#nomi dialettali dei pesci
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Lutrino e lustrino: Nardò chiama, Napoli risponde; si spera ... (2/2)
di Armando Polito
La speranza dubitativamente manifestata nel titolo non è andata delusa, come chiunque potrà constatare leggendo il commento del sig. Angelo De Stefano a quella che originariamente (http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/25/lutrinu-lustrinu-nardo-chiama-napoli-risponde-si-spera/) era l’unica parte e che ora è diventata la prima, avendo io ritenuto opportuno rispondergli con questa seconda parte che, a tutti gli effetti, è l’integrazione di quella, tant’è che ne conserva integralmente il titolo.
Preliminarmente debbo dire che i nomi dialettali dei pesci (e non solo) rappresentano in alcuni casi un vero rompicapo, anche perché le testimonianze dei locali, magari pure pescatori, non sempre sono concordi.
Detto questo, tenterò di approfondire l’argomento partendo dalle informazioni fornitemi dal mio gentile interlocutore.
Su litrinos non credo ci sia bisogno di dire alcunché, mentre fagrì è la forma moderna del classico φἀγρος (leggi fagros) da me citato e dovrebbe corrispondere al nostro dentice. La voce moderna con la sua inequivocabile derivazione da quella classica ribadisce, ove ce ne fosse stato bisogno, la totale assenza di qualsiasi rapporto tra fagros e fragolino, al di là della metatesi fagr>frag– che di per sè poteva pure essere un fenomeno normalissimo.
Per quanto riguarda luvero, livrino, liverino, luvrino e luverino, la prima voce sembra la madre delle rimanenti, ma credo di aver trovato il suo antenato nel luuare che si legge nell’ultima ottava del terzo canto del poema eroico L’agnano zeffonnato1 di Andrea Perruccio, pubblicato la prima volta per i tipi dell’editore Paci a Napoli nel 1678 e a distanza di più di un secolo ristampato per i tipi di Porcelli sempre a Napoli nel 1787.
Riproduco l’ottava dalla pagina 70 della prima edizione (ma nella più recente non cambia né il numero di pagina né il carattere tipografico), aggiungendo la mia traduzione e qualche nota.
Sale Girolamo con gli altri sulla galea/e, mentre (con lo sguardo) scorre sott’acqua felice,/vede nuotare pesci di ogni maniera: pagelli fragolini, sparaglioni, occhiate, alici,/cernie, mafroni e un branco di boghe,/spicare, lucci di mare, scorfani e schifezze;/lasciato insomma il regno marino,/guizzarono in alto vicino a Nisida.
Non posso lasciarmi sfuggire l’occasione di dire qualcosa sui nomi dei pesci tradotti in corsivo, che nell’originale compaiono tutti al plurale ma che qui esaminerò al singolare, lasciando a bella posta per ultimo pagelli fragolini (nell’originale: luuare).
sparaglione: accrescitivo da sparo, per il quale vedi nella prima parte.
occhiata: dal latino oculata(m) presente come sostantivo in Plinio (I secolo d. C.) ma derivato dal femminile dell’aggettivo oculatus/oculata/oculatum col significato di dotata di grandi occhi. Ajata presenta il passaggio o->a– in comune col salentino acchiata e, in particolare, col verbo neretino acchiare che significa trovare (alla lettera cogliere con l’occhio); a differenza del salentino in cui la trafila –cula->cla->-cchia– è normalissima, in ajata –j– è dovuto ad influsso dello spagnolo ojo=occhio.
alice: dal latino hallece(m) che significa salsa di pesce, a conferma della vocazione gastronomica del pesce.
cernia: dal latino tardo acernia(m) attestato in Cassiodoro2 (V-VI secolo), variante del classico acharna, che è dal greco ἀχάρνας (leggi acharna). Cernia è il frutto di errata deglutinazione di a- inteso come parte dell’articolo: acernia>l’acernia>la cernia>cernia.
mafrone (o manfrone): da un precedente vafrone, accrescitivo del letterario vafro, che è dal latino vafru(m)=astuto. In manfrone l’epentesi di –n– può essere dovuta ad influsso di manfrina (che, però ha altra etimologia: da monferrina, danza popolare piemontese di ritmo binario e di carattere allegro e vivace). Lascio agli amici pescatori il compito di confermare o meno l’astuzia e/o la vivacità come caratteristiche di questo pesce.
boga: dal latino tardo boca(m), a sua volta dal greco βόαξ (leggi bòax), che è da βοάω (leggi boào)=gridare. La variante neretina opa è dal greco βόωψ leggi bòops) per il quale il Montanari )la voce nel Rocci è assente) rinvia a βόαξ; io credo invece che per motivi fonetici [(la radice di βόαξ è βοακ– (leggi boac-), quella di βόωψ è βοοπ- (leggi boop-)] βόωψ sia parola composta dalla radice di βοῡς (leggi bus)=bue+la radice di ὄψ (leggi ops)=sguardo. Insomma in boga il riferimento sarebbe al rumore che il pesce emette appena pescato, in opa alla forma dell’occhio. Per finire: mentre in opa c’è stata l’aferesi di b– in vopa c’è stato il normalissimo passaggio b->v-.
schifezza: pesce minuto e di poco pregio.
spicara: è il nome scientifico di un genere che comprende parecchie specie. La voce è forma aggettivale dal latino spica=spiga e il riferimento è alla pinna dorsale generalmente reca due o tre raggi spinosi.
luccio di mare; l’originale aluzza ha lo stesso etimo della voce italiana con in più la prostesi di a- per agglutinazione della -a dell’articolo dopo il cambio di genere: la luzza>l’aluzza>aluzza. Tutte le voci sono dal latino lucius attestato in Decimo Magno Ausonio3 (IV secolo).
scorfano: dal latino scorpaena, a sua volta dal gr. σκόρπαινα, derivato di σκορπίος=scorpione.
