#non so non mi sembra di essere sotto esami
Explore tagged Tumblr posts
Text
domani ho un esame e non so ✨nulla✨
però lo sto gestendo molto bene
4 notes
·
View notes
Note
most beloved person on my dash
sono al secondo anno di giuri e i miei voti stanno volando in uno strapiombo, non è che avresti qualche consiglio/metodo di studio da consigliarmi?? sono alla disperazione...
grazie di cuore in anticipo 🫶
amikett intanto un abbraccione <3<3 spero che riesca a uscire da questo periodo difficile
non so quanto possano esserti utili i miei 2 cents ma proviamoci sotto SEGUIMI
purtroppo il metodo di studio è personale: ormai è una frase fatta à la “non ci sono più le mezze stagioni”, ma ciò non la rende meno vera, perché si tratta di un modo di organizzare il proprio studio che tendenzialmente si consolida, anche evolvendo quando necessario, nel corso di anni. per esempio a me non è MAI piaciuto ripetere (e infatti lo facevo solo quando strettamente necessario), mentre ho sempre preferito scrivere e riscrivere le cose - eppure gli esami orali (e, prima ancora, le interrogazioni) sono sempre andati bene. voilà
detto ciò ti consiglierei di organizzare lo studio in maniera più sistematica possibile e di andare per gradi, tipo così: lettura 1 + sottolineatura senza sforzarti di immagazzinare tutto; lettura 2 + ulteriore sottolineatura dove ti segni le cose importanti; se necessario lettura 3 dove ti segni le cose veramente fondamentali. e via dicendo, nessuno ti vieta di arrivare alla lettura 12. nel mentre, appunti a margine, post it riassuntivi ecc possono aiutare. finora siamo rimasti alla fonte-libro. stessa procedura con eventuali appunti (eventualmente sbobinati - anche l’attività di riscrittura può aiutare ad apprendere i concetti) e slide.
qui poi si crea un bivio perché c’è chi in questa fase ne sa abbastanza da mettersi a ripetere: non so come si proceda da lì. io non ripetevo quasi mai ma preferivo farmi delle mie schede che riassumessero temi/questioni importanti. alle volte facevo anche degli schemini che contenessero, per parole chiave, tutto il capitolo/argomento (a seconda), integrando, in questa fase grafomane, con quanto recepito da appunti, slide e materiali.
se noti, non ho fatto riassunti: il riassunto del libro non mi sembra fondamentale; qualora lo fosse, perché magari si tratta di un manualone, farei una lettura del libro, il riassunto durante la rilettura e poi ripartirei dalla lettura 1 del riassunto + sottolineatura e via così. passare dal libro è super importante comunque
a questo punto dovresti avere un bel malloppo di appunti/schemi/approfondimenti essenziali sia per la loro importanza, sia perché distillano i contenuti principali di tutto quello che hai studiato: poi chiaro, se vuoi la spiegazione te la vai a recuperare sul manuale, ma in teoria tutta questa stratificazione di fasi di lettura, annotazione e rielaborazione dovrebbe aver funzionato
importantissimo in tutto ciò darsi delle tempistiche giuste e proporzionate, scandendo la quantità di lavoro da fare giorno per giorno. questa è bella: siccome c’è sempre dell’auto-sabotaggio, [lo faccio ancora] quando ho tanto lavoro da fare preferisco farmi un programma che giorno per giorno risulta troppo ambizioso, ma con uno scarto strategico rispetto alla deadline. tipo (numeri a caso ma per dire): devo leggere 300 pagine > mi do tre giorni > se lo faccio tanto meglio, ma ad ogni modo devo averlo fatto entro 5 giorni, che sarebbe magari più realistico. così da non abbattermi se non riesco a stare nei tre giorni, ma rimanendo tassativamente nei 5. e se invece riesco, posso procedere con le prossime fasi del lavoro ed essere anche un po’ in anticipo sulla tabella di marcia. ma questo è solo un trick mentale per allontanare lo sconforto eh, mica un miracolo
io sono arrivata alla fine dei miei studi con questo metodo, che però è strettamente il mio e può essere che non funzioni con altri. spero che anche solo qualche spunto possa tornarti utile, purtroppo il segreto della svolta miracolosa non c’è
ancora un abbraccione, e tante buone cose <3 <3
#lo so che pare tutto molto stratificato e pesante. lo è#ma è il modo in cui mi sono abituata a lavorare e anche se ora mi muovo diversamente applico comunque un’evoluzione logica di questo metodo
8 notes
·
View notes
Text
Carissimi compagni di viaggio,
mi ricordo ancora il giorno in cui vi ho scoperti, tutti insieme, ero così emozionata e rassicurata all’idea di avervi trovato perché sapevo che grazie a voi ogni cosa sarebbe stata sotto il mio controllo.
Mi siete venuti in aiuto in diversi momenti, nei dubbi ma soprattutto nei silenzi, laddove mancavano informazioni voi, prontamente, avete colmato le lacune. Vi ho amati e odiati, siete stati anche motivo d’ansia e di lacrime, ne abbiamo passate tante insieme. Ma adesso che pian piano vi sto salutando un po’ mi dispiace, quasi che mi ero affezionata a voi, chissà chi vi verrà a sostituire, impiegherò del tempo a riconoscervi? O sarà immediato?
Una volta sola ho avuto il coraggio di parlare di voi ma ahimé non siete piacuti, pazienza.
Chi sono i miei compagni di viaggio? Beh, non ha importanza saperlo.
Sono solo pezzi delle mie insicurezze che, periodicamente, assumono forme diverse.
A volte sono persone, a volte vestiti, quaderni, parole, penne, non ha importanza il loro aspetto, conta solo il loro significato.
Che poi si sa, non siamo circondati da oggetti ma solo dalle nostre idee su di essi, dalle nostre proiezioni e pensieri. Conta per noi più l’oggetto in sé, la persona in sé o l’idea che noi abbiamo di essi?
Non ce ne rendiamo conto spesso, però a volte le nostre paure ed insicurezze possono assumere persino l’aspetto di una persona che ci vuole bene, questa all’improvviso, ai nostri occhi, diventa un nemico e non la riconosciamo più. Poi quando spariscono le paure, perché vanno ad assumere un’altra forma, allora ritroviamo la persona di un tempo e pensiamo “ecco dov’era finita! “.
Dunque, i miei compagni di viaggio, per un periodo hanno un certo aspetto, poi cambiano e ne assumono un altro, poi un altro e un altro ancora.
Ed è così che per un po’, una persona mi risulta meno tollerabile, una situazione irrisolvibile, un ostacolo invalicabile, una paura senza limiti, possono trascorrere anche dei mesi, poi torno sui miei passi, questo perché i miei compagni di viaggio avevano preso casa lì poi ad un certo punto si sono trasferiti altrove.
Tornando al discorso di prima, siamo circondati dalle nostre idee e da poco altro, per carità, l’altro c’è, ma in una piccola percentuale rispetto alle idee. Ognuno si costruisce il proprio mondo e sulla base dei propri pensieri ogni persona o cosa assume un significato particolare, in effetti dentro al nostro mondo siamo un po’ soli.
Pesa più l’dea e la proiezione di noi stessi in ciò che ci circonda.
Cosa potranno essere i miei compagni di viaggio nei prossimi mesi? Magari i quaderni su cui scriverò gli appunti dei miei ultimi esami?
Non so, per il momento è in corso il trasferimento, qualcuno che mi sembrava ostile ora scopro che non lo è davvero, qualcuno che mi sembrava amico ora lo odio.
Ogni tanto tutta la mia vita in effetti sembra assumere un aspetto completamente diverso.
Un po’ devo ammettere mi sembra una messa in scena inutile.
Me li immagino così i miei soldatini di schiaccianoci, si affannano per costruire il set di una scena del film, io sempre la protagonista, si stabiliscono poi gli antagonisti, i luoghi, gli alleati, le dinamiche e ciak si gira!
Poi si smonta tutto, in fretta e furia, i ruoli cambiano e si ricomincia.
Però, voi ultimi e fedelissimi compagni di viaggio, di certo voi mi siete rimasti nel cuore e non vi dimenticherò con facilità, che mi sia di lezione e che impari da quello che mi avete fatto vivere.
Lasciatemi un incoraggiamento! Insegnatemi almeno voi qualcosa di prezioso.
Leggo queste parole agli attori del set, mentre i soldatini smontano ciò che c’è da smontare, loro ne hanno passate tante sapete?
Un po’ mi fanno tenerezza questi poveretti schiaccianoci, guidati da me, hanno dovuto affrontare guerre, delusioni, vasi rotti, violoncelli, urla strazianti e chi più ne ha più ne metta. Talvolta potrei anche chiedere loro di mettere su un set più rassicurante, però questo mi è possibile solo se voi, compagni di viaggio, mi insegnate come.
0 notes
Text
Il significato dei sogni.
Come spesso capita i miei sogni sono assurdi, ma non come i film di Lynch di più, vanno oltre ogni possibile immaginazione, oltre ogni fantasia e possibile combinazione di cose e azioni; e spesso mi frullano nella testa tutto il giorno fino a quando non capisco il significato o quello che la mia mente arriva a calcolare in anticipo e vuole comunicarmelo, infatti spesso sono premonitori, ma trova sempre la strada più assurda per dirmelo, proprio come sta notte. Per capire meglio di cosa sto parlando vi racconterò il sogno per quello che mi ricordo.
Nel sogno non sono io in persona ma vedo tutto quello che succede comprese le sensazioni e gli stati d'animo di sto tizio, che non so neanche chi è, non ho idea di che faccia abbia ne com'è vestito, ma vedo tutto come se fossi lui. Premesso questo spero che chi legga (se c'è un lettore) si prepari perché è molto crudo. Nel sogno sto tizio sembra che abbia una ex e una figlia, vede la ex e la figlia e fino a qua niente di speciale, ma sembra anche che sto tizio abbia fatto qualcosa di male alla ex, non è apparso nel sogno il male che lui ha fatto, ma la sensazione che avevo era quella; ad un certo punto il tizio si siede a parlare con la donna, la discussione è animata ma non ho ricordo delle parole, ho solo le immagini e la rabbia che sale, il gesticolare animatamente e ad un certo punto la donna tira fuori da sotto il tavolo un revolver e mi spara, al tizio in realtà, due colpi dritti in testa, come detto sento le sensazioni del tizio, quindi i colpi e il dolore. Adesso so che stai pensando che il sogno sia finito perché il tizio è morto, non è così, resto immobile (ricordo sempre che io sono dentro sto tizio anche se non sono io) non riesco a muovermi ma sento perfettamente il sangue che mi esce a fiumi dai buchi che ho in testa, e qua è la parte assurda del sogno, il tizio non muore e ogni tanto chiude gli occhi e quando li apre la prima volta vede la donna che gli brandisce la pistola in faccia insultandolo, la seconda volta vede la donna al telefono sempre con la pistola in mano, la terza volta c'è la polizia e quelli dell'ambulanza, il paramedico dice :" è ancora vivo, portiamolo via che ha bisogno di essere operato per tirare fuori i proiettili dalla testa". Fine del sogno.
Stamattina mi sono svegliato con questa sensazione di morte addosso, come se quei proiettili li avevo presi veramente, come se quello che ho visto attraverso gli occhi di quel tizio, potevo anche essere benissimo io, era successo veramente; ma sapevo che dovevo iniziare a lavorare da li a poco, quindi ho evitato di iniziare ad indagare sul significato e prendendo il caffè iniziare a pensare al lavoro. Quindi la giornata è andata come da programma, visto che siamo oramai alla fine del corso, abbiamo fatto ieri due esami finali, detti golden tests, il primo da 5 casi l'ho passato nonostante un paio di errori, il secondo da 10 casi no, amareggiato, oggi ho riprovato, i casi sono stati cambiati naturalmente, e ho fallito di nuovo, frustrazione totale, ma perché? Non ho avuto tempo di studiare, andavo a memoria ogni giorno, ma andavo bene, meglio degli altri che hanno anche preso appunti a mano e magari hanno avuto tempo di studiare, ma sembrava dalle lezioni e dalle prove fatte con degli agenti che io ero uno dei migliori, a quanto pare non è così. Poi mi sono irritato perché tutti mi dicevano :" Ma tranquillo lo passerai lunedì il test, le cose le sai lo puoi fare", si come no. Quindi mi sono ricordato del sogno, i due proiettili sono i tentativi del test e la morte che mi sentivo dentro è il licenziamento; sembra una condanna scritta così e non è detto che lunedì sbagli per la terza volta, ma so come ragionano le multinazionali se vedono che tu non sei in grado di fare quello per cui ti hanno assunto ti mollano, non stanno li ad aspettare che tu capisci come si fa il lavoro, non sono le ditte a conduzione familiare che ti dicono :"dai domani farai meglio", loro hanno milioni di dipendenti e se uno non è in grado non si fanno scrupoli a mandarti a fanculo.
Che cos'è questo? L'ennesimo fallimento di una vita fallimentare, ho collezionato più fallimenti io in ogni cosa che ho provato a fare che tutti i dipendenti di tutte le multinazionali del mondo, questa non è negatività, questo è realismo, sono un fallito. Cosa posso aggiungere di più, forse il fatto che i proiettili erano 2 invece di tre (per quello che mi ricordo) è un segno che lunedì passerò il test e tutto tornerà splendente come prima, ma poi cosa succede quando entro in produzione, quando si accorgono che in realtà non sono quello che pensavano loro?
