#musica per vecchi animali
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soupy-the-only-one · 21 days ago
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Movie Tag Game
Rules: Without naming them, post a gif from ten of your favourite films, then tag 10 people to do the same!
Thank you for the tag @timesthatneverwere
I am not gonna tag people because i am a killjoy. Unless @lesbworth and @tantive404 do not want to partecipate, dunno.
My films, and the fucking impossible gifs to find for some of them:
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+ bonus musical
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selenesilvia · 2 years ago
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Have i already told i love this movie?
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carmenvicinanza · 11 months ago
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P!nk
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P!nk è lo pseudonimo di Alecia Beth Moore, camaleontica musicista statunitense che ha venduto oltre 100 milioni di dischi in tutto il mondo, nominata Artista Pop del Decennio nel 2009 e Donna dell’anno nel 2013 da Billboard.
Ha vinto sette MTV Video Music Awards, due MTV Europe Music Awards, tre Grammy Awards e un Daytime Emmy Award, oltre a diverse altre onorificenze.
Nel 2019 ha ottenuto la sua stella sulla Hollywood Walk of Fame ed è stata la prima artista non britannica a cui è stato conferito l’Outstanding Contribution to Music Award ai BRIT.
Per il suo attivismo e impegno politico rappresenta un esempio per milioni di persone in tutto il mondo.
Nata a Doylestown, in Pennsylvania, l’8 settembre 1979, ha origini  irlandesi, lituane e tedesche. L’amore per la musica le è stato trasmesso dal padre, che le aveva dato il vezzeggiativo di Pink, poi trasformato nel nome d’arte P!nk quando ha iniziato al carriera di solista nel 2000.
Alle scuole superiori ha fondato la sua prima band, cantava gospel in una chiesa, ha fatto parte di gruppi punk e rap e, mentre faceva diversi lavori come cameriera, si esibiva col suo skateboard al Club Fever di Philadelphia quando è stata notata da un talent scout.
Il suo album di debutto da solista è stato Can’t Take Me Home da allora ne ha prodotti altri sette che le hanno fatto vendere milioni di dischi, scalare le classifiche internazionali e guadagnare i premi musicali più prestigiosi.
Diversi tour internazionali, esibizioni prestigiose come quella al Super Bowl e la collaborazione con big del mondo musicale, non l’hanno frenata nello sperimentarsi anche al cinema e nel doppiaggio.
Con grinta e determinazione ha rotto parecchi schemi, ha affrontato, oltrepassato e infranto gli standard di bellezza e i ruoli di genere. Sin dai primi Anni Duemila ha portato in musica le sue esperienze personali e i problemi del mondo reale.
Le sue lotte contro il body shaming, per la parità di genere, in favore del mondo LGBTQ+, dei diritti degli animali e l’attivismo politico l’hanno consacrata una frontwomen del movimento transfemminista.
Nel 2006 con il brano Dear Mr. President ha criticato l’allora presidente degli USA Bush. In Stupid Girls ha demolito l’ossessione della società per le donne senza veli attaccando la rappresentazione femminile nelle clip dei colleghi rapper per poi ribadire che il corpo delle donne non esiste solo ad uso e consumo degli uomini.
I suoi discorsi di ringraziamento ai premi ricevuti sono stati di grande ispirazione per le donne di tutto il mondo. Agli MTV Video Music Awards del 2017, quando ha ricevuto il Michael Jackson Vanguard Award,  ha pronunciato il suo discorso più significativo partendo da un’esperienza di sua figlia Willow che lamentava di essere discriminata dai compagni di scuola che le dicevano che sembrava un ragazzo.
Dal palco ha lanciato a sua figlia e a tutto il mondo un messaggio chiaro: “Mi vedi far crescere i capelli? Willow ha risposto: ‘No mamma’. Mi vedi cambiare il mio corpo? ‘No mamma’. Mi vedi cambiare il modo in cui mi presento al mondo? ‘No mamma’. Mi vedi esaurire le arene di tutto il mondo? ‘Sì mamma’. Ok allora, piccola, non cambiamo. Prendiamo la ghiaia nel nostro guscio e facciamone una perla. E aiutiamo altre persone a cambiare in modo che possano vedere più tipi di bellezza”.