E siamo a pagello fragolino, traduzione dell’originale luuare. La tentazione è di emendarlo in luvare, considerandolo plurale del luvero, segnalato dal lettore napoletano è grande, ma si scontra con la grafia delle altre v (vede, vope e vecino). Molto difficile, dunque, anche se non impossibile, che un errore di stampa si sia verificato proprio in luuare per luvare. Nel 1678 non esisteva certo la possibilità di registrazione magnetica, mentre oggi non approfittiamo neppure di quella digitale per conservare la pronuncia di una parola dialettale dalla voce e dalla memoria, si spera vive affidabili, degli ultimi testimoni. Voglio dire che, in fondo, non c’è conflitto tra luuare e luvare, se non una piccola differenza nella pronuncia del primo dovuta alla vocalizzazione di v o, forse più correttamente se rispettiamo la cronologia, alla consonantizzazione della seconda u nel secondo. Mi fa preferire quest’opzione quello che è successo dopo il 1670.
Ecco, a raffica, una serie di testimonianze che riporto, come al solito, in formato immagine non solo con il furbesco intento di fare più presto ma anche, direi soprattutto, per evitare qualsiasi rischio di errore nella trascrizione.
A) Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si scostano dal dialetto toscano, Porcelli, Napoli, 1789, lemma Pesci (https://books.google.it/books?id=NxcJAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=parole+del+dialetto+napoletano&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiiuduCmN7UAhWKIMAKHSfpAdwQ6AEIIjAA#v=onepage&q=parole%20del%20dialetto%20napoletano&f=false)
Ho evidenziato in rosso i nomi che compaiono nel poema eroico, ma ci interessa soprattutto notare come il luuare del 1670 a distanza di più di un secolo è diventato luvere.
B) Vocabolario napoletano lessigrafico e storico, Stamperia reale, Napoli, 1845, v. I, a p. 121 (https://books.google.it/books?id=HRK5Tw5COm0C&pg=RA1-PA216&dq=napoletano+luvero&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjiwuPoldvUAhXD0RQKHRg1AF0Q6AEIKDAB#v=onepage&q=napoletano%20luvero&f=false)
Il luuare del 1670, già luvere nel 1789, è diventato lavare nel 1845.
C) Vocabolario napolitano-toscano domestico di arti e mestieri, A spese dell’autore, Napoli, 1873, al lemma Ajata (https://archive.org/details/vocabolarionapo01ambrgoog)
Il luuare del 1670, che nel 1879 era diventato luvere e nel 1845 lavare, nel 1873 è ritornato ad essere lùvere. Colpisce in questa testimonianza, come pure in quella precedente, non solo la discrepanza in una comune citazione dalla stessa opera, ma anche l’errata indicazione, in un caso e nell’altro, del numero di canto e di ottava.
Ecco, tratto da questo stesso vocabolario, il lemma lùvaro.
Sinceramente qui non si capisce come da un plurale lùvere si abbia un singolare lùvaro e non lùvero e si ha pure l’impressione che il lòvero che accompagna Pesce sia un tentativo d’italianizzazione che non vuol fare torto né a lùvere, né a lùvaro.
Diamo ora un rapido sguardo agli altri dialetti meridionali, cominciando con il siciliano.
D) Vocabolario siciliano etimologico di Michele Pasqualino, Reale stamperia, Palermo, 1789 (https://books.google.it/books?id=8e9OAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:YFksSo-wjwcC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwi79MvX1tvUAhWEVhoKHSDyCQcQ6AEIQTAF#v=onepage&q&f=false)
Dato l’etimologico del titolo, ci saremmo aspettato qualcosa di più che voce dell’uso , troppo generico, a meno che non sia da intendersi come voce gergale.
E) Nuovo dizionario siciliano-italiano di Vincenzo Mortillaro, Palermo, 1853 (https://books.google.it/books?id=u7gWAAAAQAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false)
F) Nuovo vocabolario siciliano-italiano di Antonino Traina, Pedone Lauriel, Palermo, 1868 (https://books.google.it/books?id=jtFFAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=vocabolario+siciliano-italiano&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiqx_Kb0tvUAhUJOxQKHdUEBZcQ6AEILDAB#v=onepage&q=vocabolario%20siciliano-italiano&f=false)
Ringraziando per la conferma dell’accento (quando le parole non sono piane, specialmente in lavori di questo tipo, l’accento è un dettaglio fondamentale), notiamo Crythrinus per Erythrinus, sicuramente errore di stampa.
G) Nuovo vocabolario siciliano-italiano e italiano-siciliano di Sebastiano Macaluso Storaci, Norcia, Siracusa, 1875 (https://books.google.it/books?id=Bnw7AQAAMAAJ&printsec=frontcover&dq=vocabolario+siciliano-italiano&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwiqx_Kb0tvUAhUJOxQKHdUEBZcQ6AEIJjAA#v=onepage&q=vocabolario%20siciliano-italiano&f=false)
E siamo al Salento.
H) Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976.
L 12 è la sigla con cui il Rohlfs cataloga la fonte (L sta per dialetti della provincia di Lecce).
Lùvaro, dunque, non è stato, per così dire, colto sul campo; perciò appare più interessante la variante lùvere segnalata per il Brindisino a Ceglie messapica (B ce), in cui la particolare grafia delle due e, qui irriproducibile, segnala la loro pronuncia evanescente. Per quanto riguarda l’etimo non mi sembra discutibile il confronto con il sardo lìmaru e l’estensione della sua probabile etimologia a lùvaru, quanto, piuttosto, il fatto che la voce sarda non è registrata in nessun dizionario dei dialetti sardi, compresi, naturalmente, quelli di Vincenzo Porru, Tipografia Arciobispali, Casteddu, 1832 e di Giovanni Spano, Imprenta Nationale, Kalaris, 1851, nonché, per la sua specificità, il repertorio di Elisio Marcialis, Società tipografica sarda, 1913. E se la sostituzione in lìmari della v di lùvaro non è una difficoltà insormontabile (vedi lo stesso passaggio addotto prima nell’etimo di mafrone) bisognerebbe avere la onferma che la voracità è veramente la caratteristica più spiccata di questo pesce.