Ricordo che quando provai ad imparare la programmazione, sia per i giochi (mio vecchio hobby) sia per provare a cambiare lavoro, imparai il python, la sintassi, semplice, sapevo a memoria come scrivere tutti i costrutti, i cicli, ecc ecc, ma quando ho iniziato a provare a fare degli algoritmi che facevano qualcosa di funzionale non riuscivo, errori su errori o non funzionavano, il che è un errore. Allora chiesi a mio cugino che è un super programmatore, lui mi disse che probabilmente la mia mente non è portata per pensare per la logica della programmazione, sono un musicista, per quello che significa. Quindi oggi ho anche pensato a sta cosa, magari sono bravo a imparare le regole, le varie policy che gli utenti devono seguire, ma non sono bravo ad applicarle perché non ho una mente investigativa, sono sempre quel musicista fallito che non è riuscito neanche a fare qualcosa con la sua unica passione, non sono un agente.
Bel malloppone pessimista, era tanto che non scrivevo così tanta merda in una volta, ecco il risultato della seconda prova del test, una merda.
Ciao Bisteccone :(
1 note
·
View note
Text
...
Mando quello che ha scritto il chirurgo Daniele Macchini che lavora in Humanitas Gavazzeni a Bergamo e descrive benissimo la situazione.
In una delle costanti mail che ricevo dalla mia direzione sanitaria a cadenza più che quotidiana ormai in questi giorni, c’era anche un paragrafo intitolato “fare social responsabilmente”, con alcune raccomandazioni che possono solo essere sostenute.
Dopo aver pensato a lungo se e cosa scrivere di ciò che ci sta accadendo, ho ritenuto che il silenzio non fosse affatto da responsabili. Cercherò quindi di trasmettere alle persone “non addette ai lavori” e più lontane alla nostra realtà, cosa stiamo vivendo a Bergamo in questi giorni di pandemia da Covid-19.
Capisco la necessità di non creare panico, ma quando il messaggio della pericolosità di ciò che sta accadendo non arriva alle persone e sento ancora chi se ne frega delle raccomandazioni e gente che si raggruppa lamentandosi di non poter andare in palestra o poter fare tornei di calcetto rabbrividisco.
Capisco anche il danno economico e sono anch’io preoccupato di quello. Dopo l’epidemia il dramma sarà ripartire. Però, a parte il fatto che stiamo letteralmente devastando anche dal punto di vista economico il nostro SSN, mi permetto di mettere più in alto l’importanza del danno sanitario che si rischia in tutto il paese e trovo a dir poco “agghiacciante” ad esempio che non si sia ancora istituita una zona rossa già richiesta dalla regione, per i comuni di Alzano Lombardo e Nembro (tengo a precisare che trattasi di pura opinione personale).
Io stesso guardavo con un po’ di stupore le riorganizzazioni dell’intero ospedale nella settimana precedente, quando il nostro nemico attuale era ancora nell’ombra: i reparti piano piano letteralmente “svuotati”, le attività elettive interrotte, le terapie intensive liberate per creare quanti più posti letto possibili. I container in arrivo davanti al pronto soccorso per creare percorsi diversificati ed evitare eventuali contagi. Tutta questa rapida trasformazione portava nei corridoi dell’ospedale un’atmosfera di silenzio e vuoto surreale che ancora non comprendevamo, in attesa di una guerra che doveva ancora iniziare e che molti (tra cui me) non erano così certi sarebbe mai arrivata con tale ferocia.
(apro una parentesi: tutto ciò in silenzio e senza pubblicizzazioni, mentre diverse testate giornalistiche avevano il coraggio di dire che la sanità privata non stava facendo niente).
Ricordo ancora la mia guardia di notte di una settimana fa passata inutilmente senza chiudere occhio, in attesa di una chiamata dalla microbiologia del Sacco. Aspettavo l’esito di un tampone sul primo paziente sospetto del nostro ospedale, pensando a quali conseguenze ci sarebbero state per noi e per la clinica. Se ci ripenso mi sembra quasi ridicola e ingiustificata la mia agitazione per un solo possibile caso, ora che ho visto quello che sta accadendo.
Bene, la situazione ora è a dir poco drammatica. Non mi vengono altre parole in mente.
La guerra è letteralmente esplosa e le battaglie sono ininterrotte giorno e notte.
Uno dopo l’altro i poveri malcapitati si presentano in pronto soccorso. Hanno tutt’altro che le complicazioni di un’influenza. Piantiamola di dire che è una brutta influenza. In questi 2 anni ho imparato che i bergamaschi non vengono in pronto soccorso per niente. Si sono comportati bene anche stavolta. Hanno seguito tutte le indicazioni date: una settimana o dieci giorni a casa con la febbre senza uscire e rischiare di contagiare, ma ora non ce la fanno più. Non respirano abbastanza, hanno bisogno di ossigeno.
Le terapie farmacologiche per questo virus sono poche. Il decorso dipende prevalentemente dal nostro organismo. Noi possiamo solo supportarlo quando non ce la fa più. Si spera prevalentemente che il nostro organismo debelli il virus da solo, diciamola tutta. Le terapie antivirali sono sperimentali su questo virus e impariamo giorno dopo giorno il suo comportamento. Stare al domicilio sino a che peggiorano i sintomi non cambia la prognosi della malattia.
Ora però è arrivato quel bisogno di posti letto in tutta la sua drammaticità. Uno dopo l’altro i reparti che erano stati svuotati, si riempiono a un ritmo impressionante. I tabelloni con i nomi dei malati, di colori diversi a seconda dell’unità operativa di appartenenza, ora sono tutti rossi e al posto dell’intervento chirurgico c’è la diagnosi, che è sempre la stessa maledetta: polmonite interstiziale bilaterale.
Ora, spiegatemi quale virus influenzale causa un dramma così rapido. Perché quella è la differenza (ora scendo un po’ nel tecnico): nell’influenza classica, a parte contagiare molta meno popolazione nell’arco di più mesi, i casi si possono complicare meno frequentemente, solo quando il VIRUS distruggendo le barriere protettive delle nostre vie respiratorie permette ai BATTERI normalmente residenti nelle alte vie di invadere bronchi e polmoni provocando casi più gravi. Il Covid 19 causa una banale influenza in molte persone giovani, ma in tanti anziani (e non solo) una vera e propria SARS perché arriva direttamente negli alveoli dei polmoni e li infetta rendendoli incapaci di svolgere la loro funzione. L’insufficienza respiratoria che ne deriva è spesso grave e dopo pochi giorni di ricovero il semplice ossigeno che si può somministrare in un reparto può non bastare.
Scusate, ma a me come medico non tranquillizza affatto che i più gravi siano prevalentemente anziani con altre patologie. La popolazione anziana è la più rappresentata nel nostro paese e si fa fatica a trovare qualcuno che, sopra i 65 anni, non prenda almeno la pastiglia per la pressione o per il diabete. Vi assicuro poi che quando vedete gente giovane che finisce in terapia intensiva intubata, pronata o peggio in ECMO (una macchina per i casi peggiori, che estrae il sangue, lo ri-ossigena e lo restituisce al corpo, in attesa che l’organismo, si spera, guarisca i propri polmoni), tutta questa tranquillità per la vostra giovane età vi passa.
E mentre ci sono sui social ancora persone che si vantano di non aver paura ignorando le indicazioni, protestando perché le loro normali abitudini di vita sono messe “temporaneamente” in crisi, il disastro epidemiologico si va compiendo.
E non esistono più chirurghi, urologi, ortopedici, siamo unicamente medici che diventano improvvisamente parte di un unico team per fronteggiare questo tsunami che ci ha travolto. I casi si moltiplicano, arriviamo a ritmi di 15-20 ricoveri al giorno tutti per lo stesso motivo. I risultati dei tamponi ora arrivano uno dopo l’altro: positivo, positivo, positivo. Improvvisamente il pronto soccorso è al collasso. Le disposizioni di emergenza vengono emanate: serve aiuto in pronto soccorso. Una rapida riunione per imparare come funziona il software di gestione del pronto soccorso e pochi minuti dopo sono già di sotto, accanto ai guerrieri che stanno al fronte della guerra. La schermata del pc con i motivi degli accessi è sempre la stessa: febbre e difficoltà respiratoria, febbre e tosse, insufficienza respiratoria ecc… Gli esami, la radiologia sempre con la stessa sentenza: polmonite interstiziale bilaterale, polmonite interstiziale bilaterale, polmonite interstiziale bilaterale. Tutti da ricoverare. Qualcuno già da intubare e va in terapia intensiva. Per altri invece è tardi...
La terapia intensiva diventa satura, e dove finisce la terapia intensiva se ne creano altre. Ogni ventilatore diventa come oro: quelli delle sale operatorie che hanno ormai sospeso la loro attività non urgente diventano posti da terapia intensiva che prima non esistevano.
Ho trovato incredibile, o almeno posso parlare per l’HUMANITAS Gavazzeni (dove lavoro) come si sia riusciti a mettere in atto in così poco tempo un dispiego e una riorganizzazione di risorse così finemente architettata per prepararsi a un disastro di tale entità. E ogni riorganizzazione di letti, reparti, personale, turni di lavoro e mansioni viene costantemente rivista giorno dopo giorno per cercare di dare tutto e anche di più.
Quei reparti che prima sembravano fantasmi ora sono saturi, pronti a cercare di dare il meglio per i malati, ma esausti. Il personale è sfinito. Ho visto la stanchezza su volti che non sapevano cosa fosse nonostante i carichi di lavoro già massacranti che avevano. Ho visto le persone fermarsi ancora oltre gli orari a cui erano soliti fermarsi già, per straordinari che erano ormai abituali. Ho visto una solidarietà di tutti noi, che non abbiamo mai mancato di andare dai colleghi internisti per chiedere “cosa posso fare adesso per te?” oppure “lascia stare quel ricovero che ci penso io”. Medici che spostano letti e trasferiscono pazienti, che somministrano terapie al posto degli infermieri. Infermieri con le lacrime agli occhi perché non riusciamo a salvare tutti e i parametri vitali di più malati contemporaneamente rilevano un destino già segnato.
Non esistono più turni, orari. La vita sociale per noi è sospesa.
Io sono separato da alcuni mesi, e vi assicuro che ho sempre fatto il possibile per vedere costantemente mio figlio anche nelle giornate di smonto notte, senza dormire e rimandando il sonno a quando sono senza di lui, ma è da quasi 2 settimane che volontariamente non vedo né mio figlio né miei familiari per la paura di contagiarli e di contagiare a sua volta una nonna anziana o parenti con altri problemi di salute. Mi accontento di qualche foto di mio figlio che riguardo tra le lacrime e qualche videochiamata.
Perciò abbiate pazienza anche voi che non potete andare a teatro, nei musei o in palestra. Cercate di aver pietà per quella miriade di persone anziane che potreste sterminare. Non è colpa vostra, lo so, ma di chi vi mette in testa che si sta esagerando e anche questa testimonianza può sembrare proprio un’esagerazione per chi è lontano dall’epidemia, ma per favore, ascoltateci, cercate di uscire di casa solo per le cose indispensabili. Non andate in massa a fare scorte nei supermercati: è la cosa peggiore perché così vi concentrate ed è più alto il rischio di contatti con contagiati che non sanno di esserlo. Ci potete andare come fate di solito. Magari se avete una normale mascherina (anche quelle che si usano per fare certi lavori manuali) mettetevela. Non cercate le ffp2 o le ffp3. Quelle dovrebbero servire a noi e iniziamo a far fatica a reperirle. Ormai abbiamo dovuto ottimizzare il loro utilizzo anche noi solo in certe circostanze, come ha recentemente suggerito l’OMS in considerazione del loro depauperamento pressoché ubiquitario.
Eh sì, grazie allo scarseggiare di certi dispositivi io e tanti altri colleghi siamo sicuramente esposti nonostante tutti i mezzi di protezione che abbiamo. Alcuni di noi si sono già contagiati nonostante i protocolli. Alcuni colleghi contagiati hanno a loro volta familiari contagiati e alcuni dei loro familiari lottano già tra la vita e la morte.
Siamo dove le vostre paure vi potrebbero far stare lontani. Cercate di fare in modo di stare lontani. Dite ai vostri familiari anziani o con altre malattie di stare in casa. Portategliela voi la spesa per favore.
Noi non abbiamo alternativa. E’ il nostro lavoro. Anzi quello che faccio in questi giorni non è proprio il lavoro a cui sono abituato, ma lo faccio lo stesso e mi piacerà ugualmente finché risponderà agli stessi principi: cercare di far stare meglio e guarire alcuni malati, o anche solo alleviare le sofferenze e il dolore a chi non purtroppo non può guarire.
Non spendo invece molte parole riguardo alle persone che ci definiscono eroi in questi giorni e che fino a ieri erano pronti a insultarci e denunciarci. Tanto ritorneranno a insultare e a denunciare appena tutto sarà finito. La gente dimentica tutto in fretta.
E non siamo nemmeno eroi in questi giorni. E’ il nostro mestiere. Rischiavamo già prima tutti i giorni qualcosa di brutto: quando infiliamo le mani in una pancia piena di sangue di qualcuno che nemmeno sappiamo se ha l’HIV o l’epatite C; quando lo facciamo anche se lo sappiamo che ha l’HIV o l’epatite C; quando ci pungiamo con quello con l’HIV e ci prendiamo per un mese i farmaci che ci fanno vomitare dalla mattina alla sera. Quando apriamo con la solita angoscia gli esiti degli esami ai vari controlli dopo una puntura accidentale sperando di non esserci contagiati. Ci guadagniamo semplicemente da vivere con qualcosa che ci regala emozioni. Non importa se belle o brutte, basta portarle a casa.
Alla fine cerchiamo solo di renderci utili per tutti. Ora cercate di farlo anche voi però: noi con le nostre azioni influenziamo la vita e la morte di qualche decina di persone. Voi con le vostre, molte di più.
Per favore condividete e fate condividere il messaggio. Si deve spargere la voce per evitare che in tutta Italia succeda ciò che sta accadendo qua.
Dott. Daniele Macchini, chirurgo Humanitas Gavazzeni, Bergamo
97 notes
·
View notes
Text
Si può stare con una persona che ami da morire, ma che è completamente diversa da te?
