#nuova teoria critica
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roma, esc, 29 aprile: passaggi a francoforte
Gli accadimenti che segnano il nostro tempo, dalla guerra alla crisi climatica, dalla pandemia alla recessione economica, ci trascinano violentemente in uno scenario sconosciuto. Ciò che sembrava stabile vacilla, il mondo nel quale siamo cresciuti e abbiamo messo radici assomiglia sempre di più a quello che Stefan Zweig definiva “il mondo di ieri”. Durante transizioni e scosse tragiche come…
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E' la scienza bellezza
"Scienza" è anche postulare l'esistenza di cose che non puoi rilevare - ad es. la materia e l'energia oscura - essenziali per far tornare i modelli dell'Universo con le osservazioni sull'accelerazione della sua espansione. Altrimenti dovresti ammettere che il modello che tutti usano è sbagliato (ma le applicazioni funzionano e le osservazioni non possono esser sbagliate, se sono ripetibili). Questo la scienza non lo accetta: niente "vuoti di potere", vuole un modello "nuovo", approvato mediante cd. "consensus" (a maggioranza).
Un esempio: ai tempi delle equazioni di Maxwell il problema della fisica era, nel "vuoto" ci deve essere un mezzo in cui tutte quelle dannate onde si propaghino, una roba tipo acqua o aria altrimenti non funziona. Per cui postularono che lo spazio fosse ricolmo come di un "ETERE", detto LUMINIFERO. Eran tutti d'accordo, poi arrivò Einstein col suo fotone (ragione per cui prese il Nobel, non per la teoria della relatività).
Non è una critica, è spiegare come funziona la scienza.
Le "verità scientifiche", sono come la mozzarella: hanno la scadenza. Il cambiamento, il "contrordine compagni" è intrinseco connaturato alla scienza, peggio che nel clima. Un grande fisico teorizzò che le scoperte scientifiche non esistano: semplicemente, una nuova generazione di scienziati con la mente "fresca" rimpiazza quella precedente e codifica le cose ("modella") in modo diverso, e il ciclo riparte: avanti così ad libitum. E' la scienza, bellezza.
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Nancy Fraser
Per me, il femminismo non è semplicemente una questione di portare un numero limitato di singole donne in posizioni di potere e privilegio all’interno delle gerarchie sociali esistenti. Si tratta piuttosto di superare quelle gerarchie. La divisione gerarchica e di genere tra “produzione” e “riproduzione” è una struttura determinante della società capitalista e una fonte profonda delle asimmetrie di genere in essa insita. Non potrà esserci “emancipazione della donna” finché questa struttura rimarrà intatta.
Se il capitalismo fonda la propria possibilità di esistere sullo sfruttamento del lavoro silenzioso, e non riconosciuto, che le donne dedicano alla cura di bambini, malati e anziani, per poter arrivare a vedere riconosciuto il valore, anche economico, del lavoro di cura, è necessario immaginare un modello alternativo.
Il neoliberismo, per poter prosperare, distrugge l’ambiente, sfrutta le minoranze, depreda il Sud del mondo di materie prime, in un clima di sempre crescenti disuguaglianze.
Nancy Fraser, filosofa e teorica femminista, è tra le più importanti intellettuali della nostra epoca.
È stata tra le principali organizzatrici dello sciopero internazionale delle donne negli Stati Uniti.
Punto di riferimento del dibattito internazionale sulle ingiustizie globali, insegna Politica e Filosofia alla New School for Social Research di New York, dal 1995.
Conosciuta per la sua critica alla politica dell’identità e il suo lavoro filosofico sul concetto di giustizia, è anche una strenua critica del femminismo liberale contemporaneo e del suo abbandono delle questioni di giustizia sociale.
Ha ricevuto dottorati onorari da sei università in cinque paesi, la Legion d’Onore Francese e fa parte dell’American Academy of Arts and Sciences.
Ex presidente dell’American Philosophical Association Eastern Division, ha ricevuto il premio Alfred Schutz per la filosofia sociale e il Prix Mondial Nessim Habif dall’Università di Ginevra nel 2018.
Il suo lavoro è stato citato tre volte dai giudici della Corte Suprema brasiliana, in pareri che affermano l’uguaglianza matrimoniale, la discriminazione positiva e i diritti alla terra collettiva delle persone afro-discendenti.
È nota principalmente per il suo lavoro sulle concezioni filosofiche di giustizia e ingiustizia. Affronta i problemi delle ingiustizie strutturali che pervadono la nostra società e si allineano con le divisioni sociali come genere, razza/etnia e classe.
Ha scritto su un’ampia varietà di argomenti. In libri e saggi recenti, ha proposto una nuova teoria critica della società capitalista, che rivela la sua tendenza intrinseca a svuotare la democrazia, ad approfittarsi del lavoro di cura delle donne, a espropriare la ricchezza delle comunità di colore e a degradare la natura.
Tra le sue più recenti pubblicazioni in lingua italiana ci sono: Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberismo progressista a Trump e oltre (2019); Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi (2019); Femminismo per il 99%. Un manifesto (con Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya, 2019); Redistribuzione o riconoscimento? Lotte di genere e disuguaglianze economiche con Axel Honneth, (2020); Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo? (2020); Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta (2023).
Nata a Baltimora il 20 maggio 1947, in una famiglia mista di immigrati di seconda generazione con origini ebraiche e cattoliche, ha conseguito la laurea in filosofia presso la Bryn Mawr nel 1969 e un dottorato di ricerca in filosofia presso il CUNY Graduate Center nel 1980.
Ha insegnato nel dipartimento di filosofia della Northwestern University ed è. stata professoressa in visita presso università in Germania, Francia, Spagna, Austria, Germania e Paesi Bassi.
Oltre alle sue numerose pubblicazioni e conferenze, è stata co-editrice di Constellations, rivista internazionale di teoria critica e democratica, dove continua a far parte del Consiglio editoriale.
Nel marzo 2022, è stata tra le 151 femministe internazionali che hanno firmato il Manifesto della Resistenza femminista contro la guerra, in solidarietà con le femministe russe dopo l’invasione dell’Ucraina.
Nel 2024 è salita alla cronaca internazionale quando sono state annullate le lezioni che doveva tenere all’Università di Colonia dopo che si è scoperto che aveva firmato la lettera “Filosofia per la Palestina“.
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Dal prof. Giovanni Giolo
L’ULTIMO LEOPARDI E LA GINESTRA
Benedetto Croce giudica la poesia di Giacomo Leopardi in base alla sua teoria estetica “poesia/non poesia” e condanna la sua posizione pessimistica, che attribuisce alla sua “vita strozzata”: si sentì premuto, avvinto e sopraffatto da una forza brutale, da quella che egli chiamò la “nemica natura”, che gli spezzò gli studî, gli proibì i palpiti del cuore, e lo rigettò su se stesso, cioè sulla sua offesa base fisiologica, costringendolo a combattere giorno per giorno per sopportare o lenire il malessere e le sofferenze fisiche che lo tormentavano invincibili. Questa “forza brutale”, questa violenza e questa sopraffazione, secondo il critico, scavarono in fronte a Leopardi quel “solco di dolore e di nobiltà”, per il quale fu ben presto riconosciuto in Europa come essere assunto nella pleiade degli altri spiriti straziati e sconsolati.
Bisogna però riconoscere che il pessimismo leopardiano coesiste con una natura schietta e nobile, trepida, aperta alla vita, al desiderio e alla speranza. La condanna di Croce è duplice e riguarda non solo la poesia ma anche il suo pensiero filosofico, in quanto, per lui, “ la filosofia non è né pessimistica né ottimistica”. Ottimismo e pessimismo rispecchiano stati d’animo e umori personali, sono interpretazioni soggettive di circostanze e situazioni della realtà: *la filosofia, in quanto pessimistica od ottimistica, è sempre intrinsecamente pseudofilosofia* e Leopardi non offre se non sparse osservazioni, non approfondite e non sistemate: a lui mancava disposizione e preparazione speculativa, e nemmeno nella teoria della poesia e dell’arte, sulla quale fu condotto più volte a meditare, riuscì a nulla di nuovo e importante, di rigorosamente concepito. Ma per Leopardi il male e il dolore non erano “sparse osservazioni non approfondite e non sistemate”, erano “la sostanza di tutta la filosofia” (Operette Morali, dialogo di Timandro ed Eleandro).
Il 1947 è l’anno in cui il panorama critico cambia radicalmente per opera di Walter Binni (La nuova poetica leopardina) e di Cesare Luporini (Leopardi progressivo). La poesia del recanatese viene vista, al contrario di Croce, come tensione speculativa, esaltazione del vitalismo e dell’agire come supremo rimedio alla noia, disprezzo della politica e celebrazione del nulla (Leopardi è, come nota Karl Vossler, il religioso amante del nulla). Ne nasce un nesso sempre più stretto, nel periodo post-fiorentino e in quello napoletano, fra poesia e pensiero, che segna il suo apice nella Ginestra. Leopardi è un intellettuale legato al materialismo illuministico (per questo il tergo / vigliaccamente rivolgesti al lume / che il fe’ palese) che lo induce a invitare gli uomini, come in un estremo appello messianico, ad allearsi “in social catena” contro la natura madre di parto e di voler matrigna. Ma, giustamente notano i critici, il nesso poesia-pensiero era presente già nelle canzoni del ’21-‘22 fino alla rottura del concetto di natura benefica che trova la sua proclamazione nell’Ultimo canto di Saffo.
Cesare Luporini sostiene che Leopardi sia un filosofo “moralista” “ed è soltanto sotto questo riguardo che egli conta”, “non è un filosofo tecnico della politica e della società”, anzi si oppone a chi vuol considerarlo un filosofo politico “tra i massimi del nostro Ottocento”, come Luigi Baldacci. Andrea Rigoni inoltre lo paragona ai veri teorici della politica e della società quali Rousseau, Montesquieu, Tocqueville e Schmitt. Altri, in effetti, potrebbero sostenere, alla stessa stregua, che Leopardi sia un metafisico e un filosofo dell’estetica, visto che la sua “riflessione storico-politica risulta coordinata e solidale” con quella metafisica ed estetica.
Ma Croce rifiuta questo giudizio e nota che in questo campo egli non approdò ad alcun risultato. Ma la critica successiva lo dichiara sia poeta che filosofo moralista e afferma che come moralista è il più grande che l’Italia possa vantare, come Nietzsche è il più grande moralista che possa vantare la Germania. Può Croce confutare la tesi leopardiana – si chiede Sossio Giametta - del male e del dolore della vita, della vanità e della nullità dell’esistenza? Può negare l’eterna distruzione ad opera della natura dei suoi figli e di tutte le cose umane: giovinezza, salute, bellezza, speranza, affetti, gloria, virtù, poesia? Certamente no: tutto questo è inconfutabile, e inconfutabile è il destino di miseria, vecchiaia, malattia e morte di tutti gli esseri.
Nel ’21 Leopardi si chiede: come si fa la poesia? E risponde che gli spiriti sommi potranno vincere qualsiasi ostacolo ed essere sommi poeti e sommi filosofi, anche se questo accade molto raramente. Nel ’23 sostiene che la poesia cerca il bello e la filosofia il vero e che il bello e il vero si conciliano nel grande filosofo e nel grande poeta. Nel periodo napoletano il poeta acquista maggior sicurezza di sé e le Operette morali concludono l’esperienza di un’altissima prosa poetica in chiave autobiografica-filosofico-etica che decreta il fallimento delle illusioni ed esprime il rimpianto dell’essere vissuto invano e il mito dolce-amaro della ricordanza. L’ultimo Leopardi della *Ginestra* si misura sul presente, si erge in lotta col suo tempo, con il secol superbo e sciocco, sente la sua infinita superiorità rispetto alla filosofia ottimistica e spiritualista dei *nuovi credenti,* è cosciente *di possedere un senso più alto della vita e approda a una concezione eroica della poesia, come detentrice di una verità diversa e superiore rispetto all’egoismo, all’utilitarismo e alla vuota retorica verbosa ed inerte, alla viltà di fronte alla morte e al Dio crudele: *sempre / codardi e l’alme / ingenerose, abbiette, / ebbi in dispregio.*
Nel ’36 rivendica l’originalità della sua filosofia che si oppone “ai preti, i quali qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto." Nella Ginestra il pensiero leopardiano acquista una nuova ed estrema sicurezza di persuasione della assolutezza della sua verità. Egli si proclama illuminista, materialista, ateo e deride i sogni e i deliri della mente umana. Per lui l’uomo è il corpo, la materia sente e pensa, lo spirito è flatus vocis e nella materia *tutto* è male. Le sue “persuase” certezze sono la caducità e la fragilità dell’uomo, l’infinita vanità del tutto, la malvagità della natura, il naturale egoismo dell’uomo e l’opposizione degli uomini dabbene *contro la lega dei birbanti.*
Egli entra in polemica con gli intellettuali del suo tempo arretrati e *regressivi* (nella Ginestra li chiamerà astuti o folli), mentre nella Palinodia denuncia: *sempre il buono in tristezza, il vile in festa / sempre e il ribaldo.* Leopardi appare uno “sradicato”, un “ribelle”, un “democratico” per la sua scelta dello “stato franco” di una repubblica fondata sulla sovranità popolare che nella Ginestra diviene una organizzazione comunitaria di tanti uomini confederati nella lotta con la *inimica natura*. Egli da malpensante, come dice Leporini, è su un’onda più lunga degli uomini del suo tempo. La Ginestra, la più grande poesia dell’epoca moderna, può essere paragonata ai massimi capolavori dell’umanità per l’assoluta tenuta di ritmo, per la sconvolgente impetuosità, per l’invito a una gioia che è libertà e fraternità fra tutti gli uomini. Come scrive Natalino Sapegno: “Nella Ginestra il lirico, il solitario, maturatosi attraverso la passione, si è fatto degno di parlare ai fratelli, di erigersi profeta di una civiltà e umanità nuova. Anche il linguaggio è veramente nuovo, non il linguaggio vago, indefinito, tenero, nostalgico degli Idilli, ma una lingua intensa e vibrante, una sintassi concitata e piena di spezzature, una musica senza morbidezze e squisitezze melodiche, energica e piena di slancio, una poesia che lascia l’impressione di un’esperienza tutta aperta, non esaurita nella immobile perfezione, ma protesa verso il futuro”. Il poeta presenta la ginestra come un modello per il comportamento dell’umanità. Essa, fiore gentile, soffre senza orgoglio e senza viltà il destino che le è dato in sorte, commisera i danni altrui e prova compassione per tutti i viventi dei quali condivide la sofferenza, la debolezza e la sorte mortale. Essa non si comporta come l’uomo che stolto, nato a perir, nutrito in pene, / dice ; - A goder son fatto, - / e di fetido orgoglio / empie le carte, eccelsi fati e nove / felicità, quali il ciel tutto ignora, / non pur quest’orbe, promettendo in terra /a popoli che un’onda / di mar commosso, un fiato d’aura maligna, un sotterraneo crollo / distrugge sì che avanza / a gran pena di lor la ricordanza. Il suo comportamento è ben diverso da quello degli intellettuali spiritualisti del tempo di Leopardi che si ritengono destinati alla felicità terrena e ultraterrana, non vogliono riconoscere la loro mortalità, la sofferenza, l’estrema debolezza di fronte alla catastrofi naturali come quella del Vesuvio nel 79 che distrusse Pompei, Ercolano e i paesi circostanti. Leopardi sa quanto questi intellettuali sono interessati alla collaborazione con le forze reazionarie del suo tempo che vogliono lasciare il volgo nell’ignoranza e gli propinano menzogne, volgo che ha il diritto di conoscere la verità, nulla al ver detraendo, che è il blasone araldico più alto di Leopardi, verità denunciata con forza dalla sua suprema poesia della estrema fase della sua esistenza: via la speranza, via la felicità, via le illusioni sulla natura e sulla natura degli uomini, che sono prodotti della natura e della natura portano in sé istinti bassi, crudeli, egoistici, via il passato spiritualistico, teocentrico, geocentrico, antropocentrico, via le ideologie che detengono il potere del suo tempo, ma la proclamazione del vero e dell’amore per gli uomini generosi e saggi in lotta con la natura.
