#narrativa francese moderna
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pier-carlo-universe · 26 days ago
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Georges Perec: Genio della Letteratura Sperimentale e Maestro del Lipogramma. Recensione di Alessandria today
L’uomo che ha rivoluzionato la scrittura con creatività, rigore e straordinaria immaginazione.
Scopri la vita e le opere di Georges Perec, il maestro del lipogramma e membro dell’Oulipo. Un innovatore della letteratura che ha trasformato i vincoli in arte. Approfondisci su Alessandria Today. L’uomo che ha rivoluzionato la scrittura con creatività, rigore e straordinaria immaginazione. Introduzione alla figura di Georges Perec. Georges Perec (1936-1982) è stato uno degli autori più…
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carmenvicinanza · 2 months ago
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Selma Lagerlöf
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Selma Lagerlöf, scrittrice svedese, è stata la prima donna della storia insignita del Premio Nobel per la letteratura.
Autrice di numerosi romanzi e racconti, la sua opera epico-narrativa è stata quasi tutta ispirata alle tradizioni popolari della sua regione e alla vita di quell’aristocrazia provinciale colta ma decaduta che, con la rapida industrializzazione del paese, andava fatalmente tramontando.
La fiaba pedagogica è stata il mezzo che le ha consentito di realizzare un equilibrio tra verità psicologica e senso del meraviglioso.
Nata a Sunne, in Svezia, il 20 novembre 1858, ebbe un’infanzia difficile dovuta a una malattia all’anca che la costringeva a forti dolori e lunghi periodi di degenza, alleviati dalla compagnia della nonna, narratrice di racconti di miti e leggende del mondo nordico.
Era una maestra indipendente e moderna, quando, nel 1891, ha pubblicato il suo primo romanzo la Saga di Gösta Berling, storia scritta per intrattenere i suoi nipoti in cui reinterpreta la mitologia scandinava dandone un volto fortemente contemporaneo, grazie al quale i classici uomini-eroi, si scoprono fragili e imperfetti.
Il libro, considerato la sua opera principale, ebbe un enorme successo che le aveva portato un cospicuo premio in denaro con cui aveva potuto lasciare l’insegnamento per cominciare a viaggiare con la sua compagna, la scrittrice Sophie Elkan. Insieme visitarono Italia, Egitto, Palestina, Francia, Belgio e Olanda, luoghi di ispirazione per opere successive.
È stata molto attiva nelle rivendicazioni dei diritti delle donne e ha partecipato al Congresso dell’Alleanza internazionale per il diritto al voto femminile.
Figura eminente della letteratura svedese, è stata la prima scrittrice a vincere il premio Nobel per la letteratura nel 1909, per l’elevato idealismo, la vivida immaginazione e la percezione spirituale che caratterizzano le sue opere.
Coi proventi del Nobel, aveva riacquistato e ristrutturato la residenza di famiglia che suo padre era stato costretto a vendere a causa di un dissesto finanziario.
Nel 1914 è stata la prima donna a entrare nell’Accademia Svedese.
Ha ricevuto lauree ad honorem ed è stata insignita della Legion d’Onore francese. Anni dopo, Marguerite Yourcenar l’ha definita “la più grande scrittrice dell’Ottocento“.
Alla morte di Sophie Elkan, nel 1921, ne aveva ereditato i beni personali che andarono a costituire una sorta di museo nella sua casa, noto come Elkanrummet (Stanza Elkan).
Con l’avvicendarsi della persecuzione nazista è stata una ferma oppositrice dell’interventismo e della guerra, ne ha condannato gli orrori nel romanzo L’esiliato, i cui diritti d’autore vennero destinati al Comitato internazionale per il soccorso dei profughi politici, procurandosi la messa al bando di tutte le sue opere in Germania.
Si è spenta il 16 marzo 1940 a causa di un’emorragia cerebrale.
Sulla sua vita libera e coraggiosa, sono stati scritti libri e tratti diversi film. Le è stato dedicato un asteroide ed è stata effigiata su una banconota svedese.
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lamilanomagazine · 2 years ago
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Bologna: “Un jour nouveau | Birthday Party” al Teatro Arena del Sole
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Bologna: “Un jour nouveau | Birthday Party” al Teatro Arena del Sole. Domenica 12 marzo alle 16.00 al Teatro Arena del Sole di Bologna, andrà in scena in prima nazionale, "Un jour nouveau | Birthday Party", spettacolo composto da due creazioni firmate da due dei più stimati coreografi della scena contemporanea, Rachid Ouramdane e Angelin Preljocaj: un esperimento che celebra i corpi nella terza età. I lavori di Ouramdane e Preljocaj, rispettivamente "Un jour nouveau" e "Birthday Party", esplorano i limiti del corpo nella danza e dimostrano come l'energia vitale del movimento possa assumere forme diverse, in primo luogo poetiche. La ricerca artistica di Ouramdane e Preljocaj si concentra sulla trasformazione del corpo nel tempo, un tema di grande interesse anche al di fuori del contesto artistico. Ouramdane sperimenta i confini del corpo umano, esplorando nuove espressioni e arrivando fino al circo, mentre Preljocaj crea bellezza visiva e intensità narrativa collaborando con ex ballerini e persone capaci di creare movimenti intensi e innovativi. Il loro obiettivo è far reagire questa materia affascinante di corpi e storie fisiche diverse, per interrogare i canoni di bellezza e virtuosismo. La domanda centrale, come suggerisce Preljocaj, è: qual è l’età di un corpo? La produzione che vede la collaborazione tra Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale e Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto, con il coinvolgimento di importanti realtà come il Ballet Preljocaj, Chaillot - Théâtre national de la Danse, il Festival Aperto / Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, il Centro Servizi Culturali Santa Chiara. L’appuntamento è parte del programma di CARNE, la rassegna dedicata alla drammaturgia fisica di ERT e curata da Michela Lucenti. Un jour nouveau Coreografia Rachid Ouramdane; musica originale Jean-Baptiste Julien; additional music Sam Cooke (Everybody loves to Cha Cha Cha), Stephen Sondheim (testo da Send in the Clowns); luci Stéphane Graillot; assistente alla coreografia Mayalen Otondo; danzatori Darryl E. Woods e Herma Vos. 15 minuti Non c'è danza senza corpo e non c'è corpo che non invecchi. L'invecchiamento del corpo è spesso percepito come una regressione, eppure molti danzatori si sono reinventati invecchiando. Ad esempio, il butō di Kazuo Ohno ci ricorda che invecchiare non significa necessariamente arrendersi o indebolirsi fisicamente. Non sembra una fine ma piuttosto un inizio, come un'eco di una canzone di Etienne Daho, Le premier jour du reste de ta vie, che evoca il passare del tempo e l'inizio delle cose. Questo antagonismo l'ho percepito nel mio incontro con Herma Vos e Darryl E. Woods, che hanno già una lunga carriera artistica. Parlare con loro, vederli danzare, ha evocato molte capacità di resilienza di fronte agli eventi della vita. Sorprendentemente, mentre stavamo lavorando a un pezzo che sonda lo scorrere del tempo, mi hanno suggerito di sospenderlo. Rachid Ouramdane Rachid Ouramdane è un performer e coreografo che ha iniziato la sua carriera con l'hip-hop, ma ha continuato a studiare danza classica e moderna. Ha collaborato con numerosi artisti e le sue creazioni sono ispirate da storie al limite, come quelle dei rifugiati o delle vittime di disastri. Ha collaborato anche con artisti circensi, drammaturghi, artisti visivi e musicisti. Nel 2021 è diventato il direttore di Chaillot - Théâtre national de la Danse a Parigi, il primo teatro nazionale francese dedicato alla danza. Birthday Party Coreografia Angelin Preljocaj; musica 79D; additional music Anton Bruckner, Józef Plawiński, Paul Williams, Lee Hazlewood, Johann-Sebastian Bach, Maxime Loaëc, Craig Armstrong, Stinky Toys; luci Eric Soyer; costumi Eleonora Peronetti; assistenti alla coreografia Claudia De Smet, Macha Daudel; danzatori Mario Barzaghi, Sabina Cesaroni, Patricia Dedieu, Roberto Maria Macchi, Elli Medeiros, Thierry Parmentier, Marie-Thérèse Priou, Bruce Taylor. 50 minuti Ogni anno, in un giorno fisso, il nostro compleanno aggiunge un'unità al conto della nostra esistenza. Ma qual è l'età di un corpo? Si tratta dell'età biologica o di quella legata alla pratica della sua attività? È l'età che gli altri gli attribuiscono o quella che l'essere in questo corpo sente? Volevo condividere questa domanda con persone che hanno avuto il privilegio, e in un certo senso la possibilità, di attraversare diverse età della vita. In questo progetto, gli otto interpreti, di età compresa tra i 67 e gli 80 anni, cercano di rispondere, e potrebbero ben riecheggiare la frase di Spinoza "l'anima è un pensiero del corpo"... Che pensiero generano questi corpi? Come possono allontanarci da idee preconcette, come possiamo sviluppare una scrittura coreografica specifica e cercare così di avvicinarci ai limiti di questi corpi che invecchiano?... ma soprattutto divertendosi con loro, come a una festa di compleanno che prende la forma di un esorcismo che ci porta negli interstizi del tempo di una vita umana. Angelin Preljocaj Angelin Preljocaj ha iniziato la sua carriera di danza con il balletto classico prima di passare alla danza contemporanea sotto la guida di Karin Waehner, Zena Rommett e Merce Cunningham, poi Viola Farber e Quentin Rouillier. Successivamente si è unito a Dominique Bagouet fino alla creazione della sua compagnia nel dicembre 1984. Da allora ha coreografato 57 creazioni, da soli a lavori con grandi ensemble, alternando grandi balletti narrativi a coreografie più astratte. Collabora regolarmente con altri artisti: Enki Bilal, Air, Fabrice Hyber, Jean Paul Gaultier, Laurent Garnier, Azzedine Alaïa, Subodh Gupta, Thomas Bangalter. Le sue creazioni sono presentate in tutto il mondo, con una media di 110 spettacoli all'anno, e sono nel repertorio di numerose compagnie, da cui riceve anche commissioni, come il Ballet de l'Opéra national de Paris. Il Ballet Preljocaj è composto oggi da 24 ballerini stabili e dal 2006 ha sede al Pavillon Noir di Aix-en-Provence. Per l’occasione ERT organizza un servizio navetta gratuito per il pubblico in partenza da Modena. La prenotazione è obbligatoria, fino a esaurimento dei posti disponibili. Per l’acquisto dei biglietti dello spettacolo, per la prenotazione della navetta o per ricevere maggiori informazioni rivolgersi alla biglietteria del Teatro Storchi 059.2136021 – [email protected]. Prossime date in Italia di Un jour nouveau | Birthday Party: 4 novembre 2023, Reggio Emilia 5-6 dicembre 2023, Milano 14-17 marzo 2024, Trento 21-24 marzo 2024, Bolzano Teatro Arena del Sole, via Indipendenza 44 – Bologna Prezzi dei biglietti: da 7 € a 25 € esclusa prevendita Biglietteria: dal martedì al sabato dalle ore 11.00 alle 14.00 e dalle 16.30 alle 19.00 Tel. 051 2910910 - [email protected] | http://bologna.emiliaromagnateatro.com... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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tempi-dispari · 2 years ago
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Claudio Orfei, più di un semplice disco, un musical
La colonna sonora di un musical. Non c’è alcun altro termine o paragone che possa descrivere My Wonderland di Claudio Orfei. Un musical in tutto e per tutto. Eterogeneità musicale, culturale e linguistica. Coerenza narrativa, è un concept, utilizzo degli strumenti e della grande voce del nostro. Un disco corale che vede la partecipazione di numerose artiste a celebrazione, a detta dello stesso Orfei, della figura femminile. Maria Pia De Vito, Susanna Stivali, Elisabetta Antonini, Raffaela Siniscalchi, Raffaella Misiti, Barbara Eramo e Giulia Annecchino.
Sono loro le artiste che hanno impreziosito ulteriormente un lavoro di per sé già impressionante. I testi narrano di vita, di un viaggio fatto, in modo fantasioso ma, a ben vedere, mica troppo, nella realtà di tutti i giorni. Con tutte le sue contraddizioni. Un disco emozionante nel senso letterale e stretto del termine. Andando con ordine. Il lavoro di Claudio Orfei, pubblicato il 23 gennaio, si presenta come la storia di un viaggio sospeso tra realtà e fantasia. Per compiere questo tragitto il nostro utilizza tutti i mezzi musicali che ha a disposizione.
Tutte quelle atmosfere, suggestioni, che solo la musica sa donare. Si passa quindi attraverso i più diversi generi. Dal jazz alla canzone napoletana di tradizione, attraversando sfumature prog anni ’70 per arrivare agli stornelli romaneschi, la world music, melodie mediorentali. Il jazz è la base comune, il resto si dipana come gli argomenti di un discorso intimo tra sé e il chiaro di luna in una sera malinconica. Il tutto con un una fluidità, una naturalezza che hanno dell’incredibile. Passaggi che, appunto, solo un musical potrebbe riuscire a dare. O un concept scritto in maniera superba.
Ma le commistioni non si fermano ai generi musicali. Sono molteplici anche le lingue utilizzate per poter meglio rendere significato dei testi e musicalità dei brani. Italiano, inglese, arabo, francese, portoghese, spagnolo, romanesco e napoletano. Ogni idioma inserito nel contesto più confacente e naturale possibile. Il risultato è un insieme di colori, forme fantastiche, illusioni, sogni ad occhi aperti, prese di coscienza, che non potranno non stupire. Un disco, quello di Orfei, per niente facile. Strutturato, arrangiato, compositivamente complicato.
Non sarebbe sufficiente neppure una settimana di ascolto esclusivo per riuscire ad esplorare tutti i mondi dipinti. Bossa nova, jazz classico, fusion, ballate, omaggi alla tradizione popolare, armonie non usuali, cambi di lingua nel bel mezzo delle canzoni a sottolineare la presenza di più personaggi. Tutti aspetti che non si possono esaurire ad un ascolto superficiale.
Una nota particolare alla voce del nostro. Espressiva, modulare, eclettica, calda, ora sognante, ora arrabbiata, ora pensierosa, ora triste. Senza dimenticare la notevole escursione tonale. Molto particolare anche l’utilizzo percussivo, sempre della voce, come in una parte della tradizione napoletana più moderna, oltre che del jazz. Ottimi i duetti, sempre sopra le righe, mai scontati, spesso sorprendenti.
Un track by track risulterebbe inopportuno e fuorviante. Il disco va ascoltato per intero. Non si possono descrivere i brani separatamente. Avulsi da contesto. Eccezion fatta per l’introduttiva My Wonderland.
Tirando le somme.
Un gran bel disco. Davvero emozionante, suggestivo, interessante. Per poterlo ben approcciare si deve essere consapevoli di dovergli dedicare del tempo. Molto tempo. Sia per la musica, sia per gli argomenti trattati. Tutela delle diversità, delle minoranze, ricchezza dovuta alla multiculturalità. Sono solo alcune delle tematiche considerate. Quello che Claudio Orfei propone è un vero e proprio tour dell’animo umano effettuato attraverso la musica. E per fare il giro del mondo non possono servire meno di 80 giorni.
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¡Muchas omisiones para mi gusto!
Nombre: ¡Muchos extranjeros para mi gusto! Mexicanos, chilenos e irlandeses en la construcción de California, 1848-1880
Autor: Fernando Purcell
País: Chile
Editorial: Fondo de Cultura Económica
Género: Historia
Año: 2016
Hoy en día, el tema de la migración se ha puesto tan de moda, con periodistas, académicos, sociólogos, etc., que tal vez incluso ha sobrepasado a la desigualdad económica como el Zeitgeist que más domina la imaginación del intelectual contemporáneo. Hace diez años, se hablaba mucho de los universitarios, los pingüinos y los endeudados; hoy se habla de los migrantes, los refugiados y los indocumentados. Sin importar que el eje siempre va cambiando (recordando que antes de la desigualdad estaba la democratización), la manera en que se manifiesta es siempre igual: la izquierda lanza marchas bulliciosas, la televisión lanza “investigaciones” melancólicas, y los académicos lanzan libros que intentan ser rebuscados y populares a la vez. Y es en cada rama de cada una de estas olas cíclicas donde se forjan nuevas generaciones de voceros y líderes. En política, la época de la transición produjo a Eduardo Frei Ruiz-Tagle; en el mundo mediático: Patricio Bañados; en el mundo “pop académico”: Tomás Moulian, con su Chile Actual: anatomía de un mito. Una generación más tarde, la desigualdad produjo a Gabriel Boric, Camila Vallejo y Eugenio Tironi, con Radiografía de una Derrota y Por qué no me quieren. 