In difesa della libertà d’espressione, durante il Trustfall Tour in Florida, nel 2023, ha regalato 2.000 libri messi al bando, dall’Individual Freedom Act, che impedisce i corsi sulla diversità o contro i pregiudizi nelle aziende e la legge soprannominata «Don’t say gay», che limita la discussione di argomenti Lgbtq+ nelle scuole.
P!nk è una donna e un’artista potente e inarrestabile che non manca di esprime le sue opinioni e di ispirare nuove e vecchie generazioni.
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"Musiani, mi parli della figura di Renzo nei promessi sposi"
"Allora Renzo nei promessi sposi ci...fa la figura dello stronzo. Perché gli portano via la donna, finisce in galera, attraversa l'Adda e si cucca la peste, e con tutti questi casini continua a ringraziare la provvidenza!"
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lunamagicablu · 2 years ago
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Il vento del Natale ritornò. Lontano aveva vagato, guardato e fischiato.Si era allargato su vaste terre oscure, aveva arruffato il pelo di animalucci alla ricerca di una tana sicura, si era inchinato all’invito delle vecchie querce che, come sempre, gli offrivano ospitalità tra i pesanti rami frondosi.Le foglie vibrarono al tocco dell’ospite. Lo salutarono liete, cercando di rallegrarlo perché di anno in anno, di lustro in lustro, quel vento aveva perso la musicale leggerezza della sua natura.Non risuonava più di allegri cori infantili, non trasportava il suono argenteo dei campanelli appesi al collo di animali fatati, non si increspava nelle onde sonore dei colpi dell’ ascia sui ciocchi.Non profumava più di zuppe ribollenti in paioli di rame, incendiati dalle fiamme dei camini e dalla gioia dei tanti che, in quel periodo dell’anno, imbandivano cene sostanziose e gioivano del riflesso rosso del vino buono, conservato per le occasioni speciali.Il Vento del Natale era triste e stanco. Avrebbe voluto dormire per tutto l’inverno nel verde delle querce, riposare insieme agli scoiattoli, tra le loro montagnelle di ghiande, negli incavi degli ospitali tronchi.Ma doveva andare. Era il suo lavoro.Di controvoglia arrivò nel cielo sulla grande città, e fece dondolare le luminarie che sfidavano con stolida arroganza il brillio del firmamento.Volò alto su palazzi e grattacieli e sbatté il viso contro antenne, trasmettitori e torri cariche di ripetitori.Ferito, scese in basso e si infilò tra i passanti che affollavano le strade con indolente lentezza.Formavano un fiume pigro, dal quale deviavano piccoli e continui rivoli che si infilavano nei negozi e nel quale se ne inserivano altri, un po’ intralciati da grossi pacchi colorati.Il Vento giunse sulla Strada Grande, dove locali di ogni tipo erano stipati di un Popolo alla ricerca di cibi sofisticati, di alcolici esclusivi, di dolci raffinati, di musica assordante, di danze sudate.Dopo la piazza, la Strada Stretta, meno illuminata, era presa d’assalto da un altro Popolo. Qui i locali erano più modesti, il cibo alquanto rozzo. Gli avventori, su di giri, ondeggiavano nei fumi di alcolici a basso costo e ad alta gradazione.Eppure questi e quelli, separati da una piazza, formavano un unico Popolo edonista e narcisista. E si somigliavano tutti: gli stessi sorrisi vuoti, gli stessi gesti stereotipati.Il Vento sostò un po’ su un filare di luci bianche e blu.Si dondolò ancorandosi ai led a forma di abete, chiuse le sue ali possenti