“Il pessimismo cosmico di Leopardi – scrive Binni �� raggiunge ormai la sua meta combattiva e propositiva in un’apertura verso il futuro, in una offerta di “buona, amara novella”, priva di ogni afflato trionfalistico, ma sostenuta da un’energica persuasione di una via stretta e ardua, chiusa nei limiti di un destino di morte e sofferenza, di rinnovate stoltezze, di catastrofi naturali e cosmiche: “eroica” nella sua volontà di resistenza e contrasto, di non rassegnazione, nel doveroso tentativo di rifondare nelle sue amare verità una *polis* comunitaria, nell’alleanza prioritaria tra i veri intellettuali, portatori di verità e volgo pieno di forze potenziali autentiche, ben capace di “virtù” (la parola moralmente suprema mai abbandonata da Leopardi)”. La Ginestra – conclude il critico – propone una lotta contro la natura, “lotta il cui successo non ha nessuna garanzia e che è tanto più doverosa proprio nella sua ardua difficoltà, mentre attualmente sull’umanità incombe la minaccia della catastrofe nucleare”.
(Gianni Giolo)
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Riformare il Metodo Scientifico: Ripensare i Principi Fondamentali
Introduzione
Il metodo scientifico è uno dei pilastri fondamentali della ricerca e dell'acquisizione di conoscenza nel campo scientifico. Tuttavia, come ogni processo umano, anche il metodo scientifico non è immune da errori, limitazioni e pregiudizi. Nel corso della storia, sono stati commessi numerosi errori in nome della scienza, alcuni dei quali hanno avuto conseguenze negative sulla salute delle persone o addirittura hanno causato la morte. È quindi legittimo interrogarsi sulla validità e l'obiettività del metodo scientifico e discutere la necessità di una sua riforma.
Limitazioni e errori del metodo scientifico
Limitazioni delle osservazioni umane
Una delle principali limitazioni del metodo scientifico risiede nelle osservazioni umane. Come esseri umani, siamo dotati di sensi limitati e imperfetti che possono influenzare la nostra percezione dei fenomeni. Questo può portare a errori di interpretazione e a una mancanza di oggettività nelle osservazioni. Ad esempio, nel caso dei meteoriti, la teoria che sosteneva che fossero semplici sassi caduti dal cielo è stata inizialmente respinta come eretica. Ciò dimostra che le teorie scientifiche possono essere influenzate da pregiudizi e ottusità.
Replicabilità degli esperimenti
Un altro aspetto critico del metodo scientifico è la replicabilità degli esperimenti. Sebbene la replicabilità sia uno dei pilastri del metodo scientifico, vi sono situazioni in cui gli esperimenti non possono essere replicati con facilità o addirittura falliscono nella loro replicazione. Galileo Galilei stesso, considerato il fondatore del metodo scientifico sperimentale, ha incontrato difficoltà nel replicare i suoi esperimenti. Questo solleva dubbi sulla validità e l'oggettività delle scoperte scientifiche basate su esperimenti non replicabili.
Evoluzione delle conoscenze scientifiche
Le conoscenze scientifiche sono in costante evoluzione e ciò significa che le leggi scientifiche enunciate in un determinato momento possono essere successivamente rifiutate o superate da nuove scoperte. Questa dinamica di progresso scientifico mette in discussione la solidità e la veridicità delle leggi scientifiche, poiché una nuova scoperta può invalidare una legge precedentemente considerata valida. Pertanto, è necessario considerare le leggi scientifiche come ipotesi al momento più accreditate piuttosto che come verità assolute.
La necessità di una riforma del metodo scientifico
Dati i limiti e gli errori del metodo scientifico, è legittimo porre la questione di una sua riforma. Tuttavia, è importante sottolineare che il metodo scientifico è ancora uno strumento fondamentale per acquisire conoscenze e guidare la ricerca. Piuttosto che abbandonarlo, dovremmo considerare alcune possibili riforme che potrebbero migliorare la sua validità e oggettività.
Maggiore consapevolezza delle limitazioni umane
I ricercatori e gli scienziati dovrebbero essere consapevoli delle limitazioni umane e dei possibili pregiudizi che possono influenzare le loro osservazioni e le loro conclusioni scientifiche. È importante adottare un approccio critico e aperto alle nuove scoperte e alle teorie alternative, evitando di cadere nella rigidità delle convinzioni preesistenti.
Maggior trasparenza e riproducibilità degli esperimenti
Per garantire una maggiore validità e oggettività, gli scienziati dovrebbero essere incoraggiati a condividere i loro dati e le loro metodologie in modo trasparente e accessibile. Questo permetterebbe una maggiore riproducibilità degli esperimenti e una verifica indipendente dei risultati ottenuti.
Valutazione critica e revisione continua
La comunità scientifica dovrebbe adottare una cultura di valutazione critica e revisione continua delle scoperte scientifiche. Questo implica una continua sfida delle teorie esistenti e una volontà di rivedere e correggere le conclusioni scientifiche alla luce delle nuove evidenze.
Promozione della diversità e dell'inclusione nella ricerca scientifica
Un'altra possibile riforma del metodo scientifico è quella di promuovere la diversità e l'inclusione nella ricerca scientifica. La diversità di esperienze, prospettive e background culturali può arricchire la ricerca scientifica e portare a una migliore comprensione dei fenomeni studiati. Inoltre, l'inclusione di gruppi sottorappresentati nella ricerca scientifica può contribuire a ridurre gli errori e i pregiudizi derivanti da una prospettiva limitata.
Conclusioni
Il metodo scientifico è uno strumento fondamentale per acquisire conoscenze e guidare la ricerca scientifica. Tuttavia, è importante riconoscere i limiti e gli errori di questo metodo e discutere la possibilità di una sua riforma. Una maggiore consapevolezza delle limitazioni umane, una maggiore trasparenza e riproducibilità degli esperimenti, una valutazione critica continua e la promozione della diversità e dell'inclusione nella ricerca scientifica possono contribuire a migliorare la validità e l'oggettività del metodo scientifico.
Oliviero Mannucci
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La Florida di DeSantis vuole vietare gli studi di genere e la teoria critica della razza nelle università
Il governatore repubblicano della Florida Ron DeSantis guadagnerebbe più influenza nel sistema universitario pubblico dello Stato e i corsi di laurea che coinvolgono studi di genere o la teoria critica della razza sarebbero eliminati se un disegno di legge presentato questa settimana ottenesse il sostegno della legislatura controllata dai repubblicani. La nuova misura, che riflette in gran parte…
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#aggiornamenti da Italia e Mondo#Mmondo#Mmondo tutte le notizie#mmondo tutte le notizie sempre aggiornate#mondo tutte le notizie
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BENEDETTO CROCE SOTTO SPIRITO. UN RITRATTO PER ANNIVERSARIO (2015)
Esattamente un secolo fa, poche settimane prima che l’Italia entrasse nella Grande guerra, Benedetto Croce stese di getto il “Contributo alla critica di me stesso”, oggi disponibile nelle edizioni Adelphi con le note aggiunte a margine nei decenni successivi. Il “Contributo”, scritto alla soglia dei cinquant’anni, è il pezzo più autobiografico di un filosofo che, come Catullo “voleva essere totus nasus”, vorrebbe “essere giudicato tutto pensiero”. Si tratta, è vero, di una “autobiografia mentale”, o comunque di una ‘vita esemplare’; ma per sorprenderci, all’autore basta ritrarsi sdraiato su un sofà mentre rimugina sul suo sistema nascente.
Siamo davanti a un trionfo della prosa crociana: della sua musica rotonda, della sua patina antiquaria, ma soprattutto del suasivo movimento con cui il filosofo dimostra che le analisi più sottili sono traducibili in un motto di sano buon senso. Trionfa, qui, anche il più insistito leitmotiv etico di Croce: quello dell’“operosità” che sola medica le ferite della vita, come il piccolo Benedetto apprese in un collegio di preti borbonici. Ed è impossibile non sorridere, riconoscendo il puntiglio del futuro filosofo laico nel ragazzo che prima di confessarsi “distingue” i peccati e li scrive su un foglietto.
La formazione di Croce cambia segno dopo il terremoto di Casamicciola, che nel 1883 annienta la sua famiglia e lo seppellisce per ore sotto le macerie. Il superstite è accolto allora nella casa romana del politico Silvio Spaventa, cugino del padre e fratello del filosofo Bertrando. Il lutto, lo spaesamento, l’adolescenza: non stupisce che questa miscela abbia precipitato il giovane in una crisi d’ipocondria; e l’ostentato contegno olimpico dell’adulto deriva forse da questo periodo oscuro. “Quegli anni”, confessa l’autore del “Contributo”, furono “i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino”. Nella Roma del trasformismo, Benedetto si chiude in biblioteca. Ma a scuoterlo è Antonio Labriola, che con le lezioni sull’etica di Herbart gli offre un appiglio a cui aggrapparsi nel naufragio della fede. Croce ricorda di averne recitato più volte i capisaldi sotto le coperte, come una preghiera. È con questo bagaglio che nell’86 torna a Napoli per rifugiarsi negli studi storici; e solo il bisogno di chiarirne il metodo lo convince nel ’93 a stendere la prima memoria filosofica. Poco dopo, ad allargarne gli orizzonti interviene ancora Labriola, che lo contagia con la nuova passione marxista. Croce, però, l’affronta col suo stile di formidabile ruminante. S’immerge in un corso sistematico di economia, e quando è ormai più ferrato del maestro, espelle dalla materia appena digerita una componente essenziale, quella della militanza, per trasformarla in puro fertilizzante delle sue ricerche. Nel 1900, il socialismo che agita l’Europa gli appare nient’altro che una parte di sé già superata. Mentre lo stesso senso del dovere che lo porterà al governo con Giolitti e alla presidenza del Partito Liberale gli impone di soccorrere le istituzioni napoletane, il commissario scolastico Croce si prepara a entrare nelle scuole con ben altra efficacia attraverso l’“Estetica”, la sua opera più famosa e volgarizzata. Subito dopo la sua pubblicazione fonda con Gentile la rivista “La Critica”, braccio secolare dell’idealismo italiano, e vi applica la propria teoria dell’arte diffondendo un gusto tutto spostato sull’Ottocento. Qui Croce sente di aver raggiunto un maturo “accordo con me medesimo e con la realtà”. Inizia così un percorso che per tre lustri somiglia a una inarrestabile marcia di conquista: il patto con Laterza, il completamento del sistema, i saggi su Hegel e Vico, la polemica vittoriosa contro l’epistemologia…
Il “Contributo” segna il culmine di questa marcia, rallentata poi da guerra e fascisti. Lo spettacolo che offre è invidiabile; eppure il lettore non può non sentir salire da queste pagine compatte un involontario umorismo. Perché l’autore, malgrado le dichiarazioni di sobrietà e le ombre che già gli offuscano il panorama, sprizza soddisfazione da tutti i pori. L’insolita nudità del testo evidenzia il rapporto tra le sue compiaciute pose giovesche e la rimozione del lato notturno dell’esistenza. La soluzione genialmente semplificatrice di molte questioni sfiora la tautologia, e ogni domanda fastidiosa è liquidata come un problema mal posto (se “il pensiero vero è semplicemente il pensiero”, il pensiero falso è solo “il non-pensiero (…) il non-essere”). Anziché diventare leopardiano, il ragazzo che ha sperimentato sulla sua pelle la crudeltà della Natura cicatrizza le ferite convincendosi che la Storia consiste nel dispiegarsi di una verità ascendente “a claritate in claritatem”, ed esibendo il sublime filisteismo goethiano che sarà di Lukács e Thomas Mann.
È questo superiore equilibrio a indisporre i letterati giovani, quelli che in forme più esili hanno reagito come lui al positivismo: il romantico refoulé Cecchi, lo scettico Serra, e il teppista Papini, secondo cui il nuovo maestro d’Italia sogna una nazione “composta di tanti bravi figlioli (…) lettori assidui del Giannettino”. Dal clima ‘decadente’ e agitatorio nel quale si muovono questi giovani, il filosofo tiene presto a smarcarsi. Prende le distanze da D’Annunzio, ma anche dall’hegelismo. Eppure questi distinguo non cancellano alcune affinità cruciali. Cecchi nota che sia l’idealista sia l’imaginifico pongono l’arte sull’infimo gradino della scala intellettuale, tacendo sulle angosce che derivano all’uomo da un’esistenza sempre incompiuta e da una natura irriducibilmente estranea. Quanto a Hegel, è vero che Croce ne rigetta la mitologia; ma proprio negli anni Dieci fa a sua volta della necessità storica un mostro autorizzato a nutrirsi di corpi umani. In realtà, il culto hegeliano del fatto compiuto e l’arte pura costituiscono gli esiti logici della cultura da cui Croce proviene, perciò quando il filosofo li rifiuta appare incoerente con le sue premesse. L’estetica crociana si accorda col detestato Pascoli, non con l’amato Carducci. E sulla Storia, l’autore del “Contributo” ricorda di avere appreso dal suo Marx, sciacquato nell’Arno machiavellico, che ha tutto il diritto di “schiacciare gl'individui”. Ma solo nel ventennio diventa evidente, oltre allo iato tra ‘teoria’ e ‘pratica’, anche la marcia indietro ideale: all’assoluto lirico si affianca allora la funzione civile della letteratura, mentre lo Stato Leviatano sfuma nell’etica liberale.
A questo proposito, nelle note più tarde, Croce ammette di avere sottovalutato il valore della libertà, e di essere stato poco accorto davanti al fascismo in ascesa. Nel ‘15, però, prevale ancora la tendenza a far coincidere intuizione ed espressione, volontà e azione. Come altri pensatori contemporanei, Croce cerca così di superare i dualismi ottocenteschi tra spirito e materia, vita e scienza. Di Hegel lo attrae appunto il suo organicismo, anche se gli ripugna la sua brutale omogeneizzazione dei fenomeni. Nel proprio sistema introduce la dialettica degli opposti, ma si preoccupa che non distrugga i distinti. Vuole tenere insieme il circolo dello Spirito e lo sviluppo dialettico della Storia: Vico e Kant da una parte, Hegel dall’altra. Tuttavia, nell’idealista del primo Novecento vince la giustificazione dell’esistente. La Storia procede di bene in meglio, l’irrazionale è appena l’ombra del razionale. Di questa rimozione ha dato un’ottima parodia Paolo Vita-Finzi in un apocrifo crociano dove il pontefice di Palazzo Filomarino, con consequenzialità macabra e gioconda, spiega che il male include “germi di bene” come un cannibale “può includere un missionario”.