No obstante, aunque en los últimos años ya han llegado millones de peruanos, ecuatorianos, colombianos, venezolanos y haitianos, en la sociedad chilena todavía falta denominar a alguien como el gran pastor, expositor e intérprete de ellos. Y ese vacío representa una gran oportunidad para mucha gente emprendedora, titulada y carismática. Es de esa tierra fértil que viene el libro que analizaremos aquí: ¡Muchos extranjeros para mi gusto! Mexicanos, chilenos e irlandeses en la construcción de California, 1848-1880 por Fernando Purcell. Un intento de aprovechar la moda política en que vivimos, llena de alabanzas por todo lo extranjero, y condenaciones casi religiosas de todo lo doméstico y nacional—lo que el difunto filósofo francés Guillaume Faye llamaba “xenofilia”.
De lo b��lico a lo brillante
El libro parte en 1848 por dos razones claves. Primero, fue el dos de febrero de ese año que la Guerra México-Americana acabó, con el Tratado de Guadalupe Hidalgo dando formalmente dominio a los EE. UU. en lo que ahora es conocido como “California”. Segundo, fue el año en que ahí se descubrió oro, iniciando la fiebre del oro más famosa en la historia mundial. Tal noticia dio la vuelta al globo, y en los años siguientes, alrededor de 300.000 personas de cada rincón de la Tierra llegaron a California, cada una afanando ser millonaria—entre ellos, mexicanos, chilenos e irlandeses. Por mucho tiempo California era nada más que un desierto poco poblado, pero con este descubrimiento se transformó rápidamente en una colmena creciente y cosmopolita. Purcell cita al historiador chileno Benjamín Vicuña Mackenna, quien visitó la metrópolis californiana de San Francisco en ese periodo, describiéndola como: 
… una aglomeración de ciudades, una Babilonia de todos los pueblos; en las calles se oían todas las lenguas modernas, de la China a San Petersburgo, de Noruega a las islas de Sandwich. Se veían los trajes de todas las naciones i habían sastres para cada gusto; los chinos con su pantalón de paño negro ceñido, su blusa azul, i su trenza hasta la rodilla; el mejicano con su sarape o frazada, el chileno con su poncho, el parisiense con su blusa, el irlandés con su frac roto i su sombrero de felpa abollado; el yankee, supremo en todo, con su camisola de franela colorada, bota fuerte i el pantalón atado a la cintura. (56) 
Sin embargo, el enfoque de esta crónica abandona analizar la meta de sus protagonistas: encontrar oro y enriquecerse, y el eje pasa a ser los choques raciales y culturales adentro de este poligloto nuevo, la gran mayoría de ellos violentos. Gran parte de la primera mitad de este libro se dedica a resumir diferentes peleas, disturbios, tiroteos y matanzas entre, primariamente, chilenos y angloamericanos o mexicanos y angloamericanos, pero de vez en cuando también entre angloamericanos y otros grupos de extranjeros, e incluso entre diferentes grupos de inmigrantes. Todo esto se hace de una manera muy detallada, y citando fuentes tan particulares como diarios locales de la época, lo cual habla bien de Purcell y sus talentos como historiador.
Es en la segunda mitad, cuando el libro se torna más teórico, que pierde bastante de su gracia—y su validez.  
El problema más grande, y presente durante toda la obra, es que el autor, aunque sea chileno, tiene una vista muy “de afuera” cuando se trata de hispanos, pretendiendo que hay pocas diferencias entre ellos. Para Purcell—e irónicamente, para los angloamericanos “racistas” que él desprecia—mexicanos, chilenos y otros pueblos hispanohablantes, son todos latinos, hispanos, de raza española, etc. Esta identidad amplia y morena está contrapuesta a los angloamericanos blancos, los irlandeses en proceso de “blanqueamiento” y asiáticos (hablaremos de estos dos últimos grupos luego). Por lo tanto, Purcell dedica mucho de su libro a hablar de la solidaridad entre hispanohablantes y sus problemas colectivos con los blancos nativos. Y aunque sí habla de conflictos entre irlandeses y angloamericanos, franceses y angloamericanos, asiáticos y varios otros grupos, se habla de violencia entre mexicanos y chilenos brevemente—y nunca habla de ningún otro enfrentamiento entre otros tipos de hispanos.  
De lo que sí habla es sobre intentos geopolíticos en el siglo XIX de unir toda Latinoamérica—una digresión sorprendente, considerando que tales intentos nunca sacaron nada en limpio, y que no tuvieron nada que ver con California, donde este libro está ambientado. Es más, nunca llegaron a ningún lado porque aparte de su lengua materna, las naciones de Latinoamérica no tienen mucho en común. Aunque es fácil encontrar europeos que piensan que Uruguay y El Salvador son intercambiables, o estadounidenses que imaginan que cada persona al sur del río Bravo come tacos y escucha reguetón, cada persona entre Punta Arenas y Chihuahua sabe que aquello no es cierto en lo más mínimo. Pero, a pesar de todo esto, Purcell narra su historia como si hubiese una gran etnia homogénea y sin matices, y por ello, el libro a veces tiene un tono más foráneo que chileno. 
Los peruanos
Este interés que Purcell tiene en presentar una historia de panhispanismo pacífico también logra explicar lo que tal vez es la ausencia más grande del libro: los peruanos. Cuando compré el libro, me sorprendió que no eran nombrados en el título, pero imaginé que el libro tendría una sección, o por lo menos un capítulo, dedicado a ellos. Pensé eso porque incluso historiadores estadounidenses—es decir, angloamericanos blancos que suelen tener dificultades en diferenciar entre nacionalidades hispanas—siempre mencionan que, de los migrantes latinoamericanos durante la fiebre del oro, la gran mayoría eran mexicanos—específicamente sonorenses [un detalle que Purcell sí nota (25-32)], pero que había otros dos grupos notables: chilenos y peruanos. La razón de esto es fácil de entender: la noticia del descubrimiento del oro en California viajó por barco, y en esos tiempos, antes del canal de Panamá, cuando todo pasaba por el estrecho de Magallanes, había dos puertos en el sur del océano Pacífico con importancia internacional: Lima y Valparaíso. Es decir, las noticias del oro llegaron a Chile y Perú antes que al resto del mundo. Incluso resúmenes muy básicos en inglés mencionan esto [Por ejemplo: history.com, PBS (el canal de televisión público en los EE. UU.) y el sitio de web de la universidad de California menciona peruanos específicamente.] ¡Además, existen libros—en inglés—sobre este tema que son citados en el libro de Purcell!
No obstante, para Purcell, hablar de peruanos presenta un gran problema, por causa de su historia bélica con Chile. Sólo nueve años antes de que su libro empezara, Chile y Perú estaban peleando la Guerra de la Confederación; por otro lado, la Guerra del Pacífico partió antes que su libro terminara. La primera guerra nunca es mencionada, y la segunda sólo brevemente para hacer notar que los chilenos en California mandaron dinero a su patria para apoyarla, y que “grupos de mexicanos, siguiendo la tradición de tres décadas, se unieron a los chilenos y participaron en celebraciones callejeras en San Francisco después de las victorias cruciales chilenas de 1881” (197-198). Increíblemente, la actuación de los peruanos en California durante la guerra no es mencionada, ni tampoco cómo se relacionaron los peruanos con los chilenos (o con los mexicanos) a lo largo de este periodo. Encuentro difícil imaginar que las relaciones eran buenas, y, por lo tanto, si uno quisiera presentar una historia de panhispanismo enfrentando racismo angloamericano, tendría mucho sentido omitirlas. 
Los irlandeses
Sin duda, ningún libro puede hablar de cada detalle de un evento o periodo, pero esta omisión peruana requiere explicación, especialmente considerando la cantidad de espacio que se dedica a los irlandeses. De hecho, cuando son presentados al lector, la razón de su inclusión en esta narrativa no es obvia. A diferencia de los mexicanos y chilenos, los irlandeses ya sabían inglés; y la mayoría de los que llegaron a California, no llegaron ahí directamente desde su patria: se habían ido de ahí años atrás, y ya estaban viviendo en el extranjero, como en otras partes de Norteamérica—el caso de más del cuarenta por ciento de ellos (90)—y Australia. Finalmente, los irlandeses no sólo estaban buscando oro y gloria, muchos estaban (o ya habían) escapando del hambre o la persecución política/religiosa de los británicos.
Con raíces y situaciones tan diferentes a las de los mexicanos y los chilenos, ¿para qué incluirlos en este libro (tomando en cuenta que no es un libro sobre la migración de esa época en general)? La respuesta la encontramos en el último tercio del libro: los irlandeses son una herramienta útil para criticar la lógica de “racismo”. El argumento—muy común en los EE. UU.—es el siguiente: “Cuando los irlandeses llegaron a Norteamérica en medio del siglo XIX, había prejuicio y discriminación en contra de ellos. Hoy, son considerados blancos y nos parece raro que anteriormente la gente pensaba mal de ellos. Por lo tanto, todo perjuicio actual es una estupidez, y con el tiempo, va a pasar.”
Purcell incluye a los irlandeses en su libro para avanzar este argumento, yuxtapuesto con los mexicanos y chilenos. En el capítulo final, se detalla el gran rol que los irlandeses jugaron en organizar y violentar en contra de la presencia asiática (y china, en particular) en los EE. UU. (y California, en particular). El autor lamenta que, al componer la vanguardia del movimiento anti-asiático, los irlandeses “ganaron” el estatus de blanco, lo cual es presentado como beneficioso aunque malvado. Mientras tanto, los mexicanos y chilenos siguieron quedando fuera de la órbita alba. 
Y eso es todo. La osamenta del libro es bastante básica: se descubrió oro en California, un montón de gente llegó para enriquecerse, entre ellos había mexicanos, chilenos e irlandeses, los tres grupos enfrentaron discriminación. Después de un tiempo esa discriminación disminuyó para los irlandeses, pero no para los otros dos grupos. La meta moral del libro es que la discriminación es mala y que en los EE. UU. hay discriminación en contra de gente hispana. No es sorprendente que el libro haya sido publicado en 2016, y que el autor haya hablado mal del presidente Donald Trump y denunciado al pueblo estadounidense como racista desde las páginas de La Tercera.  
Encima de esta lección banal hay muchas notas de pie y anécdotas, pero más que nada, hay omisiones.
Chinos
La historia del conflicto entre blancos y asiáticos en la costa pacífica de los Estados Unidos es interesante, sin duda. Especialmente considerando que hoy, los asiáticos en los EE. UU. son más educados, más ricos, y menos delincuentes que los blancos, lo cual no es el caso con la población hispana. El enfoque que Purcell da a los principios de este conflicto es válido, y también es interesante que los irlandeses configuraran una fuerza poderosa en ello. Pero el libro nunca habla de cómo se llevaron los mexicanos y los chilenos con los asiáticos. De los tres grupos que protagonizan este tomo, solo uno tiene detallado su relación con este otro grupo racial. Esta ausencia es aún más absurda cuando se considera que en la década de 1870, una ola de migración china llegó a la costa pacífica de México, y que ese país también tuvo dificultades integrándolos. Mientras tanto, Chile terminó con su primera gran población china gracias a la Guerra del Pacífico, cuando esclavos chinos en Perú terminaron siendo liberados por el ejército chileno. Pero nada de esto es mencionado en ¡Muchos extranjeros para mi gusto!, ni siquiera brevemente. 
Irlandeses chilenos
Durante la Guerra México-Americana, un grupo de soldados irlandeses en el ejército estadounidense decidieron que como los mexicanos eran católicos, y ellos eran católicos, deberían pelear juntos en contra de los protestantes (es decir, los yanquis). E hicieron precisamente eso, cambiaron de campamento en nombre de solidaridad religiosa. Son recordados como los “San Patricios”, y Purcell habla de ellos brevemente, lamentando que en general, ese tipo de sentimiento religioso-unificador no era común entre los irlandeses y los hispanos. Por qué esto pasó tan poco es interesante, sin duda, y que Purcell preste atención a esta pregunta es sumamente válido. Lo que no entiendo es el porqué de, si menciona los San Patricios, no menciona ninguna de las muchas raíces chileno-irlandesas. Chile es, y me imagino que en esos tiempos también era, el país más irlandés de América Latina, y bastantes de las figuras más importantes en la historia de Chile eran irlandeses: Benjamín Vicuña Mackenna, Patricio Lynch y Bernardo O’Higgins, entre otros. Me pregunto si en California en el siglo XIX, los chilenos alguna vez hicieron notar este dato a sus vecinos irlandeses. O si algunos de los irlandeses lo sabían, y cuando conocieron chilenos por primera vez, exclamaron, “¡Mira amigo, tu gran libertador O’Higgins era de mi isla!” Tal vez nada de esto pasó, y a nadie le importó, pero eso igual sería un detalle interesante. Sin embargo, sorprendentemente, nada de esto termina siendo mencionado.
El mestizaje y los mestizajes 
Ya hablé un poco de como Purcell no hace mucha distinción entre mexicanos y chilenos, agrupando a los dos juntos como hispanos/latinos, pero este tema merece un enfoque extra, porque, genéticamente, mexicanos y chilenos no tienen mucho en común. Si fuera a México para tomar una encuesta, y preguntara sólo, “¿Los mexicanos y los chilenos, físicamente, se parecen entre sí?” La gran mayoría de las respuestas serían “no”. Sería igual al revés, y sería igual si la encuesta fuera hecha en el siglo XIX. En los dos países, se puede encontrar ciudadanos con casi cada variación de mezcla imaginable, pero ni siquiera los mestizos de los dos países se parecen mucho. Hay tanta diferencia entre un araucano y un azteca como la hay entre un ruso y un italiano. Y las diferencias entre los diferentes indios del nuevo mundo, y los diferentes niveles de mestizaje en cada país, siempre han sido tomados en cuenta—y considerado consecuente—por historiadores y sociólogos tanto chilenos (como Nicolás Palacios) como extranjeros (como Lothrop Stoddard). Purcell enfatiza mucho que los angloamericanos no podrían notar la diferencia entre los dos pueblos, y no creo que esté mintiendo. Pero hablar de eso es sólo hablar de una perspectiva, y Purcell deja que esa perspectiva sea percibida como un dato factual, sin compararla a ninguna perspectiva latina, chilena o mexicana.  
Es cierto que no podemos confirmar la mezcla racial de los latinoamericanos que llegaron a California en esos años. Y también es cierto que, para bastantes estadounidenses, diferenciar entre los diferentes fenotipos en América Latina es difícil. Pero igual sería difícil argumentar que todos los mexicanos y todos los chilenos que llegaron eran indios o mestizos morenos. En términos matemáticos, la probabilidad de que llegaran por lo menos algunos blancos y harnizos está casi garantizada. Y si tomamos en serio lo que Purcell dice sobre el racismo y la violencia, quedan las preguntas:¿Cómo les fue a los hispanos blancos? ¿Eran finalmente aceptados por la mayoría angloamericana como los irlandeses? ¿Intentaron distanciarse de sus compatriotas morenos? ¿Terminó siendo que no solamente se trataba de ser blanco para ser integrado, sino de ser blanco y anglohablante? Al respecto de lo último, Purcell habla brevemente de los inmigrantes franceses que llegaron a California, y concluye que:
“… el nacionalismo y el chauvinismo, y no la discriminación racial, fueron los elementos principales que provocaron las luchas entre franceses y angloamericanos. La alianza establecida entre franceses y latinoamericanos fue esporádica, en particular porque las fuentes de discriminación contra estos grupos eran diferentes, lo que justifica que los franceses siguieran una estrategia distinta tras la fiebre del oro, distanciándose progresivamente de mexicanos y chilenos, con quienes en realidad tenían muy poco en común.” (138)
Nota también que, en los conflictos entre los franceses y los nativos blancos, los irlandeses en general se pusieron al lado de los angloamericanos. Como mucho de lo que Purcell nos cuenta, me imagino que esto es verdad—pero está lejos de ser el cuento completo. Hoy en día, tanto como los irlandeses, los franceses de los EE. UU. son considerados totalmente integrados y blancos (a diferencia de  los quebequenses de Canadá), pero cómo pasó eso, o cómo empezó a pasar eso, son cosas que Purcell deja colgadas.