e, guardando in basso, osservò confuso la frenesia della folla e il traffico impazzito sul nastro stradale. Si sentì a disagio, fuori posto, come un vecchio spolverino, non più apprezzato ed esiliato in soffitta.Allora concentrò il pensiero sugli amici semi che sopportavano il gelo della terra in attesa del risveglio; pensò, allo sforzo delle care foglie di sostenere il peso dei ghiaccioli di brina, ricordò il volo faticoso degli uccelli nell’aria appesantita dalla neve.Il Vento lasciò la luminosa altalena e si inoltrò in strade buie. Si infilò sibilando negli infissi delle case fatiscenti abitate dal Popolo degli Inferiori, dove il Natale non era che occasione di malinconia.Ma quella tristezza non era figlia della memoria di Natali densi d’allegria. No. Era solo il frutto di una rabbia cupa e di un insopportabile senso di esclusione. Ammassato in stanze anguste, quest’altro Popolo sognava rivoluzioni per capovolgere il mondo.Immaginava il piacere di annientare Quelli del centro, escogitava piani per cacciarli dai tavoli, dai negozi, dai grattacieli, per prenderne il posto. Fantasticava di vivere esattamente come loro, di andare in vacanza, vestire alla moda, possedere gli ultimissimi modelli di ogni cosa, insomma, di dare un senso alla vita.Il Vento del Natale si infilò allora sotto le pesanti porte di una vecchia Biblioteca in disuso. Scivolò lieve tra filari di libri, sollevando aliti di polvere. Scelse un volume e si perse sognante in storie di altri tempi.Si nutrì delle emozioni di uomini, donne e bambini intenti a costruire simboli natalizi e immaginò le vibrazioni delle penne piumate che avevano descritto, su fogli spessi, le azioni, i pensieri e i sentimenti di un Popolo umano.La luce del sole filtrò attraverso i finestroni dell’edificio, e sorprese quello strano lettore addormentato, col viso chino sulle curve di un romanzo aperto a metà.Il Vento del Natale si scrollò dalla mente i sogni della notte e si avvicinò alla grande vetrata. Osservò le strade, la folla che impazzava, le luci ancora accese ovunque.Non fu un bel risveglio.Sgusciò rapido attraverso un vetro rotto. Attraversò la città e tornò tra le rassicuranti fronde delle querce antiche.Il fogliame lo accolse in una culla comoda e avvolgente .Come un bimbo, il Vento cadde in un torpore dolce e profumato.Non si accorse dei preparativi che l’amico bosco si stava affrettando ad organizzare, per fargli una sorpresa.Al tramonto, l’usignolo intonò note delicate che gli entrarono nell’anima.Il Vento del Natale lasciò il verde giaciglio, dispiegò le ali e soffiò mulinelli di luce dorata intorno ai grossi tronchi: il suo dono agli alberi prima di andar via. Ma mentre stava per spiccare il balzo, improvvisa la Luna si gonfiò e sparse fili d’argento sugli alberi, sui cespugli e sul muschio spugnoso che si infilava ovunque.Fu in quel perlato riverbero che folletti e fate uscirono dalle loro case segrete. Si presero per mano e volteggiarono nel bosco.Girotondi d’allegria, al ritmo di canti natalizi, scolpirono la notte.Interrompendo il pigro sonno, ghiri, tassi, marmotte e tutti gli abitanti del bosco si unirono alla festa. La natura intera si fuse con le note della gioia.Il Vento, commosso, allungò le possenti braccia e si mise a dirigere quell’orchestra da favola, al ritmo del suo cuore che da tanto tempo non batteva così lieto.E fu Natale.Lontano, oltre i monti, il chiasso dei Popoli continuò a urlare le parole del silenzio.