È giunto il momento di trarre le conclusioni, ma prima ho ritenuto opportuno riprodurre la tabella relativa al nostro pesce presente a p. 107 di A. Palombi e M. Santarelli, Gli animali commestibili dei mari d’Italia. Hoepli, Milano, 1986 (https://books.google.it/books?id=-r6rEuosIssC&pg=PA108&dq=pesci+Vedi+la+spiegazione+a+pag.+103&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjlsO66n-DUAhXqKsAKHSTyAd0Q6AEIIjAA#v=onepage&q=pesci%20Vedi%20la%20spiegazione%20a%20pag.%20103&f=false).
La tabella riserva non poche sorprese, tra cui il lèmaru/lèmuru sardo certamente sovrapponibile al lìmaru citato dal Rohlfs; più notevole i tutti, però, mi pare il luuru siciliano sovrapponibile al luuare del poema eroico da ui siamo partiti ed al quale son ritornato per evitare che questo post diventi una sorta di poema (!) tragicomico …
In conclusione: secondo me possono essere individuati due filoni etimologici entrambi legati al colore del pesce.
Il primo, indiscutibile, mette in campo la voce greca ἐρυθρός (leggi eriuthròs), che significa rosso, e coinvolge, con i passaggi individuati nella prima parte, lutrìno.
Il secondo, con qualche dubbio per i contorsionismi cui costringe, come subito vedremo, la probabile ricostruzione della filiera, mette in campo, confermando l’etimo della Treccani citato dal mio interlocutore, e cioè l’aggettivo latino ruber/rubra/rubrum, che significa anch’esso rosso, e coinvolge lùvaro e i suoi compagni siciliani in tabella (primo tra tutti lùvaru e poi luuru, ùvaru e alùvaru). Quanto alle altre varianti: liverino e luverino sono diminutivi di lùvaro, mentre livrino e livrino sono le rispettive forme sincopate. Ogni riferimento alla livrea appare da escludere definitivamente.
La filiera sarebbe questa: rubru(m)>*rùberu(m)4>*rùbaru(m)5>*lùvaru(m)>lùvaro.
Mia moglia mi avverte che l’arrosto di pesce in programma per il pranzo di oggi è pronto. Trattandosi di lutrini pensate che oggi mangerò con entusiasmo dopo che di questo pesce, non certo per colpa sua, ne ho piene le palle … degli occhi (la visione prolungata a monitor affatica la vista)?
Per la prima parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/25/lutrinu-lustrinu-nardo-chiama-napoli-risponde-si-spera/
______________
1 Agnano affondata. Agnano è il nome di un vulcano inattivo dei Campi flegrei. Nel poema l’autore l’immagina come una città andata in rovina.
2 Variae, XIV, 4, 1: … Bruttiorum mare dulces mittat acernias ... (… il mare dei Calabresi mandi le dolci cernie …).
3 Mosella, 122-123: Lucius, obscuras ulva caenoque lacunas/obsidet … (Il luccio abita gli antri oscuri per l’alga e per il fango …).
4 Con epentesi di –e– per motivi eufonici; tuttavia si potrebbe anche ipotizzare una forma di partenza *rùberum, della lingua volgare, tenendo presente il caso del sostantivo sòcer/sòceri dal cui accusativo suocerum è derivato l’italiano suocero; ma il salentino suècru mostra un’origine da un accusativo *socru(m).Il caso di socer/sòceri e non socer/socri contro, per esempio, ager/agri e l’esito della voce salentina dimostrano, a mio avviso, l’andamento ballerino della e presente al nominativo ma assente nel tema (come, appunto in ager/agri). Nulla vieta di pensare che lo stesso accadesse, a livello di lingua parlata, con gli aggettivi in –er, come, sempre a mio avviso, dimostra il superlativo, per esempio, di sacer/sacra/sacrum che è acerrimus contro l’acrissimus che ci saremmo aspettato.
5 Ma il lùvere di Ceglie messapica (vedi H) suppone un più regolare *rùberu(m).
#Armando Polito#lutrino#mafrone#nomi dialettali dei pesci#occhiata#Pagello fragolino#pesci dello Jonio#scorfano#sparaglione#Spicara flexuosa#Dialetti Salentini#Spigolature Salentine#Terra D'Otranto a Tavola
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Linguattole Fritte in forno con patate
Linguattole Fritte in forno con patate
Linguattole Fritte in forno con patate Linguattole Fritte in forno con patate La linguattola appartiene alla famiglia delle Citharidae, dell’ordine dei Pleuronettiformi, pesci ossei piatti di cui fanno parte anche pesci più noti come la sogliola e il rombo, a cui la linguattola somiglia molto. Possiede anche nomi dialettali come sfoia (Abruzzo), palaia (Calabria, Campania), lengua (Liguria),…
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“Ti-Jean, non dimenticare che sei bretone!”. Jack Kerouac e l’ossessione per il suo antenato, il figlio di un notaio francese, de Kervoac, disonorato e vagabondo, capitato in Canada nel ’700
Quando Jack Kerouac si mise in viaggio verso la Francia, all’apice della fama letteraria, il suo obiettivo non era quello di promuovere un libro, né di farsi una vacanza. Dopo essersi interrogato per decenni, all’età di 43 anni, l’autore americano desiderava ritrovare le proprie radici. Atterrato a Parigi il primo giugno del 1965, per poi dirigersi in Bretagna, Kerouac, che narrò della sua spedizione in Satori a Parigi (1966), era deciso a scoprire tracce del suo antenato, un uomo bretone vissuto nel diciassettesimo secolo, che emigrò in Canada. Per generazioni i Kerouac avevano custodito il mito del loro progenitore, un nobile nullatenente di nome de Kervoach.
*
Kerouac rastrellò gli archivi francesi in cerca di omonimi, ma, malgrado il titolo che diede al suo libro (“Satori” in giapponese significa illuminazione improvvisa), si ritrovò in un vicolo cieco. I suoi problemi di salute gli impedirono di tornare in Bretagna e morì il 21 ottobre del 1969, a quattro anni di distanza da quel primo viaggio. Passarono altri trent’anni prima che il mistero fosse svelato. Nel 1999, la storica Patricia Dagier e il giornalista Hervé Quéméner ripercorsero in un libro gli intricati studi genealogici che diedero infine una soluzione alle ricerche di Kerouac.