Dicono che scrivere faccia bene al cuore e al cervello. Non so se è vero, ma io ci provo. Tanto ormai non ho più nulla da perdere. Magari mi aiuta a togliermi di dosso tutta questa cosa che non so spiegare e liberarmi per poter studiare e darci dentro per il prossimo esame.
Perchè qui su Tumblr e non su un foglio Word? Non lo so, forse perchè questo è il mio posto sicuro nel mondo e preferisco affidare i miei pensieri a chi (forse) leggerà questo post piuttosto che alle persone che mi circondano nella vita reale.
Per chiunque incontrerà questo post potete pure saltarlo è solo un sfogo mio personale.
Dunque iniziamo, ieri (Domenica 12-07-2020) sono tornata dal mare dopo due giorni di “vacanza” con il mio moroso. Nulla di speciale, ma doveva servirci per prenderci un pausa dalla quotidianità ed essere solo noi 2.
Beh probabilmente se avessi seguito il mio istinto (che ha sempre ragione e che io mi ostino a non ascoltare) e non fossi andata al mare questi due giorni, forse ora sarei felice e starei dando il 100% nello studio per gli esami. E invece mi trovo qua a sfogare la mia tristezza/delusione di questi due giorni che mi hanno fatto capire tanto.
Quando ho accettato di fare la vacanza “stacchiamo da tutto” (così l’avevamo chiamata) pensavo davvero che sarebbero stati due giorni di completo relax. Ma ho capito che nonostante io ami tantissimo il mio moroso e mi ci trovo benissimo abbiamo due idee di vacanza totalmente opposte che purtroppo (o per fortuna?) non vanno assolutamente d’accordo.
Perchè? Beh perchè la mia idea di vacanza relax è quella di mettermi sotto l’ombrellone in spiaggia, leggere il mio libro e alzarmi solo per fare una passeggiata in riva al mare, un bagno o andare a mangiare. La sua invece è quella di stare 1/2 orette sotto l’ombrellone poi andare a bere qualcosa, o fare aperitivo, andare in un bagno/lido a ballare la musica da discoteca, fare notte tarda, ecc.. Non è che a me non piace andare a ballare o bere qualcosa, ma non sono una fan di tutto ciò. Per me la vacanza deve essere rilassante non uno stress così.
Quindi mi sono trovata al mare con una persona con idee completamente diverse dalle mie, con uno stile di vita diverso dal mio che forse fiche si tratta di uscire 1 sera a settimana (quando siamo a casa) mi va bene e mi ci trovo in sintonia, ma quando si parla di condividerci 2 giorni (o addirittura la vita) mi sta “scomoda”.
Sto cercando di non parlarne con lui perchè lo conosco e inizierei una “discussione” lunga non so quanto che mi rovinerebbe l’umore e non mi farebbe studiare. Perciò ne parlo qua con non so chi, forse da sola. Perchè se continuo a tenermelo dentro scoppio in lacrime ogni 2 secondi.
Forse sono sbagliata io? Forse ho troppo la testa sulle spalle? Sono troppo matura per la mia età? Io non lo so. Ma la domande più grande per me in questo momento è... Si può stare con una persona che ami da morire, ma che è completamente diversa da te?
Per non parlare degli altri problemi di coppia che se sfogassi ora questo post non finirebbe più.
Sono sempre stata convinta di essere nata in un’epoca sbagliata, dove l’amore e lo stare insieme non esiste più. Dove un “Ti amo” non ha più importanza e non si da più tempo alle cose. Cosa intendo? Beh io sto col mio moroso da solo 4 mesi e se non fosse stato per me (che frenavo), avremmo già fatto tutto in 1 mese. Già questa vacanza per me era troppo presto. Figurati il resto.
Vorrei restare con lui perchè lo amo, ma vorrei lasciarlo perchè so che col tempo questo creerà solo dei problemi. Mi sembra di stare un po’ in una cosa finta, dove si “manda giù” il male e si fa buon viso a cattiva sorte. Ma questa cosa arriverà a logorarmi. Devo decidermi. E in fretta.
#sofogo#sfogo personale#io#stanca#stanca di tutto#stanca di combattere#amore#amore difficile#cuore distrutto#cuoredaltritempi#frasi#domande#si può#stareconunapersona#che#ami#da morire#ma#che è completamente#diversa da te
20 notes
·
View notes
Text
Faccio una lista di cose che mi rendono insicura, mi fanno stare male, mi vanno avere dei crolli psicologici, mi spaventano:
La scuola.
La dad
Gli esami
La mole di studio arretrato che ho
Il mio futuro.
Mi riuscirò a trasferire?
Troverò un lavoro che mi piace?
Realizzerò qualcosa nella vita e potrò finalmente, almeno una volta, ritenermi soddisfatta?
Me la caverò da sola?
Le mie emozioni.
Perché devo sentirmi così?
Piango sempre
I libri mi fanno piangere
I film, le serie e gli anime mi fanno piangere
Il mio fidanzato.
Lui è perfetto ma io non mi sento all'altezza
Tutto va benissimo ma ho paura a pensare ad un futuro con lui
Penso che i nostri obiettivi nella vita siano diversi
Non vorrei mai deluderlo
Ho paura che un giorno le nostre strade si divideranno
Guidare.
Mi viene un attacco d'ansia ogni volta che devo prendere la macchina
Il problema è che vedo solo gli scenari peggiori
Penso che se vivessi in un altro posto, con gente più prudente, mi sentirei più tranquilla
I social media.
Su Instagram diventi famoso solo se lo sei già
Su tiktok diventi famoso solo se fai minchiate
Non ci sono altri social su cui valga la pena sprecare tempo per cercare di "sfondare"
In generale non esiste nessun tipo di meritocrazia e questa cosa mi fa sentire schiacciata, inutile, non mi fa venire nessun tipo di motivazione e tende solo a rattristarmi.
I miei hobby.
Ormai non sento più nessun tipo di interesse che davvero mi appartenga
Faccio 8 cose differenti in un'ora solo per sentirmi un minimo produttiva
Nulla mi soddisfa più al 100%
Penso di non essere poi così tanto brava
Non ne ho più voglia di impegnarmi a migliorare a suonare, a disegnare, a continuare il mio studio di giapponese
Tutto mi sembra sostanzialmente inutile e triste
I miei amici.
Tutto quello che ho dentro sembra interessare a loro minimamente
Se mi apro si lamentano, perché sono sempre triste
Se smetto di aprirmi si lamentano, perché non condivido con loro i miei problemi
Cosa dovrei fare? So che la mia vita non è poi così male, so che ho delle persone che mi vogliono bene, ma non riesco mentalmente a stare tranquilla
La mia vita.
Tutte queste cose mi fanno sentire schiacciata
Non ho più voglia di avere interazioni sociali
Ho paura del mio futuro e di come possa continuare la mia vita
Mi sento costantemente sotto pressione
Non vorrei mai che qualcosa andasse storto, ma ho il pensiero fisso che lo stia facendo
Non riesco più a reggere quello che mi passa per la festa da sola, ma allo stesso tempo sono stufa di chiedere aiuto e far preoccupare i miei cari
Sono stanca, stufa e davvero non ce la faccio più
(◍•ᴗ•◍)✧*。
@fitzyinkiawa
2 notes
·
View notes
Text
Vietato l'ingresso ai cani e ai pigri!
Ok siamo sinceri, essere pigri fa schifo, poco da dire. Ma ancora peggio è saperlo, poiché non vale più il giochetto del "ora che lo sai lavori per cambiare" perché non riesci a lavorare per cambiare, DATO CHE SEI PIGRO. Il problema è che raramente te ne accorgi presto: da piccolo qualcuno te lo dice e si lamenta un po', alcuni ci scherzano su, ma l'importante sono i voti a scuola, le amicizie e quello che ci piace chiamare amore...ok fa ridere già così. Le amicizie sono abbastanza slegate dalla tua attività ed energia, hai il tuo carattere e attiri la gente con cui ti capisci e respingi la gente con cui non c'è comunicazione, nessun lavoro da fare, tutto avviene automaticamente. Mentre cerchi di intraprendere delle relazioni amorose forse qualcosa si nota, vedi gli altri che conoscono continuamente potenziali partner, ricevono molti rifiuti e dopo un po' fanno centro, poi hanno le loro storie, le loro tragedie cringe e il tempo passa. Lo noti e ti chiedi come fanno, non come fanno a fidanzarsi e a parlare con le loro crush, o almeno non solo quello, come fanno a conoscere così tanta gente? Se avviare una relazione fosse come trovare lavoro, loro sembrano cercare lavoro a Berlino e tu in qualche paese di montagna sperduto. Pensi che non sai corteggiare, non sai renderti bello, ma poi ti accorgi che il problema è semplicemente che non conosci nessuno, non hai spazio dove allenarti. Il tempo passa, e finché sei piccolo aspetti, tutto cambierà, magari l'anno prossimo, prossima scuola, magari in questo viaggio.
Ovviamente non cambia nulla, e col passare del tempo la cosa comincia a inacerbarsi, anche perché gli ormoni sono in circolo e la mancanza si sente, ogni ennesimo istante di solitudine paghi un enorme costo oppurtunità crescente. Non parliamo poi di quelle volte dove prendi mezzo coraggio e scrivi a qualcuno tentando la sorte, ma non hai ancora capito che il tutto non è un lancio di una moneta, ma più come un progetto da portare a termine. Non vedi la fatica del conquistare, non la percepisci, e se sei un po' debole e sfortunato inizi a vedere l'altro come un automa pronto a darti piacere, e basta poco poi per farti diventare una persona orribile, senza accorgertene, in una continua sofferenza e odio che ti distrugge...ma non necessariamente: con un po' di fortuna eviti questa fine, e continui ad andare avanti senza distruggerti l'anima. Il tempo passa e tutto sembra normale, ma inizi a percepire che la parola lavoro entra troppo spesso nei tuoi discorsi, che lo spauracchio del precariato diventa sempre più reale. Inizi a sentire che devi fare qualcosa, molte cose, tante cose, troppe cose.
Segui i tuoi sogni dicono ma solo alcuni sogni, gli altri portano alla disoccupazione, indovina quali hai tu? Ma poi ci rifletti un attimo, quali sono i tuoi sogni? Il lavoro che volevi fare da piccolo è astronauta ma solo nel week-end, il resto della settimana volevi fare i videogiochi...non valgono più questi. Che lavoro vuoi fare...nessuno. Si, ho degli hobby, ma non posso farci un lavoro, dopo aver scartato i videogiochi. Sport non se ne parla, libri, ne leggi uno ogni 6 mesi. A scuola c'erano materie che ti piacevano, questo può essere un punto di partenza, si ma abbiamo già constatato che portano tutte alla disoccupazione.
Ecco te ne sei accorto finalmente, non ti piace fare niente, ti piace solo conoscere delle cose, se un po' curioso, e questo ti ha spinto a studiare un po' di più, un minimo di interesse in quell'autore, in quella formula e magari spendevi del tempo a studiarlo per passare quella verifica o interrogazione. Non sai che lavoro puoi fare, non ti piace fare nulla, ti piace solo sapere, conoscere, vieni mosso dalla curiosità. Prima realizzazione, non sai che lavoro fare da grande e non senti di voler lavorare, lo so fa schifo ma non ci puoi fare nulla, non hai l'etica del lavoro, non hai questa tendenza, il lavoro è solo un dovere, non hai piacere nel farlo.
Da questo momento in poi è tutta una discesa, tenti l'università, sperando che non finisca mai, anche nella sofferenza degli esami. Dopo cosa fai, soffri. Il mercato del lavoro è saturissimo, per sopravvivere devi avere mille competenze, ma tu fai fatica a ottenerne una, non riesci a programmare, analizzare il mercato, analizzare dati, dirigere un reparto e chissà cos'altro. Non ce la fai, non riesci a stare dietro a tutte queste cose, il tuo corpo di blocca, la tua mente si satura, tutto ti sfugge via, e hai la realizzazione finale, sei inutile per il mercato, sei come un software vecchio. Mentre centinaia di motivatori ti spiegano di quanto problem solvig e proattività è necessaria per essere qualcuno nella vita, tu ti accorgi che quella persona non sei tu, non lo puoi essere, e se provi ad esserlo fallisci miseramente, perdendo anche moltissimo denaro. Sei escluso a prescindere, hai perso; non li vuoi più sentire, vuoi scappare, magari sotto le coperte, l'unico posto felice, sul morbido materasso. Non è che non ti impegni abbastanza, è che per fare una semplice cosa hai bisogno di più energia e forza di volontà che altri. Per altri andare a prendere un pacco alle poste è una cosa da niente, andare a fare la spesa, cucinare, pulire, roba tranquilla. Per te è come scalare l'everest, il tuo cervello ti dice di no, che i costi non coprono i benefici, lo elimini a prescindere, senza un motivo reale.
Gli insulti e l'essere bruschi sono inutli, sono controproducenti, e quelle frasi del tipo: "dopo questa valanga di insulti ho smesso di sprecare tempo e ho cominciato a darmi da fare e prendere in mano la mia vita e bla bla bla", semplicemente ti fanno ridere, sembrano surreali, mi chiedo sinceramente se sono vere o solo roba scritta sul momento in un'ebbrezza. Fai schifo? Forse. Sei viziato? Probabilmente. Lavora! Non ci riesci. Ricomincia il giro.
Il mondo è ingiusto? Non credo, semplicemente non sono adatto al mondo, giusto o sbagliato che sia.
La soluzione, fare del tuo meglio, abbassare gli standard, cercare qualche obiettivo alla tua portata, fare il callo ad essere considerato parassita, lavorare finché puoi, imparare a stare in pace con se stessi credo, sarà difficile trovare gente che ti apprezzi, non è colpa loro, chiunque preferirebbe windows 10 a windows 98. Non ci riesci da solo, prova con uno psicologo, contratta prezzi bassi, sempre se riesci a trovare la forza.