CINZIA ANNA TULLO
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The wind of Christmas returned. Far away he had wandered, watched and whistled.He had spread over vast dark lands, he had ruffled the fur of small animals in search of a safe den, he had bowed to the invitation of the old oaks which, as always, offered him hospitality among the heavy leafy branches.The leaves vibrated at the touch of the host. They greeted him happily, trying to cheer him up because from year to year, from five years, that wind had lost the musical lightness of his nature.It no longer resounded with cheerful childish choirs, it did not carry the silvery sound of bells hung around the necks of fairy animals, it did not ripple in the sound waves of the blows of the ax on the logs.He no longer smelled of boiling soups in copper pots, set on fire by the flames of the fireplaces and by the joy of the many who, at that time of the year, cooked hearty dinners and rejoiced in the red reflection of good wine, kept for special occasions.The Wind of Christmas was sad and tired. He would have liked to sleep all winter in the green oaks, rest together with the squirrels, among their mounds of acorns, in the hollows of the hospitable trunks.But he had to go. It was his job.He reluctantly arrived in the sky over the great city, and made the lights swing that challenged the glitter of the firmament with stolid arrogance.He flew high over buildings and skyscrapers and slammed his face against antennas, transmitters and towers loaded with repeaters.Wounded, he went downstairs and slipped among the passers-by who crowded the streets with indolent slowness.They formed a lazy river, from which small and continuous rivulets diverted and flowed into the shops and into which others entered, somewhat hampered by large colored parcels.The Wind arrived on the Strada Grande, where places of all kinds were crammed with a People in search of sophisticated foods, exclusive spirits, refined sweets, deafening music, sweaty dances.After the square, the Strada Stretta, less lit, was overrun by another people. Here the premises were more modest, the food somewhat crude. The high-spirited patrons swayed in the fumes of cheap, high-proof spirits.Yet these and those, separated by a square, formed a single hedonistic and narcissistic People. And they all looked alike: the same empty smiles, the same stereotypical gestures.The Wind paused for a while on a row of blue and white lights.He swayed anchoring himself to the fir-shaped LEDs, closed his mighty wings and, looking down, confusedly observed the frenzy of the crowd and the crazy traffic on the road strip. He felt uncomfortable, out of place, like an old duster, no longer appreciated and exiled to the attic.Then he focused his thoughts on the semi friends who endured the frost of the earth waiting for the awakening; he thought, of the effort of the dear leaves to support the weight of the icicles of frost, he remembered the tiring flight of birds in the air heavy with snow.The Wind left the bright swing and entered the dark streets. He slipped hissing through the window frames of the dilapidated houses inhabited by the Popolo degli Inferiori, where Christmas was nothing but an occasion for melancholy.But that sadness was not the daughter of the memory of Christmases full of joy. No. It was just the fruit of a dark rage and an unbearable sense of exclusion. Crowded into cramped rooms, these other People dreamed of revolutions to turn the world upside down.He imagined the pleasure of annihilating Those in the center, he devised plans to drive them off the tables, from the shops, from the skyscrapers, to take their place. He fantasized about living exactly like them, going on vacation, dressing in fashion, owning the latest models of everything, in short, giving meaning to life.The Wind of Christmas then slipped under the heavy doors of an old disused library. He glided lightly between rows of books, kicking up dust. He chose a volume and dreamily lost himself in stories of other times.He fed on the emotions of men, women and children intent on building Christmas symbols and imagined the vibrations of feathered pens that had described, on thick sheets, the actions, thoughts and feelings of a human People.The sunlight filtered through the large windows of the building, and surprised that strange reader asleep, with his face bent over the curves of a half-open novel.The Wind of Christmas shook his mind from the dreams of the night and approached the large window. He watched the streets, the crowds going wild, the lights still on everywhere.It wasn't a nice awakening.He slipped quickly through broken glass. He crossed the city and returned to the reassuring branches of the ancient oaks.The foliage welcomed him in a comfortable and enveloping cradle.Like a child, the Wind fell into a sweet and perfumed torpor.He didn't notice the preparations that his friend Bosco was rushing to organize, to surprise him.At sunset, the nightingale sang delicate notes that entered his soul.The Christmas Wind left the green bed, spread its wings and blew whirlpools of golden light around the big trunks: his gift to the trees before going away. But as he was about to leap, the moon suddenly swelled and scattered silver threads on the trees, bushes and spongy moss that slipped everywhere.It was into that pearly glare that goblins and fairies came out of their secret homes. They joined hands and whirled through the woods.Merry roundabouts, to the rhythm of Christmas carols, sculpted the night.Interrupting the lazy sleep, dormice, badgers, marmots and all the inhabitants of the forest joined the party. All nature merged with the notes of joy.Moved, the Wind stretched out his mighty arms and began to direct that fairy-tale orchestra, to the rhythm of his heart which hadn't beat so happily for a long time.And it was Christmas.Far beyond the mountains, the noise of the Peoples continued to scream the words of silence.