*
Kerouac affermava di essere “il primo Lebris de Kérouack che mai tornò in Francia in 210 anni”, ma non fu così. In realtà i Kervoac, Kirouac, e Kerouac (tutti cognomi derivati da Kervoach) del Nord America, da secoli erano in cerca delle proprie origini, alcuni si imbarcarono persino su navi a vapore per raggiungere la Bretagna, ma ogni ricerca fu vana. Nel 1978, i discendenti fondarono la Kirouac Family Association per “scoprire informazioni riguardo alle [loro] origini bretoni”. Le ricerche partirono dal certificato di matrimonio del 1732 tra “Maurice-Louis-Alexandre Le Bris de Kervoach, commerciante, figlio di sieur Le Bris de Kervoach, e dame Véronique-Magdeleine de Meuseuillac, da Beriel, nella diocesi della Cornovaglia francese” e Louise Bernier, in Nuova Francia (nell’attuale Québec). Di lui si sapeva che ebbe tre figli, morì il 5 marzo del 1736 e che la sua vedova, avendo ereditato cospicui debiti provò per tutta la vita a prendere contatto con i parenti dell’aristocrazia bretone, senza successo.
*
Quando nacque Kerouac, nel 1922, con il nome di Jean-Louis, erano già due secoli che la sua famiglia stava cercando di risalire al proprio nobile antenato Kervoach, mi ha rivelato Hervé Quéméner, 74 anni. Figlio di immigrati canadesi stabilitisi a Lowell, in Massachusetts, la madrelingua di Jean-Louis Kerouac era il francese, solo quando cominciò ad andare a scuola imparò l’inglese, e diventò “Jack”. Suo padre coltivava le tradizioni bretoni, ripeteva continuamente: “Ti-Jean, non dimenticare che sei bretone!”. Anche negli anni trascorsi sulla strada non mancano riferimenti alla Bretagna, ma nel 1965 l’abuso di alcol e droga cominciava ormai ad avere conseguenze su Kerouac. Come spiegò Quéméner, “Sentendo la morte che incombeva, cominciò a sviluppare una monomania per le sue origini. Per due volte emigrato, una vita intera passata a vagabondare da un luogo all’altro, [Kerouac] aveva fatto della Bretagna la sua ancora”.
*
Indizi della sua ossessione per la Bretagna sono disseminati nella produzione letteraria di Kerouac. Ancora non era stato incoronato “Re dei Beat” quando firmò la sua raccolta di poesie in francese La vie est d’hommage (1940) come “Principe della Bretagna”. In Big Sur (1962), la storia della sua estate in una capanna nella West Coast, il suo alter-ego Jack Duluoz (un altro nome bretone) urla all’oceano: “Sono bretone!”. Le poesie di “MARE”, in appendice a Big Sur, sono animate da suoni bretoni (“Ker plasc”, “Kerarc’h”), che ricordano il rumore del mare mentre si infrange contro le rocce. Kerouac scrive: “I pesci nel mare/ Parlano bretone / Io sono Lebris / De Keroack”. Quéméner si augura che un giorno gli studiosi analizzino le opere di Kerouac “alla luce della sua ossessione bretone”.
*
Non c’è pagina in Satori a Parigi in cui Kerouac non ribadisca che la sua “gente viene dalla Francia, e che il loro nome era de Kerouac”. Tuttavia l’identità dell’antenato era impossibile da trovare e Jack si spazientì: “E poi è tutto di troppo tempo fa”, scrisse, e “senza senso a meno che non ritrovi i sacrari della famiglia, ma dovrei rivendicare i sanguinosi dolmen di Carnac?”. Il racconto è come un insieme di voci di viaggio meravigliate: Kerouac che fuma dentro la biblioteca nazionale francese, che vaga per Parigi prima di partire per Brest, una città portuale all’estremità occidentale della Bretagna, il Finistère (“dove la terra finisce”). Arrivato lì condivide cognac e racconti con un libraio di nome Le Bris, presumibilmente un cugino alla lontana. Un’altra falsa pista.
*
Tornato a New York, Kerouac strinse amicizia con l’autore bretone Youenn Gwernig di Huelgoat, nel Finistère. Insieme discutevano della Bretagna, mentre passavano da un bar all’altro. Nel 1967, Kerouac scrisse a Gwernig: “Devo vedere la Bretagna con te […] Vediamo cosa riusciamo a trovare su les pirates Lebris de Kerouac questa volta!”. I due amici avevano in programma di partire per Huelgoat, ma la prematura morte di Jack stroncò i loro piani.
*
Kerouac non seppe mai che lui e Gwernig, erano stati a un passo dalla verità. Nel 1996, Clément Kirouac, un membro canadese della Kirouac Family Association, si mise in contatto con i genealogisti francesi per avere informazioni su “Le Bris de Kerouac”. La storica Patricia Dagier ne rimase affascinata; dal momento che non si trovò traccia del nome, dedusse che “l’identità dell’antenato e quella dei suoi parenti era falsa” e spostò quindi l’attenzione sul luogo di nascita. In questo modo scoprì che “Beriel”, come era stato segnato dal sacerdote canadese nel 1732, era in realtà “Berrien”, della parrocchia di Huelgoat. Non c’era nessuno che si chiamasse Bris de Kerouac, ma emerse una famiglia dal nome Le Bihan de Kerouac. Di cui faceva parte Urbain-François Le Bihan de Kervoac, figlio di un notaio, scomparso dagli archivi intorno al 1729, la cui morte non fu mai registrata.
