai di passare mentalmente i vari capitoli. Sapevo bene che ce n’era uno dedicato interamente all’ozio. E’ uno di quei libri che ricordo con piacere e non ho mai dimenticato. Ricordavo anche di aver sottolineato alcuni passi particolarmente pregevoli. Soltanto il giorno dopo andai a scorrerne le pagine. Ecco! Capitolo settimo: Importanza di oziare. Troppo forte è la tentazione di citarne alcuni brani anche se, in verità, occorrerebbe leggere tutte le 18 pagine del capitolo per coglierne appieno il contenuto. Basti dire che uno dei paragrafi è intitolato “Il culto del dolce far niente”. Ma ecco alcuni brani.
Abbiamo…soltanto questa sgobbante umanità, ingabbiata e addomesticata, ma non nutrita [in corsivo nel testo], costretta dalla civiltà a lavorare e affannarsi per guadagnare il pane. Lo stato umano ha i suoi vantaggi, non c’è che dire – le delizie della conoscenza, i piaceri della conversazione (…) – ma resta il fatto essenziale che la vita umana è diventata troppo complessa e che solo il problema di alimentarci, direttamente o indirettamente, prende il novanta per cento delle nostre attività (…)
Se non fosse stato reso così difficile all’uomo procurarsi il cibo, non vi sarebbe stato nessun motivo perché l’umanità lavorasse così penosamente (…)
In definitiva, il godimento dell’ozio è qualcosa che costa decisamente meno del godimento del lusso. Tutto quanto richiede è un temperamento artistico, incline alla ricerca di un pomeriggio completamente inutile, passato in un perfettamente inutile modo.
L’ozio è sacro, ma non nel senso petrarchesco di “otium religiosorum” che quello era una sorta di aristocratica solitudine. Sacro perché sacra è anche la quotidianità. Sacro perché antiborghese. Se l’ozio rifugge dall’attività tanto più rifugge dall’iperattivismo necessario anche alla più semplice accumulazione di denaro. Quel capitale monetario sottratto alla circolazione che si trova in forma di tesoro, secondo Marx. Quando un certo capitale monetario esce dalla circolazione che trasforma il denaro in merce e la merce nuovamente in denaro “il denaro ha così la forma” scrive Marx “di capitale monetario giacente ozioso” (Il Capitale Libro II pag. 79). Singolare è la locuzione “giacente ozioso” per definire un capitale improduttivo.
L’ozio è proletario. Tant’è che la morale e il pensiero borghese, ma anche quello cristiano che quando conviene ad entrambi sono solidamente alleati, hanno dovuto inventare tutta una serie di espedienti per costringere il popolo all’attività (finalizzata alla produzione economica) senza costrizione fisica (pluslavoro), al lavoro cioè senza minaccia o schiavitù fisica (ma dove le condizioni lo consentono è sostanzialmente ancora in vigore). Il proletario vorrebbe essere ozioso: pochissime ore di lavoro al giorno sarebbero sufficienti per il suo benessere (e della sua famiglia) se un sistema di frode non si appropriasse dei frutti della sua attività. Ma la vergogna di una morale che lo colpevolizza, lo criminalizza e lo marchia come buono a nulla se non si dà da fare, e darsi da fare significa essere efficienti e produrre per il sistema di rapina, lo rendono comunque schiavo.
La morale borghese incombe sul proletario anche con detti, proverbi e luoghi comuni: chi dorme non piglia pesci, il mattino ha l’oro in bocca, l’ozio è il padre dei vizi. Quello che non spiega una certa morale, però, è, per esempio nell’ultimo caso, quali sono questi vizi. Ce ne sono alcuni a cui non si dovrebbe rinunciare per nulla al mondo. In ogni caso quel che è vizio oggi, la storia insegna che non vi è nulla di eterno, domani potrebbero essere virtù. L’ozio nella Cina antica era, per l’appunto, tale. Forse lo era di più per filosofi e letterati, ma si può migliorare per estenderlo a tutta la popolazione.
Credo che anche “lavorare come un negro” (uno dei peggiori modi di dire) sia un’invenzione borghese adatta ad esaltare l’importanza della fatica e spronare al lavoro. Non credo, anzi sono sicuro, che i “neri” siano più contenti di sgobbare dei bianchi, o di qualunque altra popolazione. Sgobbavano a suon di frustate quando erano in schiavitù. Forse il detto potrebbe essere interpretato in questo modo: se non sgobbi come uno “sporco schiavo negro” prendi le stesse frustate e dunque ti conviene lavorare. In generale l’uomo lavora molto quando un padrone (un governante, un sovrano) in qualche modo ricatta e opprime il proletario (il popolo).
Un fremito mi aveva scosso dal torpore. Sollevai lo sguardo verso l’orologio a muro, il suo ticchettio sovrastava la stanza oziosa. Era quasi l’una. Mi ero appisolato.