Alla fine della giornata troverai un letto ad accoglierti, e finalmente ti godrai la vita. Ti derideranno e diranno che sei un cancro della società, beh facci il callo, dopotutto siamo e saremo sempre discriminati, e alla fine dobbiamo esserlo, sennò il mondo non andrebbe avanti, e poi non ci ammazzeranno mai.
1 note
·
View note
Photo
Una studentessa al Corriere della Sera, lettera aperta Milano, 5 marzo 2020 Non so voi, ma io ho la tendenza a vivere le situazioni incerte e potenzialmente pericolose come se non mi riguardassero; le assimilo a nubi gonfie di pioggia, a lontane manifestazioni meteorologiche destinate a dissolversi prima di raggiungere me. Che si tratti di un meccanismo di autodifesa, di semplice istinto umano o di pavidità, questo è stato il mio più spontaneo pensiero nel confrontarmi con la minacciosa nube-COVID-19: c’è da averne paura, certo. Ma non capiterà a me. Bene, oggi sono qui, semi seduta nel mio letto d’ospedale, a parlarvi di come io sia stata ricoverata, in isolamento causa sospetto COVID- 19, al Sacco di Milano; con la speranza che l’informazione aiuti a smitizzare ansie e paure, a comprendere meglio il procedimento dietro ogni diagnosi e a gettare un po’ di luce sul clima che si respira, oggi, negli ospedali, tra chi è impegnato in prima linea per fronteggiare una vera e propria emergenza nazionale. Sono arrivata in ospedale alle 18.45 di lunedì 2 marzo. Dalla settimana prima soffrivo di quelli che, grazie a internet e ai telegiornali, abbiamo imparato a riconoscere come i sintomi del Coronavirus (che, nei casi più blandi, pare non si discostino molto dai sintomi della più comune influenza): febbre, tosse secca e insistente, cefalea a intermittenza, dolori diffusi, ma, soprattutto, un senso di costrizione al petto, come se non riuscissi mai a respirare al pieno della mia capacità polmonare, nonostante le cure prescrittemi dal mio medico di base e una dose quadrupla di formoterolo e budesonite, i miei quotidiani farmaci per l’asma. Così, nel corso di una mia crisi respiratoria, lunedì pomeriggio la mia famiglia ha preso per me la decisione di chiamare il 118: nell’arco di dieci minuti, due operatrici sanitarie, mascherine ffp3 a coprire loro naso e bocca, erano già all’opera nel provarmi febbre, pressione e saturazione, nel farmi indossare a mia volta una mascherina e nell’approfondire la mia sintomatologia, oltreché eventuali contatti avuti con persone provenienti dalle cosiddette zone rosse - contatti, questi, impossibili da ricostruire con certezza per chiunque, come me, frequenti l’università a Milano e prenda abitualmente i mezzi pubblici. Quindi, le operatrici si sono messe in contatto con il Servizio Sanitario Nazionale, al quale hanno riportato tutta la mia anamnesi. Ho capito che mi avrebbero ricoverata, e dove mi avrebbero portata, sentendo la voce all’altro capo del filo prescrivere alle operatrici di procedere con la - loro - vestizione; terminata la quale (che mi ha garantito un minimo margine di tempo per racimolare un pigiama, spazzolino e dentifricio e qualche libro), senza tante spiegazioni né, tanto meno, rassicurazioni, sono stata caricata su un’ambulanza diretta al Sacco. Una volta all’ospedale, ad accogliermi sono stati degli infermieri dotati di tute, copriscarpe, mascherine, cuffie e guanti, che mi hanno subito fatta accedere a una stanza di biocontenimento, il primo impatto con la quale non è stato rassicurante: sulla porta spiccava il simbolo del biohazard, un cartello informava che in quegli scarsi due metri per tre potevano sostare massimo tre persone per volta perché venisse rispettata una distanza di sicurezza di due metri, e un altro ancora che per comunicare con il personale medico bisognava premere un pulsante. Sedie di plastica, nessun tavolino, una porta a chiusura ermetica, un calorifero da campeggio per mantenere una temperatura accettabile malgrado il vento che filtrava da sotto la porta; seduta in un angolo, anche lei in attesa, c’era una donna, quando sono arrivata dormiva, poi mi ha detto di essere in attesa di una stanza, poi si è addormentata di nuovo. Le ore trascorse in quella saletta sono state le più lente del mio ricovero - adesso, col senno di poi, penso che fosse anche perché non sapevo bene cosa sarebbe successo poi: nessuno me l’aveva anticipato, non c’era l’ombra di un medico, li pensavo impegnati altrove, con persone più gravi e sofferenti di me, eppure non riuscivo a smettere di chiedermi dove fossero tutti. Poco dopo mezzanotte, mentre provavo a dormire sdraiata alla bell’e meglio sulle sedie, la porta chiusa ermeticamente si è aperta, e per un istante ho creduto di stare vivendo un film: davanti a me c’erano tre medici, e il mio primo pensiero è andato agli astronauti pronti a un volo nell’interspazio; erano così ugualmente impersonali, coperti e mascherati a quel modo, che mi riusciva difficile distinguerli l’uno dall’altro, o capirli perfettamente quando parlavano. Mi hanno fatta sdraiare su un lettino, e rivolto pressappoco, per metterle a verbale, le stesse domande che mi erano già state fatte; mi hanno misurato la temperatura, la pressione, il livello di ossigeno nel sangue; quindi un prelievo, e una radiografia al torace; e, infine, il tampone per verificare la positività o meno al COVID-19. La denominazione precisa è quella di tampone rino-faringeo; confesso di non essermi mai interrogata sulla natura di questo esame, prima di doverlo fare, e di aver erroneamente dedotto che mi avrebbero estratto un tampone di saliva dalla bocca. In realtà, il tampone rino-faringeo consiste, invece, nel prelievo di materiale esaminabile con l’aiuto di quello che sembra un cotton fioc di circa quindici centimetri di lunghezza; lo strumento viene inserito prima in una narice, poi nell’altra, e il risultato è una sensazione di dolore misto a fastidio, oltre che alla tentazione di starnutire. Tutti e tre i medici sono stati, nel corso dell’intera procedura, estremamente gentili e umani, nel tentativo di distrarmi, e persino di farmi sorridere; non l’ho dato per scontato, non a mezzanotte passata, non dopo chissà quanti altri tamponi ed esami fatti. Questo genere di persone, chi continua a fare bene il proprio lavoro anche in situazioni di stress, ritmi serrati e allarmismo, sono coloro che più si avvicinano alla mia definizione di eroi moderni. A esami conclusi, e sempre con l’equipaggiamento - mascherina, guanti, copriscarpe - del caso, sono stata trasferita nell’area destinata alla degenza dei pazienti in attesa del risultato del tampone. In tempi normali, per esaminare un tampone bastano tre ore; all’inizio dell’epidemia di Coronavirus in Italia, intorno al 21 febbraio, la media dei tempi di attesa era di circa sei ore; oggi, complice la grande quantità di tamponi realizzati ogni giorno, i tempi di attesa [n.d.r.: almeno per quanto riguarda il Sacco, il cui team di infettivologi esamina i tamponi in loco, senza doverli spedire altrove] possono dilatarsi fino alle quarantott’ore. Non sapevo, inizialmente, quanto avrei dovuto aspettare; a dire il vero, l’idea dell’attesa, una volta entrata finalmente nella mia camera, non mi pesava neppure. Le camere dei pazienti per i quali non si può escludere il contagio da COVID-19 sono singole, e strutturate come normali camere d’ospedale, non fosse per l’anticamera - in gergo: il filtro - che le separa dal corridoio del reparto, nella quale ai pazienti è vietato sostare: il filtro è dove gli infermieri depositano i pasti per i degenti; una volta usciti gli infermieri, i pazienti possono recarsi nel filtro, con mascherina e guanti, e portare in camera i pasti. Una volta in camera, possono stare senza maschera e guanti; prima che qualcuno entri nella stanza, vengono avvisati tramite interfono, e viene loro prescritto di indossare guanti e mascherine e di muoversi il meno possibile. I contatti con il personale medico sono ridotti all’osso: due volte al giorno, alle tre del pomeriggio e alle otto di sera, ai pazienti viene richiesto di provarsi la febbre, e di comunicare tramite interfono la propria temperatura corporea. Per quanto mi riguarda, ho ricevuto la visita di un medico solo il primo giorno, perché avevo la febbre alta; i restanti due, alle sei del mattino, quella di un’infermiera che passava a misurarmi la saturazione e a valutare le mie condizioni di salute. A chiunque vedessi chiedevo con ansia degli esiti dei miei esami, che tardavano ad arrivare. Attraverso le pareti sottili trapelavano i rumori dell’ospedale intorno: le chiacchierate al telefono della signora nella camera accanto alla mia, risultata positiva al COVID-19 benché asintomatica; i colpi di tosse di altre due, forse tre persone. Dall’unica finestra, priva di maniglie e impossibile da aprire, come quelle dei grattacieli, non vedevo niente, perché il vetro era smerigliato e opaco. Avevo come l’impressione di essere sospesa fuori dal mondo. Nelle circa trentasei ore di attesa del risultato del mio tampone, oltre a leggere e a tenermi informata, tramite social media, su quello che avveniva fuori, ho pensato principalmente due cose: uno: visto dall’interno, il COVID-19 sembra destare serie, serissime preoccupazioni; due: Dio benedica la sanità pubblica. Quanto alla prima affermazione, posso solo che motivarla dicendo che la mia percezione - la percezione non di un medico o di un virologo, ma di una comune cittadina che si sforza di tenersi costantemente informata sui fatti - è stata quella di una situazione di indubbia emergenza: le misure prese nei miei confronti sono state onnipresenti, calcolate al millimetro, restrittive a dir poco. Percepivo la cautela, il professionalissimo timore negli sguardi degli infermieri, la loro volontà di trattenersi il meno possibile nella mia camera; la stanchezza, anche. La prima notte, l’infermiera che mi ha accompagnata in radiologia mi ha detto, mantenendo accuratamente la distanza di sicurezza di due metri: «In questi giorni sto ringraziando di non avere famiglia: i miei colleghi non riescono più a vedere mogli e figli. Non sanno che turni avranno, quando potranno dormire». Aveva gli occhi cerchiati e violacei, sopra la mascherina. Eppure era premurosa e attenta, mi ha chiesto quanti anni avessi, che scuola facessi, ha sorriso all’idea che fossi più grande di quanto pensasse; e premurosi lo sono stati tutti, sempre, a discapito di tutto. L’idea che in molti lottino da settimane e in silenzio, mettendo a repentaglio salute, ritmi di vita e legami affettivi dovrebbe aiutarci a ridimensionare il fenomeno, a capire che le persone coinvolte, al di 2 là dei veri e propri malati, di quelli che purtroppo sperimentano il COVID-19 sulla loro pelle, sono molte di più; che questa guerra riguarda noi, tutti noi, e non soltanto gli altri. In secondo luogo, si diceva: Dio benedica la sanità pubblica. Non oso immaginare quanto il mio ricovero di tre giorni mi sarebbe venuto a costare se fossi stata, mettiamo, una cittadina dello Stato di New York: sei, settemila dollari? Ottomila? Il solo tampone rino-faringeo avrebbe sfiorato i tremila dollari; è facile tirare le somme, e concludere che una buona fetta della popolazione americana, con grande gioia del COVID-19, non potrà permettersi l’esame. Il nostro diritto alla diagnosi è alla portata di tutti, ed è giusto che sia così; ma non si dovrebbe dare per scontato, perché scontato non è. Quanto a me, oggi, in data 4 marzo, a distanza di quasi trentasei ore, è arrivato l’esito del mio tampone: negativo. A comunicarmi il risultato sono stati due medici giovanissimi, forse specializzandi; hanno aperto la porta della mia stanza senza paura, sorridenti, quasi espansivi, hanno detto: «Portiamo buone notizie.» Li ho ringraziati con la stessa gratitudine che avrei voluto dimostrare a ogni medico, a ogni infermiere. In risposta loro mi hanno visitata, ancora una volta; mi hanno detto di prepararmi, che mi dimetteranno di qui a un’ora, un’ora e mezza. Ho ancora un po’ di tosse, ma niente più febbre. Io e i miei polmoni asmatici ce ne andremo di qui leggeri come non mai. Questa stanza verrà pulita, disinfettata, cambieranno le lenzuola, svuoteranno i cestini. Sarà presto pronta per qualcun altro. #ospedalesacco #coronavirus #covid-19
2 notes
·
View notes
Text
III
Terza visita dalla psichiatra andata, per ora è quella andata meglio visto che non sono scoppiata a piangere e nemmeno mi sono venuti gli occhi lucidi... per almeno metà della seduta perchè lei ovviamente sa che che tasti toccare.
Entrata mi ha subito chiesto degli esami che avevo a febbraio e come al solito mi ha detto che sono stata brava e bla bla bla, mi ha detto che mi vede molto meglio e io le ho confermato che mi sento molto meglio. Mi ha detto che le prime due volte in cui ci siamo viste ero proprio spenta mentre oggi ero molto più luminosa. Si ricordava che le altre volte ero vestita di nero e con i capelli sciolti, quasi a volermi nascondere e rendermi meno visibile possibile mentre oggi no, maglia colorata e con i capelli legati (non ho avuto cuore di dirle che li avevo legati perchè li avevo asciugati alla cazzo di cane ma vabbè).
Mi ha chiesto nuovamente se ho detto a qualcuno che vado da lei e le ho detto di no però ho messo in chiaro che non lo dico non perchè mi vergogni di vedere una psichiatra ma perchè sono io riservata di natura (le ho fatto l’esempio della patente e di quando ho ricominciato l’università e non l’ho detto a nessuno) ma credo che ogni volta me lo chiederà. Abbiamo parlato di varie cose (anche gossip vari che mi hanno fatto morire dal ridere) e poi mi ha fatto domande precise che sono andate a toccare tasti dolenti (soprattutto a livello affettivo e di rapporti interpersonali) e lì mi sono un po’ chiusa e non sono riuscita ad affrontarli se non in maniera superficiale (è qui che mi sono venuti gli occhi lucidi PERÒ CAZZO NON HO PIANTO!). Diciamo che è sempre più convinta che, tra le varie cose, io soffra anche di dismorfofobia mentre io sono sempre più convinta che debba vedere un oculista.