*
Dagier si chiese il motivo che avesse spinto un giovane facoltoso a emigrare in Canada. Gli archivi dei tribunali locali custodivano la risposta; il nome di Urbain-François fu associato allo scandalo per via di accuse di furto e leggerezza. Disonorato, si imbarcò per ricostruirsi una nuova vita commerciando pellicce in Québec. Negli archivi canadesi apparve con nomi diversi e nel 1732 fu costretto a sposare una giovane che portava in grembo suo figlio. Per proteggere il suo patrimonio in Bretagna, spiegò Dagier, cambiò il suo nome da “Le Bihan” a “Le Bris” e dichiarò di essere nobile, che all’epoca garantiva protezione legale. Forse Urbain-François avrebbe desiderato tornare a casa, ma morì in Canada quattro anni dopo. La sua firma intricata, la stessa sia a Huelgoat che nel Québec fu la chiave. Dagier poté finalmente dichiarare: “L’antenato della famiglia Kerouac in America non era altri che il figlio del notaio, il cui nome nel 1720 era sulla bocca di tutti a Huelgoat: Urbain-François Le Bihan de Kervoac”.
*
Non scorreva sangue blu nelle sue vene; Urbain-François, come il suo famoso discendente, fu un girovago con una straordinaria creatività e un’inclinazione all’infiorettatura. Quéméner, che scrisse il libro insieme a Dagier, ricorda con affetto questa “caccia al tesoro”. “Lo abbiamo inseguito tra gli archivi”, ha osservato. “Il nome lo puoi cambiare, ma la firma no”. La strategia di Urbain-François funzionò a meraviglia. Dagier ha affermato: “I suoi discendenti furono condannati a cercarlo ad nauseam”. Nel corso degli anni, inflessioni dialettali e analfabetismo fecero nascere una miriade di variazioni del nome Kerouac, mentre “Le Bris” scomparve. Sebbene non fosse che “pura fantasia”, il mito della nobiltà sopravvisse, nutrendo in Kerouac le fantasticherie di un passato nell’aristocrazia bretone.
*
L’opera di Dagier e Quéméner, ripubblicata nel 2019, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Kerouac, intreccia la sua storia con quella di Urbain-François, per meglio enfatizzare la “convergenza di destini” tra due mistificatori che sognarono, peregrinarono e sfuggirono ai posteri. Kerouac non pagò mai gli alimenti per la figlia e tantomeno riconobbe l’influenza dei Beat sul movimento hippie. Però forse sarebbe stato orgoglioso degli omaggi che gli ha reso la Bretagna dal 1999. Oggi a Huelgoat, una targa ricorda Urbain-François e a Carhaix, nel Finistère, gli artisti salgono sul “palco Kerouac” durante l’annuale festival di musica locale. La leggenda di Jack è ormai radicata.
Pauline Bock
*Il testo, pubblicato in origine qui, è tradotto da Valentina Gambino; le citazioni tratte da “Satori a Parigi” sono riportate nella traduzione di Silvia Stefani, per l’edizione Mondadori
L'articolo “Ti-Jean, non dimenticare che sei bretone!”. Jack Kerouac e l’ossessione per il suo antenato, il figlio di un notaio francese, de Kervoac, disonorato e vagabondo, capitato in Canada nel ’700 proviene da Pangea.
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Lutrinu e lustrinu: Nardò chiama, Napoli risponde; si spera ...
di Armando Polito
foto di Massimo Vaglio
Se qualcuno mi avesse chiesto di dare un sottotitolo, avrei senz’altro proposto: La scientificità dei salentini e la scientificità/fantasia dei napoletani. Subito dopo, però, avrei aggiunto di non prenderlo/prendermi alla lettera, almeno per quanto riguarda la presunta nostra scientificità, visto che nessuno oserebbe mettere in dubbio la fantasia dei napoletani. Il mio (vivo a Nardò, provincia di Lecce) non è un sintomo di masochismo né un involontario darsi con la zappa sui piedi; è semplicemente il riconoscimento di un indiscusso pregio altrui e di uno nostro probabilmente tutto da dimostrare.
Ad ogni modo, se qualcuno alla fine della lettura volesse prendermi a pesci in faccia, lo faccia con un buon numero di esemplari della specie riprodotta nell’immagine di testa e della quale mi affretto a fornire la scheda con i dati essenziali.
Nome scientifico: Pagellus erythrinus L. 1758
Famiglia: Sparidae
Genere: pagellus
Nome comune: Pagello fragolino
Nome in dialetto salentino: lutrinu
Passerò ora in rassegna le singole voci delle cinque sezioni della scheda.
1) Nome scientifico: Pagellus erythrinus L. 1758
Parecchie voci del latino scientifico sono di formazione moderna. Così, chi andasse a cercare pagellus su qualsiasi vocabolario di latino, resterebbe deluso. Troverebbe come lemma più vicino pagella=foglio, che, insieme con pagina (da cui la voce italiana) è da pàngere=conficcare. Per comprendere il rapporto tra il verbo ed i due sostantivi bisogna sapere che Plinio (I secolo d. C.) ci attesta che i romani chiamavano pagina il pergolato di viti, la cui forma per lo più rettangolare evocava la colonna di scrittura. Se è evidente che questa metafora, come tutte, è un omaggio alla fantasia, altrettanto lo è che tra il nostro pagellus (il pesce) e il pagella del vocabolario non c’è alcun rapporto, anche scatenandoci con i voli più arditi e volendo, magari, ipotizzare pagellus come il maschio della pagina o come diminutivo di pagus=villaggio …
L’attestazione più antica da me conosciuta di pagellus è in un documento del 1488 (in M. Ménard, Histoire civile, ecclésiastique et litteraire de la ville de Nismes, Chaubert-Herissant, Parigi, 1753, p. 47 della parte documentaria).
(E in primo luogo i consiglieri di detto signore pagarono a ciascun pescivendolo chiamato la Borni per 84 libbre di pesci, tanto pagelli, orate, muggini, in ragione …)
Pagellus, sì è detto, non può essere, per motivi semantici, diminutivo di pagus, eppure quel suo suffisso -ellus è chiaramente diminutivo, come avviene in anellus (da cui l’italiano anello)=anellino, diminutivo di anus (ca cui l’italiano ano)=cerchio, anello, ano. Ma se non è pagus il termine primitivo, quale sarà? Esso è pager1, variante di pagrus, a sua volta di phagrus, che è trascrizione del greco φἁγρος (leggi fagros) designante un pesce vorace, come denota il suo stesso nome, che è connesso con il verbo φαγέω (leggi faghèo)=mangiare, divorare ed è anche il nome della cote che, come si sa, è la pietra per affilare.