CINZIA ANNA TULLO
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fashionbooksmilano · 2 years ago
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Le mie amate t-shirt
Murakami Haruki
Giulio Einaudi Editore, Torino 2022, 200 pagine, Rilegato, 14,3 x 22,4 cm, ISBN 9788806251826
euro 21,00
email if you want to buy :[email protected]
Quasi tutti sanno che Murakami è un avido ascoltatore di musica, un determinato collezionista di dischi – possiede oltre diecimila vinili – o che è un patito della corsa. In pochi, però, sono a conoscenza di un’altra sua speciale e curiosissima passione: le T-shirt!   Sí, perché le magliette sono il capo d’abbigliamento che Murakami preferisce indossare in assoluto, e nel corso degli anni ne ha accumulate cosí tante che oggi il grande scrittore giapponese può vantare una vera e propria collezione, e tra le piú invidiabili. T-shirt a tema surf che arrivano dalle spiagge delle Hawaii oppure acquistate durante i viaggi negli Stati Uniti a ricordare uno speciale rituale gastronomico, le T-shirt mai indossate – scritte alquanto appariscenti o animali troppo carini -, quelle che le case editrici in giro per il mondo hanno fatto stampare in occasione dell’uscita dei suoi libri, o ancora l’emblematica T-shirt, con la sua storia affascinante, che ha ispirato il racconto Tony Takitani diventato anche un film. Dalla gioia di entrare in un negozio dell’usato pieno di dischi, all’emozione di ogni concerto, dalla gratificazione che deriva dal traguardo di una maratona allo sconfinato amore per la letteratura, Murakami ci guida alla scoperta della sua passione per le T-shirt attraverso le immagini dei suoi pezzi da collezione e i racconti a essi legati. Di fatto ci invita nel suo straordinario mondo quotidiano a passare un po’ di tempo con lui. Proprio come si fa con i vecchi amici.
08/01/23
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lifeinproblems · 4 years ago
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Tutto quello che non sopporto ha un nome.
Non sopporto i vecchi. La loro bava. Le loro lamentele. La loro inutilità.
Peggio ancora quando cercano di rendersi utili. La loro dipendenza.
I loro rumori. Numerosi e ripetitivi. La loro aneddotica esasperata.
La centralità dei loro racconti. Il loro disprezzo verso le generazioni successive.
Ma non sopporto neanche le generazioni successive.
Non sopporto i vecchi quando sbraitano e pretendono il posto a sedere in autobus.
Non sopporto i giovani. La loro arroganza. La loro ostentazione di forza e gioventù.
La prosopopea dell’ invincibilità eroica dei giovani è patetica.
Non sopporto i giovani impertinenti che non cedono il posto ai vecchi sull’autobus.
Non sopporto i teppisti. Le loro risate improvvise, scosciate ed inutili.
Il loro disprezzo verso il prossimo diverso. Ancor più insopportabili i giovani buoni, responsabili e generosi. Tutto volontariato e preghiera. Tanta educazione e tanta morte.
Nei loro cuori e nelle loro teste.
Non sopporto i bambini capricciosi e autoreferenziali e i loro genitori ossessivi e referenziali solo verso i bambini.
Non sopporto i bambini che urlano e che piangono. E quelli silenziosi mi inquietano, dunque non li sopporto. Non sopporto i lavoratori e i disoccupati e l’ostentazione melliflua e spregiudicata della loro sfortuna divina.
Che divina non è. Solo mancanza di impegno.
Ma come sopportare quelli tutti dediti alla lotta, alla rivendicazione, al comizio facile e al sudore diffuso sotto l’ascella? Impossibile sopportarli.
Non sopporto i manager. E non c’è bisogno nemmeno di spiegare il perché. Non sopporto i piccoli borghesi, chiusi a guscio nel loro mondo stronzo. Alla guida della loro vita, la paura. La paura di tutto ciò che non rientra in quel piccolo guscio. E quindi snob, senza conoscere neanche il significato della parola.
Non sopporto i fidanzati, poiché ingombrano.
Non sopporto le fidanzate, poiché intervengono.