A un passo dalla Grande guerra, insomma, il filosofo ritiene ancora che il pensiero possa governare dall’alto la realtà. Appena licenziato il “Contributo”, fa il suo dovere di suddito in un conflitto a cui non crede, ma evita il nazionalismo culturale: all’adesione pratica corrisponde un orgoglioso rifiuto teoretico. È l’abito della distinzione col quale si opporrà sempre alle ideologie che tendono a travolgere tutti gli argini. Ma inutilmente: perché la vocazione del Novecento è appunto quella di cancellare ogni limite, bellico e sofistico. E alla fine Croce ne prenderà atto, trasformando la categoria dell’“utile” nella vitalità “selvatica” che buca le forme dello spirito. Sfiorerà così l’esistenzialismo, ma non farà il passo che l’avrebbe costretto a lasciare le sponde civili del suo Ottocento: sensibilissimo alla cronaca, resterà tuttavia convinto di poter incarnare una figura di filosofo ancora classicista.
Questa figura non va però confusa con la maschera del pensatore pompier che ci ha proposto tanto Novecento, e a cui manca completamente il gusto della concretezza che riassume la lezione più feconda dello “storicismo assoluto”. “La perfezione di un filosofare sta (…) nel pensare la filosofia dei fatti particolari, narrando la storia”, dice Croce nel “Contributo”: perciò “l'astrazione è morte”. In questo senso, molta fenomenologia si è rivelata assai più astratta dell’idealismo che intendeva superare, perché mancava di intuito ermeneutico di fronte alla vita, ed era dunque destinata a smarrirsi nel farraginoso gergo pragmatistico che predica l’andata “alle cose stesse” ma non la pratica mai. Lo stesso vale per le suggestioni insieme esoteriche e terragne criticate da Croce prima in Gentile e poi in quell’Heidegger che secondo lui disonorava la loro disciplina. Queste filosofie, finte mistiche intimidatorie e velleitarie, confermano la convinzione crociana secondo cui il purus philosophus è un purus asinus. Croce considerava una delle sue maggiori vittorie la ridicolizzazione del Filosofo tutto occupato dall'Essere: e infatti niente testimonia meglio la sua successiva sconfitta della restaurazione di questo mito, in varianti sacerdotali o pedantesche.
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6 gennaio L'esilio di Trotsky
Inizia con la rimozione di Leon Trotsky dall'incarico ministeriale la serie di provvedimenti presi dal governo stalinista nei confronti del politico, che culminerà con il 17 gennaio 1929, quando egli viene esiliato insieme ad alcuni compagni del soviet di Pietrogrado ad Alma Ata.
Così inizia la lunga diaspora che condurrà Trotsky fino alla morte in Messico il 20 agosto del 1940 assassinato da un agente stalinista in incognito. La vicenda di Trotsky è dal punto di vista autonomo molto interessante per una serie di aspetti e innanzitutto perché sancisce il fallimento di un certo tipo di socialismo reale e delle sue strutture politiche e sociali. Molti sono gli interessanti spunti che lasciò a chi attraversa in un'ottica marxista i movimenti, ma molti furono anche gli errori di valutazione che pesarono profondamente sia sul destino della rivoluzione russa, sia sui partiti comunisti istituzionali che staccandosi dalla sfera d'orbita sovietica aderirono a questo modo di intendere la lotta di classe. Come sempre sta a noi dare una lettura critica e attualizzata, in rapporto con le dinamiche storico-sociali che attraversiamo di alcune linee di tendenza intuite da Trotsky. Interessanti sono ad esempio gli approfondimenti sulla teoria della Rivoluzione permanente, molto meno le pratiche dell'entrismo nei partiti socialisti.
Trotsky insieme a Lenin leader della rivoluzione russa è stato molto presto visto dai burocrati del socialismo reale, oppressivo e mortificante come un pericolo, un pericolo capace di scatenare le contraddizioni palesi che attraversavano la teoria del "socialismo in un paese solo" e del capitalismo statale di cui era intrisa la ormai tradita rivoluzione bolscevica. Una paura che era lo stesso volto dei padroni dei paesi attraversati dalle lotte operaie e del proletariato.
Dal punto di vista autonomo e antagonista Trotsky ci insegna che una rivoluzione è sempre perfettibile e che le contraddizioni insite allo sfruttamento capitalista non sono conciliabili con il socialismo e con le sue espressioni. Ci insegna anche con i suoi errori che tentare di cambiare dall'interno una forma partito di stampo terzointernazionalista che è a sua volta rappresentazione del potere istituzionale e borghese è impossibile. Anzi anche questa va distrutta e delegittimata.
Presentiamo ora un documento di Danilo Montaldi su Lev Trotsky.
CURVA DISCENDENTE:
TROTZKY, TROTZKISMO, TROTZKISTI Negli anni 1926-'28 il movimento operaio internazionale subisce una crisi i cui caratteri si presentano in una forma del tutto nuova. Non è più una crisi legata ad una battaglia perduta e sanguinosamente repressa, quale era stata la Comune di Parigi, non è più il fallimento della rivoluzione come nel 1905 in Russia, esperienze l'una e l'altra che serviranno di base alla ripresa politica del proletariato. Questa volta si tratta di qualche cosa di infinitamente più tragico in quanto è proprio questo stesso patrimonio, l'unico, se si eccettuano le ereditarie catene, che viene saccheggiato e manomesso precisamente da che usurpava in quegli anni la rappresentanza dell'avanguardia nel Paese che per primo aveva ceduto all'assalto vittorioso della Rivoluzione.
Le ragioni dell'arretramento politico degli operai vanno ricercate nell'impossibilità di mantenere il controllo in una situazione che si va sempre più evolvendo, tanto in Russia che nel resto del mondo, a svantaggio della classe nel suo complesso.
L'affermazione dell'"Opposizione di Sinistra" è legata strettamente all'evoluzione della lotta di classe in Russia che si esprime ancora in quegli anni in termini di contrasti ideologici prima di scendere sul terreno della lotta politica aperta fino all'eliminazione fisica di chi non aveva saputo rinunciare, in un modo non formale, alla tradizione e alle lezioni dell'Ottobre 1917. Il nuovo corso dell'economia sovietica, vale a dire il consolidamento della NEP e i primi piani di industrializzazione che in queste condizioni non porteranno ad altro che alla nascita di un capitalismo statale ed allo sfruttamento sempre più vasto del proletariato, induceva gli strati dirigenti della politica russa a forgiare nuove teorie e nuove tattiche che, coerenti con l'impegno della "Difesa dell'URSS", sono in netto contrasto con gli interessi della Rivoluzione mondiale. Di conseguenza i movimenti dissidenti dell'Internazionale si vanno sempre più intensificando. Sotto l'incalzare degli avvenimenti le coscienze individuali, i gruppi d'avanguardia sono costretti a definire la loro condotta, a cercare una loro giustificazione, e con questo stesso a proporre la validità della loro particolare esperienza sul piano più vasto della lotta del proletariato.
Lev Trotzky pur dibattendosi tra le infinite difficoltà che il ritorno alla vita d'esilio gli imponeva di superare, seppe improntare il movimento d'opposizione della sua personalità di vecchio combattente delle lotte sociali.
Da quando il ministro zarista Miljukov lo aveva usato con disprezzo per la prima volta, il termine "trotzkismo" aveva fatto molta strada, ma solo ora si presentava come una tendenza che si andrà sempre più definendo nel senso del movimento operaio. La Rivoluzione, immensa divoratrice di esperienze e di uomini non dovrà tardare molto a sottoporne all'esame delle situazioni la consistenza e la necessità. In questa fase il proletariato si presenta sotto la guida di una direzione che ha ormai smarrito il senso di una lotta di classe e di conseguenza fin dall'inizio è votato a sicura sconfitta.
gli avvenimenti cinesi non sono che il prologo sanguinoso di una lunga serie di disfatte. Lo slancio rivoluzionario delle masse viene soffocato dal mostruoso sviluppo di un capitalismo in crescita, i cui rappresentanti costituiscono la direzione del movimento.
La crisi apertasi nel senso del capitalismo nel 1917 stava per concludersi ancora una volta a svantaggio della classe oppressa: il mondo operaio europeo viveva gli ultimi fremiti operai in Germania dove, strada per strada si sparavano gli ultimi colpi disperati di tre lustri di lotte civili iniziate vittoriosamente a Kronstadt sotto la guida del partito bolscevico. Se la borghesia tedesca aveva represso nel 1919 Spartacus , il cui sangue sigilla i documenti costitutivi della Terza Internazionale, non aveva pertanto saputo li berrai altrettanto facilmente delle intime contraddizioni che tessevano il suo contenuto di classe, anche se in quegli anni stava finalmente generando "l'atteso rimedio" che non tarderà, quando si sfogherà nella violenza del suo terrorismo, ad essere benedetto non solo dagli strati più reazionari della popolazione, ma da tutti coloro che avevano ancora qualche superstizione da salvaguardare nella generale catastrofe dei sedicenti "valori tradizionali". La Germania della disfatta militare ed economico sfogava l'avvilimento in cui si concretizzava la sua vita quotidiana nell'istinto di conservazione, e si vennero a creare la premesse per la distruzione sistematica di tutte le istituzioni del proletariato: a questo infatti si riduce la funzione essenziale del fascismo.
Fu l'assalto più brutale e completo nei confronti della classe operaia. Fu Hitler.
Di fronte ad una socialdemocrazia che si vedeva derubare del suo capitale eletto - la media borghesia -, e che non solo sui era già infinite volte rivelata incapace di guidare il proletariato nella lotta ma che sperava in una "pacificazione del popolo tedesco" puntando tutto su questa parola d'ordine lanciata alla sua giusta ora da quegli strati dell'opinione pubblica che si nutrono al contrario delle profonde divisioni sociali come un ultimo tranello nel momento in cui lo scontro si stava preparando più sanguinoso, lo stalinismo trova il bel tempo di forgiare la teoria del "socialfascismo", il più aberrante bubbone cresciuto sulla ideologia marxista.
"Il fascismo è l'organizzazione di lotta della borghesia che si appoggia sull'aiuto attivo della socialdemocrazia. La socialdemocrazia è oggettivamente l'ala moderata del fascismo" aveva detto l'antidialettico Stalin aggiungendo che " il fascismo e la socialdemocrazia non sono nemici, ma gemelli". Thälmann, allievo di tale maestro, ne applicò gli insegnamenti al punto che ripudiava la massa industriale tedesca, che dal tempo delle prime lotte sociali aveva sempre costituito la speranza del marxismo, e che come entità fisica rimaneva perlopiù inquadrata nei sindacati riformisti, creò a parte un sindacato di disoccupati che come tutti sanno non potranno mai costituire l'avanguardia del proletariato poiché nelle condizioni in cui si trovano sono assai vicini sentimentalmente alla classe avversa di cui subiscono più direttamente l'assalto.
La tattica disastrosa dell'Internazionale ha a sua scusante il fatto che gli interessi proletari e il proletariato stesso diventavano sempre più estranei alla politica dei dirigenti burocrati, i quali, date le nuove strutture economiche che si andavano a creare in Russia, erano costretti a portare altrove la lotta, ai fini della loro stabile affermazione. Le contraddizioni tattiche dell'Internazionale provengono tutte da questa origine.
Non vogliamo tornare a ripetere la storia ben nota dei fatti tedeschi dal 1928 al 1932, ma vedere unicamente in che modo il trotzkismo non seppe opporsi allo smarrimento in cui caddero i militanti e la classe e richiamare gli uni e l'altra ai loro compiti essenziali nei quali si raccoglie il senso stesso della loro esistenza fisica. Abbiamo detto "trotzkismo" appositamente perché sarà proprio in questa situazione che, sotto i colpi di maglio della lotta di classe, si andrà forgiando il movimento che diverrà la Quarta Internazionale. Ed è proprio qui che subisce la prova generale che ormai lunghi anni di vita gli impongono. Una prova fallita
Il Partito Comunista Tedesco non aveva saputo cogliere il momento di contraddizione, di divisione nel campo della borghesia, non aveva saputo metterlo a frutto al fine di mobilitare il proletariato, tutto il proletariato e lanciarlo alla conquista del potere.
Ben presto questa occasione mancata tornerà a totale vantaggio della borghesia che saprà riunirsi in vista della vittoria, eliminando dalla vita nazionale quelle forze che, se l'avevano rappresentata fino a ieri, sono oggi superate dai tempi. Così come ieri in Italia la socialdemocrazia viene messa in condizioni del tutto nuove e deve difendersi: deve abbandonare il terreno delle lotte parlamentari sotto la pressione della reazione incombente, ed è costretta a dover subire giorno dopo giorno l'offesa di chi non riconosce più diritti agli avversari politici.
Non era buona ragione per sollecitare un fronte unico con quei partiti che se non erano stati la causa principale della nascita del fascismo, pure non avevano nemmeno tentato di opporglisi nettamente come la situazione richiedeva.
Invece Trozky seguirà proprio questa sfida rifacendosi a quanto era accaduto in Russia nell'agosto 1917 al tempo di Kornilov, contro il quale Lenin sostenne un fronte dei partiti socialisti. Precedente che non era possibile riesumare per varie ragioni. Al giornale dei comunisti di sinistra "Rote Kämpfer" il quale ricordava che Kornilov rappresentava forze completamente diverse da quelle che si fanno sostenitrici di Hitler, Trozky non sa rispondere altro che con l'ironia. E sfoggiando la sua arte di polemista continua a sostenere una tesi che se rappresenta un tentativo di di comprendere le situazioni secondo un "metodo", che era stato ripudiato dai teorici dello stalinismo, non riuscirà meno dannoso, appunto perché il marxismo è usato come metodo e non dialetticamente, ai fini della questione maggiore che era messa in gioco: la Rivoluzione.