A chi dovesse obiettare che il tema di ager, essendo il suo genitivo agri, è agr– e, quindi, il diminutivo dovrebbe essere pagrellus, faccio solo l’esempio di sacellum=recinto sacro, diminutivo di sacrum (neutro di sacer=sacro), il cui genitivo è sacri e.dunque, con un tema sacr-. ci saremmo atteso un sacrellum.
Erythrinus è trascrizione del greco έρυθρῖνος (leggi eriutrìnos) designante un pesce di problematica identificazione ma dal caratteristico colore rosso, dal momento che la voce deriva da ἐρυθρός=rosso. Nel latino classico la forma è erythinus2, trascrizione del greco έρυθῖνος (leggi eriuthinos) variante del ricordato έρυθρῖνος.
L. è abbreviazione di Linnaeus, latinizzazione del cognome di Carl von Linné, il naturalista svedese padre della moderna classificazione degli organismi viventi tramite la nomenclatura binomiale.
1758 è la data della decima a edizione del Systema Naturae (la prima, per i tipi di De Groot era uscita ad Amsterdam nel 1735) pubblicata per i tipi di Salvio a Stoccolma, nella quale il nome venne registrato per la prima volta.
2) Famiglia: Sparidae
La voce è da sparus=sparo, trascrizione del greco ςπάρος (leggi sparos). Nessun allarme, lo sparo è un pesce e il dialetto salentino ne usa il diminutivo (spariòlu) per designare il Diplodus anularis.3 Da notare come alla radice di sparus (spar-) è stato aggiunto il suffisso patronimico (-idae) di origine greca, che calza perfettamente visto che la voce designa la famiglia. Debbo rendere partecipe il lettore di un’amara considerazione fornendo un dato di agevolissimo controllo: mentre su qualsiasi dizionario troverà registrato uno sparo (colpo di arma da fuoco) ben distinto da sparo (nome del pesce), se in Google digita sparo per trovare il pesce dovrà selezionare alla fine della pagina l’opzione sparo pesce in ricerche correlate a sparo; se inizialmente anziché selezionare tutti opta per immagini, potrà pure consumare il tasto sinistro e la rotella del mouse per avanzare nella visione ma non incontrerà ombra di pesce. Se, invece, digita sparus e poi seleziona sempre immagini il suo monitor questa volta diventerà una sorta di acquario densamente popolato. Doppia prova digitale non solo della consacrazione della nostra aggressività (che moralmente si colloca infinitamente più in basso rispetto a quella delle cosiddette bestie, che la utilizzano solo per difendersi o sfamarsi e non si servono di strumenti diversi da quelli forniti loro da madre Natura) ma pure della nostra ignoranza (nella fattispecie del latino) … che finisce per coinvolgere (e non poteva essere altrimenti) anche il motore di ricerca che, evidentemente, ignora lo sparo (il pesce) come immagine. La colpa, naturalmente, non è del motore di ricerca ma di chi ne ha progettato l’algoritmo. Tutto questo non succede digitando (tanto con l’opzione tutti che con immagini) sparaglione, altro nome del nostro pesce, pur essendo chiarissimamente “sparaglione” derivato da sparo, accrescitivo cui si giunge attraverso un aggettivale *sparalio.
3) Genere: pagellus
Per pagellus vai al n. 1.
4) Nome comune: Pagello fragolino
Per pagello vai al n. 1. Fragolino è chiaramente diminutivo da fragola, con riferimento, anche qui, al suo colore. Fragola è voce latina medioevale. diminutivo di fraga, femminile singolare derivato dal cambiamento di genere e numero del classico fraga, neutro plurale. Il lettore non si lasci ingannare da una certa somiglianza fonetica che c’è tra fagra e il φἁγρος (leggi fagros) ricordato al n. 1, perché tra loro non c’è alcun rapporto.
5) Nome in dialetto salentino: lutrinu
La voce è da erytrinu(m), accusativo dell’erythrinus del n. 1 del n. 1, attraverso la seguente trafila: erythrinu(m)>rythrinu(m), per aferesi>lytrinu (passaggio r->l-)>lutrinu.
Se dovessimo italianizzare lutrinu, verrebbe fuori lutrino e il bello è che a parola esiste in italiano, ma non indica il pesce. Ecco risultati che si ottengono digitando in Google lutrino.
1) http://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?parola=lutrino
Ogni mammifero della sottofamiglia dei Lutrini. Ne fa parte la lontra europea (Lutra lutra, L. 1758)
Aggiungo che per il latino medioevale il glossario del Du Cange registra il lemma Lutrinus rinviando a Luter2 (varianti ne sono lutra, da cui l’italiano lontra, lutria e lutrius. Per brevità riproduco solo la parte iniziale che contiene la definizione, ponendo a fronte la mia traduzione e qualche nota.
2) http://dizionari.repubblica.it/italiano.php?stato=nt
Spiacenti, la ricerca non ha prodotto nessun risultato
3) http://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/LUTRINO/
La tua ricerca per lutrino non ha prodotto risultati in nessun documento
4) http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/ (edizione on line del Sabatini-Coletti)
Parola non trovata
5) http://www.grandidizionari.it/Dizionario_Italiano.aspx (dal Gabrielli)
La parola che hai cercato ha 1 significato. Lutreola [lu-trè-o-la] s.f.
ZOOL Piccolo mammifero dei Mustelidi (Musteola lutreola), carnivoro, abile nuotatore, dalla pelliccia bruno-scura sul dorso e bruno-grigia sul ventre, che vive nelle regioni ricche d’acqua dell’Europa nord-orientale e dell’Asia settentrionale. SIN. visone europeo.