Historiadores estadounidenses han implicado que los chilenos que llegaron no eran muy europeos, e incluso han notado específicamente la presencia de “rotos”. Uno de ellos los describe como, “… vagabundos sin tierra que trabajaban de vez en cuando y robaban a menudo, demostrando que eran salteadores de caminos feroces, y excelentes guerrilleros… peleadores desenfrenados y vengativos, a estos gánsteres harapientos les importo poco sus propias vidas y nada las vidas de otros.” También, Purcell escribe que,  
“… la mayoría de quienes viajaron a California pertenecía a los estratos populares o ‘bajo pueblo’, como se los denominaba entonces, tal como las listas de pasaportes, contratos de trabajo y los reportes de las autoridades diplomáticas chilenas en California dejaron en claro. El cónsul chileno en San Francisco señaló enfáticamente en 1851 que la gran mayoría de sus compatriotas en California pertenecía a ‘la clase inferior de la población de Chile’.” (36)
Pero, a la misma vez hay que tomar en cuenta que los chilenos que llegaron a California eran los chilenos de antes de la Pacificación de la Araucanía y la Guerra del Pacífico—dos fuentes muy grandes del mestizaje chileno. Sin tomarlo en cuenta, Purcell nota la presencia de chilenos blancos en Norteamérica cuando menciona:
“… el argentino Ramón Gil Navarro apuntó en su diario que estaba plenamente consciente de la hostilidad contra los chilenos, por lo que entre los angloamericanos se hacía pasar por francés y procuraba hablar solo en ese idioma, mientras se encontraba en las minas.” (135)
Bueno, Pancho Villa no habría podido “pasar por francés”. Pero quizás un chileno si, especialmente uno con un apellido francés, como por ejemplo, “Bachelet” o “Pinochet”.
La variación racial de México también debe ser notada. El estado mexicano de Sonora, por estar en el extremo noroeste del país y por lo tanto, lejos de los dos núcleos de indios—el azteca del centro y el maya del sur—es uno de los estados más blancos del país. Un estudio genético reciente notó que el promedio sonorense era 62 % europeo, 36 % indio y 2 % negro. Esto es bastante diferente del resto del país, tanto que incluso en el estado de Chihuahua al lado de Sonora, el promedio es 50 % europeo, 38 % indio y 12 % negro. Promedios del típico mexicano muestran entre 40 % y 45 % europeo, 5 % o menos negro y entre 50 % y 60 % indio. Promedios del sur de México invariablemente muestran una súper-mayoría de sangre india. Es decir, en el contexto mexicano, los sonorenses son bastante blancos, y si el promedio del estado es 62 % blanco, es muy probable que haya gente que sea 85 % blanco, y, por lo tanto, sin duda algunos llegaron a California. ¿Ellos también intentaron “pasar por franceses”? ¿Lo lograron? ¿Cómo terminaron? No dice…  
Todas estas preguntas son interesantes—no las lanzo retóricamente, pero Purcell logra evitar que surjan.
Chilenismo
Finalmente, Purcell termina contándonos muy poco de los chilenos que quedaron en California. Se habla bastante de cuántos llegaron—tres o cuatro mil (33)—cuándo llegaron, dónde llegaron, y cómo les fue, pero no hay una conclusión muy clara. En general, les fue mal, y muchos terminaron regresando a Chile. Pero qué pasó con los que quedaron se pierde cuando el eje del libro se gira al “blanqueamiento” de los irlandeses y los problemas con los asiáticos. Dudo mucho que todos regresaron a Chile, pero después de 235 páginas de este libro lleno de notas de pie, no se podría decir si los que nunca regresaron terminaron absorbidos por el crisol cultural de su nuevo país, si se fueron a México, o si aún hay una comunidad pequeña de chilenos-californianos con museo y todo en algún lugar. Esta elipsis en vez de dar un fin claro, empeora por causa de que el libro termina en el año 1880, dejando totalmente sin análisis el impacto que tuvo el año 1891 (cuando los EE. UU. y Chile casi entraron en una guerra) en los chilenos en Norteamérica. ¿La discriminación que sufrieron se agudizó? ¿Empezaron a decir que eran argentinos para evitar problemas? ¿Tal vez ya se habían integrado lo suficiente y nada en sus vidas cambió? Concedo que ningún libro puede cubrir infinitamente tal temática, sin embargo, escribir un libro sobre chilenos en los EE. UU. y terminarlo en medio de la Guerra del Pacífico y una década antes que ocurrieran los hechos que casi dieron inicio a una guerra entre los dos países me parece una decisión editorial imposiblemente extraña. La crónica también omite la década de 1850-1860, en la cual ocurren dos revoluciones dentro de Chile, la de 1851 y la de 1859. En cada país, cuando un conflicto interno se acaba, los perdedores se fugan. Como se sabía que ya había chilenos en California, gente involucrada con estas causas separatistas ¿se fueron hacia allá cuando perdieron en Chile? Y si es así, luego ¿se involucraron con la erupción separatista que posteriormente subsumió los EE. UU.? No se sabe, porque una vez más, nada de esto se menciona en este libro anímico.
En resumen
Lo que une a todas estas omisiones es que representan preguntas cuyas respuestas tienen una posibilidad alta de interrumpir o contradecir la narrativa bastante explícita que el libro propone desde su primera hasta su última página: se descubrió oro en California, mucha gente llegó para enriquecerse, entre ellos había mexicanos, chilenos e irlandeses, los tres grupos enfrentaron discriminación Después de un tiempo, esa discriminación disminuyó para los irlandeses, pero no para los otros dos grupos. La discriminación es mala y existe en contra de hispanos en los EE. UU. Detalles que no se conjugan del todo con este cuento son desechados. Un efecto secundario de esto es que el libro no termina siendo muy chileno, pues para conformarse con su meta, se deshace de matices de la identidad chilena, la historia chilena, y las perspectivas que chilenos tienen (y han tenido) sobre el resto del mundo. Mira a los chilenos simplemente como una especie más de “otros” en un contexto estadounidense. Debido a ello, si no lo supieras, no adivinarías que el libro fue escrito por un chileno, sino por un norteamericano y luego traducido al castellano. Lo cual no es inherentemente malo, pero es lamentable ya que fue escrito por un chileno, y publicado por el Fondo de Cultura Económica (FCE). El propósito de tal institución, desde siempre, es subsidiar lo chileno, porque cultura, perspectivas, y productos extranjeros no son algo que falte—especialmente estadounidenses. Es una buena meta, y con el Internet, vale la pena ahora más que nunca. Es irónico, entonces, que, en el caso de este libro, el FCE terminó ayudando a lanzar una crónica analizando chilenos como extranjeros—extranjeros en los EE. UU.—y desde una perspectiva extranjera. La voz del narrador es una voz que imita académicos izquierdistas del mundo occidental, igual que el Costanera Center imita malls norteamericanos, y cantantes de reguetón imitan grupos puertorriqueños. Y tanto en investigaciones históricas como en arquitectura y en música, no nos falta influencia foránea que carece de sutileza y maestría. En el futuro, espero, que el FCE apoye proyectos típicamente chilenos, o por lo menos, más completos. 
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pleaseanotherbook · 5 years ago
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The K-Drama Book Tag
È quasi Pasqua, le giornate si stanno allungando e il sole splende sulle nostre teste e io davanti al pc lavoro, o cerco di lavorare, con una soglia dell’attenzione che si abbassa sempre di più. Leggo poco e male, la sera mi sparo drama su drama in call appassionate con le mie amiche del Team Drama Club e insieme a loro abbiamo anche organizzato una challenge su IG (seguitemi sul mio profilo, @anncleire per vedere le meraviglie create da Chiara). Mentre cercavo ispirazione per un post qui sul blog, perché non leggendo non ho al momento tantissime recensioni da scrivere, mi è venuto in mente di unire le passioni del momento, in un’unica soluzione: un book tag, è da un po’ che non ne faccio uno e mi divertono sempre un sacco. Speravo di trovarne uno già messo in piedi, in realtà, ma dopo una breve ricerca in quel di Google non ho trovato quello che stavo cercando, un Book Tag che unisse i kdrama con i libri, sostanzialmente le categorie definite tramite i drama coreani di cui ormai sono ossessionata (si, ho un problema, lo so, ma sorvoliamo) e quindi sono finita a costruirmelo a mia immagine e somiglianza il mio THE K-DRAMA BOOK TAG con alcuni dei miei drama preferiti.
Enjoy!
Her private life
Un libro o una saga che ti ha reso una completa fangirl
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Vi sorprenderò probabilmente con questa risposta, ma capitemi, sono un po’ folle. L’ultimo libro che mi ha reso una fangirl è sicuramente La storia delle api di Maja Lunde che mi ha portato addirittura al Festivaletteratura di Mantova per due giorni per incontrarla. Oramai chi mi segue da tempo sa che ho una leggerissima ossessione per i libri che parlano di api e anche questo non fa eccezione, è un racconto straordinario che lega epoche diverse in un passaggio avvincente e incredibilmente ben costruito, che pone l’attenzione su tante problematiche che affliggono la società moderna e che potrebbero distruggere il mondo così come lo conosciamo. Un lucido disegno di un mondo distopico fin troppo reale. Il meraviglioso intreccio di tre vite, indissolubilmente legate dal fil rouge delle api e della vita, in un racconto organico e variopinto, che esce dagli schemi e urla la premura di non distruggere un ecosistema e un mondo con l’avventatezza di migliaia di piccoli gesti. Un mondo fugace e irresistibile, che non è solo intrattenimento, ma anche monito, per una storia vividissima e indimenticabile.
Because This is My First Life
Un libro di narrativa contemporanea in cui riconoscerti
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Probabilmente non è il mio libro preferito, anzi, probabilmente una certa parte di me lo ha odiato profondamente, però Parlarne tra amici di Sally Rooney fotografa bene in pieno un’intera generazione ancorata perfettamente al mondo dell’internet, nerd, con un mare di passioni, proiettata verso il futuro, fortemente tecnologica e allo stesso tempo con chiaro in testa il senso dell’analogico. Il ritratto di una intera generazione, quei millennials precari e contraddittori che cercano di sopravvivere come meglio possono, incostanti e provocatori, e allo stesso tempo incredibilmente fragili e confusi. Leggendo di Frances mi sono resa conto di quanto il nostro vissuto sia universale, come i miei dubbi e le mie paure sono gli stessi dei miei coetanei, di quanto sia difficile superare certi schemi mentali, di quanto sia facile cadere vittime dell’insoddisfazione e di comportamenti meschini e di egoismi tutti umani.
Are You Human Too?
Un libro o una saga sci-fi piena di colpi di scena
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Ho pensato molto a cosa mettere in questa categoria e non posso non citare La Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer (Annientamento – Autorità – Accettazione). Io me ne sono invaghita dopo aver visto diverse recensioni positive e la parte sci-fi unita a quella post-apocalittica mi hanno convinta che fosse il libro giusto per me. Una storia pazzesca, consumante, che tiene desta l’attenzione, arzigogolata, dal ritmo incalzante, un vortice di informazioni e descrizioni accuratissime, che sconvolge e inquieta, lasciando a bocca aperta il lettore, incredulo e sconcertato. Tantissime domande che non hanno ancora risposta, per un primo volume stupefacente. Bramo gli altri volumi, per immergermi ancora nei segreti dell’Area X. Per chi vive di scienza e per chi di scienza non capisce niente.
Goblin
La perfetta bromance su cui fangirlare
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Dovevo infilare in un TAG la mia adorata, ma lo farò evitando di citare sempre il mio Divino. Una delle bromance che più mi piacciono è quella che troviamo ne La spia del mare di Virginia de Winter. Cassian ha il fascino del maledetto e i modi da nobile d’altri tempi, un uomo di cui innamorarsi senza possibilità di scampo. Nonostante il suo essere scorbutico e un solitario votato al masochismo di mesi trascorsi a rincorrere un sogno, Cassian non è solo, ma accompagnato da tre fedelissimi amici e compagni di missione, un gruppo di spavaldi giovani alla ricerca di gloria e passatempi per sfuggire alla noia. El Cid, Manuel, un giovane nobile spagnolo scappato da uno scandalo innominabile, accompagnato sempre da una schiera di Mori pronti a sfoderare rinfreschi in qualunque posto e in qualunque condizione. Un giovanissimo e impertinente Casanova, pronto a sfoderare il suo fascino per piegare la volontà di chiunque, e il mio preferito del trio, Monsieur un elegantissimo giovane francese, sempre accompagnato dai suoi spiriti, da sussurri, da modi galanti e da quella superiorità tipica dei cugini d’oltralpe che irretisce e inganna.
The Legend of the Blue Sea
Un libro o una saga dal finale perfetto
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Non potrei immaginarmi nessun altro finale per Vani Sarca di quello racchiuso in quello racchiuso in Un caso speciale per la ghostwriter di Alice Basso. niziata nel 2015, ma scoperta da me solo nel 2017 perché sono un po’ scema, la serie segue le avventure di una ghostwriter, come da titolo, in una Torino contemporanea e ricco, e i legami che crea con le persone che la circondano. Alice Basso ha il dono di costruire con ironia e sagacia un intero mondo, a cui è davvero difficile dire addio. Per fortuna che c’è la rilettura. La fine perfetta insomma per un’avventura intensa, in cui le risate si accompagnano agli abbracci. Alice Basso è riuscita a coniugare una storia speciale in cui perdersi, per cercare il mistero e la commedia, il sarcasmo e le lacrime, la forza e la determinazione, perché in fondo la vita è un mix di esperienze in cui “né uragani né tormente ci potranno fare niente”.
Healer
Un protagonista dalla doppia vita
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Ho solo un libro chiaro in mente per questa categoria. I cieli di Sandra Newman e non ve lo posso neanche spoilerare troppo. Kate, la protagonista, è una ragazza come potrebbero essercene tante in mondo che si sta affacciando nel nuovo millennio, quel 2000 che nella nostra epoca è stato infestato dal mostro del Millennium Bug, ma che per Kate si affaccia in un mondo migliore. Sembra un’utopia, un miraggio, un sogno. Ma poi Kate si addormenta e si risveglia nel corpo e nelle intenzioni di Emilia, una giovane artista italiana trapiantata nell’Inghilterra di fine Cinquecento. Una storia incerta e assoluta, la sovrapposizione di così tanti layer, di così tante decisioni, che è il risultato probabilmente anche delle interpretazioni del lettore. A tratti angosciante e a tratti illuminante, I Cieli è una storia da leggere in un fiato.
Search WWW
La perfetta protagonista da amare
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Avrei la protagonista perfetta per questo libro, ma non posso dirvela ancora. Perciò mi tocca ripiegare su Ead una delle protagoniste de Il priorato dell’albero delle arance di Samantha Shannon. Entrare nel mondo della Shannon è una scommessa perché non sai di preciso se ne uscirai tutto intero, si tratta di una storia lunga ottocento pagine e potrebbe intimidire da più punti di vista. Le immagini che la scrittrice riesce ad evocare entrano dentro e superano le barriere della pagina scritta per fagocitare completamente il lettore. È un fantasy di vecchio stampo, con un mondo completamente estraneo al nostro, ma che allo stesso tempo lo richiama vuoi per usanze, vuoi per cibi, vuoi per i luoghi. Le leggende si intrecciano per creare una storia nuova, un mondo immenso e terribile minacciato da forze oscure in cui alchimia, magia, e lotte per il potere si combattono per la supremazia. Eadaz du Zāla uq-Nāra si nasconde sotto i falsi abiti di Ead Duryan alla corte della regina Sabran. Ma Eadaz non è chi dice di essere, infatti è una delle ancelle del Priorato dell’Albero delle Arance, una comunità antichissima del regno di Lasia, da sempre votata ad uccidere i wyrm, gli sputafuoco, con un compito molto importante, proteggere a tutti i costi l’ultima erede della Madre o Donzella, a seconda del culto di cui ci si riferisce, Cleolind Onjenyu ultima che ha combattuto contro il Senza Nome e l’ha gettato nell’abisso. Ead è più coraggiosa di qualunque altra ancella, e ha anche un dono particolare. Lontana dalla sua casa Ead si adatta come può e soprattutto deve farsi forza per rinnegare il suo credo. La storia ha una forte matrice femminile, molte sono infatti le protagoniste femminili che emergono, ma Ead è sicuramente la mia preferita.