Avvolto in un piacevole stordimento, come immerso in uno stato allucinatorio, l’idea di paragonare l’ozio ad una droga mi sembrò naturale, e allora… liberalizziamo l’ozio!
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Pensieri Foto di Elena Paquola
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cesarecitypilgrim · 5 years ago
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Certosa, certosino, pazienza certosina, gatti certosini, formaggio certosino, località certosa: quanti termini nella vita corrente sono legati a questa famiglia religiosa, una delle più affascinanti e rigorose nella storia della chiesa. Nel 2005 un film di un certo successo, Il grande silenzio del regista olandese Philip Gröning, svelò al mondo la vita segreta dei monaci della Grand Chartreuse, la casa madre dell’ordine che sorge sopra Grenoble il Francia e da cui deriva nome “certosa”. Si rimase sorpresi, affascinati, commossi, sconcertati nel vedere quel film perché i certosini sono, in un certo senso, degli estremisti dello spirito e come tali o affascinano o spaventano.
Fondato dal dotto professore universitario Bruno (o Brunone) da Colonia nel 1176, quello certosino è un ordine essenzialmente contemplativo, il più contemplativo tra quelli ancora presenti nell’ambito della Chiesa Cattolica L’ordine Certosino vive in stretta simbiosi con due elementi determinanti: il silenzio e lo spazio.
Svegliarsi nel cuore della notte per recarsi in chiesa a pregare; svegliarsi al mattino e immergersi subito nella preghiera, non lasciare mai la propria cella se non in casi di assoluta necessità, incontrare i propri parenti solo in occasioni particolari (le donne solo nella foresteria esterna e in casi selezionati dal priore). Bastano queste poche notazioni di cronaca quotidiana per far capire come mai le vocazioni certosine non sono mai state copiose e i severissimi criteri di ammissione (solo un postulante su dieci viene ammesso ai voti temporanei) le abbiano ancor più ristrette. Delle centinaia di certose che punteggiavano l’Europa nei secoli passati solo 19 ancora sopravvivono e rimangono rigorosamente chiuse ai visitatori. I monaci sono 37O, la metà dei quali fratelli laici tutti “innamorati di Dio” e totalmente dediti al suo servizio. I certosini sono un ordine di élite, rispettato per la sua coerenza assoluta. Talvolta sono anche religiosi di altre famiglie a chiedere l’ammissione alla vita certosina, vista come stadio finale di ogni esperienza religiosa. Alla domanda di quale possa essere la funzione di un certosino nella Chiesa di oggi lasciamo che a rispondere uno di loro (i Certosini non si firmano mai con il proprio nome per non peccare di superbia): “il monaco costituisce una testimonianza terrena di Dio e dei beni eterni. Inoltre, con la sua penitenza, egli intercede per il genere umano.”
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MACCHINE PER IL SILENZIO – Non c’è contemplazione senza silenzio e non c’è silenzio senza uno spazio che ne favorisca il mantenimento. Ecco perché le certose, tutte simili tra loro come pianta, non sono solo luoghi di preghiera e di ritiro ma sono delle vere e proprie “macchine” per creare il silenzio, quel silenzio ricco, a cui ogni certosino anela. L’Europa è disseminata di certose e basta visitarne una per capirne l’originalità e apprezzare la funzionalità dello spazio che esse rappresentano. SPAZIO Attorno a un grande chiostro-giardino, adibito anche a cimitero, sono disposte delle vere e proprie casette, di solito dodici, numero simbolico per ogni comunità cristiana. Ogni casetta è un microcosmo, composto da un corridoio, dove si trova la ruota attraverso cui i monaci prendono il cibo, da un piccolo studio (detto anche Ave Maria perché ogni volta che vi entravano i monaci devono recitare la preghiera mariana), da una stanza più grande che serve per dormire, mangiare e soprattutto pregare; da un laboratorio per le attività manuali (in genere falegnameria) e da un piccolo orto-giardino interno, chiuso da un muro. Immerso in questo spazio, il monaco certosino si dedica alla ricerca di Dio attraverso la preghiera e la meditazione quotidiana. Prega intensamente, nella propria mente e secondo il calendario liturgico proposto dal servizio delle Ore. Tre volte al giorno, di notte per il Matutino, per la Messa e per il Vespro, si ritrova in chiesa con i fratelli. Solo la domenica e nei giorni festivi è consentita una breve ricreazione in comune mentre una sola volta la settimana è possibile compiere una passeggiata nei dintorni della certosa. ORGANIZZAZIONE – Una delle particolarità dell’organizzazione certosina, codificata nel 1127 dal priore Guigo I, quinto successore del fondatore san Bruno alla Chartreuse e vero e proprio organizzatore della vita eremitica, è l’avere creato due tipi di vita paralleli e complementari alla vita della Certosa. Accanto ai monaci esistono infatti i “fratelli”, laici che consacrano la propria esistenza al Signore attraverso il lavoro manuale. La presenza dei