Vero è che Hitler giunto al potere eliminò ben presto il "kornovilismo tedesco" delle associazioni dei generali monarchici, che anch'esso era "rimasto indietro" con i tempi, e quindi era nocivo alla politica del nazismo. E non fu una eliminazione pacifica. Naturalmente Trozky non giunse mai a sostenere una identità di scopi nell'azione comune del fronte unico. Ma "marciare separati e battere insieme" significa rimanere sonni al momento opportuno. Bisognava dunque premunirsi nei confronti di questo pericolo, dato che la funzione della socialdemocrazia nell'azione diretta si esaurisce ben presto: l'esperienza italiana insegni. Di fronte al fascismo che ha preventivamente battuto la socialdemocrazia sullo suo stesso terreno soffiandole la piccola borghesia per rilanciarla arrabbiata e delusa contro le organizzazioni del proletariato, massa di manovra ispirata dai grandi affari, solo il partito di classe aveva dimostrato di saper portare la lotta per l'emancipazione dei lavoratori fino alle sue naturali conseguenze. Dopo il fallimento del fronte unico in Germania nell'aprile del 1922 alla conferenza di Berlino, fallimento che fu sancito dalla "Pravda", e dopo l'insegnamento della lotta in Italia, non era necessario rifare a ritroso le esperienze già scontate, ma passare, nella misura in cui era possibile, al riarmo della classe e all'offensiva sul fronte borghese. Il Partito Comunista d'Italia era stato il primo a dover subire l'attacco fascista, era stato il primo a dover tentare il fronte unico con quelle forze "socialiste" che a un certo momento firmeranno con il patto di pacificazione il proprio suicidio, ma è rimasto anche il solo ad esprimere nelle Tesi di Roma l'insegnamento che aveva saputo trarre dalla amara situazione oggettiva. Se per il Partito Comunista d'Italia il fronte unico comportava soprattutto azione comune di tutte le categorie organizzate nei sindacati, non significa che nella formulazione delle tesi che sostenevano questa posizione vi fosse un particolare "vizio" sindacalista, ma che era stato impossibile raggiungere le premesse per il fronte unico sul terreno politico con quelle forze dalle quali il giovane partito si era salvato a tempo. Ora, l'avanguardia militante si riprometteva, secondo l'insegnamento di Lenin, di saper trasformare la lotta sindacale in lotta politica che ne è in fondo il suo naturale sviluppo. Staccatosi dal "glorioso" Partito socializza proprio nel 1921 mentre la battagli si andava facendo sempre più dubbiosa ("l'unità sta nella scissione", aveva proclamato il vecchio Maffi a chi col ricatto dell'unità del partito voleva evitare che si concretizzasse lo slancio del proletariato rivoluzionario) il Partito comunista non poteva, così come suggeriva Zinov'ev, solidarizzarsi con la compromessa socialdemocrazia: ascrivere il valore dell'atteggiamento scelto in nome di qualcosa che non fosse la Dittatura del proletariato significava arretrare e convalidare la sconfitta sul terreno ideologico prima, su quello pratico di conseguenza. . Dopo Lenin, l'organizzazione del marxismo non può dividere la sua strada con nessuno, questa era stata la lezione che il proletariato italiano aveva creduto trarre dall'Ottobre russo dove la Rivoluzione si era compiuta nonostante i partiti socialisti. Naturalmente si passò oltre le evidenze. Nessuno volle esaminare oggettivamente quella situazione: si parlò ancora una volta di "ultrasinistrismo" e di "malattia infantile". Ai metallurgici di Torino precipitati negli altoforni, ai contadini della Valle Padana uccisi nei luoghi stessi del loro lavoro, si aggiungeranno ora anche gli operai martirizzati di Essen e di Amburgo. L'avanguardia proletaria del Partito Comunista Tedesco dovrà arretrare colpo per colpo mentre il "fronte" dei disoccupati nel quale la politica dei dirigenti ha voluto isolarla, si sfascerà con la stessa inerzia con la quale si era formato. Slo qua e là gruppo di rivoluzionari raccolti attorno a qualche giornale sanno mettere a frutto queste esperienze negative per la futura nascita del movimento del lavoro.
Le polemiche tra il trozkismo e il partito ufficiale sono estremamente interessanti.
Si tentava di sapere se il regime "democratico" era già fascismo, e se il fascismo, quello vero, avrebbe mai trionfato. Rispondeva la "Rote Fanhe", organo del Partito Comunista Tedesco, che l'anno 1930 segnava il punto limite dell'ascesa del nazismo, da quel momento "logicamente" iniziava la sua decadenza. La socialdemocrazia era il nemico vero, quello che bisognava abbattere. Gli strateghi stalinisti come ieri avevano incolonnato il proletariato a votare nel referendum di Hitler, il quale in questo modo spingeva i suoi tentacoli fin dentro le organizzazioni operaie, puntavano ora tutte tutte le loro artiglierie polemiche nei confronti del Partito socialdemocratico, ma incapaci pertanto di porre un'azione di massa con un sindacato di disoccupati finivano per esaurire le loro scarse cartucce in un gioco sterile di fuochi d'artificio. Il trozkismo era molto più sensibile al pericolo imminente. Ma smarrito il filo che lega una battaglia ad una battaglia, Trozky non seppe esprimere il reale indirizzo della politica di classe nella parola d'ordine di "Dittatura del proletariato". Caduto nel possibilismo, Trozky andava reclamando la formazione di un governo composto dal Partito comunista socialdemocratico, Sozialistiche Arbeiter Partei e i sindacati, aggiungendo in nome, ahimè, dell'unità del partito che venisse reintegrata l'Opposizione di Sinistra nell'organizzazione ufficiale.
La "rivoluzione" di Hitler si compie senza che venga infranto nessuno dei sacrosanti articoli della Costituzione, ma, ed è ancor più doloroso, si compie soprattutto sulle macerie dell'Internazionale di Lenin, mentre Trozky aveva contribuito a sconvolgere l'ideologia marxista nel momento in cui era più necessario salvarla dalla cancrena che l'andava invadendo.
Negli anni successivi, la situazione stessa impone a Trozky di mettere a fuoco i problemi del momento, di "provare" quale fosse la sua capacità di penetrazione nelle vitali questioni della rivoluzione. E qui dobbiamo constatare un nuovo fallimento.
Già pregiudicato da una falsa partenza il trozkismo vivacchiò più o meno male, nel periodo tra le due guerre in ragione dell'incapacità di sviluppare dai princìpi marxisti un programma. E "crisi di programma" significa sempre mancanza di approfondimento dei compiti dell'avanguardia in un periodo storico.
Riguardo al regime interno dell’URSS, Trozky ha sempre insistito sulla questione di abusi personali da parte della burocrazia giustificando la restaurazioni dei privilegi e delle sovrastrutture decadute col sofisma di un carattere "borghese" della ripartizione del prodotto sociale opposto al carattere "socialista" dei rapporti produttivi, dimenticando con questo quanto aveva sostenuto Marx, per il quale il metodo di ripartizione del prodotto è assolutamente inseparabile dal suo modo di produzione. Secondo Trozky, la burocrazia non ci sa offrire tra garanzia di quanto afferma se non citandoci il fatto che la proprietà dei mezzi di produzione è nazionalizzata, dimenticando questa volta che per Lenin era insufficiente che una economia fosse pianificata perché la si potesse considerare socialista. Un'altra "garanzia" la riscontrava nel fatto che la direzione politica dell'URSS era pur sempre rimasta la stessa, non essendo avvenuta nessuna presa del potere da parte della borghesia. Trozky negava insomma un ritorno all'economia borghese, ma nessun marxista avrebbe mai contestargli questa fiducia se non nel senso che, dopo l'azione unificatrice dell'Ottobre, "ritorno" all'economia di sfruttamento significava infine affermazione del capitalismo di Stato.
Solo più tardi Trozky giunse a comprendere la necessità di una nuova direzione rivoluzionaria del proletariato. "Il vecchio partito bolscevico è morto, nessuna forza al mondo può resuscitarlo." Nasce la Quarta Internazionale. Erede di tutti gli errori ideologici di un decennio di analisi difettose, la Quarta Internazionale non riuscirà mai ad acquistare una perfetta autonomia nel mondo opertaio, ma rimarrà fatalmente incatenata alle situazioni dello stalinismo soprattutto perché Trozky nel momento stesso in cui intuisce la necessità di una nuova rivoluzione contro la burocrazia in Russia, insiste sul carattere proletario del regime. I temi di "stato operaio degenerato" nell'apprezzamento del Paese sovietico "difesa incondizionata dell'URSS" fusi contraddittoriamente in un’unica sintesi costituiranno d'ora in avanti la spina dorsale del movimento. Né la fortuna che conseguì presso i circoli intellettuali e d'avanguardia al tempo dei criminali processi di Mosca, durante i quali da accusato principale Trozky seppe trasformarsi in spietato accusatore e nel difensore irriducibile degli uomini del 1917, è sufficiente a farci dimenticare le sue molte esitazioni e i dubbi nei confronti della Seconda Guerra mondiale.
Mentre la disfatta del proletariato andava diventando un fatto sempre più definitivo, Trozky elaborava dei programmi sempre più transitori. La tattica dell'”entrismo", applicata nei riguardi dei partiti riformisti, era giustificata dal fatto che questi partiti messi di fronte alle nuove condizioni di lotta provocate dal fascino erano costretti a battersi. Ma non bisogna dimenticare che i cosiddetti "socialisti" hanno un loro modo di difendersi che in Italia era stato il patto di pacificazione, in Francia sarà l'adesione ai primi governi di Pétain ("vergognosi" solo dopo che ne furono cacciati) e in Inghilterra e in tutto il mondo l'appoggio assoluto ai governi della guerra borghese. Trozky non doveva dimenticare che è anti-marxista il tentativo volontaristico di correggere dall'interno il corso di questi partiti. Con l'entriamo non riusciva ad altro che a creare gravi responsabilità ai militanti che questa tattica avevano seguito. Ma poiché la Quarta Internazionale si era rivelata incapace di premere sul proletariato perché ne uscisse il nuovo partito di classe, e poiché lo stalinismo era ancora ben presente, la fiducia veniva a spostarsi verso le "sinistre socialiste" la cui costante preoccupazione è appunto di solidarizzarsi continuamente con il "centro" e le "destre", e la cui natura non è di carattere rivoluzionario, ma è semplicemente un riflesso delle contraddizioni ineliminabili dei vari strati della borghesia.
D'altra parte seguendo una sua logica, mentre ribadiva la parola d'ordine di "difesa incondizionata dell'URSS" scrisse nel settembre 1939: " la guerra accelera i diversi processi politici. Essa può anche accelerare il processo di rigenerazione rivoluzionaria dell'URSS. Ma può anche accelerare il processo di finale degenerazione."
Il che ci fa supporre che non fosse più perfettamente sicuro della base "socialista" del regime russo.
"Per questa ragione è indispensabile che noi seguiamo attentamente e senza pregiudizi le modifiche che la guerra può introdurre nella vita interna dell'URSS, affinché si possa fare un giusto apprezzamento dei loro ritmi."
Ma il 21 agosto del 1940, colpito da quella stessa mano della guerra che seminava da mesi e mesi la morte nelle case dei lavoratori di tutti i paesi, cadeva l'agitatore che da Brest-Litowsk aveva, voce di milioni di operai e contadini, espresso la condanna con la quale il nuovo mondo della rivoluzione giudicava la borghesia, che non potrà più vivere se non a prezzo di periodici massacri. La nuova e più feroce razione aveva colpito giusto: l'antico cospiratore di Odessa, il giovane teorico che nella Vienna espressionista e Freudiana aveva concepito da Marx la teoria della rivoluzione permanente, il presidente del Soviet rivoluzionario del 1905 era stato eliminato. La borghesia internazionale era stata ben vendicata. Ma l'arma dell'assassino non aveva solo atterrato il compagno che aveva lavorato spalla a spalla con Lenin per l'affermazione della Dittatura proletaria, il nemico della burocrazia e dei suoi rappresentanti, L'infaticabile polemista che aveva difeso la dialettica Marxista dal neo-revisionismo degli intellettuali: l'arma dell'assassino aveva soprattutto spezzato il vero "polmone d'acciaio" che alimentava il movimento della Quarta Internazionale, il cui respiro era diventato di anno in anno sempre più faticoso.
In quanto al "socialismo" russo, come ognuno sa, preferì farsi difendere dal capitale "alleato". La teoria della convivenza del socialismo e del capitalismo aveva trovato a Teheran le sue assisi ufficiali e in Churchill e in Roosvelt i più ardenti sostenitori prima che Stalin nel dopoguerra la definisse come una tesi "marxista". Le parole di incitamento che il vecchio rivoluzionario aveva ancora avuto la forza di proferire durante la sua angosciosa agonia non erano un invito a conservare intatto il capitale da lui lasciato se non nel senso di disperderlo e dimenticarlo per riproporlo quotidianamente nella esperienza. Solo in questo modo si poteva mettere a frutto la fedeltà alla memoria di Trozky.
Invece si continuò a coltivare i soliti difetti ereditari. Se in Russia la burocrazia si andava sempre più definendo come una casta, il regime interno permaneva indiscutibilmente socialista. Abusi da parte dello strato dirigente, indubbiamente, ma niente più. Sarebbe interessante se per gli epigoni di Trozky la guerra stessa, con tutto il suo sanguinoso significato di assalto del capitale nei confronti del proletariato, non fu un ben riuscito tiro da parte di alcuni generali in cerca di decorazione. Dopo che il rullo aveva tutto livellato e aveva tutto ridotto ad un unico denominatore, dai fascisti ai democratici, dai conservatori agli stalinisti, ognuno aveva perduto le proprie caratteristiche particolari per acquistare quelle molto più adatte del tradizionale nemico di classe. Lenin a questo proposito aveva definito esattamente qual era il significato intimo della guerra e la natura dei rapporti che essa creava: "la guerra lega tra loro le stesse potenze belligeranti. La guerra lega gli uni agli altri con catene di ferro, i gruppi belligeranti dei capitalisti, i padroni del regime, i padroni di schiavi della schiavitù capitalista". "un grumo di sangue" non ha mai cessato di essere la vita politica del continente. Da Barcellona a Stalingrado a Berlino ieri, da Atene a Praga a Seul oggi. Contro i chiari concetti di Lenin e le sue nude parole, non vale il caotico vortice di tesi e controtesi che quando non sono contraddittorie tra loro rimangono le stesse, con monotonia, per decenni, al di fuori di ogni legame con la realtà.
Perché è precisamente con questo materiale corrotto che si rappresentano i trotzkisti, dopo aver sostenuto, nel corso del conflitto capitalista, un ben debole internazionalismo proletario condizionato al tema ormai classico di difesa dell'URSS, invece di riprendere la dura ma lucida ed esatta parola di Lenin, che la guerra imperialista deve essere trasformata in guerra civile, portando così un valido, anche se non richiesto aiuto a chi, in Spana ed altrove, era riuscito all'opposto a trasformare la rivoluzione proletaria in guerra imperialista.
Posto di fronte ai nuovi problemi che, con la tregua delle armi, la situazione del dopoguerra aveva trascinato con se, abbiamo visto il trotzkismo dibattersi nelle sue ormai troppe contraddizioni per concludere il suo ciclo di errori in un comodo e sereno adattamento alle posizioni del passato. Inoltre bisogna segnalare una novità del tutto negativa: laddove i sofismi di Trotzky non bastavano più ("dalla dialettica al sofisma" rimane pur sempre la strada di ogni revisionismo, da Kautski a Bordiga), là dove bisognava "ripensare" i motivi fondamentali della vita del proletario, i trotzkisti non hanno trovato meglio che arretrare dalle posizioni del "maestro".
Se durante il travaglioso parto della IV Repubblica borghese di Francia, anche la Quarta Internazionale ha presentato i suoi suggerimenti "costruttivi" ma demagogici quale l'ambizione dell'istituto del Presidente della Repubblica, l'abolizione del Senato, il servizio militare retto dai sindacato ed altri, di fronte alle perenni crisi della stessa, non hanno fatto altro che rinfoderare la vecchia storia del fronte unico, ancora più assurda oggi, in una situazione di così aperto conflitto tra riformisti e stalinisti rappresentanti ognuno di un diverso blocco di interessi che non tarderà a scontrarsi sul tragico terreno della guerra. Uno strano ottimismo fa si che i loro occhi si chiudano su tante cose: sempre pronti a rassicurarci sul carattere proletario di una Russia che se è ancora socialista per metà, per l'altra metà non è capitalista, non fanno dipender la lotta tra i due colossi imperialisti dalle vere ragioni economiche. No, "è la Rivoluzione che continua" pure attraverso le armate "operaie e contadine" di Stalin. Né siam ben certi che non correggeranno questo loro vizio d'origine, dopo che lo stesso Stalin a data 1952 ci ha rassicurati su quale genere di socialismo si stia vivendo oggi in URSS. Inoltre hanno restituito una funzione ai partiti stalinisti dei Paesi occidentali. Non ci troviamo più davanti al "flagello dell'URSS e lebbra del movimento del movimento operaio internazionale" (Trotzky), ma a un "riformismo di nuovo tipo". In contraddizione con Trotzky stesso, che aveva appunto creato la Quarta Internazionale perché non c'era più nulla da salvare della Terza e dei partiti da essa dipendenti, recentemente si è sostenuto che "nessuno può discutere oggi ciò che fanno gli stalinisti". Sembra che siano applicati ad offrire "l'altra guancia" all'assalto dell'inganno ideologico dei nemici della rivoluzione, tentando di correggere lo stalinismo dai propri difetti, di salvarlo insomma da sé stesso.