Fight for my way
Una storia d’amore su cui fantasticare
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Ormai lei è diventata una delle mie scrittrici salva vita per le romance e non vedo l’ora di mettere le mani sul suo prossimo volume. Notte numero zero di Rebecca Quasi è una di quelle storie che neanche credi che esistano ma ti scaldano il cuore. Costanza e Mario si incontrano per caso in un aeroporto, ma sono destinati ad incontrarsi di nuovo. Sembra impossibile che due come loro riescano ad innescare una tale reazione, ma si sa la chimica è imprevedibile e la Quasi accompagna il lettore in un viaggio affascinante e una storia d’amore emozionante.
E, voi quali sono i vostri drama preferiti? E con che libri avreste risposto?
Fatemelo sapere in un commento.
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urretxindorra · 5 years ago
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España nos roba y otros motivos
Desde hace tiempo el mundo -y nosotros con él- mira a Cataluña. Con su reivindicación de independencia la sociedad catalana ha puesto contra las cuerdas al Estado español, hasta el punto de hacer tambalear la ‘modélica transición’, el régimen del 78 y los mismos principios del Estado corrupto.
La serie de acontecimientos iniciada con la consulta de Arenys de Munt en 2009 ha ido acompañada de éxitos de movilización y autoorganización de la población, ayudada a menudo por la torpe respuesta del poder hispano.  
Tras los aciertos de Cataluña en la última etapa –el ‘procés’- se ocultan muchos años de trabajo silencioso por la recuperación de la lengua, la cultura, la interpretación de la historia, la puesta en valor de la memoria colectiva. Omnium Cultural ofrece un modelo de intervención eficiente en este campo. El supremacismo lingüístico y cultural español se ha encontrado frente a una sociedad pertrechada con buenas defensas.
El expolio sistemático que supone el déficit fiscal de Cataluña y el maltrato que sufre en todo lo relacionado con infraestructuras, trenes de cercanías, corredor mediterráneo, etc., han sido argumentados por los catalanes de manera eficaz como arma de reivindicación y cohesión social.
Sobre estos motivos se ha ido construyendo una narrativa con capacidad de movilización popular: “España nos roba”; “Somos una nación, autodeterminación”; “Objetivo: independencia”; la rememoración de la fecha y la hora 14:17 de 1714 (entrada de las tropas borbónicas españolas en Barcelona); en resumen, “In, Inde, Independència!!!”,
Todo ello ha ido construyendo un relato de cómo los catalanes se ven a sí mismos, y a qué se enfrentan. En el mismo se expresa un punto de encuentro entre ellos y desde el que pueden proyectar su futuro. Y este modo de contarse a sí mismos y al mundo, se ha convertido en hegemónico. Este relato y esta hegemonía son la nación catalana de hoy.
La hegemonía no se define por los votos que obtienen unos partidos que se autodefinen como independentistas pero que, en gran parte, están integrados en el sistema clientelar español. La hegemonía social se expresa a través de una argumentación, un relato, que es coherente y que consigue una aceptación social generalizada. Es una visión de la realidad que goza de una credibilidad mayoritaria.
A pesar de los conflictos internos puntuales que, sobre todo en periodos electorales, resurgen con fuerza, quien lleva la iniciativa del relato es el independentismo. No es fácil adivinar la evolución del conflicto ni su resultado, pero hoy se puede asegurar que tiene unas sólidas bases sociales, hegemónicas en el discurso. Siempre es posible dilapidar el capital adquirido en estos años, pero la consolidación de esos argumentos garantiza un largo recorrido.
¿Y nosotros?
Nosotros, nuestra nación, no ha sido desde el punto de vista argumental un modelo de construcción de relato, centrado en la memoria, en nuestra realidad, en la historia en nuestros conflictos. Nuestra narración se construye desde la perspectiva de los estados dominantes: España y Francia. No nos vemos como una nación definida sino como un ente difuso, como siete “territorios históricos”, o tres “Comunidades”, dos españolas y una francesa, llovidos del cielo, que, eso sí, han hablado desde milenios la misma lengua como único rasgo de cohesión.
Según el discurso coloquial, da la sensación de que los vascos nunca hemos tenido un Estado independiente, ni una historia singular. Nuestra memoria no existe. Las conquistas, asimiladas, se pierden en el olvido. Las damos por amortizadas. Las gestas de los marinos vascos, apropiadas por españoles y franceses. Los conflictos del siglo XIX, explicados como la reacción de un pueblo ultrarreligioso y conservador frente al ‘liberalismo’ español y la ‘razón’ francesa.
La memoria de la guerra de 1936 es apenas un apéndice de la IIª República española. Tras la disolución de ETA, el relato ha quedado por completo en manos de los servidores del Estado español, hasta el punto de que las figuras públicas de la izquierda abertzale acuden sumisamente a las conmemoraciones y homenajes de los ’mártires’ oficiales. Los otros, claro.
Se habla de “la nación foral”, pero no hay ni memoria ni conocimiento de qué han sido los Fueros. En su tiempo fuimos “un marco autónomo para la lucha de clases”, sin saber que la lucha de clases siempre ha sido internacional. En general, está muy extendida la especie de que “los vascos no hemos tenido un Estado”. Bueno, que tenemos dos: España y Francia. Pero que lo mejor es no tener ninguno.
Hemos citado el caso catalán. Otras naciones, por supuesto las que han accedido a su independencia, han construido el relato que las constituye como tales. Y ese relato es lingüístico, pero también memorial, histórico, festivo, religioso, institucional, de conflictos y luchas, de perspectiva de futuro. Aquí carecemos de algo parecido. Con la excepción de la referencia a la lengua, que es un dato tan claro y evidente que no hace falta quebrarse mucho la cabeza para admitirlo como elemento constitutivo.
Elementos de identidad (de memoria) como el proceso nacionalizador de nuestra sociedad medieval y moderna realizado por el Estado navarro, son cuestionados y despreciados desde las propias posiciones vascas. No disponemos de un relato dominante que nos cohesione, que sirva para enorgullecernos, constituirnos. Hay dos o tres, y ninguno que responda a las necesidades de esa visión compartida que requiere una sociedad moderna que pretenda ser protagonista en el mundo actual, como sujeto político. Uno es el de la sumisión total y, a falta de otro propio consistente, podemos intuir que sus argumentos son hegemónicos.
Hoy en día la nación vasca no puede hacer seguidismo de las fórmulas catalanas o de otros lugares. No tienen sentido consultas parciales, por ejemplo, si no se sitúan en una acumulación de fuerzas concreta, si previamente no se ha construido y aceptado globalmente el relato que nos constituye como nación. Hemos de pensar las herramientas que necesitamos. Y construirlas desde aquí.
No sirve de nada que se sienten a hablar partidos políticos, u otras organizaciones, para establecer acciones conjuntas y objetivos comunes si antes no se ha planteado una confluencia en el relato. No somos “siete territorios forales”. No somos “dos autonomías españolas” y una “comunidad especial francesa”. Algo tendremos que nos distinga y nos permita reconocernos. Eso es el relato. Y no es un debate para el futuro; sino el soporte del proceso. Es decir, lo básico. Algo imprescindible y necesario.      
Luis María Martinez Garate / Angel Rekalde
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pangeanews · 6 years ago
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“Scrivere non è predicare una verità. È scoprirla”. Milan Kundera compie 90 anni! Lo festeggiamo con una intervista in cui parla di politica (“uno show tragico”), scrittura, Europa, ruolo del romanzo etc.
Milan Kundera è l’ultimo, autorevole, rappresentante del romanzo europeo. Il romanzo europeo è un romanzo ‘di idee’ rispetto a quello americano, ‘di trama’. In Europa si pensa, in Usa si fa (e si dis-fa). Da quando l’Europa ha smesso di pensare – pensando con la testa di altri – la letteratura – perciò, l’Europa in sé – è in disarmo: non dialoga, subisce.
*
“Durante le varie fasi della storia del romanzo, nazioni diverse si sono per così dire passate il testimone: prima l’Italia con Boccaccio, il grande precursore; poi la Francia di Rabealis; poi la Spagna di Cervantes e del romanzo picaresco; nel Settecento fu la volta del grande romanzo inglese con l’intervento, sul finire del secolo, del tedesco Goethe; l’Ottocento appartiene invece, interamente, alla Francia, pur tenendo conto dell’ingresso del romanzo russo, negli ultimi trent’anni del secolo, e della comparsa, subito dopo, di quello scandinavo. Viene, poi, il Novecento e la vicenda mitteleuropea con Kafka, Musil, Broch, Gombrowicz… Se l’Europa fosse una nazione unica, non credo che la storia del suo romanzo avrebbe potuto protrarsi per quattro secoli con tanta vitalità, tanta forza e tanta varietà”. La lezione narrativa di Kundera – simile a quella di Thomas S. Eliot – ha nitidezza politica. Ascoltate i grandi scrittori, gente.
*
In effetti. Manzoni, George Eliot, Victor Hugo, Dostoevskij, Tolstoj, Gombrowicz, Martin Amis… Lo scrittore europeo fa agire il pensiero, si erge nel golfo della contraddizione, si contraddistingue perdendosi. Nel cinema accade lo stesso: da Fellini a Bergman, da Antonioni a Herzog e Kieslowski, agiscono le visioni e la frizione dei sentimenti, non l’azione. L’abominio del pensiero in favore dello ‘spettacolo’ ha garantito la nostra smisurata piccolezza rispetto alla muscolarità visiva – non visionaria – americana e – vedrete, vedremo – all’epica cinese.
*
Il bilinguismo come tradizione dell’intelletto ‘europeo’. Kundera, si sa, scrive in ceco e in francese. Beckett scriveva in inglese e in francese come Nabokov parte dal russo per arrivare all’inglese. Joseph Conrad, ucraino, parlava in francese e ha scritto in una magnetica prosa inglese. Brodskij scrive le poesie in russo e i saggi in inglese. Rilke, praghese, si esprimeva in tedesco e in francese. Manzoni scriveva in italiano ma nelle lettere detta nella lingua degli intellettuali del tempo, il francese; Dante inventa il volgare, scrive in latino, legge i provenzali. Natura dello scrittore europeo è varcare i linguaggi (perché l’anima dell’uomo ha vastità linguistica, è lingua) – restando nel proprio.
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In un testo “In omaggio a Stravinskij” raccolto ne I testamenti traditi, Kundera centra il lavoro dello scrittore. “Da sempre detesto, profondamente, violentemente, quelli che in un’opera d’arte vogliono trovare una posizione (politica, filosofica, religiosa ecc.), invece di cercarvi una intenzione di conoscere, di capire, di cogliere questo o quell’aspetto della realtà”.
*
Ogni tentativo di conoscere – senza sbandierare opinioni o sbraitare – è atto d’offesa. Un romanzo, se è grande, è tormento: scortica con il taglierino. L’ironia cinica di Kundera è il bisturi di chi ti stacca la calotta cranica mentre cammini, ebete, nelle vie del centro.
*
A proposito: le accuse di MK contro il ‘pubblico’, le chiacchiere da social bar. “Ma il conformismo dell’opinione pubblica è una forza che si è eretta a tribunale, e il tribunale non può perdere tempo con i pensieri, il suo compito è quello di istituire processi. E a mano a mano che fra giudici e accusati si scava l’abisso del tempo, le grandi esperienze vengono giudicate sempre più spesso da esperienze inferiori. Così gli errori di Céline vengono giudicati da persone immature, incapaci di vedere come, proprio in virtù di quegli errori, i romanzi di Céline contengano un sapere esistenziale che, a saperlo intendere, potrebbe renderle più adulte. Perché in questo consiste il potere della cultura: nel riscattare l’orrore transustanziandolo in saggezza esistenziale”.
*
Nel 1985, quando Milan Kundera è già un ‘fenomeno mondiale’ in virtù de L’insostenibile leggerezza dell’essere, Olga Carlisle lo intervista per il New York Times. L’intervista si intitola, banalmente, A Talk With Milan Kundera. Festeggiare Kundera significa omaggiare la propria intelligenza, per questo, abbiamo deciso di tradurre l’intervista. Con formidabile perizia profetica, qui Kundera allinea i suoi temi più cari. (d.b.)
*
OC (Olga Carlisle) Per dieci anni, più o meno, hai vissuto in Francia. Ti senti un émigré, un Francese, un Ceco o solo un Europeo senza nazionalità specifica?
MK Quando gli uomini di pensiero tedeschi lasciarono il loro stato per l’America negli anni Trenta, erano sicuri che vi sarebbero tornati, un giorno. Consideravano la loro permanenza all’estero come temporanea. D’altro canto io non ho speranza in alcun genere di ritorno. La mia soluzione francese è definitiva e perciò non sono un émigré. Ora la Francia è la mia unica patria. Né mi sento privo di radici. Per mille anni la Cecoslovacchia è stata una parte dell’Occidente. Oggi essa è parte dell’impero a Est. Mi sentirei molto più sradicato a Praga che a Parigi.
OC Ma scrivi ancora in ceco?
MK Scrivo i saggi in francese, ma le storie in ceco perché le mie esperienze di vita e la mia immaginazione sono ancorate alla Boemia, a Praga.
OC Fu Milos Forman, ben prima di te, a rendere nota la Cecoslovacchia al più vasto pubblico occidentale, con film come “Al fuoco, pompieri!”.
MK Davvero lui incarna quel che chiamo lo spirito fine di Praga – lui con altri registi cechi, Ivan Passer e Jan Nemec. Quando Milos viene a Parigi, sono tutti scossi, stupiti. Com’è possibile che un regista così famoso sia così libero da ogni sentimento snob? A Parigi, dove nemmeno una commessa alle Galeries Lafayette sa come ci si comporta in modo naturale, la semplicità di Forman risulta semplicemente come una provocazione.
OC Come definiresti “il sottile spirito di Praga”?
MK Hai Il Castello e Il buon soldato Schweik di Hasek che sono tutti percorsi da questo sentimento, un senso straordinario verso la realtà. Prendi il punto di vista di un uomo normale, la storia vista a partire dal basso, una semplicità che ti provoca, con un genio per le assurdità. E un senso dell’umorismo con pessimismo infinito. Ad esempio, un Ceco richiede un visto per emigrare, e l’officiale gli domanda ‘Dove vuoi andare?’. ‘Non importa’, risponde l’uomo, al quale viene dato un mappamondo. ‘Prego, scelga’. Ora l’uomo guarda il mappamondo, vi scorre sopra il dito lentamente e dice ‘Non ne ha un altro?’.
OC Ma oltre alle tue radici praghesi, quali altri amori letterari ti hanno formato?
MK Per primi i romanzieri francesi Rabelais e Diderot. A mio giudizio il vero fondatore, il re della letteratura francese è Rabelais. Con Jacques il Fatalista di Diderot il quale ha portato il sentimento di Rabelais dentro il Dciottesimo secolo. Non fatevi sviare dal fatto che Diderot fosse un filosofo: il suo romanzo non può essere ridotto a nessun tipo di discorso filosofico: è una recita dell’ironia, il romanzo più libero che sia mai stato scritto, la libertà volta in romanzo. Ne ho fatto recentemente un adattamento teatrale ed è stato messo in scena da Susan Sontag a Cambridge, Mass. come Jacques e il suo padrone [gennaio 1985, American Repertory Theater]
OC E le tue altre radici?
MK Il romanzo dell’Europa di mezzo, quello del nostro secolo. Kafka, Robert Musil, Hermann Broch, Witold Gombrovicz. Questi romanzieri sono malfidati in modo meraviglioso di quel che Malraux chiama “illusioni liriche”. E malfidati verso le illusioni che riguardano il progresso, il kitsch della speranza. Sto con loro a condividere una tristezza sul crepuscolo dell’Occidente: ma non è una faccenda sentimentale, è più ironica. E la mia terza radica è: la poesia ceca moderna. Per me è stata un’ottima scuola di immaginazione.
OC E tra questi poeti c’è anche Jaroslav Seifert? Avrebbe meritato di vincere il Nobel nel 1984?
MK Certamente. E si sentiva che è stato il primo a venir proposto nel 1968, ma la giuria fu prudente. Temevano che il gesto sarebbe stato considerato come pura simpatia per uno stato allora recentemente occupato. E il premio è giunto troppo tardi [1984], tardi per il popolo ceco che era stato umiliato, tardi per la poesia ceca la cui grande epoca era conclusa da tempo, tardi per Seifert che ora ha 83 anni. Si dice che quando l’ambasciatore svedese giunse al suo letto d’ospedale per dirgli dell’onore, Seifert l’abbia guardato a lungo. Ma poi gli disse ‘E che me ne faccio ora di tutti questi soldi?’.
OC E a proposito di letteratura russa, ti tocca ancora, o gli eventi del 1968 te la fanno gustare male?