fratelli laici, detti talvolta conversi, non è un’esclusiva dei Certosini. Quasi contemporaneamente anche i Cistercensi e i Vallombrosani erano giunti a questa innovativa presenza nella comunità monastica. I fratelli laici si occupavano dei lavori agricoli, della manutenzione, dell’amministrazione, della cucina. Erano loro che portavano ai monaci il cibo in cella e che si occupavano della foresteria esterna. SUCCESSO La legislazione di Guigo è il punto di partenza per una fioritura incredibile per l’ordine, in relazione soprattutto all’austerità della vita che viene praticata nelle certose. Le ragioni di questo successo sono forse da ricercare proprio nella perfetta fusione di elementi eremitici e cenobitici e nel grande appoggio che quest’ordine, rigoroso e severo, ottenne sempre da principi e sovrani, anche per la sua eterea neutralità. BELLE Le certose col passare dei secoli diventano più sfarzose, si arricchiscono di opere d’arte: i potenti sanno di fare un buon “investimento spirituale” favorendo i Certosini, ordine di provata integrità e al di sopra di ogni critica. La bellezza non è nemica della contemplazione: per sopportare una vita di altissima tensione morale è necessario costruire attorno alla cella un ambiente accogliente e piacevole che aiuti il monaco a sopportare la fatica della sua vocazione. DOVE? Ci sono solo 19 certose ancora vive in tutto il mondo (l’elenco lo trovate qui). Sono chiuse al turismo e alla visita. In Italia sono ancora attive la certosa di Serra san Bruno, in provincia di Reggio Calabria, quella di Farneta, presso Lucca e quella femminile di Dego, in provincia di Savona. Per poter apprezzare la bellezza delle certose dobbiamo visitare quelle, sparse un po’ ovunque in Italia, utilizzate da altri ordini religiosi o trasformate in musei, spazi di accoglienza, persino hotel di lusso.
Certosini: chi sono, dove vivono/Carthusian monks who they are, whre they live… Certosa, certosino, pazienza certosina, gatti certosini, formaggio certosino, località certosa: quanti termini nella vita corrente sono legati a questa famiglia religiosa, una delle più affascinanti e rigorose nella storia della chiesa.
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filosofiaenatura-blog · 6 years ago
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Il pensiero di Candido
[Pag.124-125]: ““So anche”, disse Candido, “che dobbiamo coltivare il nostro orto.” […] “Lavoriamo senza ragionare,” disse Martino, “è l’unico modo per rendere sopportabile la vita.” Tutta la piccola compagnia approvò questa lodevole proposta; ciascuno si mise a esercitare i propri talenti. Il piccolo pezzo di terra fruttò molto.”
Siamo nella parte finale del libro, ove Candido, memore delle esperienze vissute, enuncia il suo pensiero riguardo la vita. Si nota il topoi letterario dell’hortus conclusus (fonte nella introduzione), ovvero un riparo che promette sostentamento, ma con costante cura e fatica perché lo dia. Tramite questa allegoria possiamo intendere il pensiero di Voltaire sulla natura, ovvero che essa non è buona a priori; serve il sapiente intervento umano affinché possa davvero rappresentare la salvezza.
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miglioriprodotti · 6 years ago
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Bosch Keo Seghe da Giardino mod.0600861900
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Bosch Keo Seghe da Giardino, 10.8 V, Green mod. 0600861900 Sega da giardino a batteria al Litio 10,8 V, lunghezza di taglio 150 mm, diametro di taglio 60/80 mm. Tempo di ricarica 3 ore. Peso 900 gr. Lama disponibile come accessorio Caratteristiche Seghe da giardino a batteria Keo Bosch (Basic): La sega da giardino Keo Bosch ti permette di potare in giardino senza faticare. La lama permette di tagliare con facilità rami fino a 80 mm di spessore e tutto ciò semplicemente premendo un pulsante. La batteria ti permette di fare con una ricarica da un minimo di 30 a un massimo di 190. La guida «A-Grip» rimovibile sostiene i rami liberi durante il lavoro e permette una potatura senza problemi. Taglio senza fatica: taglia rami fino a 80 mm; consente da 30 a 190 tagli con una carica della batteria Facile da utilizzare: il supporto della guida rimovibile «A-Grip» mantiene fermi i rami durante il taglio, non occorre lavorare con due mani Batteria al litio da 10,8 V integrata per prestazioni eccellenti Impugnatura con forma ergonomica per una ottima manovrabilità, rivestimento con morbido Softgrip  Lame differenti in base al taglio da farsi Ottima sicurezza  con arresto rapido e protezione per la mano; inoltre l’arresto di sicurezza impedisce l’accensione accidentale Guida rimovibile «A-Grip», per una ottima prestazione con rami privi di sostegno Lama di precisione, per tagli puliti e precisi. Ti potrebbe interessare anche: Top 10: Le migliori dieci serre 5 Migliori prodotti per un prato perfetto Altri prodotti per orto e giardino Read the full article
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