Il trotzkismo oggi non ha più molto da difendere, se si esclude la memoria del "vecchio", e la Russia, ma quella "incondizionatamente". Eppure questa stessa "difesa" soffrì un grave colpo dell'affare jugoslavo. Tito si vide preferire dalla Quarta Internazionale, alla quale non sembrava vero di potersi finalmente inserire nello stalinismo così a buon mercato. Ma a sua volta Tito preferì altre tutele, nonostante gli ammonimenti dei teorici e dei moralisti. Fu durante lo svolgimento di questo affare, che il trotzkismo, entrato direttamente in causa in difesa della controrivoluzione, rivelò clamorosamente di essere uno dei puntelli, e non importa se dei più fradici, di quella concezione e di quella prassi di cui vorrebbe ergersi a censore. E non era, del resto, a prima volta.
Dopo aver saccheggiato il marxismo, l'insegnamento di dieci anni di lotte operaie, e Trotzky stesso, si scoprì in un pericolo più vicino a noi che, dato il "corso centrista di sinistra progressivo" al quale i partiti riformisti e stalinisti erano sottoposti, ci si poteva inserire di nuovo negli stessi per svolgervi un’opera "pedagogica".
Mentre la linea politica del partito russo e dei suoi confratelli non subisce mai delle svolte a "sinistra" o a "destra", ma rimane costantemente la linea politica dell'opportunismo, la direzione trotzkista confuse l'evoluzione nel senso della guerra con un preteso "gauchissement". La quale tesi stupì alquanto la base stessa del movimento. (bisogna ricordare che la Quarta Internazionale è forse il movimento politico nel quale si operano più scissioni. Per dissensi sul problema dell'URSS ne uscii nel dopoguerra la stessa vedova Trotzky.)
Ma dopo che furono appianate le divergenze la proposta passò, e certo fu applicata fino in fondo. I teorici non mancheranno di raccontarci il risultato della nuova esperienza con la stessa esperienza con cui nello stesso tempo che, tirando le somme delle esperienze entriate del passato e mentre si doveva constatare un fallimento, si lasciava aperta una porta alle nuove speranze.
Il tono apparentemente deciso e sicuro delle frasi che seguono, nasconde soprattutto il vuoto e il disagio di una assurda presa di posizione che conosce fin dall'inizio i propri penosi limiti:
"noi entriamo [nei partiti socialisti e stalinisti] per restarci lungamente, basandoci sulla notevolissima possibilità che esiste di vedere questi partiti, posti nelle nuove condizioni, sviluppare tendenze centriste che dirigeranno tutta una tappa della radicalizzazione delle masse e del processo oggettivo rivoluzionario nei loro rispettivi Paesi." e ancora:
"la burocrazia sovietica è ridotta alla lotta finale e decisiva; Il movimento stalinista è in ogni Paese preso tra queste realtà e le reazioni delle masse di fronte alla crisi permanente del capitalismo. In queste condizioni nuove, che la burocrazia sovietica non ha creato volontariamente ma che è obbligata a subire, lo stalinismo fa riapparire delle tendenze centriste che vinceranno sull'opportunismo di desta". Poiché, "ciò che noi sappiamo, ciò che noi dobbiamo sapere è che l'essenziale del partito rivoluzionario di domani uscirà da queste tendenze e che questo si produrrà in ogni modo attraverso una rottura con la burocrazia sovietica. Sotto quale forma esatta noi possiamo ora predire."
Se noi diciamo che sarà attraverso la lotta di classe e sotto la guida dell'organizzazione marxista che il proletariato non mancherà di avere nel momento in cui si verificherà lo scontro decisivo, pensiamo di non cadere nella critica di questi "pratici" ad ogni costo, che vogliono nello stesso tempo che dedicarsi a grandi cose, rifiutarsi ai compiti veri del rivoluzionario e cioè contribuire efficacemente al riarmo della classe, magari fuori dalle organizzazioni di massa, ma nell'esperienza quotidiana sotto l'indirizzo dell'ideologia del partito di Lenin.
Ma al di fuori di ogni pietà, che ci sarà concessa solo "dopo" la Rivoluzione, è rendere un cattivo servizio alla memoria degli operai e degli intellettuali trotzkisti caduti, sostenere che: "per poter reintegrare i sindacati della Confèrèdation Gènèrale du Travail quando se ne è stati esclusi, o per entrare in un organismo sindacale unitario qualsiasi, non si esiterà se necessario a sacrificare de "l'Unite" e della "Veritè", e mettere decisamente in secondo piano la propria qualità di trotzkista se le direzioni burocratiche lo esigono e se noi stessi arriviamo alla conclusione che è questa la condizione per facilitare la nostra integrazione". Le quali parole firmano l'atto di capitolazione di fronte allo stalinismo.
Il trotzkismo, sorto nel periodo di estrema decadenza del capitalismo, rappresenta il tentativo di ridare al proletariato, rimasto allo scoperto dopo la caduta delle speranze dell'anno 1917, l'arma di combattimento per la sua lotta. Tentativo legittimo ma abortito.
Poiché oltre l'equivoco, al di là del giro vorticoso, dove comincia veramente l'arido terreno che battuto oggi da pochi militanti sarà domani di tutta la classe, la Quarta Internazionale ha dimostrato, da sempre, di non sapere andare.
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L’importanza dell’oggettività e della soggettività all’interno della critica musicale
La dicotomia oggettivo/soggettivo in una cosa così empirica come la fruizione di un opera in campo artistico (in questo caso parliamo di musica) è un po’ difficile da affrontare.
“La musica è arte e scienza allo stesso tempo.
Perciò, al lo stesso tempo, deve essere colta emozionalmente e compresa intellettualmente; e anche per la musica, come per ogni arte o scienza, non esistono scorciatoie che facciano progredire nella conoscenza.”
L'amatore che si diletta ascoltando la musica senza capirne il linguaggio è come il turista che passa le vacanze all'estero e si accontenta di godersi il paesaggio, i gesti degli abitanti, il suono delle loro voci, senza capire neppure una parola di ciò che essi dicono.
Egli sente, ma non è in grado di comprendere. Anche leggerete scrupolosamente libri puramente teorici non farà di voi dei musicisti né vi insegnerà a scrivere la musica; come in ogni lingua, anche una scorrevolezza puramente grammaticale non si può ottenere che a prezzo di molti anni di esercizio.
Giungerete cosí, alla stessa situazione del turista che conosce una lingua in modo tale da consentirgli, quando si trovi nel paese in cui è parlata, di decifrare i giornali locali, intendere un po' di ciò che si svolge intorno a lui, avere qualche idea della topografia e della struttura sociale della nazione, ed esprimersi con gli abitanti senza far la figura di un muto.
Bisognerebbe capire che l'esistenza stessa dell'opera d'arte presuppone che in essa ci sia: ciò che l'artista voleva metterci, ciò che l'artista inconsciamente ci ha messo e ciò che te fruitore vedi.
Senza peraltro nessuna possibilità di separare le tre cose.
Inoltre, come in molti libri di critica musicale viene detto, la critica va sempre contestualizzata a partire dalle proprie basi con le quali si percepisce la musica, se uno è appassionato di virtuosissimo ovviamente guarderà più al lato esecutivo che non compositivo, chi è appassionato di Free Jazz non guarderà alla cacofonia (preciso che definire “cacofonico” il Free Jazz è una semplificazione quasi obbligata in questo specifico contesto, perché la cacofonia è la sovrapposizione di cellule melodiche che non hanno nulla a che fare l'una con l'altra e il più delle è volte accidentale, mentre il Free Jazz si basa su tutto il contrario, ovvero sulla collettività dei musicisti e sull'interazione fra essi, che poi risultino melodie dissonanti, disarmoniche e senza tempo è un altro conto, ma di certo non è cacofonico) ma a come interloquiscono i vari strumenti, idem per il Punk, la No Wave, si guardano anche altre caratteristiche come “quali sono i riferimenti presi dall’artista, e quando esso è riuscito a riformulare le influenze?”.
Cosa che però per esempio non si può fare con artisti come John Cage.
Citando una parte de “Il silenzio non esiste” del critico americano Kyle Gann dedicata al controverso, illuminante e sorprendente brano 4’33”, che ha segnato la storia di John Cage e l'idea di musica di tutto il Novecento: “L'evento più famoso nella storia delle stagioni concertistiche alla Maverick si tenne la sera del 29 Agosto, quando pianista David Tudor si sedette al pianoforte sul piccolo palco di le rialzato, chiuse il coperchio della tastiera e guardo un cronometro. Per due volte nei successivi quattro minuti alzò il coperchio e lo riabbassò prestando attenzione a non fare rumore, benché girasse anche le pagine dello spartito, che erano prive di note. Dopo che furono passati quattro minuti e trentatre secondi, Tudor si alzò per ricevere gli applausi e fu cosi che venne eseguita per la prima volta una delle opere musicali più controverse, illuminanti, sorprendenti, famigerate, imbarazzanti e in fluenti dai tempi di La sagra della primavera di Igor Stravinskij”.
Comunque sia, 4’33” ha un regolare spartito di sei pagine orizzontali, i cui il tempo-spazio orizzontale di ciascun movimento viene segnato da linee verticali che appaiono a intervalli proporzionali al passaggio del tempo.
Cage concepisce quel nuovo pezzo come qualsiasi altro brano e lo scrive "nota per nota".
“L'ho compo sto come un pezzo di musica, eccetto che non c'erano suoni solo durate".
Non rinuncia alla struttura e lo divide in tre parti, anche per convincere il pubblicona riconoscerlo come un lavoro musicale: "Un periodo di silenzio non articolato sarebbe presumibilmente sembrato troppo amorfo”
Più tardi confesserà di avere usato i tarocchi per decidere le durate, anziché lanciare le abituali monetine dell'I Ching; e qualcuno avanzerà il sospetto che forse il caso non è stato cosi casuale se la somma che scaturisce alla fine (30" + 2'23" + 1’40" = 4’33") si avvicina quasi perfettamente al format buono per la Muzak che Cage aveva adombrato in una conferenza.
Ennesimo bias da eliminare:
Non si pensi che il nostro sistema tonale di scale maggiori e minori sia l'apice dell'evoluzione musicale.
Nell'arte, un progresso inteso come miglioramento non esiste.
La musica che conosciamo meglio, in realtà non è altro che il prodotto della tecnica e dello stile di poche centinaia d'anni; una musica che esce da questi confini perché piú recente o più antica, può avere lo stesso valore di qualsiasi composizione scritta da Mozart.
A partire dal 1950 il mondo della musica si è trovato di fronte una sfida enorme: la ricerca di una teoria della musica razionale ed oggettiva che potesse rimpiazzare il sistema della tonalità convenzionale, ormai ritenuto limitato e inadeguato.
Si era capito che una qualsiasi teoria della musica avrebbe dovuto rendere conto al suo interno di opposizioni sia culturali che teoriche, come quelle tra musica europea e musica non europea, tra musica scritta e orale, tra musica esistente musica immaginabile.
Nel numero di compositori del dopoguerra che hanno affrontato questa sfida, nessuno è più qualificato di Stockhausen per poter articolare i temi filosofici e pratici che stanno alla base della musica d'avanguardia.
II suo straordinario successo è prima di tutto quello di aver dimostrato sia con i suoi scritti che con le sue composizioni che il fondamento teorico della nuova musica, sia essa seriale, elettronica, statistica o indeterminata, può essere efficace, razionale, coerente e universale.
Schönberg sosteneva che non esistono definizioni dei concetti di “melodia” e di “melodico” che vadano piú in là di un'estetica da quattro soldi, e quindi la composizione delle melodie dipende esclusivamente dall'ispirazione, dalla logica, dal senso formale e dalla cultura musicale.
Nel periodo contrappuntistico, i compositori si trovavano in una situazione analoga per quanto riguardava l'armonia.
Le regole danno solo delle avvertenze “negative”, cioè dicono quello che non va fatto, e anche i compositori di quel tempo impararono quel che dovevano fare solo per mezzo dell'ispirazione.
Questo perché la bellezza, in quanto concetto indefinito, è assolutamente inutile come base di valutazione estetica; e lo stesso vale per il sentimento.
Una Gefüblsästhetik (estetica del sentimento, come la chiamava Schönberg) di questo genere ci riporterebbe all'insufficienza di un'estetica antiquata che paragonai suoni al movimento delle stelle e fa derivare vizi e virtú dalle combinazioni dei suoni.
Esiste comunque la musica oggettivamente importante storicamente, l'influenza è un fatto storico, quantificabile e misurabile.
Però sarebbe falso dire che la musica è bella solo perché storicamente importante questo non ti renderebbe un appassionato di musica ma uno storico.
Ci sono dischi che sono storicamente importanti perché hanno creato un modo nuovo di intendere o di costruire o concepire la musica e quindi inevitabilmente gente dopo di loro ha riutilizzato gli "assiomi" da cui i primi erano partiti (Velvet Underground su tutti nel Rock), ma non è che quel disco è bello perché è influente, è bello perché ha una originalità e creatività che va oltre gli schemi. Questo non è un assunto universale: anche i Queen per esempio sono influenti, che pur non avendo davvero inventato cose nuove sono stati popolari quindi per una basilare legge statistica hanno influenzato tanta gente.
Ecco perché ritengo che ridurre tutta questo universo a solo “la musica è solo oggettiva” o “la musica è solo soggettiva” rende abbastanza sterile la discussione, impedendo uno svilupparsi di una coscienza personale durante lo scambio di argomentazioni.
Concludo con una citazione - l’ennesima- sapendo che in realtà tutto ciò che ho detto sia terribilmente riduttivo e tiene conto di molti altri aspetti e dilemmi filosofico-musicologici che sono stati affrontati nei secoli, più avanti magari amplierò il discorso
Gottfried Wilhelm Leibniz a Christian Goldbach, lettera del 1706:
“La musica è un occulto esercizio aritmetico dell'anima, che non sa di numerare.
Anche se non sa di numerare, l'anima avverte l'effetto di questo calcolo insensibile, ossia il diletto che viene dalle consonanze e la molestia delle dissonanze.
Il piacere nasce infatti da molte percezioni insensibili.
Coloro che attribuiscono all'anima solo le operazioni di cui è conscia, in verità intendono male”
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Celestino Cominale (1722-1785), l'uggianese che osò sfidare Newton
di Armando Polito
Isaac Newton in una stampa del XIX secolo (disegno di Joseph Théodore Richomme (1785-1849), incisione di Ephraïm Conquy (1809-1843) e Celestino Cominale in una incisione di P. Iore tratta da Domenico Martuscelli (a cura di), Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, tomo IX, Gervasi, Napoli, 1822.