MK Mi piace molto Tolstoj. È più moderno di Dostoevskij. Tolstoj fu forse il primo ad afferrare la componente irrazionale nel comportamento umano. Il ruolo della stupidità – ma soprattutto delle azioni umane guidate da qualcosa di nascosto, non controllato, non controllabile, e che non rientra nel conteggio finale. Rileggete i passaggi che precedono la morte di Anna Karenina. Perché si uccide se davvero non vuole farlo? Come nasce la sua decisione? Per catturare queste ragioni, irrazionali ed elusive, Tolstoj scatta una foto del flusso di coscienza di Anna. Sta in carrozza; le immagini della strada si mescolano nella sua testa coi suoi pensieri illogici, frammentati. Perciò vedete che il creatore dello “stream” non è Joyce ma Tolstoj, in queste poche pagine di Anna Karenina. Raramente lo si riconosce, perché Tolstoj è tradotto male: ho letto una volta una traduzione francese di questo passo ed ero stupefatto, quel che nel testo originale è illogico e a frammenti diventava logico e razionale in lingua francese. Come se l’ultimo capitolo dell’Ulisse fosse riscritto e al lungo monologo di Molly fosse data una punteggiatura logica e convenzionale. Purtroppo, i nostri traduttori ci tradiscono, non osano tradurre l’inusuale nei nostri testi – il non comune, l’originale. Temono che le critiche li accuseranno di tradurre male. E per proteggerci, fanno carne di porco del lettore. Avete idea di quanto tempo ed energia ho speso a correggere le traduzioni dei miei libri?
OC Parli con affetto di tuo padre ne “Il libro del riso e dell’oblio”.
MK Era un pianista con una passione per la musica moderna, Stravinskij, Bartok, Schönberg, Janacek. Si spese per far accettare Leos Janacek come un artista, e Janacek era un compositore moderno affascinante, senza paragoni, impossibile classificarlo. La sua opera Dalla casa dei morti, tratta da Dostoevskij, è uno dei grandi lavori profetici del nostro secolo come Il processo o Guernica. Mio padre eseguiva questa musica complessa in sale da concerto semivuote. E da bambino io odiavo il pubblico che rifiutava di ascoltare Stravinskij e poi applaudiva Tchaikovskij o Mozart. Ho mantenuto una passione per l’arte moderna; questa è fedeltà a mio padre. Però mi sono rifiutato di proseguire nella sua professione, la musica mi piaceva, i musicisti no. Vivere in mezzo a loro era per me come mettermi un bavaglio con le mie mani. Quando lasciai la Cecoslovacchia con mia moglie, potemmo prendere solo pochi libri, scegliemmo Il centauro di John Updike, toccava qualcosa di profondo in me, un amore che sta per morire verso un padre umiliato, sconfitto
OC E ne “Il libro del riso” colleghi la memoria di tuo padre a un racconto su Tamina che vive su un’isola dove ci sono solo bambini.
MK Quel racconto è un sogno, sogno fatto da una immagine che mi perseguita. Pensate di essere forzati per il resto dei vostri giorni a rimanere circondati da bambini, senza poter mai parlare da adulti: che incubo. L’immagine da dove arriva? Non lo so, non analizzo mica i miei sogni, meglio passarli a qualche racconto.
OC I bambini hanno un posto strano nei tuoi libri. Ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere” i bambini torturano un corvo e Tereza dice all’improvviso a Tomas “Ti sono grata per non aver voluto dei bambini”. Poi però uno trova nei tuoi libri della tenerezza verso gli animali, e nell’ultimo c’è un maiale che è quasi un personaggio stimabile. Non sarà un poco kitsch?
MK Non penso lo sia. Kitsch è desiderio di piacere a tutti i costi. Parlare bene degli animali e guardare scetticamente ai bambini non può piacere troppo al pubblico, può persino irritare, leggermente. Non che abbia nulla contro i bambini: ma il kitsch che li circonda mi dà fastidio. Qui in Francia, prima delle elezioni, tutti i partiti politici fanno i loro poster, ognuno con gli stessi slogan su un futuro migliore e sempre foto di bambini che sorridono, corrono e giocano. Purtroppo, il nostro futuro umano non è l’infanzia ma l’età adulta. Il vero umanesimo di una società si rivela nella sua attitudine verso l’età della vecchiaia. La quale è l’unico futuro che ognuno di noi ha davanti e che non sarà mai mostrato sui poster. Né a sinistra né a destra.
OC Vedo che la polemica destra e sinistra non ti esalta troppo.
MK Il pericolo che ci minaccia è l’impero totalitario. Khomeini, Mao, Stalin – sinistra o destra? Il totalitarismo non è né l’una cosa né l’altra, al suo interno queste distinzioni si essiccano. Non sono mai stato credente, ma dopo aver visto i cechi cattolici perseguitati durante il terrore staliniano ho provato la più profonda solidarietà verso di loro. Quel che ci separava, la fede in Dio, veniva dopo a quel che ci univa. Una solidarietà da impiccati. Quindi la stupidissima battaglia tra sinistra e destra mi pare obsolete e abbastanza provinciale. Odio partecipare alla vita politica, benché poi la politica mi affascini come show: uno show tragico, mortale nell’impero dell’Est – intellettualmente sterile ma divertente qui a Ovest.
OC A volte di dice, paradossalmente, che l’oppressione dia più serietà e vitalità ad arte e letteratura.
MK Ma non siamo romantici! Quando l’oppressione continua a durare, può distruggere una cultura da cima a fondo. La cultura vuole una vita pubblica, libero scambio di idee, necessita di pubblicazioni, esibizioni, dibattiti, confini transitabili. Pure, per del tempo, la cultura può durare in circostanze molto difficili. Dopo l’invasione russa del 1968, quasi tutta la letteratura ceca fu bandita e circolava solo in manoscritti. Una vita culturale aperta e pubblica veniva distrutta e nondimeno la letteratura degli anni Settanta è stata splendida. La prosa di Hrabal, Grusa, Skvorecky. È stato allora, al tempo più impossibile della sua esistenza, che la letteratura ceca ha ottenuto riconoscimento internazionale. Ma quanto a lungo riesce a sopravvivere nei tubi, sottoterra? Chi lo sa. L’Europa non ha mai provato situazioni simili, prima. Quando si arriva alla sventura delle nazioni, non dobbiamo dimenticare la dimensione temporale. In uno stato di fascisti, di dittatori, tutti sanno che la storia finirà un certo giorno. Tutti guardano verso la fine del tunnel. Nell’impero dell’Est il tunnel non ha fine – perlomeno dal punto di vista di una vita umana, adesso. Ecco perché non mi piace che si paragoni la Polonia, per dire, col Cile. Sì, la tortura e le sofferenze sono le stesse ma i tunnel hanno lunghezza davvero diversa. Questo cambia tutto. E l’oppressione politica si presenta ancora con un altro pericolo che – specie per un romanziere – è anche peggio della censura e della polizia. Voglio dire: il moralismo. L’oppressione crea un confine fin troppo chiaro tra bene e male e allo scrittore viene la tentazione di mettersi a predicare. Per il genere umano è attraente, per la letteratura mortale. Hermann Broch, il romanziere austriaco che amo di più, ha detto “L’unica moralità dello scrittore è la conoscenza”. Ha ragion d’essere solo un lavoro letterario che riveli un frammento sconosciuto di esistenza umana. Scrivere non è predicare una verità. È scoprirla.
OC Ma forse le società che subiscono oppressione offrono più occasioni allo scrittore di scoprire questo frammento, rispetto a quelle società che trascorrono le loro vite in pace?
MK Forse. Se pensate all’Europa di mezzo, che laboratorio prodigioso di storia! In un periodo di 60 anni abbiamo vissuto la caduta di un impero, la rinascita delle piccole nazioni, democrazia, fascismo locale, occupazione tedesca coi suoi massacri, invasione russa con le sue deportazioni, speranze di socialismo, terrore staliniano, emigrazione… sono sempre e ancora colpito nel constatare come si sono comportate le persone intorno a me in questa situazione. L’uomo è diventato enigmatico, sta lì come una domanda e da questo sbalordimento viene la passione di scrivere romanzi. Il mio scetticismo in relazione a certi valori che sono così inattaccabili – è radicato nella mia esperienza nell’Europa di mezzo. Per esempio, la gioventù è tratta non come una fase ma come un valore in sé. Quando spendono questa parola, i politici esibiscono un sorriso beota. Ma io, da giovane, ho vissuto il terrore, ed è stato il giovane che ha sopportato il terrore, in grandi numeri, con inesperienza, immaturità, la moralità del tutto o nulla, senso lirico. Il più scettico tra i miei romanzi è La vita è altrove. Il soggetto lì è la gioventù e la poesia, l’avventura poetica nel terrore staliniano, il sorriso della poesia, un sorriso di innocenza macchiato di sangue. La poesia è un altro di quei valori non attaccabili nella nostra società. Sono stato scioccato quando nel 1950 il grande comunista e poeta francese Paul Eluard approvava in pubblico l’impiccagione del suo amico e scrittore praghese Zavis Kalandra. Quando Brezhnev manda carrarmati a massacrare gli Afgani, è terribile ma per così dire “normale” – e prevedibile. Quando un poeta elogia un’esecuzione, è un soffio che manda all’aria tutta l’immagine che ti sei fatto del mondo.
OC Ma una vita ricca di esperienza rende i tuoi romanzi autobiografici…
MK Nessun personaggio lì è un autoritratto, nessun carattere un ritratto di persone viventi. Non mi piacciono le autobiografie camuffate, odio le indiscrezioni da scrittore: peccato capitale. Chiunque riveli qualcosa di intimo di vite altrui merita la frusta. Viviamo un’epoca dove la vita privata sta per essere tutta distrutta, la polizia la distrugge negli stati comunisti, i giornalisti la minacciano nelle libere democrazie, e poco a poco la gente sta perdendo il gusto per la sua vita privata. Il senso che questa vita privata possiede. La vita che non si può difendere dallo sguardo altrui è l’inferno. Lo conoscono quelli che hanno vissuto nello stato totalitario, ma quello è un sistema che porta fuori, come una lente caleidoscopica, le tendenze di ogni società moderna: natura devastata, declino di pensiero e arte, burocrati che imperversano e spersonalizzano, mancanza di rispetto davanti alla vita personale. Senza segreto, niente è possibile – né amore né amicizia.
[traduzione italiana di Andrea Bianchi]
L'articolo “Scrivere non è predicare una verità. È scoprirla”. Milan Kundera compie 90 anni! Lo festeggiamo con una intervista in cui parla di politica (“uno show tragico”), scrittura, Europa, ruolo del romanzo etc. proviene da Pangea.
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fotopadova · 4 years ago
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La fotografia come forma d’arte (prima parte)
di Lorenzo Ranzato
   -- il confronto fra arte e fotografia nella seconda metà dell’Ottocento
“Quando si diffuse la voce che due inventori[1] erano riusciti a fissare su lastre argentate ogni immagine posta ad esse di fronte, si produsse uno stupore generale che oggi non potremmo neppure concepire, abituati come siamo alla fotografia da un bel po’ di anni, indifferenti ormai alla sua grande diffusione”.
(Nadar, Quand j’étais photographe, 1900)
 Introduzione
L’occasione per affrontare il tema della fotografia come forma d’arte, nasce dalla lettura del libro Art photography (2015) di David Bate (trad. it La fotografia d’arte, Einaudi 2018) . Il fotografo e saggista ripercorre alcuni significativi momenti della storia della fotografia con interpretazioni del tutto originali e, partendo dalla constatazione che la fotografia ha assunto oggi un ruolo centrale nell’arte e nella cultura contemporanea, ne esplora i rapporti con le diverse esperienze artistiche, dalla pittura impressionista alle avanguardie artistiche del Novecento, sino all’arte concettuale.
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      La fotografia “ancella” della pittura: E. Durieu 1854, E. Delacroix 1857
 La sua narrazione è “tendenzialmente anacronistica”, distaccandosi dalla lettura lineare e cronologica dei tradizionali metodi della storia dell’arte e della fotografia, e “procede in modo libero in cerca di progettualità di natura artistica vicine fra loro, o avvicinabili”[2]. Questo metodo gli consente di proporre inediti accostamenti di immagini fotografiche e pittoriche della fase pionieristica e moderna con quelle di fotografi e artisti contemporanei. Ad esempio, già all’inizio del suo libro ci spiazza deliberatamente con un salto temporale di oltre tre secoli, mettendo a confronto il quadro seicentesco di Jan Vermeer, Ragazza che legge una lettera davanti alla finestra aperta, con la fotografia di Tom Hunter del 1998, Donna che legge l’ordinanza di sfratto.
Il suo metodo interpretativo fa riferimento a tre categorie, che contraddistinguono “il fotografico”[3]: categorie che possiamo riconoscere nei diversi periodi della storia della fotografia, a partire dalle invenzioni di Daguerre e Talbot per arrivare fino ai giorni nostri: il pittorialismo, il documentarismo e il concettualismo.
Il pensiero di Bate si basa sul presupposto che “l’essenza della fotografia d’arte” non è produrre somiglianze, cioè mostrare il mondo così com’è, ma piuttosto creare “dissimiglianze”. Il termine è preso a prestito dal filosofo francese Jaques Rancière[4], utilizzato per sostenere che il principale obiettivo dell’arte contemporanea è quello appunto di produrre dissimiglianze.
Non è questa la sede per approfondire la sua personale costruzione narrativa: più semplicemente, prenderemo spunto da alcune sue riflessioni per indagare quel periodo della storia della fotografia a cavallo fra Ottocento e Novecento, che inizia con la prima immagine fotografica realizzata da Niépce nel 1826/27[5] e si conclude nel 1917 con la chiusura della rivista Camera Work, fondata da Alfred Stieglitz. E’ il periodo durante il quale si afferma il pittorialismo, termine con il quale si individua la tendenza della fotografia a imitare canoni estetici propri della pittura, con lo scopo dichiarato di conferire dignità artistica alle immagini.
Nel capitolo del suo libro “La svolta del pittorialismo”, David Bate mette in luce interessanti aspetti di quella pratica fotografica, che individua con l’espressione “primo pittorialismo” (per distinguerlo dal neo-pittorialismo degli anni Ottanta); nato nella Gran Bretagna del tardo Ottocento, in breve tempo si diffonderà su scala mondiale, diventando “il primo movimento artistico realmente internazionale nell’ambito della fotografia” e contribuirà a promuovere la fotografia come autonoma espressione artistica; il suo declino inizierà negli anni Dieci del Novecento, quando la sua visione del mondo sarà definitivamente scalzata dalle idee delle avanguardie, ma resisterà ancora per decenni in diverse nazioni dove si era progressivamente affermato. E conclude, infine, constatando che quel periodo al giorno d’oggi è poco apprezzato e per lo più viene “considerato in termini negativi  e non è al centro di alcuna discussione critica (con pochissime eccezioni)”[6].
Alle origini del pittorialismo: la reciproca influenza fra pittura e fotografia
Dopo la fase pionieristica caratterizzata dalle invenzioni di Daguerre (il dagherrotipo, esemplare positivo unico su lamina di metallo, presentato nel 1839 all’Accademia delle Scienze di Parigi) e Talbot (la calotipoia, processo brevettato nel 1841 e basato su un negativo, dal quale ricavare più copie di una medesima immagine), la fotografia nei decenni successivi trova una vasta diffusione sia in ambito amatoriale che professionale, affrontando tematiche che spaziano dai “panorami” ai ritratti.
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        L. Daguerre, Boulevard du Temple, 1838 -  H. F. Talbot, Il fienile, 1842
La fotografia si afferma anche grazie alle Esposizioni Universali del XIX secolo: sia a Londra nel 1851 che a Parigi nel 1855 viene presentata una grande varietà di immagini proveniente da diverse nazioni (ma soprattutto Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti), realizzate a fini scientifici, industriali, artistici e commerciali, che consentono ai diversi fautori della fotografia di iniziare “a pronunciarsi sul valore espressivo e intrinseco del nuovo strumento”[7].
Il progresso della fotografia è senza dubbio correlato all’affermarsi del pensiero positivista e all’impetuoso avanzamento delle conoscenze scientifiche e tecnologiche tipiche della seconda Rivoluzione Industriale, che gli storici collocano nel periodo compreso tra gli anni ‘50 dell’Ottocento e il 1914, con l’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio. Soprattutto grazie all’evoluzione dei dispositivi di ripresa e al continuo aggiornamento dei procedimenti di sviluppo e stampa (collodio umido, fotoincisione, gomma bicromata, gelatina d’argento) la fotografia è in grado di proporsi come una pratica innovativa, alla ricerca di una propria identità, condividendo forme di sapere a cavallo fra sperimentazioni tecnico-scientifiche ed esperienza artistica.