Mi ha chiesto se soffro mai di attacchi di rabbia e le ho detto che non provo mai rabbia lei ha detto che in realtà tutti provano rabbia per qualcosa, anche la più piccola ma io non la tiro fuori e l'accumulo da anni e anni. Mi ha detto che devo iniziare a dire seriamente quello che penso ma io le ho detto che non ce la faccio perché mi dispiace far stare male le persone. Mi ha detto che sono troppo buona e che penso più a cosa provano gli altri rispetto a cosa provo io, che sono disposta a soffrire e anche tanto per non far soffrire gli altri.
Anyway, a quanto pare il mio problema maggiore in questo momento è l’ansia che è perennemente a livelli molto elevati, anche quando mi sembra di essere tranquilla in realtà i miei livelli sono decisamente superiori alla media e io allora le ho detto che non so nemmeno più come si vive senza ansia perchè io mi sento così da molto, molto tempo, più di quanto io voglia ammettere.
Ammettere di stare male è stata la cosa più difficile che io abbia mai fatto e, anche ora che sto iniziando a stare meglio, non riesco ancora a credere di aver trovato la forza di chiedere aiuto perchè, diciamocela tutta, non so se lo rifarei. Mi ha spossato, fisicamente e mentalmente, però allo stesso tempo era necessario. Non so quale forza mi abbia portato ad andare dal mio medico quel lontano giorno di dicembre e ho paura ad immaginare come starei se non ci fossi andata. Io, che non ho paura di niente, sono terrorizzata da questa idea.
Mi ha chiesto come mi sono trovata con i farmaci che mi ha prescritto e le ho detto che ho preso solo l’antidepressivo, l’integratore per dormire non l’ho preso anche perchè, da quando sono più tranquilla, ho ricominciato a dormire abbastanza bene. A questo punto mi ha detto di raddoppiare la dose in maniera graduale per cercare di tenere sotto controllo l’ansia e mi ha chiesto quando ci volevamo rivedere, io le ho detto tra un mesetto (19 marzo ore 10,15) anche se la rivedrei volentieri anche domani visto che ci sono una marea di cose che vorrei affrontare ora e subito ma va bene, è giusto andare per gradi.
3 notes
·
View notes
Photo
Messina - via Palermo
IL BACIO DELLA MORTE
Via Palermo era vuota a quell’ora di tarda mattinata d’agosto. La luce era abbagliante e i tavolini posti all’inizio della via sotto gli alberi erano anch’essi vuoti perché i pensionati, che generalmente li affollavano per le loro infinite partite a carte, avevano preferito starsene a casa al fresco per fuggire il caldo. Una donna avanzava nella strada, indifferente alla caligine; con un enorme paio di occhiali da sole guardava fissa di fronte a se sfregandosi continuamente le mani come se fossero intorpidite. Si fermò all’altezza di un portone ed osservò i nomi al citofono. Qualcuno stava uscendo e lei ne approfittò per entrare e dopo essersi fermata nell’atrio si guardò a destra e a sinistra, per poi scegliere il corridoio a destra andando in fondo. Avanzò guardando i nomi sulle porte fermandosi all’ultima e, soddisfatta di quanto aveva letto entrò senza bussare. Una vecchietta che stava spolverando le sedie nella sala d’attesa su cui dava la porta sobbalzò al suo entrare. La donna disse rapida in un accento che sembrava del nord “devo vedere Madam Effie, subito!” La vecchia la guardò spaventata e con un dito piegato dall’artrite indicò un corridoio in cui la signora velocemente entrò percorrendolo fine alla fine ed entrando in una stanza in cui dalle finestre coperte da pesanti tendaggi entrava sempre poca luce lasciando tutto in una penombra inquieta. Appena entrata la donna chiese “Madam Effie….?” ma non vedeva nulla così si levò gli occhiali da sole. Vi fu ancora qualche secondo di silenzio poi si senti una voce dall’angolo sulla sinistra “vieni, sono qui, ti aspettavo” La donna trasalì e guardò alla sua sinistra vedendo in angolo una strana scrivania dietro cui stava una donna di cui non scorgeva il volto. “Mi aspettava…?” chiese stupita “Certo, vieni, siediti – Madam aspettò che la donna si sedesse davanti a lei e continuò – sapevo che dovevi arrivare, da tempo uscivano sempre gli stessi tarocchi, segno che tutto era in attesa di qualcuno e che finchè questo qualcuno non arrivava il karma non sarebbe tornato a fluire. Sento che sei tu che dovevo aspettare: porti con te turbamento e indecisione, questo le carte me lo avevano detto, ma non ne conosco il motivo” “Ecco io …” “no, non parlare, voglio capire senza che tu me lo dica: persone come te non mi capitano spesso”. La donna si sentì osservata in ogni minimo dettaglio e per reazione si sfregò le mani. Il gesto non sfuggi a Madam e la donna vide che gli occhi della veggente erano concentrate sulle sue mani. Dopo qualche secondo sentì la voce di Madam “dammi la tua mano sinistra”. La donna obbedì, l’allungò decisa sulla scrivania così che Madam la pose sotto la luce di un faretto tenendola sopra un mazzo di carte. Studiò attentamente il palmo della mano. Poi prese un filo d’oro al cui capo era attaccato un cristallo luminoso. Lo fece passare sulla mano e la donna notò che il cristallo evitava di passare sopra la sua linea della vita allontanandosene quando Madam lo avvicinava. Madam allora lasciò la mano e prese le carte su cui l’aveva tenuta e le girò lentamente disponendole a croce. Le studiò a lungo ed infine disse “Tu vuoi sapere. Il male ti tormenta e ti mangia dal di dentro come fa un tarlo con un mobile – guardò le carte attentamente – sei qui per sapere … il tempo … quanto tempo…” Gli occhi di Madam si alzarono dalle carte e fissarono quelli della donna. La donna si schiarì la voce. “Si, ho il male e sto facendo delle cure – iniziò a sfregarsi le mani di nuovo – faccio una chemioterapia, piuttosto pesante. I medicinali che mi danno per la chemio mi stordiscono il corpo e mi fanno formicolare le mani, per questo le massaggio sempre. Io, voglio sapere … quanto … ancora….” Madam mischiò ancora le carte ed incominciò a disporle nuovamente in una croce. “Tu hai qualcuno che ti vuole molto bene, più di uno, a loro il quando non interessa … li … spaventa perché tu per loro sei l’attuale senso della loro vita” “Mio marito ormai non dorme più la notte pensando al mio male, mio figlio anche se è grandicello è tornato a farsi la pipì a letto pensando che potrei andarmene da un momento all’altro. Io non riesco a pensare ad altro. Certi giorni … non soffro, altri è come se fossi già finita con dolori infiniti, la mia carne sembra bruciare e strapparsi da dentro. Voglio sapere … quando sarà … se le cure mi daranno una speranza o no. Così mi preparerò. Capirò cosa fare e non mi logorerò la vita, pensando e congetturando, aspettando, illudendomi e soffrendo per niente Mi rassegnerò a non essere più di questa terra” Madam si alzo e si andò a sedere sulla sedia che era di fronte a lei e prese le sue mani tra le sue guardandola. “Io questo non te lo posso dire. E’ contrario a quello che sono: non posso dire cose che non mi spettano e che potrebbero portare il male a chi le ascolta. In questo non ti posso aiutare”. La donna la guardò affranta. “La prego, lei non capisce, vedo ogni giorno dottori che mi riempiono di aghi e di pillole e quando chiedo ad ognuno di loro come va, non me lo sanno dire. Che senso ha soffrire ancora, andare dall’ospedale Papardo a quello di Taormina per fare esami e visite che magari non servono a niente? Che senso ha tenere in ansia perenne ed angosciante i miei cari se alla fine non servisse a niente e stiamo perdendo solo tempo, tempo prezioso che magari potrei occupare in un altro modo. Mi dica quando, fra tre mesi? un anno? non ho paura, non mi importa andarmene ma mi distrugge questa dolorosa precarietà, questo dipendere in tutto dagli altri, questo andare da un primario all’altro sperando che qualcuno di loro si fosse sbagliato. Non voglio soffrire per nulla. Non ho mai creduto ai miracoli e non so se me ne serve uno, ma se sapessi, la finirei con tutti questi veleni con cui riempiono il mio corpo e che non si sa se mi guariscono o mi uccidono più lentamente. Mi rassegnerei e spenderei il mio tempo pensando a me stessa. Mi capisca, sono stanca di soffrire, e se soffrire non servisse a niente voglio starmene da parte a non pensare più a niente e a nessuno” Madam Effie l’osservò ancora attentamente e disse con tutta la dolcezza che poteva avere “Io non posso mettermi al posto di Dio e dirti il come e il quando. Il male che ti farei non mi permetterebbe più di fare alcun bene agli altri.” La donna si appoggiò sconfitta sulla spalliera della sedia. Madam la guardò affranta. “Posso però farti parlare con chi sa e con chi può parlare” Si alzò di scatto ed andò dall’altra parte della stanza dove vi era una cassettiera. Aprì un cassetto rompendo un sigillo che lo chiudeva, prese un astuccio e tornò dalla donna sedendosi ancora di fronte. “Forse avrà sentito parlare del Conte Cagliostro. Era un mago molto potente che in un certo momento della sua vita decise di conoscere la data della sua morte, per questo preparò questo pendaglio che, per vari motivi, non ha mai usato. Una volta indossato il pendaglio permette di parlare con qualcuno che può dirci il quando e il come il filo della nostra vita sarà tagliato” Madam Effie aprì l’astuccio mostrandole un pendaglio con un grosso filo in argento che finiva in un gioiello in cui era incastonato un diamante nero. La donna l’osservò affascinata e chiese “E chi sarebbe questo qualcuno?” Madam Effie sorrise “La propria morte” Madam sollevò il pendaglio mostrandolo alla donna. il gioiello incominciò a girare mandando bagliori violacei che illuminò la stanza. La donna smise di guardarlo e fissò gli occhi di Madam “Cosa vuol dire?” “Indossando questo pendaglio potrai vedere la tua morte come se fosse una persona e parlarle, chiederle ed ascoltarla. La morte sarà obbligata a rispondere per un giorno, passato il cui il pendaglio tornerà nel suo astuccio e non la vedrai più. Io non posso dirti quando sarà il momento, non mi spetta sapere, ma la morte potrà rispondere alle tue domande: lei non ha obblighi o legami, è questa la sua natura, e quindi è libera di dire anche quanto non si dovrebbe sapere. Stai attenta però, la morte non può provare pietà e non la si può intenerire, quindi non cercare di impietosirla o di contrattare con lei: è un giocatore che non perde mai” “Ma come faccio a trovarla … ho un solo giorno” Madam Effie divenne seria “La morte ti sta già seguendo. Non la vedi perché non ci è dato conoscere il nostro destino, ma ora, con il pendaglio, la riconoscerai perché ogni volta che ti volterai te la vedrai alle spalle e se le parlerai, la morte dovrà risponderti.” La donna guardò di nuovo Madam. Poi allungò le mani e prese i due estremi del filo d’argento, aprendolo lentamente e con qualche esitazione se lo mise al collo. Quando il gioiello toccò il suo seno, un brivido le percorse tutta la schiena. “Ora vai – la sollecitò Madam - non hai molto tempo e … devi essere coraggiosa. Lo sei già, ma ora devi armati di tutto il tuo coraggio”. Madam l’accompagnò alla porta e la strinse, poi le mise una mano sulla fronte e chiudendo gli occhi recitò una benedizione in una lingua che la donna non conosceva, quindi la fece uscire. La donna uscì dal palazzo si mise gli occhiali da sole ed incominciò a camminare spaventata. Disorientata dalle parole di Madam Effie, invece di scendere verso Corso Garibaldi da dove era venuta, incominciò a salire lungo via Palermo. Si girava regolarmente, ma vedeva poche persone per strada, per lo più uomini. Cercava di capire come potesse essere, se fosse stata una donna, magari si sarebbe presentata come una vecchia rugosa e cattiva o una bambina dalla falsa innocenza. Decise di fare a piedi la circonvallazione, una strada piena di alberi sui cui marciapiedi non c’erano mai molti passanti, in tal modo, se qualcuno la seguiva, l’avrebbe notato subito. Camminava girandosi continuamente mentre sotto di lei si vedeva tutta Messina scendere verso il mare. Camminava senza notare niente di particolare ma osservando attentamente chiunque incontrasse. Si fermò ad un semaforo perché si sentiva stanca, debilitata dalle medicine e dalla frettolosa camminata. Si appoggiò al semaforo con il fiatone e si voltò. Questa volta lo notò subito. Era un uomo che aveva già visto poco prima in via Palermo mentre guardava una vetrina. Si ricordò che uscendo da Madam Effie lo aveva visto sul marciapiede opposto parlare al cellulare. Alto con pantaloni e maglietta nera, un volto stretto e lungo e capelli ben ordinati. Sembrava uno dei tanti a cui era morto un parente caro per cui vestiva di nero, ma lei lo aveva già visto molte volte dietro di lei e fino a quel momento era l’unico che la seguisse. Il semaforo scattò e lei attraversò lentamente, attenta a quello che l’uomo in nero faceva, quando fu dall’altra parte, vide che l’uomo stava attraversando. Lo osservò attentamente da dietro gli occhiali da sole. Aveva gli occhi chiari, molto chiari, freddi, indifferenti e la cosa diede un brivido alla donna. Lei continuò a camminare sul marciapiede con a sinistra un muretto che costeggiava la circonvallazione e alla destra alberi di pino che riempivano il marciapiede di un tappeto morbido. Sentiva dietro di lei i passi di lui, insistenti e monotoni. Arrivati