Evidente che la risposta data è similare a 1 e conforme anche al lutèola registrato nel De Mauro (in cui lutrino è assente) con la definizione di piccolo mammifero (Mustela lutreola) diffuso nelle zone ricche d’acqua dell’Europa centrosettentrionale e dell’Asia settentrionale, particolarmente ricercato per la sua pellicia morbida e setosa di colore bruno scuro.
6) http://www.sapere.it/sapere/dizionari.html (Dal De Agostini)
Hai trovato 0 risultati per “lutrino”
7) https://dizionario.internazionale.it/cerca/lutrino
Non ho trovato occorrenze per lutrino. Lo stesso registra luteola ma con questa definizione: 1499; dal lat. lutĕŏla(m), femm. di luteolus “giallognolo”, der. di lutum “erba guada”.
8) http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=lustrino
Nessun risultato per lutrino forse cercavi: lustrino
9) http://www.accademiadellacrusca.it/it/search/apachesolr_search/lutrino
Forse cercavi neutrino
L’aggiunta etimologica che ho fatto alla definizione n. 1 rende ragione della totale assenza di rapporti tra lutrinu e lutrino, come mostra anche la differenza abissale tra le due specie.
Non così per lutrino, voce dialettale napoletana della quale riproduco il lemma come appare in Raffaele D’Ambra, Vocabolario napolitano-toscano domestico di arti e mestieri, A spese dell’autore, Napoli, 1873.
E, restando sempre nell’ambito del dialetto, ecco quanto si legge in Domenico Ludovico De Vincentiis ( Vocabolario del dialetto tarantino in corrispondenza della lingua italiana, Salvatore Latronico & figlio, Taranto, 1873):
A questo punto chiedo l’aiuto di qualche amico napoletano non solo per la conferma del lutrino del D’Ambra ma anche di quanto si legge nel Dizionario De Mauro nell’ultima parte (l’ho evidenziata in rosso) del lemma lustrino, che riproduco integralmente.
Vedo in lustrino, più che una deformazione di lutrino, il frutto di un incrocio, in cui recita il ruolo di protagonista la livrea del nostro pesce.
Se tale conferma dovesse verificarsi, sarebbe ulteriormente confermata pure la fantasia del sottotitolo, mentre la nostra scientificità resterebbe basata sull’erythrinus adottato da Linneo, ma lutrinu potrebbe essere nato prima dell’adozione scientifica dello svedese. E, paradossalmente, sarebbe stata la scienza a ricorrere involontariamente ad una parola che già aveva trovato ospitalità popolare.
P. S. Sarà gradita la comunicazione del nome che lo stesso pesce ha a qualsiasi latitudine (forse sto esagerando …). Volta per volta seguirà l’etimo, se ce l’avrò fatta a individuarlo …
__________
1 Phager in Plinio, Naturalis historia, XXXII, 53 e in Ovidio, Halieutica, 107 ((… rutilus phager ...=il rosseggiante pagro).
2 Plinio, Naturalis historia, IX, 23 e 77; Ovidio, Halieutica, 104 (… caeruleaque rubens erythinus in unda= e il’eritrino rosseggiante nell’onda cerulea).
3 Oltre al dialettale spariòlu appare ancor più evidentemente diminutivo di sparus lo sparùlus attestato in Ovidio, Halieutica, 106 (et super aurata sparulus cervice refulgens= e il piccolo ssaro che risplende sopra con la sua testa dorata).
#Armando Polito#lutrinu#nomi dialettali dei pesci#Pagello fragolino#Pagellus erythrinus#pesci dello Jonio#Ambiente#Spigolature Salentine#Terra D'Otranto a Tavola
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Il Pešce te friscu: la Cernia di fondale da Otranto a Gallipoli
P. americanus (Esemplare adulto. In foto, Salvatore Indirli)
di Igor Agostini
Fra le varie specie di pesci denominati ‘cernie’, ce n’è una, capace di raggiungere dimensioni ragguardevoli e caratterizzata da una grossa bocca e da una pelle estremamente dura, che la nostra lingua designa usualmente col nome di Cernia di fondale o americana, in conformità al nome scientifico (Polyprion americanus, Bloch & Schneider, 1801).
L’aggettivo, ‘di fondale’, si spiega con l’habitat di questo pesce che, fra tutte le cernie che abitano il nostro mare, è quella che vive nelle acque più profonde: gli adulti, infatti, si trovano almeno sino a seicento metri di profondità. Per quel che invece riguarda il sostantivo, il nome di ‘cernia’ eredita una vecchia classificazione biologica, che faceva rientrare questo pesce fra i serranidi, anche se, in realtà, esso appartiene alla famiglia dei cosiddetti ‘poliprionidi’; e, difatti, oggi, in biologia, non è più classificato come ‘cernia’.
La folkbiology, ossia quella scienza – ancora oggi agli albori – che studia la relazione fra la classificazione scientifica (linneiana) e quella popolare, troverebbe, nella considerazione di questo pesce, una conferma importante dell’esistenza, variamente rilevata dagli studiosi, di una corrispondenza, seppur parziale, fra le due classificazioni. I pescatori salentini, difatti, fanno bensì rientrare questo pesce nella ‘famiglia’, come dicono, delle ‘cernie’, ma distinguendolo nettamente da tutti gli altri cinque serranidi presenti nelle acque locali, chiamandolo con un nome a sé: da una parte si ha, dunque, la Cernia vera e propria (ossia la Cernia bruna), dall’altra i Dotti (ossia la Cernia dorata, la Cernia bianca e, più rare, la Cernia canina e la Cernia rossa), variamente denominati, e, infine, classificato a sé, il Pešce te friscu.
È, quest’ultimo, il nome più in uso per questo poliprionide, diffuso e conosciuto pressoché nell’intero Salento con questa denominazione; caso non frequentissimo nella nomenclatura ittica locale. Ma, anche qui, non mancano le particolarità, anzi.