Ed è proprio il confronto con le tradizionali arti figurative e in particolare con la pittura che accende la discussione tra fotografi, artisti, letterati e critici d’arte sul ruolo che la fotografia deve svolgere all’interno della nascente società industriale. Il nodo cruciale da sciogliere è se debba rimanere circoscritta nell’ambito della sfera tecnica come riproduzione del visibile o se possa aspirare a uno spazio autonomo all’interno del variegato mondo della produzione artistica. In altri termini, la fotografia è soltanto un mero processo meccanico e chimico di rappresentazione del mondo, che la relega inevitabilmente alla funzione di “sorella minore dell’arte” o può acquisire anche quella capacità interpretativa della realtà e della “natura”, che le consente di ottenere un proprio riconoscimento e statuto all’interno delle arti maggiori?
Tra i critici più radicali c’è Baudelaire che definisce la fotografia un rifugio per pittori falliti, “troppo vicina alla natura e troppo lontana dall’immaginazione umana”, mentre altri considerano la fotografia come un’eterna “ancella” della pittura. Resta il fatto che in quel periodo si crea un’inevitabile e proficua interazione fra pittura e fotografia: i pittori, per creare i propri quadri, possono utilizzare le riproduzioni fotografiche, accanto o in sostituzione delle impegnative riprese dal vero, mentre la fotografia può arricchirsi apprendendo le tecniche compositive e stilistiche della pittura nei suoi diversi generi (le vedute e i paesaggi, le nature morte, l’arte del ritratto e del nudo). Non va peraltro dimenticato che molti fotografi sono anche pittori e che molti pittori nel corso della loro carriera si avvicineranno alla pratica fotografica.
La fotografia di ispirazione pittorica: la diatriba fra H. P. Robinson e P. H. Emerson
In questo contesto si afferma la cosiddetta “fotografia di ispirazione pittorica”, anche grazie alla divulgazione di libri come quello di Henry Peach Robinson, L’effetto pittorico in fotografia (1869), che illustra una serie di tecniche e metodi costituiti da “un intreccio tra arte, natura, verità e bellezza e una giusta dose di inganno in camera oscura”[8], mediante i quali creare fotografie “artistiche”.
Sempre nel capitolo “La svolta del pittorialismo”, Bate analizza la famosa fotografia di Robinson, Spegnersi (Fading Away), del 1858, costruita grazie al montaggio di cinque diversi negativi (stampa combinata), con un procedimento che è molto simile a quello del fotomontaggio novecentesco e alle recenti tecniche presenti in tutti gli attuali programmi di manipolazione digitale delle immagini.
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        H. P. Robinson, Spegnersi, 1858
 La fotografia descrive gli ultimi istanti di vita di una giovane donna vegliata dalla madre e dalla sorella, con la figura del padre in secondo piano che volge le spalle e guarda dalla finestra il mondo esterno. La posa delle persone accuratamente studiata contribuisce a creare una “composizione armoniosa”, che vuole rappresentare “una morte dolce e bella”.
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                                       H. P. Robinson, Cappuccetto rosso, 1858
 Se da un lato sono state avanzate molte critiche in riferimento alla costruzione artificiale dell’immagine (pensata come una scena teatrale) e quindi alla creazione di una falsa realtà fotografica, dall’altro non dobbiamo dimenticare - come ci ricorda David Bate - che “tali obiezioni si basano però su un fraintendimento degli ideali di bellezza che sono all’origine di questa pratica”. Ma ancor di più: con questo procedimento si legittima “la manipolazione di immagine”, addirittura la si postula “come necessaria al raggiungimento dell’effetto pittorico ideale, come lo definiva Robinson”[9].
Su posizioni antitetiche, in aperta polemica con Robinson, troviamo Peter Henry Emerson, che nel 1889 pubblica il manuale Naturalistic Photography, ben presto paragonato a una “bomba lanciata in una sala da tè”. Medico con una solida formazione scientifica e di idee progressiste, è convinto che il mezzo fotografico in quanto tale sia in grado di produrre opere di grande bellezza ed espressività, senza la necessità di interventi manipolatori. Da questo punto di vista, la sua concezione - che la scienza sia l’autentico fondamento dell'arte e della fotografia – si allinea perfettamente con quella “positivista” dello scrittore e polemista francese Émile Zola, di convinzioni repubblicane, che in modo analogo propugna l’adozione del metodo scientifico in letteratura. Diversamente dal “conservatore” Robinson che scatta fotografie con una nitidezza uniforme su tutto il campo dell’immagine, Emerson arriva a elaborare un'estetica della visione basata sulla "messa a fuoco selettiva, al pari dell’occhio umano, per rispecchiare la visione soggettiva dell’individuo”[10]. Nella sua opera Life and Landscape on the Norfolk Broads (Vita e paesaggi nei Norfolk Broads) del 1886 fotografa le condizioni e lo stile di vita dei lavoratori della terra, con un approccio naturalista che risente dell’influenza impressionista dei nuovi pittori en plain air.
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        P. H. Emerson, Raccolta del fieno in palude, 1885 circa
Se riprendiamo l’interrogativo che precedentemente ci eravamo posti, possiamo rilevare come le posizioni di Robinson ed Emerson rappresentino le due polarità (effetto pittorico vs. fotografia naturale) attorno alle quali ruota l’approccio pittorialista: l’artificialità dell’immagine costruita in studio opposta alla rappresentazione della terra e del lavoro, il montaggio fotografico antitetico alla “vera osservazione della natura”, fondata su presupposti scientifici, la nitidezza uniforme della fotografia che contraddice la messa a fuoco selettiva. Questi due opposti punti di vista, che rinviano all’eterno dilemma su quale valore attribuire alla fotografia, intesa come “costruzione di un significato ideale” oppure come documento oggettivo del reale, restano dialetticamente irrisolti: il movimento pittorialista non ha mai dato una risposta definitiva – afferma David Bate – e la tendenza prevalente è stata quella di “fondere e mescolare le due alternative in vari modi”[11].
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        Fotografie di Peter Henry Emerson
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[1]- I francesi Niépce e Daguerre.
[2]- Roberta Valtorta, “Dissimiglianza vs. somiglianza: un concetto in flashback”,  recensione del libro di Bate in rivista di studi di fotografia, n.8, 2018.
[3]- David Bate, La fotografia d’arte, Einaudi 2018, p.5 e 19. Con “fotografico” Bate intende “un valore visivo che precede l’invenzione stessa della fotografia” e che possiamo ritrovare, ad esempio, nei quadri dell’olandese Vermeer, ai quali “viene retrospettivamente riconosciuta una qualità visiva eminentemente fotografica”.
[4]- Il termine viene usato da Racière durante una conferenza del 2002 al Centro nazionale della fotografia di Parigi.
[5]- Vista dalla finestra a le Gras.
[6]- Bate, op. cit., p.46-47.
[7]- Juliet Hacking (a cura di), Fotografia la storia completa, Atlante 2013, p.67.
[8]- Ivi, p.160.
[9]- Bate, op. cit., p.49-50.
[10]- Ivi, p.53.
[11]- Ivi, p.54.
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pier-carlo-universe · 2 days ago
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Ci rivediamo lassù di Pierre Lemaitre: un capolavoro sulla sopravvivenza e le ferite della guerra. Recensione di Alessandria today
Un racconto potente e struggente sulle cicatrici lasciate dalla Prima Guerra Mondiale.
Un racconto potente e struggente sulle cicatrici lasciate dalla Prima Guerra Mondiale. Biografia dell’autore. Pierre Lemaitre, nato a Parigi nel 1951, è uno dei più celebri autori contemporanei francesi. Inizialmente noto per i suoi thriller psicologici, Lemaitre ha poi raggiunto fama internazionale con i suoi romanzi storici, conquistando il Premio Goncourt nel 2013 proprio con “Ci rivediamo…
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carmenvicinanza · 4 years ago
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Ursula K. Le Guin la più grande scrittrice fantasy
https://www.unadonnalgiorno.it/ursula-k-le-guin/
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Mi ci vollero degli anni per rendermi conto d’aver scelto di lavorare in generi disprezzati e marginali come la fantascienza, la fantasy e la narrativa per adolescenti, esattamente perché essi erano esclusi dal controllo della critica, dell’accademia, della tradizione letteraria, e consentivano all’artista di essere libero.
Ursula K. Le Guin, scrittrice anarchica statunitense, autrice di fantascienza e di fantasy è stata una delle esponenti più importanti della letteratura utopica moderna.
Conosciuta al grande pubblico a partire dalla fine degli anni ’60, nella sua carriera ha scritto più di venti romanzi, undici raccolte di racconti, dodici libri per bambini e sei libri di poesia.
Ha vinto cinque premi Hugo e sei premi Nebula, i massimi riconoscimenti della letteratura fantastica,  è considerata una delle principali autrici di fantascienza. I suoi romanzi sono stati venduti in decine di milioni di copie nel mondo.
Nelle sue opere esplora tematiche come l’anarchia, il taoismo, il femminismo, l’utopia, la psicologia e la sociologia.
Ursula Kroeber nasce a Berkeley in California il 21 ottobre 1929 da Alfred Kroeber, celebre antropologo, e da Theodora Kroeber, scrittrice. Sin da bambina manifesta una precoce passione per la letteratura di fantascienza. A soli nove anni scrive la sua prima storia, inventa storie di utopia, crede e guarda oltre quella pausa di tempo che separa la fine di una grande guerra e l’inizio di un’altra.
Studia al Radcliffe College e poi alla Columbia University di New York, dove si laurea con una tesi sulla storia della letteratura francese e del Risorgimento italiano.
Trasferitasi in Francia, incontra il suo futuro marito, Charles Le Guin, da cui avrà tre figli. Dopo il matrimonio del 1953, firmerà le sue opere con il cognome del marito, lasciando del suo cognome originario solo la K.
Nel 1962 presenta Aprile a Parigi, il suo primo racconto fantasy. Nel 1964 Amazing Stories le pubblica un racconto, nel 1969 assurge al grande pubblico col suo romanzo La mano sinistra delle tenebre che vince i premi Hugo e Nebula.
Altro libro celeberrimo sarà I reietti dell’altro pianeta del 1974.
Ursula K. Le Guin è conosciuta anche per essere stata una grande glotteta (la glossopoiesi è un’attività tesa a progettare e sviluppare la fonologia, il vocabolario e la grammatica di una lingua artificiale, sia essa artistica, ausiliaria, logica o filosofica), tutti i suoi romanzi fantascientifici sono profondamente umani, indagatori delle ombre e delle ipocrisie della nostra società.
Per i suoi libri ha ricevuto tantissimi premi, tra cui un National Book Award; il Kafka Award, il riconoscimento speciale alla carriera dell’American Academy of Arts and Letters; il Gandalf Grand Master; il Science Fiction and Fantasy Writers of America Grand Master Award; il Locus Award (19 volte) e molti altri. Nel 2003 è stata insignita del titolo di Grand Master, assegnato ai più importanti autori di fantascienza.
Ursula K.Le Guin si può definire una donna a passeggio tra i pianeti, che è riuscita a emergere in un campo non comune della letteratura. La sua utopia si è realizzata in maniera potente, nutrita dalle sue convinzioni femministe, anarchiche, radicali. Ha scritto di pace, di socialismo, di possibilità. Ha sfondato con grande grazia confini di genere e di immaginazione.
Ha lasciato la terra il 22 gennaio 2018, a Portland.
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assistirnoticias60 · 4 years ago
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11 Filmes Para Estudar História Para Os Grandes Vestibulares
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Filmes E Séries Para Quem Deseja Estudar Psicologia
Seu maior vitória foi a o filme "Viagem à Lua", de 1902, onde adaptou a insigne obra de Júlio Verne para o cinema. Nos Estados Unidos três anos depois, Alice Guy criou sua própria produtora e construiu estúdios para filmar suas obras. Depois se divorciar em 1920, volta para a França, mas não consegue retomar sua curso de diretora. Completamente apagada da história do cinema, Alice Guy-Blaché faleceu em 1968. A francesa Alice Guy foi a primeira cineasta mulher e a primeira persona a explorar a via narrativa do cinema. Trata-se de uma arte bastante antiga de narrar histórias e entreter com bonecos de sombra. A prática consiste na projeção de sombras, em paredes ou telas de linho, de figuras humanas, animais ou recortes de objetos e cenários. Dimas conta que o mais indicado é você assistir ao filme e, depois disso, reforçar sua base teórica com uma busca em sites confiáveis ou, então, recorrer ao material didático para confirmar as informações. Isso deseja expor que você não deve confiar cegamente em tudo que é dito e não deve procurar aprender novos conteúdos direto no filme. Como não somos robôs e não conseguimos aprimorar nossa mente pois ela aproveite 100% do nosso estudo, o negócio é estudar, revisar e consultar o material de apoio com regularidade. Incorporando contribuições de Hayden White, Rosenstone se apresenta como analista pós-moderno interessado na renovação da narrativa e das perspectivas teóricas da historiografia por meio da incorporação de novos estilos de argumentação e escrita. Deste modo, numa sala escura, foram projetados 10 filmes de curta duração como "A chegada do trem à estação de La Ciotat" ou "A saída dos operários da fábrica". Pesquisaram e aperfeiçoaram as primeiras câmaras fotográficas contribuindo para o apresentação da retrato colorida.
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Prepare um roteiro de perguntas e alerte os alunos para perceberem os conflitos, o tema e personagens. Deixe naturalmente para a turma que o filme representa um incidente histórico, porém não é a veras. Observe se existem cenas desapropriadas para a tira etária dos alunos. Assista ao filme mais de uma vez e veja se é preciso passá-lo na íntegra ou somente partes selecionadas.
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Com os recentes protestos que vêm tomando os noticiários no mundo todo, é um filme obrigatório para entender o momento que estamos vivendo. A história do filme é sobre a primeira unidade formal do Tropa dos EUA durante a Guerra Civil Americana formada integralmente de homens afro-americanos, e que é contada a gretar do ótica do Coronel Shaw, oficial comandante nevado. Eles foram a primeira unidade do que se tornou divulgado como as United States Colored Troops e por suas ações heroicas em Fort Wagner. Skeeter é uma garota branca da alta sociedade que retorna ao vilarejo determinada a se tornar escritora. Do meio de os muitos filmes que abordam o pretérito fresco do Chile, Machuca se destaca por trazer a perspectiva de um grupo de jovens colegas de escola. No início da década 1970, os estudantes debatem sobre dos obstáculos sociais e políticos do país, que ainda influenciam e provocam polarizações no país. Essa obra cinematográfica combina temas clássicos e atuais, com destaque para a proprietária do jornal The Washington Post, que decidiu publicar documentos vazados sobre a guerra do Vietnã, os quais comprometiam o establishment¹ político da maior potência universal. A questão da atuação da imprensa em um país democrático regressaria à película pouco tempo depois com o escândalo político divulgado como Watergate, que culminou na renúncia do presidente Richard Nixon, em 1974. Fundamentado na descrição da vida do escritor afro-ianque Solomon Northup, o filme apresenta um rico relato sobre a escravidão nos EUA. Como aconteceu na vida real, a trama mostra como Northup, um preto livre nascido em Nova York, foi sequestrado em Washington e vendido como servo. Ao ser levado para Louisiana, Solomon é forçado a trabalhar nas plantações durante 12 anos. O filme, governado por Steven Spielberg e baseado na obra de Thomas Keneally, é sobre um empresário boche que salvou a vida de milhares de judeus durante a Segunda Guerra Universal. O período colonial brasílio ganha contornos artísticos nessa produção, que foca nos primeiros anos após a chegada dos portugueses ao que viria a ser o litoral brasileiro. Cinco dicas para te auxiliar a garantir a disciplina dos alunos nas aulas virtuais. Para a Idade Moderna, uma boa sugestão é A missão , com direção de Roland Joffé. “É importante frisar, conquanto, que não tratamos o cinema como um meio, um veículo talhado à mera ilustração de idéias e ideias filosóficos, mas como uma linguagem artística autônoma. Quando o matéria é história do Brasil, o cinema produzido no país pode representar melhor que qualquer outro a sociedade e a cultura. É isso o que defende a Ação Educativa, que há quatro anos desenvolve acervos de videoteca em escolas da zona nascente de São Paulo e cursos de análise do audiovisual. "O mestre precisa valorizar seu papel para utilizar conforme as regras o cinema. Este não deve ser um coadjuvante", afirma Alexandre Kishimoto, um dos coordenadores do trabalho. Misturando ficção e verdade, a obra cinematográfica exibe um ator desfilando pela Alemanha como Adolf Hitler, que maquinalmente é desfigurado em uma notoriedade midiática. Além da insólita atitude das pessoas ao posarem para selfies com o ditador, por exemplo, o filme também apresenta relatos polêmicos.