in un punto dove c’era uno spiazzo con degli alberi davanti, così che nessuno poteva notarli lei si girò di colpo e lui si fermo. Lui la guardava con indifferenza senza dar segno di volersene scappare o far finta di essere li per caso come se aspettasse che lei si spostasse per farlo passare. Lei gli si avvicinò e quando gli fu davanti, si levò gli occhiali da sole e lo guardò negli occhi. “E’ … è lei ….? – cercò le parole giuste - è lei che mi porterà via?” L’uomo la guardo senza mostrare alcuna emozione quasi stupito. “in che senso scusi?” fece facendo una faccia scherzosa “quello che … mi porterà via per sempre?” Lui diventò serio, assumendo un’aria seccata. “Sto aspettando mia moglie, è dal parrucchiere e ci mette più del solito, per cui sto facendo quattro passi a caso. A lei non la conosco, cosa vuole? io non cerco quel tipo di donne…” “La morte è furba - si disse lei - non vuole rivelarsi” e ad alta voce aggiunse “Mi scusi, mi sembrava che mi stesse seguendo….” “Gliel’ho detto - fece l’uomo ancor più seccato - sto aspettando mia moglie e faccio due passi, cosa vuole ?” ed aggiunse a voce bassa cercando quasi di superarla senza però muoversi “ma vadda chi camuria unu ‘ncontra pi strada” Lei lo guardò e le sembrava troppo reale, troppo umano e forse anche troppo bello, per essere la sua morte. Ma lei era sempre più sicura. Era l’unico che vedeva ogni volta che si voltava ed aveva un’aria familiare come l’avesse incontrato migliaia di volte. Non poteva essere un caso. Come fare a capire, a sapere? Doveva essere coraggiosa, le aveva detto Madam Effie, ma cosa voleva dire. Osservò meglio l’uomo che malgrado il disappunto di essere stato fermato, non si allontanava, ma anzi aveva preso il telefono come a verificare se fosse arrivata qualche telefonata importante e mostrandosi sempre più seccato. Lei l’osservo. Osservo i capelli, pettinati in modo perfetto, gli occhi gelidi pieni di indifferenza come quelli di molti dottori che l’avevano visitata, il naso dritto, tagliente, la bocca, con due lunghe labbra di un tiepido color rosa. La forma era uguale a quella di suo padre e a lei torno in mente quando le aveva sfiorate con le sue l’ultima volta che l’aveva visto, sul letto di morte, prima che lo mettessero nella cassa di zinco. Fu quel ricordo che la fece decidere. Si avvicinò d’improvviso all’uomo buttandogli le braccia al collo e premendo le sue labbra sulle sue. Sentì solo gelo, un gelo che non era il vento freddo d’inverno ma la negazione di ogni vita di ogni energia, di ogni senso. Era un nulla assoluto e totale, il vuoto e l’assenza di ogni umanità che le labbra, anche se solo sfiorate, le avevano passato con forza e violenza. Sentì che la sua forza vitale le stava sfuggendo dalle labbra, assorbita dalle sue, le gambe si indebolirono e stava quasi per svenire cadendo per terra afflosciandosi come un palloncino da cui stavano facendo uscire tutta l’aria . Arretrò toccandosi le labbra quasi gelate da quel tocco di assoluto nulla. Un ghigno si formò su un lato della bocca di lui. “Sei molto testarda ….” Non sembrava ne arrabbiato ne cattivo forse un po' divertito. Mostrava però una indifferenza a tutti e a tutto che lo rendeva istintivamente antipatico. A ben guardarlo la donna notò che nel suo sguardo mancava quell’ emozione e quell’ interesse per gli altri che si riassume nella parola pietà, era quest’ assenza che i suoi occhi non nascondevano, che lo rendeva disgustoso e nello stesso tempo terribile. “Perché, …., - fece lei cercando di farsi forza, recuperando quel minimo di vita che lui le aveva involontariamente rubato - perché sei così? voglio dire ti avrei pensato sotto una forma più orribile, non così …. normale …” Un lato della sua bocca si alzò di nuovo in un ennesimo sorriso ironico, quasi di compatimento. “Sei tu che mi immagini così, perché sei stanca, straziata nelle carni e nella speranza e quindi dentro di te stai pensando che alla fine potrei essere anche accettabile, perché porrei fine a quel dolore e a quella disperazione che nei momenti peggiori provi. Il fatto che sei venuta a parlarmi non vuol forse dire che mi stai accettando?” Piegò il volto di lato come i grandi fanno con i bambini quando dicono una cosa tanto ovvia che non può essere e lei capì che stava cercando di sedurla, di farle credere che lei ormai le apparteneva. Doveva respingerla, rifiutarla perché se no non avrebbe più avuto la forza di andare avanti. La donna si ripeté la domanda dentro disse “No, non sono qui perché ti sto accettando, anzi, non posso accettarti. Ho una cosa che tu non hai che mi lega fortemente alla vita” Fece lei seria convinta che doveva per forza esserci qualcosa che la legava alla vita e le impediva di essere ormai parte di quell’uomo che era la porta verso il nulla. “Ah si e che cosa è – chiese ironico – il tuo lavoro? il tuo successo davanti ai tanti che ora ti evitano per non vedere la sofferenza che ti porti addosso? La tua famiglia? quell’insieme di affettuosa indifferenza con cui riempite feste e compleanni? Dimmi cos’è questo tuo legame forte con la vita, che ti porta nel centro del mondo e ti fa dimenticare di chi hai cercato per sapere, per conosce il supremo “come” e l’estatico “quando”?” E sorrise ironico. La donna si chinò leggermente come se le parole sentite le pesassero tanto da schiacciarla. Pensava velocemente a come contraddire la morte evitando che avesse ragione e confermando quindi la sua vittoria. Per quanto pensasse non riusciva a trovare niente che desse un senso alla sua vita. Questa considerazione le fece ricordare le parole di Madam Effie, e d’improvviso trovò la risposta, istintivamente si drizzò sicura “ Io ho mio figlio, mio marito, i miei genitori, i miei affetti che sono veri e non frutto di convenzioni e abitudine. Si, ho loro! Non potrei mai sceglierti o accettarti! tu sei la loro distruzione perché distruggendo me distruggi quella luce che per loro provo dentro di me: io ho il loro amore e l’amore che ho per loro e con loro è quello per la vita. È quello che provo e che loro provano per me che fa la differenza tra l’essere e il non essere” L’uomo alzò le spalle, quasi annoiato da quello che aveva sentito “Uff l’amore, voi giustificare tutto con questa parola, dai grandi gesti alle stragi: è il prezzemolo degli stupidi, quando non sanno capire o giustificare tirano in ballo l’amore e lo mettono ovunque. Ogni giorno io raccolgo un infinità di amore, ad ogni minuto che passa, trovo per strada tonnellate d’amore buttato via perché ormai inutile o stantio. Pensaci, perché è un motivo debole e illusorio. Perché, questa cosa con cui vi riempite la bocca, dura meno delle farfalle che nascono senza stomaco e vivono solo un giorno per amare e morire. Anzi l’amore è ancora più veloce a finire: nasce e poi voi lo distruggete, spaventati da quello che significa, dai sacrifici che dovete fare per tenerlo vivo e cacciarmi via. Fate, dite, scrivete poesie e canzoni, ma l’amore muore sempre prima di voi perché vi fa paura o lo rendete possesso, avarizia, accidia, perché è più facile distruggerlo che accettarlo e difenderlo. E’ più facile bruciare una foresta di alberi che farne crescere uno solo per come deve, così alla morte di questo così detto amore, io torno e sono sempre più vicina a voi o sono già dentro di voi, per farvi sentire il nulla iniziando divorando i vostri sentimenti” “Non con me. Il mio amore non è di quello che raccogli nei cassonetti o sui bordi delle strade, io non ti apparterò mai se è vero che l’amore ti tiene lontano” L’uomo fece un gesto di sufficienza “L’amore potrà sopravviverti, ma tu dovrai seguirmi lo stesso. Siete tutti temporanei, ricorda: la vostra provvisorietà è una forza che non sapete usare. E’ anche una legge, una necessità assoluta, così ha voluto il grande Architetto: l’alfa e l’omega, l’amore e la morte! E io sono la custode più fedele della sua volontà. Anche se non vorrai, al momento giusto, dovrai venire via con me”. La donna ne approfittò “E quando sarà, quando verrai a prendermi?” L’uomo sorrise divertito “sempre la stessa domanda, non sapete pensare ad altro che a me, a quando arrivo, a come arrivo, con che cosa arrivo e tutte quelle strane domande che si fanno i filosofi ed i poeti, sul perché, su quello che c’è dopo, su come vivere adesso, su come si vivrà dopo…. se si vivrà” Scosse la testa sorridendo. Si mosse lentamente girandole intorno mettendosi dietro di lei sussurrandole all’orecchio “Rispondi prima a questa domanda; cosa è per te la vita o il vivere?” La donna guardò davanti a se sfregandosi di nuovo le mani “La mia vita … è mio figlio … mio marito … la mia famiglia, mia madre, le sue sorelle, la natura, il mare, il vento, è la gioia che provo nello stare con loro o nel vederli, nello scoprire e gustare tutto quello che mi circonda” “Allora – continuò l’uomo sussurrandole da dietro – ora che sei qui a voler sapere quando morrai, sei già veramente morta, perché non sei con loro, non stai pensando alla vita, stai santificando la morte….” “No ma è per questo che….” “È per questo che hai pensato solo a te stessa, per questo volevi sapere il tuo momento, prima che te lo dicesse quella natura che ti fa sentire viva, dicendoti che era per prepararti, ma non eri già… morta? lontana da quelli che per te rappresentavano la vita? chiusa nel tuo dolore, certa della tua fine. Ma loro dove erano? accanto a te? e dove era la vita che loro sono? eri morta! Eri già tra le mie braccia spaventata dall’idea che potevano chiudersi da un momento all’altro: noi siamo schiavi di quello che ci fa paura e tu sempre più eri con me più che con il tuo cosiddetto amore” “Devo sapere … per … per prepararli….” “Prepararli a cosa? gli dai un pezzo della tua vita in anticipo? sincronizzi i vostri cuori? chiami un notaio per mettere a posto il dare e l’avere? Quale è il senso delle tue domande se nel pensare a loro sai pensare solo al dopo, al poi, dimenticandoti che loro sono li che ti aspettano, sono il presente, che vivono per te, che di te rappresentano il respiro, il sangue, la vita? Perché perdi tempo per sapere, se sai già che senza di loro, tu non sei, anche se il tuo cuore batte ed i tuoi occhi vedono. Sei come un lago che evapora e pensi che se sai quando l’ultima goccia evaporerà, potrai dare un senso a te stessa: ma il lago, non è una goccia neanche se è l’ultima, il lago è fatto da migliaia di gocce, di momenti, di emozioni, di situazioni, quale è il senso a voler fissare l’ultimo momento se per farlo dimentichi o sacrifichi tutte le altre gocce. Rispondimi ancora: cosa …è…la …vita?” La donna guardava fissa di fronte a se “La vita è la negazione della morte: tutto quello che ci dà calore, speranza, amore, gioia, fede, emozione, è vita! Dovevo capirlo quando ti ho baciato, tu non hai tutto questo, tu sei solo il nulla, l’assenza di tutto” “Lo vedi? hai capito finalmente: non conta quando devi morire, conta che stai vivendo, conta trovare negli altri e in se stessi il senso stesso della vita anche quando ci sta sfuggendo. Per questo l’amore è il mio opposto, per questo pur vivendo un giorno, un amore vale un’eternità – l’uomo si girò per non guardarla quasi per non ferirla con le sue parole - È questo il mio scopo, quello che il grande Architetto mi ha dato: rendervi coscienti, che la vostra vita può essere pure il frutto del caso, può essere anche una maledizione, può pure considerarsi una situazione temporanea e incontrollabile, ma è la vostra vita, l’unica luce che brilla nel vostro buio, la recita che non si ripeterà più quando il sipario si chiuderà, l’onda che non tornerà più ad accarezzarvi e che è questa vita che dovete fare vostra, è questa vita a cui dare un senso, perché quando il tempo arriverà questa volta sarò io a baciarti e questo senso te lo verrò a chiedere e ti farò pesare quanto potevi dare e quello che in realtà hai veramente dato e a seconda di dove la bilancia scenderà avrai il tuo paradiso o il tuo inferno.” Quando l’uomo finì di parlare la donna restò a pensare qualche secondo poi si allontano da lui senza voltarsi, ma dopo pochi passi, come se si fosse ricordata di qualcosa si fermò, si girò a guardare l’uomo e l’osservò come se lo vedesse per la prima volta. “Grazie” gli disse senza nessun astio o rancore. Si levò il pendaglio e lo fece scivolare per terra. Il pendaglio svanì prima di toccare il marciapiede e nello stesso momento, l’uomo svani con lui. La donna fece pochi passi, poi prese il telefono e compose velocemente un numero. Appena qualcuno rispose la donna sorrise felice “Ciao amore sono io … si sto bene, amore, mi sento bene sono uscita dalla clinica solo per prendere un po' d’aria … non ti preoccupare… sto veramente bene, per la prima volta da tanto, mi sento … viva”
21 notes
·
View notes
Text
il mostro
(sistemando vecchi indrizzi mail -non fatelo, mai- ho trovato un racconto breve di una decina di anni fa che avevo completamente rimosso dalla mia memoria credo dai tempi in cui ancora il non plus ultra della comunicazione sociale era msn messenger, non so neanche se lo avessi mai messo qua o da altre parti in precedenza; comunque sia, lo incollo qua sotto)
Guidare annoiati è come essere all’inferno, con la differenza che se non altro all’inferno non devi stare attento alla strada.