Probabilmente le giovani generazioni, salentine e non, di Newton (1642-1726) non conoscono nemmeno il famoso aneddoto della mela, e non per colpa loro …
Taglio la testa al toro ricordando solo che Isacco Newton godette ai suoi tempi di tanto prestigio che, riferito a lui, si può benissimo usare l’ipse dixit (l’ha detto lui), che aveva sancito prima l’autorità di Pitagora (VI-V secolo a. C.) e, poi, nel Medioevo, quella di Aristotele (IV secolo a. C.).
Forse, e ripeto forse …, la scienza è l’unico campo in cui il successo non suscita invidia e, con l’invidia, l’antipatia. Tutti, o quasi tutti, si rassegnano all’ipse dixit e si guardano bene dal dire la loro, anche quando, magari, sono attrezzati a farlo.
Con Newton, però, Celestino Cominale non si tirò indietro, attrezzato com’era, anche caratterialmente.
Nato a Uggiano la Chiesa (LE), Aveva iniziato gli studi letterari e filosofici a Lecce nel Collegio dei Padri Gesuiti. Continuò poi con la fisica, la matematica, la botanica, l’astronomia e la medicina, studi che perfezionò a Napoli. Esercitò la professione di medico con maestria tanto da essere chiamato anche a Roma per ragioni professionali. Insegnò nelle Università di Roma, Bologna, Padova e Pisa. Nel 1770 ritornò ad Uggiano continuando i suoi studi fino alla morte.
La poliedricità del suo ingegno e l’ampio spettro degli studi fatti si riflettono nelle sue pubblicazioni:
Anti-newtonianismi in quattro tomi pubblicati da Benedetto Gessari a Napoli nel 1754, nel 1756, nel 1769 e nel 1770.
Historia physico-medica epidemiae neapolitanae anni MDCCLXIV, Francesco Morello, Napoli, 1764
Nel frontespizio della prima, sulla quale torneremo subito, si legge Anti-newtonianismi pars prima, in qua Newtoni de coloribus sistema evertitur, et nova de coloribus theoria luculentissimis experimentis demonstratur opera ac studio Caelestini Cominale m(edicinae) D(octoris) in Regio Archi-gymnasio Neapolitano Philosophiae Professoris (Prima parte dell’Antinewtonianismo, nella quale a Newton in base alla geometria viene demolito a partire dai propri principi il sistema sui colori e una nuova teoria sui colori viene dimostrata con eccellenti esempi dall’opera e dallo studio di Celestino Cominale Dottore di Medicina, Professore di Filosofia nel Regio Archiginnasio napoletano).
In quello della seconda: Historia Phisico-medica e pidemiae neapolitanae an(no) MDCCLXIV opera ac studio Caelestini Cominale in Regio Archi-gymnasio neapolitano Philosophiae, et Matheseos Professoris elucubrata ( Storia fisico-medica dell’epidemia napoletana nell’anno 1764 elaborata ad opera e cura di Celestino Cominale Professore di Filosofia e Matematica nel Regio Archiginnasio napoletano).
Il lettore avrà già capito che connessa col titolo di questo post è la prima opera nella quale già dal titolo traspare una coraggiosa vis polemica nei confronti delle teorie dello scienziato inglese.
L’ugentino appartiene alla ristrettissima schiera di antinewtoniani1, ma è l’unico a dichiararlo senza mezzi termini a partire dal titolo. Dovette vedersela, fra l’altro, anche con un conterraneo, Oronzo Amorosi di Galatone, newtoniano sfegatato, come all’epoca erano, l’ho già detto, i più. Dello scontro tra i due nulla sapremmo, se nel 1821 Vincenzo Lillo non avesse copiato l’autografo del galatonese e se Gabriella Guerrieri non ne avesse curato la pubblicazione (titolo: Gara letteraria inedita tra i signori Oronzo Amorosi di Galatone e Celestino Cominale di Uggiano della Chiesa copiata dall’autografo di esso Amorosi da Vincenzo Lillo, 1821) per i tipi di Conte a Lecce nel 1999.
Bisogna dire, però, che pur nella marea di critiche2 al nostro basate sulla cieca fiducia nell’Anglo che tanta ala vi stese (Ugo Foscolo, Dei sepolcri, 163), si levò qualche voce più prudente, invocando per lui una sorta di beneficio d’inventario.
La più autorevole fu senz’altro quella dell’abate Giovanni Antonio Battarra3 di Rimini in una lettera del 22 luglio 16704: … Vengo in secondo luogo a dirvi, come nel Settembre del 1754 io mi ritrovava una mattina in Cagli presso Monsig. Bertocci Vescovo degnissimo di quella Città, e che, a dirvela senza adulazione, è uno di quei Vescovi , che mi piace, perché oltre molte belle sue doti , ha quella di esser molto portato per la buona letteratura, e stima molto le persone di lettere. Discorrendo pertanto insieme di cose erudite, in compagnia dell’Abate Agostini mio amicissimo, Prevosto di quella Cattedrale, presso del quale io mi trattenni alcuni giorni, esso Monsignore mi comunicò un articolo delle Novelle Letterarie di Venezia5, in cui si dava ragguaglio, che un certo Dottor Celestino Cominale Lettor di Fisica nell’Università di Napoli aveva pubblicato il primo Tomo d’una sua Opera intitolata Anti-Newtonianismi Pars prima, in qua Newtoni de Coloribus systema ex propriis principis geometrice evertitur, et nova de Coloribus historia luculentissimis experimentis demonstratur, etc.
In questo articolo si riferivano tutti i Capitoli dell’opera, dove con mia maraviglia veniva attaccato il Newton nelle dottrine più sode e più sublimi, e corroborate anche colle più decisive sperienze, che ha nell’opere sue. A tale avviso mi voltai a quel Prelato sorridendo e dissi: -Potrebbe il Cominale aver addentato un osso più duro de’ suoi denti? -. Due anni dopo l’Autore pubblicò la seconda Parte di questa sua opera spiritosa, e con un cambio della mia operetta de’Funghi6 feci acquisto fra altri libri anche di quest’opera da me cotanto desiderata. La lessi, e rilessi, con attenzione; e se debbo dirvela schietta, è vero che l’Autore si conosce che è un giovane intraprendente e pien di fuoco, e un po’ troppo Metafisico, che non lascia nemmeno sulle spalle del Newton fermar le mosche; tuttavia vi ho lette molte buone cose, et quidem7 molto ben ragionate, e se si fosse contentato di distruggere soltanto, e di non edificare altrimenti, avrebbe fatto miglior colpo. Io qui mi protesto in quanto al merito della causa di parlare in aria, perciocché, come sapete, io mi trovo in una Città, che è senza presidii di macchine fisiche,e non ho potuto aver il contento di rifar quelle sperienze, che son contrarie alle conclusioni del Newton. Ho tentato di farle rifare nelle più culte Università d’Italia, e toltone una, che a stento mi è riuscito di avere per la parte di Bologna, per cui il Cominale parmi che vada al di sotto, io non ho potuto aver altro. Anzi consultati vari Lettori primari di Fisica di queste più celebri Università d’Italia per opera de’ miei amici, quattro anni dopo che l’opera del Cominale era alle stampe, chi mi facea dire che il Cominale non l’avea incentrata, chi mi dicea che, avendo letto l’uno e l’altro Autore, non cessava d’esser Newtoiiano, e chi perfino ebbe il coraggio di asserire che ancorché le sperienze del Cominale fossero vere, tanto la dottrina del Newton non sarebbe a terra; ma a certi dubbi proposti a questa assertiva, da due anni in qua, ho ancora d’aver risposta.
Ora dico io: la nostra Italia, che è la madre della Letteratura Europea, che bella figura farà presso gli Oltramontani nel lasciar correre quest’opera ingiudicata? Io ho sempre creduto che fosse principalmente dovere de’ Professori delle Università nostre esaminare somiglievol causa, e riconoscendola trattata con imposture, e vaniloqui, castigarne l’Autore con la dovuta censura; e se il Sig. Cominale è veridico nelle sue sperienze, e non sono soggette a critica, perché non inalzarlo all’onor della palma8 sopra un Eroe, le cui dottrine vengono tanto venerate da tutto il mondo letterario? Vedete un poco di risvegliare questa premura in codesti vostri Fisici, che son quasi i soli, che mi restano da stimolare in Italia. Addio.
Ci fu pure chi stigmatizzò in versi l’audacia di Celestino. Di seguito un sonetto del salentino Leonardo Antonio Forleo9, con cui chiudo questo lavoro.
– L’Anglo paventia – ardito uomb dicea
– che leggi imporre all’universo ardisce:
vedrà, vedrà se il labbro mio mentisce
e il gran valor di mia sublime idea -.
– Ferma! – disse ragion. Ma quei volgea
la penna incauta, che sistemi ordisce;
ma credendo ferir ei non ferisce,
creduto vincitor vinto cadea.
Quest’inutili assalti espose al riso:
segni di suo valor furono allora,
ma d’un valor dalla ragion diviso.
Musac abbenchéd perditore l’onora,
che ad Annibale ugual vinto, e conquisof,
nelle perditeg sue fu grande ancora.
a Newton tema
b Celestino Cominale
c la poesia
d sebbene
e perdente
f conquistato, sconfitto
g sconfitte
__________
1 Prima di lui Giovanni Rizzetti aveva pubblicato il De luminibus affectionibus (Gli stati della luce) per i tipi di Bergamo a Travisio e di Pavino a Venezia nel 1726; dopo di lui Ignazio Gajone il Nuovo sistema fisico universale per i tipi della Stamperia Raimondiana a Napoli nel 1779 e Tommaso Fasano l’Esame della compenetrabilità della luce esposto in dialoghi, per i tipi di Raimondi a Napoli nel 1870. Una recensione dell’opera del Fasano è in Efemeridi letterarie di Roma, tomo IX, Zempel, Roma, 1780, pp. 299-301, dove alla fine si legge: Ci giova sperare che la nuova Reale Accademia delle scienze dissiperà finalmente tutti questi filosofici sogni, de’ quali sembra che siansi un po’ troppo finora pasciuti i belli, e vivaci, ma alcune volte un po’ troppo fervidi ingegni Partenopei, e che farà un po’ meglio rispettare nell’avvenire le sublimi scoperte dell’immortale Newtono (sic), troppo indegnamente state finora attaccate dall’Anti-Newtonianismo del Sig. Cominale, dal Nuovo Sistema Fisico del Sig. Gajone, dalla nuova penetrabilità della luce, e da altrettali filosofiche stravaganze.
Solo il Rizzetti era stato difeso a spada tratta dalla voce isolata di Iacopo Riccati in due sue lunghe lettere (Opere del conte Jacopo Riccati, Rocchi, Lucca, 1765, pp. 109-122).
2 In Storia letteraria d’Italia, Remondini, Modena, 1757, v. X, le pp. 143-153 sono dedicate ad un’analitica recensione dell’opera del Cominale. Fin dall’inizio appare chiara la posizione decisamente newtoniana: Noi ci congratuliamo col dotto Professore del Collegio romano [Carlo Benvenuti, convinto newtoniano, autore di Synopsis physicae generalis, e di De lumine dissertatio physica usciti entrambi per i tipi di Antonio de’ Rossi a Roma nel 1754], a cui però non è ne’ sentimenti a Newton favorevoli conforme un professore di Napoli, il quale, anziché ammirare e seguire il Newton, impugnalo con tutte le forze sue. Seguono gli estremi bibliografici della pubblicazione del Cominale del 1754 e, punto per punto, la contrapposizione tra le tesi del Newton e quelle del Cominale (con prevalenza assoluta delle prime ). Una nota (la 37 alle pp. 152-153), tuttavia, costituisce una sorta di riconoscimento delle potenziali (se indirizzate diversamente …) capacità del nostro: Preghiamo per ultimo il Nostro Autore che non voglia offendersi, se noi con filosofica libertà abbiamo alcune cose nel suo libro notate, e diciamo ingenuamente, essere presso noi di maggior peso le dottrine dei Newtoniani, che le sue impugnazioni, benché non siamo tra quelli, che credono impossibili gli errori del Newton. Se non altro varranno a meglio rischiarare la verità, e a dare al fervido ingegno del Nostro Autore campo d’esercitarsi. E Celestino nella prefazione della terza parte dei suoi Anti-newtonianismi (Morelli, Napoli, 1769) replicò allo Zaccaria (autore della Storia insieme con Leonardo Ximenes, Domenico Troili e Gioacchino Gabardi) dicendo che egli non poteva ergersi a giudice in questa materia e che non aveva letto neppure i titoli delle sue opere.
3 (1714-1789) Naturalista micologo, autore di Fungorum agri Ariminensis historia, Ballante, Faenza, 1755; Pratica agraria distribuita in vari dialoghi,Casaletti, Roma, 1778; Naturalis historiae elementa, Marsonerio, Rimini, 1789.
4 In Novelle letterarie pubblicate in Firenze l’anno MDCCLX, Albizzini, Firenze, 1760, tomo XXI, colonne 570-573.
5 Novelle della repubblica letteraria per l’anno MDCCLV, Occhi, Venezia, 1755, pp. 260-263. Fra l’altro vi si legge: Se tanto romore fece il nuovo sistema Neutoniano circa la luce ed i colori, non minor grido ottener dovrebbe la nuova confutazione data al medesimo dal Sig. Cominale, il quale nulla paventando la gran turba de’ ciechi seguaci dell’Inglese Filosofo, si protesta di atterrar colle stesse macchine o arme Neutoniane il preteso sistema de’ Colori.
6 È la prima opera citata nella nota n. 2.
7 certamente
8 vittoria.
9 Era nato a Francavilla Fontana (BR). Il sonetto è in Vari ritratti poetici storici critici di alcuni moderni uomini di lettere sul gusto di Agatopisto Cromaziano e per servire di prosieguo all’opera del medesimo di Leonardo Antonio Forleo, Raimondi, Napoli, 1816, p. 32. Agatopisto Cromaziano è il nome pastorale del monaco celestino Appiano Bonafede che fu socio dell’accademia romana dell’Arcadia a partire dal 1791. Il Forleo, che era socio dell’Accademia Pontaniana di Napoli, fu autore prolificissimo. Si riportano qui solo alcune delle altre pubblicazioni: Amenità dell’etica, Rusconi, Napoli, 1827; 1827; Ragionamento critico intorno alla moderna comedia, Rusconi, Napoli, 1830; La lira Iapigia, Società Filomatica, Napoli, 1831; I politici, Cataneo, Napoli, 1832; Il manoscritto di Sterne, Cataneo, Napoli, 1832; Manfredi, Rusconi, Napoli, 1833; Certamen ad cathedram archeologiae, poesis Romamaeque eloquentiae in Regio Neapolitano Archigymnasio obtinandam perfectum, Russo, Foggia, 1834; Il Colombo, ovvero l’America ritrovata, Russo, Foggia, 1834; La statua del grande, Russo, Foggia, 1835; Il racconto di una vedova, Agianese, Lecce, 1836; L’arpa cristiana, Agianese, Lecce, 1839; Cause e ragioni che fanno classico il poema di Dante, Cannone, Bari, 1842; Liceo dantesco, Petruzzelli, Bari,1844; Napoli nel XVI secolo. S. Sebastiano, Migliaccio, Cosenza, 1846.
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Dominique Venner
PER UNA CRITICA POSITIVA
scritti di lotta per i militanti
“Per un critica positiva” è un vero e proprio manuale del rivoluzionario: per molti, ancora oggi, rappresenta il “Che fare?” della galassia identitaria.