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O filme mostra como alguém com uma “mente tão refulgente” sobreviveu aos altos e baixos de uma doença mental - isso, em uma idade quando tais enfermidades não eram tratadas com a naturalidade de hoje. A mostra-curso ‘A história da filosofia em 40 filmes’ foi aprovada pelo citação 2008 de ocupação dos circuito da CAIXA Artístico e vai ficar em cartaz todo os sábados entre 16 de maio de 2009 e 28 de fevereiro de 2010.
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http://tudo.extra.com.br/cds-dvds-blu-ray/velozes-e-furiosos-cronologia-completa/ Até aí o cinema ainda fazia sucesso, visto que os DVDs (ou as antigas fitas de vídeo) só eram lançadas para venda ou aluguer após os filmes saírem de cartaz. Ao final da segunda Guerra Internacional, a televisão começou a se popularizar, e isso foi um grande entrave para a indústria do cinema, visto que uma vez adquirida pelas famílias, a televisor era muito mais em conta.
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Filmes E Séries Para Quem Quer Estudar Psicologia
Ela inicia a entrevistar as mulheres negras da cidade, que deixaram suas vidas para trabalhar na geração dos filhos da elite branca, o que desagrada secção da sociedade. No contexto do final da Segunda Cruzada, o filme aborda questões sobre o fanatismo religioso e a intolerância na Idade Média. No filme, um jovem ferreiro gálico, guarda luto pela morte de sua esposa e filho. Esta série documental possui como principal tema de proeminência o uso de imagens históricas da estação, apresentadas de maneira integralmente retrabalhadas em cores, para uma grande imersão histórica do espectador. Associadas a relatos e análises de especialistas é um óptimo material de estudo primitivo, que nos transporta para os tempos de guerra. O mestre deverá discutir o filme e a Independência das 13 Colônias da América do Setentrião. Poderá dividir os alunos em grupos com o propósito de discutam as principais impressões do filme. O professor deverá explicar a “Guerra dos Sete” anos aos alunos, que é o contexto geral do filme e por ser um filme de enredo mas complexo do que os anteriores, explicar as ligações dos indígenas com os franceses e ingleses, sanar as dúvidas existentes. O mestre deverá explicar que o filme foi fundamentado em uma bocado teatral do século XX, do diretor Arthur Miller, mas tanto a bocado quanto o filme retratam um episódio ocorrido na América do Setentrião em 1692. O mestre poderá pedir que os alunos, de pessoa para pessoa, fa��am a obra e anotem as principais idéias retiradas do artigo.
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mmufo · 5 years ago
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Cavaleiros Templários: Ainda Amados por Teóricos da Conspiração
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No dia de Natal de 1119, o rei de Jerusalém, Baldwin II convenceu um grupo de cavaleiros franceses liderados por Hugh de Payne II a salvar suas almas, protegendo os peregrinos que viajavam pela Terra Santa. E assim a Ordem dos Cavaleiros Templários foi formada. Essa ordem revolucionária de cavaleiros viveu como monges e fez votos de pobreza e castidade, mas estes eram monges com uma diferença - eles pegariam em armas como cavaleiros para proteger os civis usando as estradas perigosas do recém-conquistado Reino de Jerusalém. A partir desses primórdios humildes, a ordem cresceria e se tornaria uma das principais forças militares cristãs das cruzadas. Nos 900 anos seguintes, esses monges guerreiros se associaram ao Santo Graal, aos maçons e ao ocultismo. Mas alguma dessas associações é verdadeira ou são apenas mitos infundados? A Abolição dos Cavaleiros Templários As Cruzadas terminaram em 1291, depois que a capital cristã do Acre caiu para as forças mamelucas do Egito e os Templários se viram redundantes. Apesar de suas riquezas e propriedades européias, sua razão de existir fora a guerra em defesa da Terra Santa. Mas o rei francês Filipe IV estava em dívida com a ordem dos Templários e, com a perda da Terra Santa, capitalizou sua vulnerabilidade e prendeu os Templários na França na sexta-feira, 13 de outubro de 1307, em um ataque ao amanhecer no templo e nas residências de Paris. Em 1312, a ordem foi abolida por decreto papal e em 1314 o último grão-mestre, Jacque de Molay, foi queimado na fogueira em Paris com outros três templários. Com a ordem destruída, quaisquer ex-membros sobreviventes se juntaram a outras ordens ou mosteiros.
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Execução de Jacques de Molay em Paris, março de 1314. Giovanni Villani, Nuova Cronica - ms. Chigiano L VIII 296 - Biblioteca Vaticana. Apesar das prisões e acusações de heresia contra a ordem, um documento conhecido como Pergaminho Chinon foi encontrado em 2001 nos arquivos do Vaticano que documenta que os Templários foram, de fato, exonerados pela Igreja Católica em 1312. Mas, apesar de esclarecer por heresia, o Papa Clemente ordenou que fossem dissolvidos. Apropriação de uma lenda A supressão dos templários significava que não havia ninguém para salvaguardar seu legado. Desde então, a ordem foi apropriada por outras organizações - principalmente como ancestrais da ordem maçônica no século 18 e, mais recentemente, por grupos extremistas de direita como os Cavaleiros Templários do Reino Unido e o terrorista assassino em massa Anders Behring Breivik . A associação dos Cavaleiros Templários à Maçonaria não é tanto um mito, como foi uma campanha de marketing dos maçons do século 18 para apelar à aristocracia. O historiador Frank Sanello explicou em seu livro de 2003, Os Cavaleiros Templários: os guerreiros de Deus, os banqueiros do diabo, que inicialmente foi Andrew Ramsey, um maçom francês da época, quem primeiro fez a ligação entre os maçons e os cavaleiros cruzados. Mas ele originalmente alegou que os maçons eram descendentes da cruzada Ordem dos Cavaleiros Hospitalários. É claro que os hospitaleiros ainda estavam operacionais, ao contrário dos Cavaleiros Templários, então Ramsey mudou rapidamente sua reivindicação de que os Templários fossem a ascendência cruzada dos maçons. Os Cavaleiros Templários haviam sido mitologizados na cultura popular desde o século XIII no épico Parzival do Graal pelo cavaleiro e poeta alemão Wolfram von Eschenbach. Neste épico do Graal, os Cavaleiros Templários foram incluídos na história como guardiões do Graal. Após a queda repentina da ordem, esses monges guerreiros se associaram a conspirações e ao ocultismo. Para alguns, um mistério ainda envolve o destino da fortuna dos Templários (que na verdade foi confiscada por Phillip IV, com a maioria de suas propriedades redistribuídas aos Hospitalários) e as confissões dos Templários (extraídas sob tortura) para adorar um ídolo chamado Baphomet. A ligação entre os templários e o ocultismo ressurgiria novamente no século XVI no livro De Henryculpa De Occulta Philosophia.
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Teorias da conspiração dos mitos e cavaleiros templários dos dias atuais A ficção moderna continua a se basear nos mistérios difundidos e nas teorias fantasiosas. Essas associações míticas são temas-chave para muitas obras populares de ficção, como O Código Da Vinci, de Dan Brown, no qual os Templários guardam o Graal. O mito dos Templários também chegou ao formato de jogo digital na franquia de sucesso mundial Assassin's Creed, na qual o jogador deve assassinar um vilão Templário. Nove séculos após a sua formação, os Templários continuam sendo a ordem mais icônica e infame de cavaleiros das Cruzadas. O legado dos Templários cresceu além de seu papel militar medieval e o nome tornou-se sinônimo de ocultismo, conspirações, o Santo Graal e os maçons. Mas todas essas são narrativas falsas - fantásticas, mas enganosas. O verdadeiro legado dos Templários permanece com a Ordem dos Cavaleiros de Portugal, a Ordem dos Cavaleiros de Nosso Senhor Jesus Cristo (Ordem dos Cavaleiros de Jesus Cristo). Esta ordem foi criada pelo rei Diniz em 1319 com a permissão papal devido ao papel proeminente que os templários tiveram no estabelecimento do reino de Portugal. A nova cavalaria chegou até à antiga sede dos Templários em Tomar.
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Convento de Cristo, Tomar, Portugal. Igreja. (Alvegaspar / CC BY SA 3.0) Para o historiador Micheal Haag, essa nova ordem "era os templários com outro nome" - mas prometia obediência ao rei de Portugal e não ao papa como seus predecessores templários. E assim a essência dos sucessores dos templários ainda existe hoje como uma ordem de mérito portuguesa por um serviço excepcional - e o mito dos templários continua a fornecer uma rica fonte de inspiração para empreendimentos artísticos. Top Image: As teorias de conspiração dos Cavaleiros Templários existem há 900 anos. Fonte: maria / Adobe Stock Post Origens Antigas Este artigo foi publicado originalmente sob o título "Cavaleiros Templários: Ainda amados pelos teóricos da conspiração 900 anos depois" por Patrick Masters foi publicado originalmente no The Conversation e foi republicado sob uma licença Creative Commons. Read the full article
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pleaseanotherbook · 3 years ago
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Sfacelo di René Barjavel
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Era un odore di mondo che nasce o che muore, un odore di stella.
“Sfacelo” di René Barjavel è una distopia francese tradotta in italiano da Orma editore. È uno di quei libri che ho recuperato durante il primo lockdown e che poi ho lasciato a sedimentare nel mio Kindle in attesa del momento buono per leggerlo. Poi un giorno sfogliando l’elenco dei libri a mia disposizione l’ho ritrovato e mi sono detta che era una buona idea iniziarlo a leggere senza avere grande prontezza della trama e devo dire che mi ha molto intrigata.
Francia, 2052. In un futuro ipertecnologico, in cui ogni aspetto dell’esistenza è governato dalle macchine, l’elettricità viene improvvisamente a mancare. Nel giro di pochi giorni incendi devastanti divampano in ogni città e un’ondata di calore senza precedenti fa evaporare le riserve d’acqua. È la Natura violata che si ribella al giogo imposto dall’uomo, non lasciando scampo né possibilità di redenzione. L’umanità si ritrova catapultata in un mondo in cui vige solo la legge della sopravvivenza. Sullo sfondo di una Parigi in balia di bande di sciacalli ed epidemie di colera, il giovane François Deschamps si mette alla guida di uno sparuto gruppo di superstiti: la loro unica speranza è raggiungere l’incontaminata Provenza e rifondare una società libera dai micidiali errori del passato. Scritto nel 1942, sotto i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, Sfacelo è un classico della fantascienza che si è conquistato in molti Paesi una fama enorme e duratura e che è tempo di riscoprire anche in Italia. In questa parabola ecologica, sbalorditiva predizione del nostro presente, René Barjavel costruisce un perfetto congegno narrativo dal visionario taglio cinematografico, non risparmiandoci nulla dell’orrore che si sprigiona quando si toglie ogni freno agli istinti più oscuri dell’animo umano.
Tornare a leggere distopie dopo tanto che leggo principalmente narrativa è stato molto bello, un po’ come tornare a casa. So bene come ci si muove tra le pagine di libri che partono da presupposti reali, estremizzandoli fino all’eccesso e so bene che la distopia vuole interrogarsi sul futuro, avvertendo o moderando, ma senza mai dare risposte definitive. Barjavel immagina il collasso tecnologico, improvvisamente internet, l’elettricità e ogni invenzione moderna smettono di funzionare e la società così come la intendiamo ora crolla, improvvisamente e si accascia su sé stessa. La ricchezza e il potere così come si era attestato fino a quel momento non ha più significato nessuno segue più l’autorità preoccupato di recuperare la sopravvivenza minima. A Parigi, ma nelle città tutte ogni approvvigionamento è supportato da un congegno ben preciso, la scienza ha sintetizzato tutto quello che si può desiderare, cibo compreso. Quando le macchine non sono più in grado di volare e il denaro non vale più niente, conta solo l’istinto di sopravvivenza e si instaura la legge del più forte. François Deschamps, il protagonista della storia, si fa leader di una spedizione che cerca di sfuggire dalla città e di tornare verso sud dove la popolazione è rimasta ancorata ai metodi tradizionali, l’agricoltura e l’allevamento realtà ancora fortissime. Barjavel crea una realtà alimentata da contraddizioni fortissime, dicotomie che distruggono le prospettive e alimentano le lotte e ogni gesto viene valutato per quello che è. Le rivolte sono all’ordine del giorno e la contrapposizione di vedute diventa improvvisamente lampante. Non c’è salvezza istantanea, non c’è possibilità di avanzare concretamente verso esigenze puramente sentimentali, è necessario capire cosa conta e come sopravvivere allo “sfacelo”. Non c’è solo la battaglia tra ricchi e poveri, nord e sud, ma anche scienza e spiritualismo, una vita fatta di atti semplici e azioni banali e altre di elevazioni e avanzamento, l’evoluzione corre di pari passo con il pericolo di andare troppo oltre. Il progresso tecnologico che si basa su intuizioni derivanti da osservazioni e tentativi diventa necessario e quasi inevitabile, dove pure un rapporto con il nostro vero io e il nostro lato più spirituale e terreno non deve mancare. Nella società descritta da Barjavel tutti sono compressi in gabbie di vetro e metallo, in alto, sempre più in alto, in grattacieli attraversati da mezzi di trasporto ad alta velocità, ma i dimenticati, i poveri, gli indifesi si nascondono a bordo strada e addirittura sottoterra, in un metaforico nascondiglio della polvere sotto il tappeto. Perché l’importante è l’immagine stellare di una società che non si ferma, che è al passo con i tempi, che in pochissimo tempo arriva dall’altro lato del mondo. Quando tutto esplode però ciò che conta è tutt’altro. I personaggi della storia lottano per raggiungere un nuovo obiettivo, si rincorrono mentre gli incendi, la siccità e l’incertezza fanno preda dei loro spiriti e delle loro risorse. Ognuno di loro deve fare i conti con quanto è disposto a sacrificare, quanto è disposto a mettersi in gioco e quanto disposti a seguire un uomo. Perché quando l’emergenza impellente finisce la parte più difficile è ricostruire e se per distruggere tutto basta un minuto per riparare i cocci delle vite spezzate ci vogliono anni e anni.
 Il particolare da non dimenticare? Un cavallo…
 Una storia che è un monito e una speranza, il ritratto devastante di una società post-apocalittica che prova a sopravvivere alla tragedia tra compromessi, paure e violenza, che a volte basta poco per accendere la luce.
Buona lettura guys!
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blogdobenedito · 5 years ago
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Pós-modernidade e fascismo: a fórmula do desastre
Historicamente, os movimentos fascistas nascem nos períodos em que a crise do capitalismo se aprofunda ao ponto de atingir o seu sistema político, desacreditando irremediavelmente a democracia burguesa. Estas são as causas objetivas do surgimento e da ascensão do fascismo, identificáveis nas condições materiais em que ocorre a luta de classes no capitalismo. Mas, as condições materiais não determinam mecanicamente os fenômenos sociais, inclusive os políticos. Como dizia Marx, são os seres humanos que fazem a sua própria história (embora não nas condições de sua escolha, mas nas legadas pelo passado). Neste sentido, se as condições materiais determinam as possibilidades de ação, é preciso não esquecer que é próprio da ação humana passar pelo pensamento. Toda decisão humana, assim, pressupõe uma possibilidade de escolha. Em outras palavras, se os processos sociais são compreensíveis objetivamente, isto não significa que eles não sejam influenciados, por vezes decisivamente, pelas condições subjetivas, as quais agem dialeticamente sobre as próprias condições materiais (e não apenas o inverso). As produções ideológicas que orientam a política, assim, dependem de movimentos do pensamento que não podem ser reduzidos mecanicamente à evolução das condições materiais. Neste sentido, o surgimento e, principalmente, a ascensão do fascismo nas sociedades contemporâneas explicam-se, também, por certa trajetória das produções ideológicas nelas observadas.