Non sono mai riuscito ad ascoltare dischi interi in auto, già dopo tre o quattro canzoni di fila perdo la pazienza e comincio a rovistare nel cruscotto per scegliere il prossimo cd masterizzato da maledire venti minuti dopo. Ho bisogno di parole, discorsi, chiacchiere per non impazzire, specie quando mancano ancora centosettanta chilometri ed entrambe le corsie sono bloccate dalla geniale idea del camionista che fa gli ottantasette all’ora di superare quello che si tiene, più prudentemente, sugli ottantasei. Il problema è che sembra che questo venerdì pomeriggio tutto l’etere si sia messo d’accordo per trasmettere soltanto irritazione, e quando la punta del tuo indice diventa un calco del pulsante per mandare avanti la frequenza capisci che forse è ora di spegnere tutto e lasciare che a non farti pensare sia il fischio di sottofondo del motore lasciato andare a troppi giri.
L’asfalto scivola sotto la carrozzeria a centoventi all’ora, per poi esser sputato fuori dallo specchietto retrovisore. Ancora un’ora e un quarto buona di strada. Quella storia che a volte ti penti di non aver mai iniziato a fumare giusto perché almeno avresti qualcosa da fare in momenti come questo.
“Tutto bene, no?” chiedo, senza staccare gli occhi dalla A4, tentando la conversazione come misura estrema prima di arrendermi al tramonto sulla Pianura Padana. A passare troppo tempo in mezzo a un paesaggio del genere cominci a credere che al centro del Sistema Solare non ci sia una stella, ma che tutto giri intorno ad una complicata costellazione di capannoni. E troppo tempo è stato più o meno tre uscite fa.
Il mostro mi guarda con la sua solita faccia beata dal sedile del passeggero, senza confermare né smentire. Sta lì, come al solito. Lascia penzolare le gambette sopra il tappetino e si gode il viaggio con gli occhi socchiusi e le labbra incurvate nella sua posa pigramente soddisfatta.
Sospiro, dichiarando ufficialmente la mia resa alla noia grigioverde che assedia i finestrini. “Metti almeno la cintura.”
Non si muove di un millimetro, nemmeno per annuire. Non avendo il collo, è qualcosa che gli si può perdonare, suppongo. Rimane lì a fissarmi nel suo colore radioattivo da fumetto, le mani appoggiate sull’addome, le dita incrociate.
Non che mi aspettassi davvero una risposta, sia chiaro. Non sono pazzo. Beh, non attualmente. Magari il giorno in cui inizierà a rispondere sarà il caso di farsi qualche domanda, ma al momento posso dirmi sufficientemente sicuro che non sia nulla più di un semplice gioco tra me e me o, se preferite il finto gergo da psicanalista dei telefilm, un costrutto della mia mente. Un costrutto neanche troppo originale, a dire il vero, dato che è praticamente Slimer, quello dei vecchi cartoni dei Ghostbusters, con in più un paio di gambette rachitiche. Quella storia che la televisione ha distrutto la fantasia alla mia generazione.
Non ha nemmeno un nome (o, meglio, non ha un nome pronunciabile nella nostra lingua, dato che arriva da un’altra dimensione)(sì, sto scherzando). Semplicemente, c’è sempre stato, sin da quando ero bambino. A nove anni non riuscivo a dormire per paura di un compito in classe, lui rimaneva imbambolato a fissarmi dalla sedia dove mia madre mi preparava i vestiti per il giorno dopo. A diciotto, con l’orale della maturità a tre giorni di distanza, continuavo a rileggere la stessa frase un migliaio di volte dimenticandola ancora prima di arrivare al punto, e lui era appollaiato sulla scrivania che ondeggiava leggermente al ritmo dei miei vaffanculo. Durante la tesi ha praticamente vissuto sulla tastiera del mio computer, e non era facile spiegare ai miei che, se non ero riuscito a scrivere nemmeno una riga in sei ore, era perché c’era una creatura inesistente che si rifiutava di togliersi dai tasti.
(Scrivevo un messaggio per dirle buonanotte, ti amo, lei rispondeva soltanto notte e lui era dietro la mia spalla destra per avere una visuale ottimale del display del cellulare. Che già era un casino giocare decentemente a Snake 2 con qualcuno che mi guardava, figuriamoci accettare che stava andando tutto a puttane.)
È tutta una questione di che parte del tuo corpo è stata scelta dal destino per somatizzare e tormentarti, almeno fino al momento in cui gli acciacchi si distribuiranno uniformemente in tutto il tuo organismo e sarai pronto per essere uno di quegli anziani che rendono le giornate in sala d’attesa dal dottore la cosa più prossima all’infinito che un essere umano possa sperimentare in questa vita. C’è chi l’ansia, la preoccupazione, quel senso di totale e completo oh, cazzo li sente nello stomaco, chi nelle meningi, chi nell’intestino, chi nei nervi.
Io me li sento nell’immaginazione. Un metro e qualcosa di bozzi, sorriso e rotoli di ciccia alieni. A volte mi chiedo perché qualcosa del genere mi succeda solo con le cose brutte, perché non possa avere una presenza costante che mi segnali che stanno per arrivare momenti migliori. Quella storia che uno è destinato a venir su pessimista.
Ancora adesso, quando ho una presentazione importante il giorno dopo è a lato dello schermo del portatile che si gode le mie bestemmie a Power Point. Se esco di casa in ritardo lo trovo già steso sul corrimano delle scale per non perdersi il probabile spettacolo di me che inciampo e finisco a rotolare per due o tre rampe.
E ora è qui, accanto a me, perché sa benissimo che domani
Eh.
Poi c’è il casello, poi ci sono solo provinciali, comunali, vialetto, saluti.
A cena mio padre risolve l’indovinello finale del programma di rai uno, e quello più o meno è il momento più eccitante di tutta la faccenda. Mi fanno le solite domande su come sta andando, stando bene attenti a non scendere troppo nei dettagli. Confeziono le risposte con cura per non creare nessun tipo di preoccupazione, e li osservo mentre le assorbono con un certo sollievo e un cucchiaio di piselli in più, lieti di poter passare ad altro. Essere cresciuto in una famiglia in cui la comunicazione interpersonale è considerata un disagevole equivoco rappresenta un vantaggio non indifferente, a volte.
Dico ai miei che no, non credo di uscire. Sono stanco per il viaggio, vado a letto presto che tanto vedo tutti domani. Uno, due, tre sms per ripeterlo agli altri, rimbalzare le insistenze. Sì, sono sicuro. Grazie lo stesso, davvero. Ciao.
Il mostro si guarda intorno sul letto, seduto sopra il pigiama ben piegato che mi aspetta sul cuscino. Erano mesi che non vedeva camera mia, e ora rotea gli occhietti su ogni angolo, superficie e poster di questi dieci metri quadri scarsi, come quando vai a votare alle tue vecchie scuole elementari e cerchi di raccattare i ricordi di quei tempi da ogni piastrella.
“Bravo. Se te gà da ‘fondar, se no altro che sia dentro l’oceano.” Era successo che ci eravamo lasciati. Non l’avevo presa bene. Non l’avevo presa in nessuna maniera, in realtà. Avevo smesso di voler pensare e la soluzione più immediata era stata concentrarmi sugli ultimi esami che mi mancavano prima della laurea. Credo che per qualche mese studiare sia l’unica cosa che abbia fatto con regolarità maniacale, al contrario di altre attività secondarie come l’uscire con gli amici, il radermi, il lavarmi o, non so, il parlare. Avevo scoperto che, da un certo numero di pagine al giorno in poi, le formule diventano una specie di mantra che ti occupa la testa durante il giorno e ti stanca quel che ti basta per affrontare la notte. Arriva un certo punto in cui addirittura credi di averla superata.
La prima volta che l’avevo rivista avevo finto di dover telefonare ed ero tornato a casa a vomitare anche l’anima, col mostro che lasciava penzolare le gambe a cavallo del bidet. Quella storia che a pensare positivo sei sempre due passi indietro rispetto a dove credevi di essere.
Dopo un paio di colloqui in cui avevo simulato con successo una certa voglia di responsabilità, mi avevano offerto un lavoro a Milano. Sette provincie e tre ore e mezza di auto più in là. Sembrava una buona idea. Quando l’avevo detto a mia nonna lei mi aveva abbracciato e risposto così, nel nostro dialetto fatto apposta per odorare di terra e parlare di sbagli.
Bravo. Se devi affondare, se non altro che sia dentro l’oceano.
Convinta di aver un nipote ambizioso, deciso a farsi un nome in una città grande duecento volte la nostra. O, forse, abbastanza esperta di mostri per avere il buon cuore di fingere che fosse così.
(Il sonno che non arriva fino alle quattro. Alzarsi con il mal di testa, mia madre che mi porta un succo alla pesca per colazione, con la cannuccia infilata già dentro, come non fossero passati più di vent’anni. Vestirsi e sentire la giacca tirare sotto le braccia, a livello dell’anima.)
“Mi spiace che tu non sia riuscito a venire all’addio al celibato”, mi dice Marco stringendo leggermente la mano sulla mia spalla sinistra. “Anche a me, gli altri mi hanno raccontato come è andata e mi sono mangiato le mani. È che al lavoro in questo periodo è un casino, è già tanto se son riuscito a prendermi questi due giorni”, mento. Prova a chiedermi qualcos’altro, ma viene afferrato per il gomito dal testimone e portato in chiesa perché, senza nemmeno qualche tradizionale minuto di ritardo, sta arrivando la sposa. Resto fermo sul sagrato, superato da amici e conoscenti che mi lanciano domande e bonari rimproveri in serie, come una catena di montaggio di convenzioni sociali che è inevitabile attraversare quando è un sacco che non ti fai sentire, è un sacco che non ti fai vedere, è un sacco che non ti trovo su Facebook. Lavoro. Impegni. Scuse improvvisate che migliorano e si arricchiscono di dettagli ad ogni nuovo giro. Ancora, e ancora. Finché, finalmente, arriva l’auto della sposa, che lascia scendere con una certa fatica un abito ingombrante dentro al quale si muove solenne un fascio di sorrisi tirati, lacca e trucco attraverso il quale riconosco Anna. La portiera si richiude svariati secondi dopo, lasciando srotolare con calma i commenti delle invitate e lo strascico bianco. Applausi mentre attraversa il sagrato, i tacchi che sopravvivono con qualche difficoltà ai cubetti di porfido. Qualcuno con l’occhio già lucido. Luca che progetta una maniera per saltare la celebrazione, cercando in giro un bar adatto e gli invitati giusti a cui scroccare minuti e sigarette. Sto per seguire la massa attraverso il portone quando vedo il mostro alla fine dello strascico, che si lascia trascinare come fosse Trinità. Non ho bisogno di chiedermi perché sia lì. Alzo lo sguardo sopra la sua espressione ridicolmente beota e la vedo in coda tra gli invitati, parlare con un’amica mentre scende gli scalini del duomo, ridere. Sembra felice. Sembra lei. Nonostante la capigliatura troppo elaborata, tutto quel trucco di cui non avrebbe bisogno, un vestito che è un incarto di caramella che le lascia libere le spalle. Quelle spalle. Quel neo. Non sono pronto. Cazzo, non sono pronto.
Corro dietro a Luca, che mi circonda le spalle con il suo braccio destro mentre acceleriamo il passo verso il bar. Magari entro a cerimonia già iniziata, ecco.
(Essere seduti a tavoli diversi, finire occhi negli occhi per qualche secondo di imbarazzo infinito. Alzare una mano, provare un’espressione gentile ma riuscire solo in una smorfia poco convinta, per nulla efficace. Non aver pensato a cosa dirle, non aver pensato a cosa potrebbe volermi dire lei. Non volerci pensare tutt’ora. Qualcuno che si azzarda a chiedermi se l’ho più sentita, se sto bene, se mi vedo con qualcuna e un altro miliardo di se che dribblo come posso. Mai stato un gran calciatore. Andare a salutare qualcuno al suo tavolo e far finta di niente. Girare lo sguardo un attimo troppo tardi quando si alza e attraversa il mio campo visivo. Capire che se n’è accorta. Guardare l’orologio. Controllare il cellulare ogni sei minuti netti, pregando in una telefonata di lavoro il sabato pomeriggio.)
Il mostro si gode beato antipasti, primi e secondi gentilmente offerti dal mio sistema nervoso.
Nel giardino sul retro del ristorante ci sono due altalene e più suv di quanto la media nazionale potrebbe far pensare. Mi siedo sulla tavoletta di plastica nera e ondeggio leggermente, la fronte imperlata di sudore appoggiata a una delle due catenelle di sostegno, a elemosinare quel po’ di frescura che pochi centimetri di metallo possono regalare. Dentro c’è troppo movimento, troppo alcol, troppo casino, e i principi della termodinamica non perdonano. Sotto i portici, lontano da me, invitati che chiacchierano, fumano, si scattano fotografie. Il musicista ben pagato per intrattenere gli invitati si prende una pausa davanti alla fontana all’ingresso. Tra poco qualcuno comincerà a ringraziare gli sposi, rassicurandoli sul fatto che è stato tutto perfetto, e si avvierà verso casa a smaltire la giornata. Sull’altalena accanto il mostro si gode la brezza e le poche stelle che le luci dei lampioni ci concedono. Chissà da quanto era qui fuori ad aspettarmi. Alzo la mano verso di lui, reggendo un bicchiere immaginario, e propongo un brindisi. “A noi due, vecchio. Ce l’abbiamo quasi fatta anche stasera.”
“Parli da solo, ora?”
La voce le esce meno sicura e sarcastica di quanto vorrebbe, la conosco ancora troppo bene per non accorgermene, ma il cuore salta un battito lo stesso. Il fatto che io non riesca a pensare a una risposta più intelligente di “ciao” conferma, come se ce ne fosse bisogno, chi sarà sempre nella posizione di vantaggio tra noi due.