Non sopporto quelli di ampie vedute, tolleranti e spregiudicati.
Sempre corretti. Sempre perfetti. Sempre inconciliabili. Tutto consentito, tranne l’omicidio.
Li critichi e loro ti ringraziano della critica. Li disprezzi e loro ti ringraziano bonariamente. Insomma, mettono in difficoltà.
Perché boicottano la cattiveria.
Quindi sono insopportabili.
Ti chiedono “ come stai?” E vogliono saperlo veramente. Uno choc. Ma sotto l’interesse disinteressato, da qualche parte, covano coltellate.
Ma non sopporto neanche quelli che non ti mettono mai in difficoltà. Sempre ubbidienti e rassicuranti. Fedeli e ruffiani.
Non sopporto i giocatori di biliardo, i soprannomi, gli indecisi, i non fumatori, lo smog e l’aria buona, i rappresentanti di commercio, la pizza al taglio, i convenevoli, i cornetti alla cioccolata, i falò, gli agenti di cambio, i parati e i giorni, il commercio equo e solidale, il disordine, gli ambientalisti, il senso civico, i gatti, i topi, le bevande analcoliche, le citofonare inaspettate, le telefonate lunghe, coloro che dicono che un bicchiere di vino al giorno fa bene, coloro che fingono di dimenticare il tuo nome, coloro che per difendersi dicono di essere dei professionisti, i compagni di scuola che dopo trent’anni ti incontrano e ti chiamano per cognome, gli anziani che non perdono mai occasione per ricordarti che loro hanno fatto la Resistenza, i figli sopravvissuti che non hanno nulla da fare e decidono di aprire una galleria d’arte, gli ex comunisti che perdono la testa per la musica brasiliana, gli svampiti che dicono “ intrigante”, i modaioli che dicono “ figata” e derivati, gli sdolcinati che dicono bellino carino stupendo, gli ecumeni che chiamano tutti “ amore”, certe bellezze che dicono “ ti adoro”, i fortunati che suonano ad orecchio, i finti disattenti che quando parli non ascoltano, i superiori che giudicano, le femministe, i pendolari, i dolcificanti, gli stilisti, i registi, le autoradio, i ballerini, i politici, gli scarponi da sci, gli adolescenti, i sottosegretari, le rime, i cantanti rock attempati con i jeans attillati, gli scrittori boriosi e seriosi, i parenti, i fiori, i biondi, gli inchini, le mensole, gli intellettuali, gli artisti di strada, le meduse, i maghi, i vip, gli stupratori, i pedofili, tutti i circensi, gli operatori culturali, gli assistenti sociali, i divertimenti, gli amanti degli animali, le cravatte le risate finte, i provinciali, gli aliscafi, i collezionisti tutti, un gradino più un su quelli di orologi, tutti gli hobby, i medici, i pazienti,il jazz, la pubblicità, i costruttori, le mamme, gli spettatori di basket, tutti gli attori e tutte le attrici, la video arte, i luna park, gli sperimenti di tutti i tipi, le zuppe, la pittura contemporanea, gli artigiani anziani nella loro bottega, i chitarristi dilettanti, le statue delle piazze, il baciamano, le beauty farm, i filosofi di bell’aspetto, le piscine con troppo cloro, le alghe, i ladri, le anoressiche, le vacanze, le lettere d’amore, i preti e i chierichetti, le supposte, la musica etnica, i finti rivoluzionari, i panda, l’acne, i percussionisti, le docce con le tende, le voglie, i cosmetici, i cantanti lirici, i parigini, i pullover a collo altro, la musica al ristorante le feste, i meeting, le case col panorama, gli inglesi, i neologismi, i figli di papà, i figli d’arte, i figli dei ricchi, i figli degli altri, i musei, i sindaci dei comuni, tutti gli assessori, i manifestanti, la poesia, i salumieri, i gioiellieri, gli antifurti, le catenine di oro giallo, i leader, tutte le persone troppo alte o troppo basse, i funerali, i peli, tutte le cilindrate, i portachiavi, I cantautori, i giapponesi, i dirigenti, i razzisti e i tolleranti, i ciechi, la formica, il rame, gli abbronzati, le lobby, i cuochi in televisione, i balbuzienti, i radical chic
[....]