Dominique Venner lo scrisse in carcere, con il preciso intento di offrire una strategia operativa ai tanti militanti francesi che credevano nella svolta nazionalista europea: un’opera essenziale e completa, scritta con il linguaggio asciutto e diretto di chi si è formato nell’attivismo di strada e nella guerra d’Algeria.
Nel testo, impreziosito dal saggio introduttivo di Maurizio Rossi, l’analisi storica si mescola alla lucidità pragmatica: sono passate in rassegna tutte le esperienze rivoluzionarie della storia - da quella fascista a quella leninista, da quella nazional-socialista a quella maoista - al fine di elaborare un’efficace teoria della lotta e una nuova coscienza del soldato politico.
I riferimenti sono netti e qualificanti: il richiamo alla disciplina e alla tenuta interiore, la centralità della Formazione e della dottrina ideologica, l’urgenza di costruire un’organizzazione strutturata ed efficiente, la volontà di edificare una Comunità organica di popolo. Orientamenti profondi e ancora attualissimi, che indagano e colpiscono le manchevolezze di un’area “nazionale” impreparata e improvvisata: il rischio del tribalismo e della frammentazione, l’assenza di Capi e di regole, il persistere di atteggiamenti caricaturali e di miti incapacitanti, la cedevolezza dinanzi alle lusinghe e alla repressione del sistema.
Venner suggerisce una Via, oltre la palude delle illusioni democratiche, dei dogmi progressisti e delle tentazioni liberal-capitaliste: il riscatto della Civiltà europea, forte di un umanesimo virile, di un ordine millenario e di una terribile volontà di riconquista.
Editore: Passaggio al Bosco Edizioni
Anno: 2018
Collana: Agoghè
Pagine: 110
Formato: 12 x 16,5
Legatura: Brossura
Prezzo: 10 euro
Isbn: 978-88-85574-12-0
INFORMAZIONI E ACQUISTO:
https://www.passaggioalbosco.it/prodotto/venner-per-una-critica-positiva/
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Dugin e la "Quarta Teoria Politica": l'ideologia illiberale russa che spopola in Occidente e giustifica l'invasione dell'Ucraina
Chi critica l’accostamento tra la crisi nei rapporti tra Russia e Occidente, culminata nel conflitto in Ucraina, con la Guerra Fredda sostiene che la situazione attuale non abbia la forma di un conflitto tra due blocchi ideologici distinti e contrapposti. Si tratta di una conclusione affrettata e a mio avviso molto superficiale, che ignora la realtà e gli effetti di decenni di penetrazione nella società e nel sistema politico-militare russo di un apparato ideologico e pseudo-religioso chiamato Neo-Euroasianesmo. Il rischio principale nel non comprendere la dimensione ideologica della crisi è quello di guardare all’invasione dell’Ucraina come una mera guerra territoriale ed essere impreparati per gli scenari futuri che non potranno che vedere un aumento della tensione dei rapporti tra Occidente e Russia.
Nella sua versione originale, l’Euroasianesimo fu un movimento culturale e politico fondato sull’idea che la civiltà russa non fosse né europea né asiatica, ma piuttosto una civiltà euroasiatica a sé stante. Sviluppatosi negli anni ’20 del 1900, l’Euroasianesimo sostenne la rivoluzione bolscevica, ma non il suo obiettivo di realizzare nel paese il comunismo, vedendo l’Unione Sovietica unicamente come una tappa nel processo di ricostruzione dell’identità nazionale e imperiale russa che riflettesse il carattere unico della sua situazione geopolitica.
In seguito allo scioglimento dell’URSS, l’Euroasianesimo entrò in una fase pragmatica, abbracciando l’idea di costituire delle organizzazioni internazionali sul modello di quelle già esistenti in Europa e Nord-America e la cui funzione era di aumentare i rapporti tra Russia e Oriente, con particolare attenzione alla Cina. Tra queste vale la pena di menzionare l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e l’Unione Euroasiatica.
Unitamente a questa sua versione pragmatica, l’Euroasianesimo manteneva però una visione mistica. Il suo maggior esponente è il fondatore del Neo-Euroasianesimo, Aleksandr Gelyevich Dugin. Il filosofo politico, nato intellettualmente nel solco della corrente mistica e noepagana dell’Ortodossia cristiana moscovita, è ben conosciuto anche in Italia grazie ai suoi collegamenti con la cosiddetta “Lobby Nera” costituita da gruppi identitari e tradizionalisti di estema destra. La versione dughiniana dell’Euroasianesimo, detta anche Quarta Teoria Politica, è una forma di ideologia neo-fascista il cui progetto politico consiste nel ricostruire un Impero Eurasiatico totalitario, dominato dalla Russia, che si contrapponga agli Stati Uniti e dai suoi alleati atlantisti. Secondo Dugin, nella visione escatologica del movimento che abbonda di riferimenti biblici l’inevitabile conflitto tra i due blocchi finirebbe per dare vita a una nuova “età dell’oro dell’illiberalismo politico e culturale globale”, promuovendo un’era di pace universale e di riaffermazione dei principi religiosi, tradizionali, di convivenza tra gli uomini.
Non può dunque passare inosservato il fatto che Dugin consideri l’attuale conflitto ucraino come l’inizio della fase bellica del “confronto contro il globalismo come fenomeno planetario integrale”. Un conflitto che il filosofo ritiene essere sia geopolitico che ideologico e che vede essere una vittoria in tutti i paesi del mondo, inclusi Europa e Stati Uniti, di tutte le forze da lui definite come alternative, sia di destra che di sinistra, creando le condizioni per una nuova multipolarità. Infatti, nella visione Neo-Euroasiatica, come fu nella visione ideologica comunista, la Russia viene concepita come una civiltà destinata a salvare il mondo dal neoliberismo, riportando l’Occidente a riabbracciare le proprie radici tradizionali greco-romane, cristiane, bizantine, oggi incarnate dalla Russia in quanto erede sia dell’Impero Romano che del Sacro Romano Impero. Mosca incarnerebbe così l’eredità imperiare di Roma e conseguentemente il suo destino di grande unificatrice e civilizzatrice.
Ma quanto è diffusa e influente questa visione nel contesto del governo russo? Nel 1997 Dugin pubblicò un volume dal titolo “I fondamenti della geopolitica: il futuro geopolitico della Russia” che esercitò fin da subito un’influenza significativa sulle élite militari e di politica estera del paese diventanto ben presto uno dei libri di testo nelle accademie militari e di polizia del paese, anche grazie al supporto del Generale Nikolai Klokotov. Grazie all’assenza di riferimenti esoterici e mistici, presenti in molte delle sue opere precedenti, Dugin riuscì anche a far breccia nella società civile, e il libro fu anche adottato in diversi curriculum scolastici arrivando a contribuire a costruire l’attuale ceto dirigente russo e la percezione popolare del paese. Quanto a Putin, sappiamo che Dugin ha esercitato sia un’influenza diretta sul presidente russo, tramite il partito Eurasia fondato nel 2002, che una indiretta, tramite molti dei suoi consiglieri personali che seguono i precetti della Quarta Teoria Politica e la Chiesa Ortodossa Moscovita che ne ha abbracciato la visione teocratica.
La recente invasione dell’Ucraina potrebbe dunque essere coerente con una strategia basata sull’ideologia Neo-Euroasiatica patrocinata da Dugin per indebolire l’ordine liberale internazionale. Se così fosse, questa sarebbe dunque solo una fase in una guerra più ampia e destinata a protrarsi nel tempo irrigidendosi su linee ideologiche e pseudo-religiose.
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impressionante è poco.....
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INTP e INFP
I tipi intuitivi introversi beneficiano dei doni che derivano loro dall'intuizione: l'ispirazione, la comprensione delle relazioni tra le idee e del significato dei simboli, l'immaginazione, l'originalità, l'accesso immediato alle risorse dell'inconscio, l'ingenuità e la forza della visione. Tuttavia, come per gli altri tipi introversi, perché le loro percezioni intuitive abbiano rilevanza sul mondo esterno, occorre che siano ben bilanciate da un processo secondario di giudizio.
Pensiero e sentimento sono pertanto necessità vitali per questi tipi e li rendono aperti all'influenza del mondo esterno evitando che la loro intuizione li chiuda in loro stessi e li condanni all'irrilevanza.
D'altra parte, la forza del loro processo intuitivo rende anche i tipi più bilanciati difficili da costringere e vincolare a fare qualcosa che non li convince. In alcuni casi non sono neppure disposti ad accettare che venga detto loro senza un preventivo permesso; tuttavia, possono invece prendere liberamente in considerazione qualsiasi fatto, opinione o teoria confidando nell'eccellenza della loro percezione intuitiva per riconoscere ciò che è vero.
In sintesi:
sono guidati da una visione interiore delle possibilità
sono determinati, fino alla testardaggine
sono intensamente individualisti, anche se i tipi INFP cercano di armonizzare il loro individualismo con l'ambiente che li circonda
sono stimolati dalle difficoltà e ingegnosi nel giungere a una soluzione
cercano spesso nuove strade piuttosto che sentieri già conosciuti
sono motivati dall'ispirazione e profondamente insoddisfatti nella routine
i migliori tra loro mostrano un'attenta comprensione del significato più profondo delle cose e una buona capacità di organizzazione e guida
INTP
I tipi intuitivi introversi assistiti dal pensiero sono i più indipendenti tra tutti i sedici tipi e sono particolarmente orgogliosi della loro indipendenza. Sono innovatori: l'intuizione dona loro un'immaginazione senza pregiudizi e una visione delle possibilità priva di ostacoli, mentre il pensiero fornisce una capacità critica di organizzazione delle cose. Si esprimono al meglio affrontando problemi di complessità sempre crescente, che non riorganizzando più volte le stesse cose. La routine, infatti, deprime la loro capacità intuitiva, mentre la pura intuizione astratta non si adatta alle facoltà organizzative dal loro pensiero.
Il punto debole di questo tipo è la relazione con gli altri, dei quali tende a ignorare le opinioni e i sentimenti, fino al punto di mettere a rischio la propria vita privata e di relazione. Per questo, spesso è richiesto loro uno sforzo di apprezzamento verso il prossimo - anche se non necessariamente un sentimento - e un utilizzo della critica spesso spietata del loro pensiero soprattutto su loro stessi e sui problemi che non coinvolgono i terzi.
INFP
I tipi intuitivi introversi assistiti dal sentimento sono naturalmente orientati verso gli altri e quindi il loro individualismo appare meno evidente che non nel tipo precedente. Cercano infatti di armonizzare la loro intuizione e i loro scopi con quelli dell'ambiente che li circonda, preferendo cercare di ottenere consenso piuttosto che di adottare un atteggiamento esigente.
Orientando la loro intuizione sulle persone piuttosto che vero le cose rischiano di essere considerati meno originali dei tipi di pensiero, dato che anche la più fine comprensione delle pieghe dei sentimenti e delle relazioni tra gli uomini appare ovvia e scontata rispetto all'eccitazione di una nuova scoperta scientifica. Tuttavia, in alcuni casi il loro contributo al benessere umano e della società è rilevante e all'interno di questo tipo si possono trovare taluni degli originatori di movimenti di massa nella storia.
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consiglio
Alfonso IX re di Leone e di Castiglia chiamato il Savio e l'Astronomo [...] chiamò da tutti i paesi dell'Europa degli astronomi, che alloggiò magnificamente in uno de' suoi palazzi. Il primo loro travaglio fu di rettificare le Tavole di Ptolomeo [... in seguito] formarono il progetto di calcolare delle nuove Tavole (e immaginarono perciò una nuova Teoria del moto delle stelle) [...]. Esse comparvero nel giorno stesso, in cui Alfonso ascese al trono, e furono come una seconda corona, che cinsegli la fronte. Dopo quattro anni di travaglio pubblicarono nel 1252 delle nuove Tavole col titolo Tabulae Alphonsinae. Comparse queste appena, furono sottoposte ad una severissima critica da un astronomo Arabo chiamato Alboacen. Egli mostrò gli errori degli astronomi di Alfonso, i quali, da uomini docili e savi, si ritrattarono, e nell'anno 1256 pubblicarono delle Tavole più esatte. Il loro protettore ricompensolli generosamente, non imputando i loro errori a mancanza di sapere e di penetrazione, ma alla costruzione dell'Universo, intorno alla quale egli disse, che se Dio lo avesse consultato quando creò il mondo, esso lo avrebbe consigliato a crearlo in un modo più semplice e con un ordine meno complicato. da G. Leopardi, Storia dell'astronomia dalla sua origine fino all'anno MDCCCXIII
#citazioni#leopardi#giacomo leopardi#astronomia#storia dell'astronomia#alfonso IX#tavole alfonsine#dio#universo#creazione#sistema#tavole di tolomeo#tolomeo#alboacen
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Fahrenheit, di Marco Elba
è il nuovo singolo in rotazione radiofonica Dopo il successo del lancio del brano d'esordio “Ossidiana”, torna il giovanissimo artista savonese Marco Elba con il nuovo singolo “Fahrenheit”, in rotazione da giovedì 7 ottobre su tutti i principali circuiti radiofonici nazionali. Due lanci ravvicinati che rappresentano uno step importante per l'artista, pronto a sfidare il grande pubblico degli ascoltatori radiofonici con due nuovi inediti molto particolari. “Ossidiana” è il singolo di debutto uscito ufficialmente lo scorso 22 Settembre che ha già raggiunto il traguardo di oltre 10.000 streaming al giorno.
Un titolo che sembra uscire da un mondo magico, simbolo di introspezione e di viaggio interiore con il quale Marco fa un omaggio al sommo poeta Dante, nel settecentesimo anniversario della sua morte, una nota di merito che gli va riconosciuta visto l’argomento solitamente non trattato dai giovani, soprattutto attraverso la musica.
Nonostante l'apparenza di un titolo così particolare, il brano è una canzone d'amore sostenuta da un sound pop attuale e ritmato. Con questo stile Marco Elba si lancia nell'avventura del debutto con una raggiunta consapevolezza frutto di una forte attrazione per la musica, espressa fin da piccolo, che lo ha portato ad iniziare lo studio del pianoforte e della teoria musicale. Terminati gli studi classici e la maturità si dedica in particolare allo stile che più lo attira, il pop, fondendo il bagaglio acquisito tramite l'apprendimento musicale con l’attualità del sound di nuova generazione. In breve tempo arriva l'esigenza di far da sé anche per i testi ed inizia a scrivere canzoni con uno stile che unisce molti elementi di generi diversi, ricco di sfaccettature, proponendo un sound moderno e di ispirazione internazionale.
L’artista, seppur giovanissimo, ha già le idee ben chiare sul come procedere nelle fasi dei suoi progetti musicali, dove, oltre alle capacità strettamente artistiche, affianca l’attività di producer, curando in prima persona la produzione dei suoi pezzi. Durante la preparazione e la conclusione dei brani questo aspetto gli permette di ricercare il giusto sound, proporre al meglio il messaggio che vuol far arrivare al pubblico, ponendo come obiettivo uno stile nuovo, originale ed incisivo. Nel 2018 arriva il momento di cimentarsi dal vivo sul palco con le prime esibizioni ad importanti concorsi nel suo territorio dove arriva spesso vincitore, riscontrando ottimo successo di pubblico e critica. Durante questo anno 2021 Marco prosegue il suo percorso e viene notato dal noto produttore e talent scout Giuseppe Coccimiglio, conosciuto per aver scoperto giovani talenti tra cui Irama, che lo prende nella sua scuderia e lo porta a firmare il primo contratto con “Da 10 Production”. Con “Ossidiana” e “Fahrenheit” Marco Elba fa dunque il salto tanto atteso che lo porta ad entrare nel panorama dei nuovi talenti italiani, che di sicuro solleticano la nostra curiosità per il loro approccio ad una musica innovativa, fresca e tutta da scoprire.