Em 1952 Geörgy Lukács completa o seu livro intitulado “A destruição da razão”, o qual representa um esforço do autor para compreender o nazismo, tendo como objeto a evolução da filosofia alemã. Neste livro, Lukács tentou mostrar como, a partir de Schelling, através de Schopenhauer e Nietzsche, chegando até Heidegger, o pensamento alemão teria sofrido um processo de irracionalização crescentemente aguda e furiosa, a qual deu, segundo o autor, um decisivo suporte ao triunfo da demagogia nacional-socialista. De acordo com a análise de Lukács, realizada com certa ferocidade no encadeamento implacável dos argumentos, é nos grandes representantes do pensamento irracionalista alemão do século XIX que se pode identificar os sinais precursores da deterioração filosófica que precedeu a escalada do nazismo.
Para Lukács, portanto, a disseminação do irracionalismo filosófico é um poderoso elemento propulsor do fascismo. Se estivesse vivendo em nossos tempos, Lukács teria um material muito mais farto para dar suporte a esta tese. É que o irracionalismo tornou-se uma tendência largamente dominante na produção intelectual contemporânea. Refiro-me aqui, principalmente, àqueles que sustentam que as sociedades capitalistas mais ricas teriam atingido uma (suposta) “pós-modernidade”. De acordo com esta tendência, o “projeto” da Modernidade, com seus grandes valores universais ligados ao progresso da Humanidade, falhou. Neste sentido, mesmo a noção de progresso deveria ser rejeitada. De acordo com esta ideologia, tudo é relativo, devendo estar subordinado a avaliações meramente subjetivas. Até mesmo o conhecimento científico, pelo fato de ser algo característico da Modernidade, passaria a ter validade apenas local, podendo mesmo ser rejeitado diante de outros “saberes”.
Os franceses estão entre os principais pioneiros do pensamento “pós-moderno”. Mas foi também um filósofo francês, Michel Clouscard, que a meu ver analisou com mais pertinência este pensamento. Para Clouscard, o alegado advento da pós-modernidade é um fenômeno de classe. Para o autor tal fenômeno, em suma, representa a emergência de um projeto social elaborado em função dos interesses específicos da nova classe média, formada principalmente por trabalhadores intelectuais no seu sentido amplo (ou seja, por todas as profissões que tem no conhecimento desenvolvido em instituições acadêmicas a base da sua atuação, o que inclui, por exemplo, advogados, médicos, engenheiros e administradores). Após a Segunda Guerra Mundial a ascensão social desta nova classe média foi fulgurante, em detrimento da classe média tradicional, representada por camponeses, artesãos e pequenos comerciantes. Tal ascensão contrastava com um capitalismo repressor dos costumes e que oferecia poucas garantias ao respeito dos direitos humanos. A liberalização dos costumes e a instituição de um genuíno Estado de Direito passam, assim, a ser os elementos estruturantes de um projeto social que exprime as aspirações políticas da nova classe média.
Tal projeto é simpático às classes populares, na medida em que pretende defender os seus direitos. Mas ele não inclui uma contestação clara e objetiva da exploração sofrida por estes trabalhadores, até porque a própria nova classe média é beneficiada por esta exploração. Por isto, ao mesmo tempo em que procura amenizar os efeitos da exploração dos trabalhadores no capitalismo, a nova classe média é avessa ao reconhecimento da luta de classes e da estrutura social capitalista na qual ela ocorre. Aliás, as próprias noções de luta de classe e de estrutura social são veementemente rejeitadas pelos ideólogos da pós-modernidade, assim como a possibilidade de qualquer análise racional dos processos sociais. O capitalismo, assim, figura como a sociedade na qual a pós-modernidade poderia se estender indefinidamente. Neste quadro, vários “fins” são decretados. Fim da história, fim das ideologias e, principalmente fim de qualquer esforço intelectual que possa dar suporte a um projeto de transformação global da sociedade, que passam a ser considerados como meras “grandes narrativas”, tão válidas como qualquer outra. Com um discurso altamente envolvente e aparentemente realista, na medida em que reflete o elevado grau de alienação vigente nas sociedades contemporâneas, a ideologia da pós-modernidade tornou-se hegemônica entre a esquerda, com a nova classe média impondo a prioridade dos seus interesses específicos sobre o das classes populares. Afinal, quem pode ser contra o direito das mulheres, dos homossexuais e das minorias raciais?
A nova classe média possui uma visceral repugnância ao fascismo. E, evidentemente, foram as condições objetivas de um capitalismo em profunda crise as responsáveis pelo surgimento do fascismo. Mas, paradoxalmente, o pensamento pós-moderno proporcionou um suporte ideológico decisivo a ascensão do fascismo. Ao negar qualquer possibilidade de construção de um projeto social elaborado racionalmente, a ideologia da pós-modernidade fortalece o irracionalismo fascista. A confusa contestação da Modernidade protagonizada pelos pós-modernos, assim, contribuiu para a sua radical negação pelo fascismo.
Em termos mais concretos, este suporte se manifesta pelo fato da pauta pós-moderna desmobilizar os trabalhadores, minando a sua organização, ao não oferecer uma clara alternativa as classes populares. Já a pauta do fascismo é clara, mesmo que medíocre e absurda. Para o fascismo, por exemplo, se há crime, é preciso prender e, até mesmo matar, mais. Se os serviços oferecidos pelo Estado não atendem aos interesses populares, é preciso acabar com o Estado. Se as empresas estatais não resultam em benefícios diretos à população, é preciso privatizá-las. Se o sistema político não representa os interesses da maioria, é necessário acabar com a política, matando os opositores, se preciso for. Não que os trabalhadores tenham aderido em massa ao fascismo, especialmente a sua variante ultraliberal, caso do Brasil. Mas, decepcionados com as vagas promessas da esquerda pós-moderna, eles se desmobilizaram, desorganizando-se.
Como afirmam Marx e Engels no Manifesto do Partido Comunista, apenas a força material pode se contrapor à força material que oprime os trabalhadores, mas a teoria, ao ser apreendida pelas massas, transforma-se também em força material. Neste sentido, apenas a força da organização dos trabalhadores pode se contrapor à dominação capitalista. Mas de acordo com a afirmação de Marx, os intelectuais, como produtores de teoria, possuem também um papel decisivo na transformação social. Ao assumir um projeto político estritamente voltado aos interesses da nova classe média, a esquerda perdeu a capacidade de desempenhar este papel. Assim, a recuperação desta capacidade passa necessariamente pela superação da pauta pós-moderna em favor da elaboração de um programa político que aponte para um projeto social alternativo claramente voltado à maioria da população. No caso brasileiro, ao contrário, a posição predominante na esquerda é de se limitar à tentativa de participar a qualquer custo do sistema político vigente, o que já era grave no âmbito de uma democracia burguesa que anteriormente ao golpe que destituiu Dilma Rousseff funcionava, mesmo que precariamente, de acordo com as instituições republicanas. Com a instalação do fascismo, que implica no total desrespeito as regras mais básicas do jogo eleitoral e ao Estado de Direito, como atestam a prisão de Lula, o assassinato de Mariele e o silêncio em relação ao envolvimento do clã Bolsonaro com as milícias, uma das formas mais abjetas de criminalidade, esta postura da esquerda torna-se simplesmente desastrosa.
(escrito em 16/07/2019)
(Para ESMAGAR O FASCISMO precisamos compreendê-lo! Se você acha que esta crônica pode contribuir para isto, compartilhe-a entre seus amigos e/ou assinale um “like”.)
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comunicatistampablog · 5 years ago
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Milano, 15 gennaio 2020 – Alla Salone della Cultura di Milano , che si terrà dal 18 al 19 gennaio prossimi, sarà presente l’autrice italiana Barbara Appiano, autentico fenomeno letterario del panorama nazionale, con ben 9 tra i suoi libri di narrativa e poesia, pubblicati con la casa Editrice Kimerik.
La Appiano, che è stata presente anche alle appena passate Fiera del Libro di Guadalajara, in Messico in novembre e alla Fiera nazionale della piccola e media editoria di Roma, in dicembre, è una fervida attivista culturale e sociale, oltre che prolifica scrittrice, fondatrice del giornale online “Il mondo a passo d’uomo “, di un sito che si occupa di recupero degli oggetti dalle discariche resuscitorecupero.appianobarbara.it, nonchè collaboratrice della rivista cartacea internazionale “Le Muse” diretta dalla poetessa Maria Teresa Liuzzo, dove recensisce autori contemporanei sia in prosa che in poesia.
Per la stessa rivista, su incarico della direttrice la dottoressa Maria Teresa Liuzzo, la Appiano traduce i maggiori poeti italiani viventi all’estero traducendo dall’italiano al tedesco, inglese, spagnolo e francese.
Barbara Appiano è da sempre impegnata sul fronte sociale, ambientale e di conservazione dei beni monumentali, e la sua penna fulminea incide come un bisturi la realtà, attraverso una scrittura originale che impatta il lettore per la costruzione narrativa assolutamente innovativa, dove il soggetto diventa oggetto. Spesso nelle sue opere parlano infatti la natura e le cose nelle loro diverse accezioni, grazie ad una scrittura molto diversa da quella a cui siamo abituati, in cui la realtà collima con la fantasia.
Queste le opere della Appiano che presenzieranno all’importante kermesse culturale letteraria internazionale.
1 – “Motel insonnia parking – Dal dormiveglia al sonnambulismo, la poesia resta sveglia“. Una raccolta di aforismi e aneddoti definiti “poesie cromatiche parlanti“. In questa raccolta appena uscita la scrittrice sostiene che il sonnambulismo, e l’insonnia, sono la chiave fantastica delle sue opere, visto che per la maggior parte del tempo scrive anche di notte. Ed è di notte che nascono i frammenti di spazi infiniti, in cui le parole letteralmente parlanti diventano poesia, espansione e condensazione del reale (queste sono le parole della scrittrice in merito alla classificazione della poesia che sfugge ad ogni categoria), in cui il surreale diventa la lettura del passato, del presente e del futuro.
2- “Adelante Palabra“. Una raccolta di aforismi e pensieri segnalata al concorso internazionale per la poesia Mario Luzi.
Un’opera di ribellione intellettuale grazie a cui la Appiano è stata definita una sorta di Ungaretti post moderna dal giornalista Stefano Duranti Poccetti.
3- “Italia a fumetti, Italia a denti stretti”. Un romanzo definito di formazione intergenerazionale dove la lettura è destinata ai più piccoli ma anche agli adulti, in cui la storia dell’Italia e dei tanti misteri irrisolti dall’ultimo dopo guerra ad oggi, è narrata come un fumetto.
Da notare che la locomotiva che ha ispirato la Appiano per questa storia giace tuttora abbandonata sotto il cavalcavia dell’autostrada Torino-Milano, altezza Tronzano Vercellese.
4-“18 Millimetri di indifferenza, la cicatrice della mia esistenza”. È un monologo dove a parlare è il cancro sconfitto dalla Appiano. Il libro definito dalla Prof.ssa Francisetti Brolin Sonia un libro sperimentale, ribalta la soggettività della sofferenza, in quanto a soffrire è il cancro battezzato “Bosone di Higgs, la particella scomunicata da Dio e in questo caso dai chirurghi che viene letteralmente sfrattato dall’autrice. E alla fine, da giocatore di biliardo quale ritiene di essere, rimarrà senza palle da tirare sconfitto dalla potenza della sopravvivenza dell’autrice.
La Appiano ha scritto il libro durante la sua degenza, di cui l’ultimo capitolo “Il suo nome era Cerutti Gino” nella sala d’attesa del reparto di medicina nucleare, in attesa di fare la scintigrafia ossea.
Il ricavato del libro viene devoluto all’associazione “Amici per sempre, Chirurgia Ospedale Desio S.Gerardo Monza” dove operano i chirurghi che hanno curato l’autrice.
5-“Echi nella nebbia a ridosso del cielo”. Un romanzo monologo in cui a parlare è Francesca, la prozia dell’autrice, la cui esistenza è stata scoperta dal ritrovamento in un cassetto di un certificato di morte.
Da quella scoperta parte la storia di Francesca, che venne rinchiusa nell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli durante la guerra in quanto schizofrenica, in cui Francesca poi si suiciderà dopo quasi 20 anni di permanenza nel nosocomio. La morte di Francesca non viene subito denunciata, e occorreranno ben 6 mesi prima che la stessa possa avere un certificato di morte e una degna sepoltura in quanto al momento dell’internamento fu buttata la sua carta d’identità.
Il romanzo è una sorta di eco, un grido nella nebbia dell’indifferenza della società che tende ad evitare il problema della malattia mentale, i pazienti e i relativi famigliari.
6-“La leggenda del pasticciere aviatore“. E’ una storia vera e fantastica, che l’autrice apprende durante la sua degenza in ospedale a Desio, venendo a conoscenza della storia di Aldo Tincati un italiano che migrò in Cile dopo la guerra per creare la COPALCA, la cooperativa del latte a Temuco de Cile, con cui Aldo si batté per la legge per la distribuzione gratuita del latte ai bambini al di sotto dei 14 anni.
Aldo divenne amico di Allende ma con l’avvento della dittatura di Pinochet dovette ritornare in Italia dove la prima famiglia era all’oscuro dell’altra famiglia che Aldo Tincati si creò in Cile.
7- “Tutto in una vita, tutto in un minuto”. Tratta del terremoto del 24 agosto 2016, che la Appiano ha dedicato alle vittime del terremoto di Saletta frazione di Amatrice.
Il libro nello stile inconfondibile della scrittrice fa parlare persino il terremoto in prima persona.
L’autrice ha definito il libro un progetto piattaforma dove collaborano insieme a lei il comitato Ricostruiamo Saletta e il Gruppo donatori Sangue Onlus Presidenza del consiglio dei Ministri. Donatori che hanno prestato i primi soccorso a Saletta, subito dopo il terremoto.
La copertina riporta l’opera del pittore Andrea Guasti “Paese mitologico” e riporta i loghi della due associazioni onlus a cui il ricavato del libro è devoluto interamente per la costruzione di un ambulatorio di medicina di base che a Saletta tuttora è inesistente.
Il libro è stato anche presentato a Saletta per la commemorazione delle vittime il 6 novembre a Palazzo Chigi durante la premiazione dei donatori di sangue Onlus presso la Galleria Alberto Sordi.
8 – “Dighe e cascate finchè ci sarà sete, biografia autorizzata dell’acqua e di suo fratello il mare“. In quest’opera l’autrice narra la storia di un capodoglio morto spiaggiato a Milazzo per avere mangiato plastica.
Il biologo dott. Carmelo Isgrò scoprì la plastica dentro lo stomaco del cetaceo, e lo scheletro dello sfortunato capodoglio è ora in mostra presso il MuMa, il museo del mare di Milazzo da lui fondato.
L’autrice dedica il libro considerato progetto condiviso al MuMa e al Siso Project, il progetto per la salvaguardia dei cetacei e in generale della fauna marina.
L’opera ha le illustrazioni dei disegni dei bambini della scuola Carrubaro terzo Comprensivo di Milazzo, è stampato con carta riciclata, la copertina ha un bozzetto donato dal pittore Andrea Guasti e reca i loghi del MuMa e del Siso Project, partner del libro stesso, presentato in anteprima nazionale al MuMa di Milazzo il 27 novembre scorso.
9 – “Il Pianista velocista a cottimo“. Un romanzo surreale che classificatosi terzo tra le opere di narrativa all’ottava edizione del Concorso letterario internazionale “La Locanda del Doge“ a Lendinara, Rovigo, lo scorso 27 ottobre 2019.
La Appiano racconta in forma romanzata quando si fece assumere in un call center per poter scrivere e raccontare da “infiltrata” le condizioni assurde di chi vi lavora. Un romanzo scritto mentre rispondeva alle telefonate oppure imboscandosi nella toilette. Una pausa da cui venivano detratti i minuti dalla paga, diciamo pipì com tassametro. Il testo, definito un romanzo di formazione intergenerazionale, si ispira ai lavori di Pier Paolo Pasolini e a Olivetti.
  Le copertine degli ultimi libri pubblicati dalla prolifica autrice Barbara Appiano:
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Copertina di “18 millimetri di indifferenza”, libro di Barbara Appiano
Copertina del libro “Italia a fumetti, Italia a denti stretti”, di Barbara Appiano
Copertina de “Il Pianista” della scrittrice Barbara Appiano
Copertina di “Adelante Palabra” di Barbara Appiano
Copertina del libro “Città senza semafori e case con le ruote” della scrittrice Barbara Appiano
Al Salone della Cultura di Milano l’inarrestabile fenomeno culturale, Barbara Appiano Milano, 15 gennaio 2020 - Alla Salone della Cultura di Milano , che si terrà dal 18 al 19 gennaio prossimi, sarà presente…
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