Si avvicina senza fretta. Una ciocca di capelli fuori posto che le balla davanti a ogni piccolo movimento del capo, accarezzandole le labbra. Quelle labbra. Neanche tutto il rossetto del mondo potrebbe renderle diverse da quelle che ho imparato a memoria. Un altro passo ed è a cinque metri. I nostri sedici anni. Ancora un passo e siamo ai diciassette, al nostro primo bacio. Avanti veloce, correre attraverso i ricordi dei diciotto, diciannove, venti fino a rallentare all’altezza dei ventitré, ventiquattro, venticinque. La scarpa destra che affonda leggermente nell’erba ben tosata. Fermarsi con una pugnalata in mezzo al petto ai ventisei. Le nostre domeniche pomeriggio. Le nostre voci sotto le coperte. I nostri progetti, Cristo santo. I sabati sera promessi agli altri e poi tenuti solo per noi. Scegliere i nomi da dare ai figli che avremmo avuto, un giorno. Il suo basta. Fingere che fosse anche il mio basta. L’ultimo passo. Non riuscire ancora a far passare dell’aria sensata tra le corde vocali.
Ora è a portata di far male, e ancora non so dove vuole arrivare. Ci sono i suoi occhi e c’è tutto il resto che un po’ alla volta diventa soltanto una macchia sfocata. Giardino. Auto. Invitati. Voci. Il mostro le cede l’altalena al mio fianco -vai a fidarti degli amici- e si allontana tranquillo verso la confusione. Alla fine allora riesce a camminarci, su quelle gambe. Lei si sistema per quella che sembra una vita intera. Inspira profondamente e chiude gli occhi, poi lascia andare in un colpo solo l’aria e mi guarda in un modo che ho paura di riconoscere. Non sorride, ma la conosco troppo bene per non sapere che sta morendo dalla voglia di farlo.
Perfino i grilli adesso rimangono in silenzio. Siamo solo io, lei e tutto l’oceano di ricordi, scazzi, convinzioni fatte a pezzi e foto scattate mille volte per esser sicuri che vengano bene che c’è stato tra di noi.
Se dobbiamo affondare, se non altro.
12 notes
·
View notes
Text
Caro te,
non voglio fare il tuo nome per tanti motivi, e uno di questi è che mi fa male sentirlo.
Spero che la tua vita stia andando per il verso giusto, spero che stia andando come l'hai sempre immaginata, come me l'hai sempre descritta, spero che tu sia felice.
Ormai, dopo anni, credo di non provare più rabbia nei tuoi confronti, ma solo un pizzico di rancore e, forse, delusione.
Avrei davvero un'infinità di cose da raccontarti e credimi, capita quell'istinto di scriverti, ma non lo faccio mai e sai perché? Perché mi voglio bene.
Vorrei che tu sapessi che adesso sto bene, sono felice.
Sembra passata una vita da quando ti piangevo davanti, disperata per l'ennesimo cuore spezzato da colui che hai tanto odiato; quando capivi subito che c'era qualcosa che non andava, quando venivi sotto casa mia perché "la mia sorellina ha bisogno di me", rinunciando anche ad un'uscita con i tuoi amici.
A volte mia madre mi chiede di te ed io non so mai cosa risponderle, sa benissimo che le persone vanno via dalla tua vita senza nemmeno degnarsi di avvisare, ma non pensava che tu ne fossi in grado.... e nemmeno io.
Mi è venuta voglia di scrivere qualcosa su di te perché, mentre liberavo spazio nella memoria del cellulare, mi sono imbattuta in alcune delle nostre foto e in uno screen molto particolare di un tuo messaggio che diceva esattamente così: "Tu sei mia sorella, e lo sarai sempre. Vorrei essere più presente nella tua vita. Ma molte volte non può essere e credimi che io ne soffro più di te. Ti guardo sempre da lontano e ti vedo crescere, senza di me."
Risale a due anni fa.
Eravamo davvero due bei amici, noi due.
Amavo la nostra amicizia, una di quelle fra ragazzo e ragazza che si vedono solo nei film, e proprio come un film, è finita.
Capita di pensarti a volte e quel pezzetto del mio cuore che è coperto da un cerotto ne risente e pulsa e fa male, non sempre, ma fa male. Non è cicatrizzata e non penso lo farà mai.
Capita di vederti per strada e i nostri sguardi si incrociano ma ci ignoriamo perché tu hai deciso così, o perlomeno, lo ha deciso la tua ragazza. E dopo anni, dopo ormai esserne consapevole, ci resto sempre male, forse perché ci spero sempre in un tuo saluto.
Che stupida, eh?
Mi è appena venuto in mente, ascoltando That Should be me di Justin, quel giorno in cui dovevamo andare in ospedale da Federica e hai deciso di prendere la strada dei binari come scorciatoia. Camminavamo come se non ci fosse nulla di pericoloso in quello che stavamo facendo, come se non dovesse passare un treno da un momento all'altro e morire schiacciati.
Eppure il treno è passato e come dimenticare la risata divertita e forse anche un po' isterica subito dopo il transito del treno e le nostre facce cadaveriche.
Avrei voluto che il mio ragazzo ti conoscesse, avrei voluto che mi conoscesse per com'ero prima, per la ragazza che sono stata, perché quella di adesso, beh, quella di adesso è un po' ammaccata ma stabile.
Solo tu e Sara avete conosciuto e subìto dal vivo quella che era la mia instabilità, quella che ero prima di conoscere Manuel: irrequieta, triste, con il cuore in frantumi, con il trucco sbavato dopo una crisi di pianto.
Dio mio, tu sei quello che mi ha chiamata la notte prima degli esami cantando la canzone di Venditti. Quello che, sotto la pioggia e senza ombrello, era sotto casa mia a farmi gli auguri di compleanno.
Che cosa ti è successo? Me lo chiedo sempre nonostante la risposta sia evidente e palese, nonostante io, quella risposta, la conosca già.
Sai, Manuel ti sarebbe piaciuto: è divertente, intelligente, mi ama e avete lo stesso senso dell'umorismo.
Sono felice adesso, sto bene, non piango più se non per qualche film strappalacrime o per la morte del mio personaggio preferito in qualche serie TV.
Sono più forte.
Saresti fiero di me e della ragazza che sono diventata.
Così fiero che ti immagino a darmi dell'idiota e ad abbracciarmi dicendomi che mi vuoi bene.
La mia vita è quasi completa e lo sarebbe del tutto se tu avessi mantenuto la tua promessa, una promessa fatta con il mignolino come fanno i bambini e si sa, non si dovrebbe spezzare se c'è di mezzo il mignolino.
Tu sei e sarai sempre l'unica persona che è andata via dalla mia vita che mi mancherà sempre.
Mi mancherai sempre, davvero.
Pezzi di me.
4 notes
·
View notes
Text
IVG
Ciao Doc,
la faccio semplice e senza ghirigori: ho scoperto di essere incinta e vorrei effettuare una IVG. Sono già all'ottavo giorno di ritardo. So che ho atteso forse troppo, ma siamo sotto le feste e non ho trovato nè il mio medico curante nè informazioni per velocizzare al più possibile la cosa. Inoltre non è stato facile parlarne con il mio compagno e per prendere questa decisione ci siamo comunque presi un po' di tempo, oltre allo sconvolgimento iniziale...
Ho scoperto cosa devo fare: il centro nella mia città che effettua questo tipo di cose è vicino a casa mia e la procedura sembra piuttosto facilitata, per fortuna, ma non fanno tutto in loco. Devo arrivare lì già con il documento del mio medico e con gli esami che attestano il mio stato. Purtroppo il mio medico non aveva posto fino a venerdì prossimo (ho parlato con la segretaria e non volevo dirle niente di specifico), anche se lo chiamerò cercando di spiegargli che ho premura. Spero solo che non sia un obiettore (perché a dire il vero non lo so). Ovviamente cerco di fare velocemente per usufrire, se possibile, della pillola e non della chirurgia, e non capisco bene come si calcolano i famosi 49 giorni. Non so esattamente che giorno è successo il fattaccio, ma mi sento sul filo del rasoio. Puoi tranquillizzarmi sui tempi? Abito nel fiorentino, e il centro preposto è il Palagi.
-----------------------------------
Seppure io capisca la tua lacerazione emotiva, ti voglio rincuorare dicendoti che sei ben dentro le sette settimane in cui è ancora possibile l'interruzione di gravidanza con mifepristone e misoprostolo. Dal punto di vista tecnico il calcolo del giorno di concepimento è fatto sottraendo una settimana al primo giorno di mestruazione saltata (cioè il momento di ovulazione) ma in genere la conferma definitiva il ginecologo che somministrerà il farmaco la ha con un esame morfologico ecografico con cui misura le dimensioni dell'embrione e desume il giorno di vita. Qua da noi a Parma la presa in carico la fa direttamente il medico ginecologo senza passare dal medico curante e quindi è una procedura piuttosto veloce ma ogni realtà ha la sua prassi, troppo spesso con due o tre giorni farlocchi di ricovero per la somministrazione del misoprostolo per favorire l'espulsione (a Parma torni il giorno dopo).
Ti abbraccio forte in un momento davvero così duro e scusandomi per la sgrammaticità e le imprecisioni (ti sto scrivendo dal mezzo di un bosco) ti dico che stasera mi spiegherò meglio con una mail all'indirizzo di questo tuo submit. A presto.
14 notes
·
View notes
Text
Non so perché mi ritrovo alle 5 del mattino a sentire il bisogno di esternalizzare quel che ho dentro. Tutto è iniziato quando ho ripreso a leggere “un semplice disastro” e a riguardare tutta la serie di un “Diario di una nerd superstar”. Ed ora eccomi qui, anche io a scrivere il mio blog (se così si può chiamare). Non so esattamente cosa mi stia succedendo. Non sorrido più come prima, sogno ad occhi aperti, costantemente. Forse perché durante l’inverno con gli esami di maturità e vari impegni, non ho mai avuto tempo per chiedere a me stessa di cosa avessi bisogno o semplicemente di fare progetti per il futuro. Ho 18 anni, ma dentro mi sembra di averne 14. Sogno ad occhi aperti ogni qualvolta sono da sola: sotto la doccia, a letto, durante un tragitto, guardando fuori dal finestrino. Sogno sempre un amore incondizionato. Forse, anzi, sicuramente è patetico a questa età. Sono sempre stata convinta di non aver mai avuto bisogno di un ragazzo visto che con le relazioni passate, non ho fatto altro che stare male. Ma leggendo il libro e riguardando la mia serie tv preferita, mi chiedo: troverò mai il mio Travis? O il mio Mckibben? Due ragazzi così differenti, pieni di difetti, ma con una qualità bellissima: amano follemente incondizionatamente la propria dama. Scrivendo questo, mi sento a dire la verità molto patetica. Colei che sta scrivendo tutto ciò, è sempre stata la prima a credere “ io non ho bisogno di un ragazzo”, “l’amore non esiste nella mia vita” e molto altro ancora. Non fraintendete: continuo tutt’ora a pensare che non abbia bisogno di un ragazzo per essere felice. Però più passano i giorni, più aumentano i miei amici fidanzati, più io mi sento così dannatamente un disastro. L’autostima non fa altro che scendere, dovuta anche al mio peso un po’ sovrappeso. Non mi sento in pace con me stessa e credo sia la ragione principale per cui non riesco a trovare la strada giusta. La ragione per cui non riesco a percorrere la mia vita in serenità come facevo prima. La verità è che se non si sconfigge la guerra che c’è tra noi e noi stessi, come potremmo pensare di sconfiggere quella con il mondo esterno?
3 notes
·
View notes
Text
Amore ideale
Io non capisco, non capisco proprio.
Più ci penso e più le mie conclusioni si fanno confuse...perché non riesco a capire davvero i miei sentimenti? Perché nonostante non senta più le stesse cose di mesi, anni fa, il dolore ritorna?
...per tutto quel tempo, l'ho amata davvero?
Mi sono sforzato molto per pensarci, parlo di notti insonni; e la risposta a cui mi sembra di giungere è : no, non l'ho amata davvero. Nonostante sia una delle persone migliori che abbia mai conosciuto, nonostante mi piacesse anche fisicamente, nonostante mi abbia trattato sempre con gentilezza e rispetto. Nonostante mi facesse provare delle emozioni mai provate prima, la verità è che tutte queste cose non bastano per amare qualcuno.
È proprio perché mi sono concentrato su questi punti che credo di non averla amata per quello che è, ossia una fra le tante. Sto dicendo, in parole povere, che mettendola sotto i riflettori e concentrandomi sulle sue qualità ho perso di vista la sua vera essenza, il suo essere...normale, per così dire. L'ho idealizzata, ho rimosso qualunque attributo negativo potesse avere; è facile farlo specialmente se non ci si conosce profondamente. Questo non è amore. Ho ascoltato solo il bisogno che avevo dentro di trovare una ragazza piena di qualità.
E mi starebbe bene ammettere il mio errore, dico davvero : avrei un quadro chiaro della situazione. Ma se era solo una cotta e nulla di più, com'è possibile che mi capiti ancora di sentirmi male pensando a lei? Perché mi si stringe il petto quando non le parlo ma quando me la ritrovo davanti è come se il mio cuore smettesse di battere, azzerando tutto? È così strano. Senza queste emozioni si spiegherebbe tutto perfettamente; perché non è così?
Avrei gli esami a cui pensare, cose sicuramente più serie di queste a cui dedicarmi, ma la sensazione che ho è quella di un problema irrisolto, lasciato in sospeso e che mi ricorda di sè schiacciandomi ad intervalli irregolari. E non so proprio cosa fare : se fidarmi del mio ragionamento o arrendermi a quella che ormai mi sembra solo una matassa di sentimenti mischiati, in mezzo ai quali non riesco a trovare un amore sincero e privo di ideali.
4 notes
·
View notes