Non sopporto i timidi, i logorroici, i finti misteriosi, ingoffi, gli spavaldi, gli estrosi, gli invidiosi , i maleducati, i coscienziosi, gli imprevedibili, i comprensivi, gli attenti, gli umili, gli esperti, gli appassionati, gli eterni sospesi, i battiti sti, i cinici, i paurosi i superbi, i tredici, gli svogliati, gli insicuri, i dubbiosi, i bruschi, e tutti quelli che socializzano con relativa facilità.
Non sopporto la nostalgia, la normalità, la cattiveria, l’iperattività, la bulimia, la gentilezza, la malinconia, l’intelligenza e la stupidità, la tracotanza, la rassegnazione, la vergogna, l’arroganza, la simpatia, il doppiogiochismo, il menefreghismo, l’abuso di potere, la sportività, la bontà d’animo, l'ostentazione, la curiosità, , il la sobrietà e l’eccesso, la falsità, l’eleganza, la felicità.
Non sopporto niente e nessuno.
Neanche me stesso. Soprattutto me stesso.
Solo una cosa sopporto.
La sfumatura.
{ hanno tutti ragione P. Sorrentino }
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daisyisdeadnow · 5 years ago
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Cos'è Sara?
Sara è una ragazza.
Sara è una sigaretta in bocca in ogni momento vuoto.
Sara è gli occhi lucidi davanti al mondo.
Sara è un po' senza futuro, ma in fondo ci crede ancora.
Sara è le occhiaie di una persona che ha passato la notte sveglia.
Sara è il cellulare scarico con la casella dei messaggi vuota, ma piena di giochi stupidi.
Sara è curiosa verso l'universo.
Sara è un sacco di passioni che non ha mai coltivato.
Sara è un sacco di problemi di salute, che la fanno passare per novantenne.
Sara è amica di tutti e di nessuno.
Sara è guardare da lontano gli altri e sorridere.
Sara è una faccia struccata che la fa sembrare ancora una bambina.
Sara è i capelli tinti mai del rosso che vorrebbe lei.
Sara è piena di difetti.
Sara è i cassetti pieni di vecchi auricolari mezzi rotti.
Sara è il posacenere pieno che strabocca.
Sara è il rumore dei passi felpati per casa verso la cucina.
Sara è la luce azzurra accesa la notte.
Sara è le decorazioni di Natale anche ad Agosto.
Sara è i calzini stupidi con disegni strani.
Sara è sempre la gonna e mai i pantaloni.
Sara è l'eyeliner storto e gli ombretti colorati.
Sara è i mille peluche sul letto, per terra e sulla sedia.
Sara è l'avventura organizzata all'ultimo secondo.
Sara è i film romantici, i film vecchi e i film strani.
Sara è la musica, tutta la musica.
Sara è figlia, sorella e nipote.
Sara è l'amore della nonna che l'ha cresciuta.
Sara è un riflesso allo specchio che non riconosce.
Sara è i suoi tre tatuaggi, anche se diventeranno mille.
Sara è il portafogli quasi vuoto, con i soldi giusti per le sigarette.
Sara è le giornate di pioggia passate in casa.
Sara è l'ansia che si porta dietro da sempre.
Sara è gli occhi marroni.
Sara è la proprietaria di un gatto e di un criceto che si chiama Pesce.
Sara è la ragazza di Nicholas.
Sara è la cabina armadio disordinata e un sacco di magliette rubate.
Sara è tanti bei ricordi mischiati a quelli brutti.
Sara è la tv accesa tutta la notte con il volume a quattro.
Sara è la risata fragorosa e un po' imbranata.
Sara è le passeggiate al parco con gli amici la sera.
Sara è l'orecchio buono a cui parlare.
Sara è l'ordine maniacale in alcune cose e il disordine totale in altre.
Sara è i maglioni caldi d'inverno.
Sara è un architetto su the Sims 4.
Sara è un cosplay fatto non troppo bene.
Sara è i capelli spettinati.
Sara è il profumo del cuscino della mamma.