Per cominciare, non è certa la motivazione all’origine dell’aggettivo te friscu, perché fra i pescatori, anche i più esperti, si sovrappongono in realtà due motivazioni differenti: ‘friscu’, per alcuni pescatori, si riferirebbe all’habitat, dunque alle acque fredde (perché profonde), in cui il pesce vive; per altri, invece, rinvierebbe ad un comportamento particolare, per cui alcuni individui, avvicinandosi sotto costa, sono soliti mettersi al riparo dalla luce del sole sotto oggetti galleggianti, al fresco, dunque (donde il nome diffuso in varie località italiane di ‘Pesce ombra’). Forse, le due motivazioni possono trovare una spiegazione convergente: proprio l’abitudine a vivere in acque profonde potrebbe esplicare il comportamento per cui, avvicinandosi sotto costa, sotto acque più calde e meno profonde, il pesce avverta il bisogno di proteggersi dal calore e dalla luce.
Ma proprio qui si apre un discorso più complesso: pare che siano, infatti, solo gli esemplari giovanili ad assumere questo comportamento e non, invece, gli adulti. Ciò spiega come, nel cuore della cultura dei pescatori salentini, sopravviva ancora una tradizione che tende a distinguere, quale specie a sé, gli individui più piccoli, i quali non sarebbero giovani del Pešce te friscu, ma un pesce diverso, che ‘non cresce’ oltre i due-tre chili. Una credenza, invero, che era diffusa per tutte le specie di cernia presenti in Salento e che è all’origine, a Gallipoli, di un nome affettuoso riservato ai piccoli dotti: Vicé, cioè ‘Vincenzino’. Nel caso della Cernia di fondale, poi, questa credenza sarà stata senz’altro rafforzata dalla taglia che questo pesce – unico, insieme alla Cernia canina – può raggiungere: anche cento chili (mai, tuttavia, documentati in loco).
Questa differenziazione è, con ogni probabilità, all’origine di una nomenclatura che distingue rigorosamente gli esemplari adulti dai più piccoli: quelli, appunto, designati sempre col nome di Pešce te friscu, questi, invece, soprattutto (ma non solo) a Gallipoli, col nome di Alòsa. Nome dall’etimologia che è stata, per me, a lungo indecifrabile e che potei ricostruire solo una volta venuto a conoscenza del termine otrantino: Rrignatheddru, che viene da rrignare, ovverosia ‘fare smorfie col viso o col muso’, caratteristica evocata, nell’immaginario del pescatore, dalle dimensioni notevoli proprie della bocca di questo pesce. Capìì allora che Alòsa ha la medesima spiegazione, derivando da lòsə, che in salentino vuol dire appunto ‘baia, beffa, stizza, rabbia’. Il che è confermato dal fatto che il medesimo nome di Alòsa indica, a Gallipoli, una specie di scorfano, la Scorpaena notata, anch’essa caratterizzata da una bocca particolarmente larga.
P. americanus (esemplare in stato giovanile)
Oggi, anche a Gallipoli, salvo rare eccezioni, restano pochi testimoni di un impiego differenziato dei due nomi di Pešce te friscu ed Alòsa, ormai usati a designare senza distinzioni la Cernia di fondale in tutte le sue taglie; ma i ricordi, purtroppo ormai sempre più impalpabili, di alcuni anziani consentono di asserire con certezza che Alòsa deve avere in origine indicato, esattamente come il Rrignatheddru otrantino, sempre e solo gli esemplari più piccoli.
Grandi e piccoli avrà invece, con ogni probabilità, indicato da sempre un altro nome caratteristico, quello di Occhi-cròssa, in ragione del fenomeno della vistosa fuoriuscita dall’orbita che marchia inevitabilmente gli occhi di questo pesce allorché salpato dalle alte profondità. Anche il nome di Rattapòspuru è oggi utilizzato a designare individui grandi e piccoli, per durezza della pelle, su cui appunto si potrebbe persino accendere un fiammifero, che in dialetto si dice pòsperu (nome, peraltro, condiviso con un altro pesce dalle caratteristiche analoghe della pelle, il Ruvetto, noto localmente come Pesce lola). È qui particolarmente evidente l’elemento immaginativo alla base del nome, che trova un interessante (ma certo non anomalo) corrispettivo in Sicilia, dove per questo pesce è attestato (l’ho appurato a Siracusa) il termine Pelosetto.
Un fenomeno che mai è stato spiegato, né in biologia, né in linguistica, né, ovviamente, in folkbiology, è la corrispondenza, apparentemente del tutto casuale e, anzi, controintuitiva, fra l’aggettivo del nome scientifico di questo pesce (americanus) e l’aggettivo utilizzato dai pescatori salentini per designare la Cernia dorata e, più raramente, la stessa Cernia bianca, ma mai quella di fondale: Dotto americano. Non c’è nessuna causalità, tuttavia: i nomi dialettali sono infatti all’origine degli stessi nomi scientifici. A dire il vero, ho impiegato molto tempo a cercare di comprendere come questo fosse possibile nel caso in questione, ma il perché delle cose, spesso, si manifesta quando ci si accorge di avere trascurato qualcosa di essenziale: era la distinzione stabilita dai pescatori fra esemplari piccoli, che abitano sotto costa, ed esemplari adulti, che vivono fuori, lontano dalla costa; acque lontane, che nell’immaginazione, veicolo portante all’origine della loro nomenclatura (checché ne vogliano tutte le interpretazioni integralmente anti-intellettualiste della classificazione popolare, per cui questa avrebbe alla base solo motivazioni pratiche), rinviano a luoghi lontani, di incerta – per la loro cultura – collocazione geografica, ma da cui alcuni pesci sarebbero provenuti per migrazione. Nulla di meglio, allora, del nome evocativo dell’America, tanto più che, come vedremo quando parleremo della Cernia dorata, l’aggettivo ‘americano’ trovava un ulteriore elemento immaginativo alla base della sua imposizione e del suo radicarsi.
In questa distinzione, fra pesci stanziali e pesci che vengono da lontano, chi ha orecchie formate alla raffinata cultura della biologia potrà intravedere una distinzione chiave, in quest’ultima: quella fra i pesci pelagici (nuotatori) e bentonici (stanziali). Per la folkbiology, il piatto è servito: siamo nani sulle spalle dei giganti.
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