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“La democrazia non esiste, siamo schiavi del denaro, abbiamo bisogno di naufragare nel sogno”: Gianluca Barbera dialoga con Alessandro Pertosa, stratega della sovversione poetica
Alessandro Pertosa, classe 1980, marchigiano, è uno che non le manda a dire. Il suo pensiero si muove tra teorie sovversive e altre più stabilizzanti. Crede nella poesia e nell’utopia più che nella ragione. È eterodosso rispetto a qualsiasi ortodossia. Crede che un uomo sia i suoi sogni e il tempo di cui dispone per realizzarli. Crede in un certo tipo di “decrescita felice” che però confligge con quello degli oltranzisti della decrescita. Si oppone alla dittatura del darwinismo in quanto espressione di scientismo. Ha seri dubbi sul fatto che viviamo in una democrazia e ritiene che i politici dovrebbero prima di tutto chiedersi cosa è giusto, cosa è umano, cosa ci rende felici. Sembra anarchico ma rifiuta di essere etichettato come tale. Teme e ama la morte allo stesso tempo, e ha una vera passione per la montagna, perché rappresenta “un infinito dinamico”. Collabora con l’Huffington Post ed è autore di svariati saggi tra filosofia e sociologia: Contro Darwin e i suoi seguaci (Fede & Cultura, 2006), Scelgo di morire? Eutanasia, accanimento terapeutico, eubiosia (ESD, 2006), Storia dell’aborto (Fede & Cultura, 2008), Dall’economia all’eutéleia. Scintille di decrescita e d’anarchia (Edizioni per la decrescita felice, 2014); Maledetta la repubblica fondata sul lavoro (Gwynplaine, 2015), Solo una decrescita felice (selettiva e governata) può salvarci (Lindau, 2017).
Lo abbiamo intervistato.
Cominciamo da uno dei temi che più ti stanno a cuore: il lavoro. Lavorare è necessario o in una società diversa potremmo farne a meno? E come?
Il lavoro umano va progressivamente contraendosi. Fra un po’ dovremo chiederci non se sia necessario il lavoro, ma se sia necessario tutelare chi un lavoro non ce l’ha e non lo avrà più. Comunque “lavoro” è un termine equivoco. Perché in questa o in altre società di lavoro ci sarà sempre bisogno. Il punto, però, è che ci sarà sempre meno bisogno di lavoro umano, perché la produzione sarà affidata in misura sempre maggiore alle macchine. E allora se un tempo la ricchezza la si redistribuiva attraverso il lavoro (con lo stipendio), in futuro dovremo chiederci come ridistribuire la ricchezza in una società in cui ci sarà sempre meno bisogno di lavoro umano.
Hai spesso tessuto l’elogio dell’ozio? Perché? A che serve?
Quando parlo di ozio lo intendo come il tempo della riflessione, dello spirito. L’ozio è il tempo in cui ognuno di noi esprime le sue vocazioni più profonde. Un uomo non lo si può identificare col lavoro che svolge. Un uomo è il suo tempo. È il colore, il profumo, l’eros, il desiderio che riesce ad esprimere nella sua vita. E per scoprire e dar corpo al desiderio, abbiamo bisogno di oziare. Abbiamo bisogno di perderci in un naufragio di sogni, ad occhi aperti, con lo sguardo rivolto alle stelle.
E il denaro? Che rapporto hai con esso? Quanto pesa nella nostra società e quanto dovrebbe pesare?
Sin da bambino ho un pessimo rapporto col denaro. Dimentico spesso il portafogli in giro, non attribuisco gran valore ai soldi, cerco di lavorare giusto quel poco che mi consente di ricevere uno stipendio minimo per vivere. Le cose che compro non le misuro col denaro, ma col tempo che impiego per guadagnare i soldi necessari ad acquistarle. La nostra è la società del denaro. Tutti i rapporti di forza, se ci pensiamo, non sono rapporti politici, militari eccetera, ma rapporti basati sulla moneta. E abbiamo finito per trasformare un mezzo in un fine. Non si guadagna più per vivere, ma si vive per guadagnare.
Tu sei, come recita un tuo libro, per una “decrescita felice, selettiva e governata”. Puoi spiegarci in cosa consiste e di quali mali sarebbe una soluzione?
Sono un teorico sui generis della decrescita. Nel senso che non la adoro, non la considero la panacea per ogni male, né tanto meno uno scopo. Credo che sia uno dei possibili strumenti per ridurre l’impatto catastrofico dell’uomo sulla natura. Guai però a spacciarla come una nuova fede o un precetto da seguire. Non credo alla società dei buoni. In questo senso ricevo critiche anche dal mondo dei decrescenti, che invece troppo spesso pensano che bastino poche pratiche per salvare il mondo. Non è così. La questione è ben più complessa e per certi versi ha a che fare con la tragedia greca. Il tragico nasce dinanzi all’impossibilità della soluzione. Ecco, senza voler sembrare eccessivamente pessimista, io credo che la razionalità tecno-capitalista non ammetta correttivi. La decrescita non è certo un correttivo. Credo che ci stiamo schiantando. E che sia necessario comprendere a fondo la razionalità tecno-capitalista che subiamo ogni giorno. Non vedo all’orizzonte facili soluzioni. Quello che ognuno di noi può fare è cercare di ridurre il proprio impatto entropico sul mondo. Basterà? Probabilmente no.
Hai assunto un atteggiamento critico verso il darwinismo. Puoi spiegarcene la ragione?
Non ho una posizione critica sul darwinismo in sé. Ho una posizione critica rispetto a qualunque atteggiamento scientista, che pretende di sostituire alla violenza della fede un’altra fede violenta. Non è il contenuto del darwinismo il centro della mia critica, ma il metodo con cui viene proposto. Il darwinismo non è vero. Come non è vero il suo contrario, sostenuto dai creazionisti. Per intenderci, rimanderei alla teoria di Emanuele Severino, relativamente alla pretesa della scienza e della fede di mostrarsi come vere.
Siamo ancora o siamo mai stati in una vera democrazia?
Democrazia significa letteralmente potere al popolo. Il termine è talmente generale che non significa niente. A mio avviso il popolo, la massa, non ha mai contato granché. Oggi conta ancor meno. Anche su questo tema, i greci avevano detto tutto. Andiamoci a rileggere la “Repubblica” di Platone. È già tutto lì.
Cosa ne pensi del governo Renzi-Gentiloni?
L’Occidente non è capace di ragionare sul destino del mondo. Non è capace di mettere in questione il modo di produzione industriale. Renzi e Gentiloni non si sono distinti dai loro colleghi europei e americani. Il problema non è se la socialdemocrazia sia meglio della liberaldemocrazia, se alcune soluzioni più sociali siano preferibili a politiche più liberal; il problema è di capire se sia possibile postulare una crescita infinita in un mondo dalle risorse limitate. E quand’anche fosse possibile, bisognerebbe chiedersi se è giusto, se è umano, se ci rende felici. Nessun capo mondiale si pone minimamente il problema. Direi che, negli ultimi anni, solo Pepe Mujica e Papa Francesco (con la Laudato si’) hanno saputo mettere a fuoco il problema. Certo non hanno dato soluzioni. Ma una soluzione forse c’è?
E del nuovo governo?
Come sopra.
Come vedi il rapporto oggi in Italia tra cittadini e potere?
Il rapporto oggi è come quello di sempre. L’Occidente non è capace di pensare un potere che si svilisce nel porsi, ma pensa sempre un potere che può esercitare una pressione dispotica, un potere in atto. Io proporrei di pensare, invece, un potere potenziale, un potere che invece di costituirsi si destituisce. Ma questo, mi rendo conto, è un passaggio più poetico-esistenziale che politico.
Che idee hai riguardo al fenomeno migratorio e che posizioni dovrebbero assumere l’Italia e l’Europa?
Qual è la causa del fenomeno migratorio? Finché non rispondiamo a questa domanda, ogni discorso risulta inutile. La causa del fenomeno migratorio è il sistema tecno-capitalista. L’Occidente sfrutta risorse e uomini del terzo mondo, affama interi Popoli (che fino alla fine dell’Ottocento erano autosufficienti dal punto di vista alimentare) e pretende allo stesso tempo di non pagare pegno. Ovviamente non è possibile.
I confini nazionali. Tu sei per gli Stati sovrani, per una sempre maggiore coesione europea o guardi al mondo come grande spazio aperto?
Può sembrare paradossale, ma potrei sostenere tutte e tre le posizioni. Nella vita le cose non sono mai bianche o nere. Talvolta sono allo stesso tempo bianche e nere. O meglio: possono essere entrambe vere o entrambe false. Dipende da come si pone la questione. Io sono per il mondo come grande spazio aperto. Perché il mondo è per tutti e di tutti. Però un grande spazio aperto dominato dai potentati economici diventa un immenso campo di concentramento in cui a soccombere sono gli ultimi. Allora è necessario lo stato nazionale. Ovvero il primato della politica locale, che argini il potere globale, fluido, apolide. Anche se però il primato della politica e la sovranità nazionale possono aprire a problematiche di carattere egoistico. Direi quindi – prendendo a prestito la terminologia medievale – che entrambe le pozioni sono vere non simpliciter (in assoluto), ma secundum quid, ovvero relativamente ad alcune condizioni. Capisco che quando si fa un’intervista ci si aspettano delle risposte. Ma io credo che la poesia e la filosofia siano fatte per le domande e non per le risposte. Per le risposte ci sono già le ideologie, le religioni, le fedi. Io invece cammino a tentoni verso l’utopia. Che non mi sta davanti, non è il sol dell’avvenire, ma ce l’ho dietro. In questo senso è un’utopia rivoluzionaria (revolutio significa ritorno), che mi scatena il fuoco amaro per la nostalgia.
Sei per lo ius soli?
Sì. Credo che ognuno di noi sia figlio del luogo in cui nasce.
Se non sbaglio ti professi anarchico. Che cosa significa esserlo oggi?
Definirsi anarchico è già troppo per un anarchico, o almeno è già troppo per me. Sono contro ogni etichetta, anche contro l’etichetta anarchica. Posso dirti questo. Cerco di essere eterodosso rispetto a qualsiasi ortodossia. E cerco di essere eterodosso anche rispetto alla mia eterodossia.
Credi ancora alla divisione del mondo tra destra e sinistra? Se la risposta è no, da cosa è stata superata questa divisione?
Provo a semplificare. Destra e sinistra nascono concettualmente con la rivoluzione francese e fino ad oggi si sono contrapposte sul modo in cui dividere i proventi della produzione. La destra crede che le parti debba farle il mercato, la sinistra crede che le parti debbano essere suddivise nel modo più equo possibile dallo stato. Nel momento in cui, però, il modo di produzione industriale è entrato in crisi (e ciò era ampiamente prevedibile), destra e sinistra hanno finito per avere le stesse ricette. O meglio, la sinistra è diventata destra. Il problema dell’uguaglianza però resta. Ma la pulsione all’uguaglianza preesiste alla sinistra. Se vogliamo, Cristo e San Francesco sono teorici dell’uguaglianza. Dunque la pulsione all’uguaglianza precede la sinistra e sopravvivrà alla sinistra. Oggi la sinistra dà risposte di destra e una sinistra alternativa non è pensabile (qui l’argomento si fa complesso e avrebbe bisogno di una trattazione a parte). Pertanto il mondo non si divide più tra destra e sinistra, ma tra chi crede che si possa continuare a vivere in un mondo a trazione tecno-capitalista e chi invece crede che sia necessario riumanizzare e risemantizzare l’immaginario avendo a cuore l’equità. Io, come puoi ben capire, sto fra questi ultimi.
Quale il futuro dell’Italia nei prossimi cinquant’anni? E quale quello dell’Europa?
L’Italia, l’Europa e l’Occidente avranno lo stesso futuro. O forse non lo avranno, perché non faranno in tempo ad averlo. Noi tutti stiamo camminando sull’orlo di un baratro e dobbiamo prenderne atto. Ma non mi sembra che questo atteggiamento sia così diffuso. Per questo dico che l’unica speranza che ci resta è la disperazione.
E gli Stati Uniti? Cosa prevedi per loro? E che ne pensi del presidente Trump? Perché secondo te ha vinto le elezioni?
Trump ha vinto le elezioni perché ha fornito risposte semplici – anche se sbagliate – a problemi complessi. È stato percepito come l’anti-casta, come l’imprenditore che si è fatto da solo e non vive di politica. Da questo punto di vista, con Berlusconi, l’Italia è stata capofila.
Veniamo a una domanda più personale. Temi la morte? Ci pensai: mai? poco? spesso? E che cos’è la morte veramente? Se la scienza riuscisse a vincerla cosa cambierebbe nel nostro modo di vivere e di guardare al mondo?
La morte è il limite che non si lascia respingere. Per questo una società come la nostra, che si fonda sul superamento di ogni limite, l’ha bandita. La morte non si nomina. I manifesti funerari riportano diciture fumose: se ne è andato, ha terminato i suoi giorni, si è spento, è tornato alla casa del Padre. Nessuno che scriva: è morto. Personalmente amo stare al cimitero, ma mal sopporto la vista del morto. Il funerale. La camera mortuaria. La quiete dei cimiteri, invece, mi rasserena. Così come pensare la morte. Ogni istante dovremmo pensare la morte. Perché il pensarla è ciò che ci tiene in vita. Quando arriverà, verrà tolta ogni condizione – le condizioni si hanno finché si è vivi – ma il toglimento di ogni condizione è anche toglimento dell’esistenza. La morte ha a che fare con la vita sempre, da sempre. Ma arriverà un momento in cui ci sarà solo morte, un momento in cui la vita sarà morte. E quel momento, che temo, spero arrivi più tardi possibile.
So che ti piace la montagna. Che cosa rappresenta per te?
La montagna è un infinito dinamico. Dal crinale scorgi il cielo, il declivio dei monti, le colline, e il degradare del terreno fino al mare. La montagna è l’affermazione del limite. È educazione alla consapevolezza, perché è sapere che dal vertice puoi solo scendere. Non si sale per sempre. La montagna infine è il luogo della solitudine e del silenzio. Aspetti esistenziali, questi, di cui non posso fare a meno.
Un’ultima domanda: cosa stai scrivendo ora? E di cosa ti occuperai sempre di più in futuro?
Sto terminando due lavori. Il primo è una raccolta di poesie che ha per centro il villaggio e la fragilità dei paesi dell’entroterra. Sono poesie disperate, nel senso che disperano rispetto a una speranza di vederli rivivere, quei luoghi. Il secondo è un Breviario del viandante. Una via di mezzo fra il saggio e la poesia. Per ciò che concerne il futuro, sto cominciando a buttare giù degli appunti sul rapporto tra la legge e Cristo. L’idea è di mostrare in che senso Cristo può essere presentato come uno dei più grandi anarchici della storia.
Gianluca Barbera
L'articolo “La democrazia non esiste, siamo schiavi del denaro, abbiamo bisogno di naufragare nel sogno”: Gianluca Barbera dialoga con Alessandro Pertosa, stratega della sovversione poetica proviene da Pangea.
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