Sara è il mal di pancia costante.
Sara è la partita al solitario dopo mezzanotte.
Sara è disoccupata, ma in cerca di qualcosa.
Sara è le infradito azzurre.
Sara è le mensole piene di foto e ricordi.
Sara è la pancia vuota perchè le è passata la fame.
Sara è 1.67 cm.
Sara è 53 kg.
Sara è le braccia senza muscoli.
Sara è le smagliature e la cellulite.
Sara è i cappelli invernali mai messi.
Sara è il profumo di thè e biscotti la domenica mattina.
Sara è i disegni sparsi per mille quadernetti.
Sara è la casella dei documenti piena di racconi incompiuti.
Sara è i graffi del gatto sulle braccia.
Sara è le bugie che racconta a sua mamma.
Sara è le coperte messe male sul letto.
Sara è la pulcina di papà.
Sara è la casa vuota.
Sara è il rumore della ruota del criceto alle tre di notte.
Sara è i suoi 21 anni vissuti un po' a caso.
Sara è una direzione certa, ma una strada lunga.
Sara è le cicatrici sulle ginocchia, sul fianco, sui gomiti e sulle braccia.
Sara è un disastro.
Sara è la paura che ha di fare scelte sbagliate.
Sara è la macchina piena di pacchetti vuoti di sigarette.
Sara è le partite a carte in fumetteria.
Sara è le battute che non fanno ridere o che nessuno capisce.
Sara è mille soprannomi sgradevoli che le hanno dato alle medie.
Sara è la figuraccia alla corsa campestre in quinta superiore.
Sara è i crostini con il patè francese.
Sara è il rumore delle macchine dopo mezzanotte.
Sara è il buongiorno e la buonanotte.
Sara è un pisolino la domenica pomeriggio.
Sara è la macchina parcheggiata con le ruote dritte.
Sara è la passione per gli animali.
Sara è mille testi di canzoni imparati a memoria.
Sara è il calendario di Harry Potter.
Sara è la collezione dei film di Hayao Miyazaki.
Sara è perennemente stanca.
Sara è niente birra, vino e superalcolici.
Sara è gli anelli sulle dita.
Sara è il sedere giacciato mentre fuma in balcone.
Sara è un bene ogni tanto.
Sara è...
Sara eh.
Sara è una bambina, una ragazza, una donna e una vecchia tutte insieme.
Forse la vera domanda che dobbiamo farci non è "cos'è Sara?", ma "chi è Sara?"
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lettere-dalla-kirghisia · 6 years ago
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Silenzio
C'era qualcos'altro lassù che col passare del tempo divenne per me sempre più importante: il silenzio. È un'esperienza a cui non siamo più abituati. Lassù faceva da sottofondo a tutte le esperienze. C'erano vari silenzi e ognuno aveva le sue qualità. Di giorno il silenzio era la somma del cinguettare degli uccelli, del gridare degli animali, del soffiare del vento su cui non compariva mai un suono che non venisse dalla natura: non il rumore di un motore, né quello prodotto da un uomo. Di notte il silenzio era un unico, sordo rimbombo che usciva dalle viscere della terra, attraversava i muri, entrava dappertutto. Il silenzio lassù era un suono. Un simbolo dell'armonia dei contrari a cui aspiravo? I miei orecchi, mi accorgevo, non sentivano assolutamente nulla, ma quel rimbombo era fuori e dentro la mia testa. La voce di Dio? La musica delle sfere? Stando in ascolto, anch'io cercavo di definirlo e immaginavo solo un enorme pesce che cantava sul fondo del mare.
Meraviglioso, il silenzio! Eppure noi moderni, forse perché lo identifichiamo con la morte, lo evitiamo, ne abbiamo quasi paura. Abbiamo perso l'abitudine a stare zitti, a stare soli. Se abbiamo un problema, se ci sentiamo prendere dallo sgomento, preferiamo correre a frastornarci con un qualche rumore, a mischiarci a una folla anziché metterci da una parte, in silenzio, a riflettere. Uno sbaglio, perché il silenzio è l'esperienza originaria dell'uomo. Senza il silenzio non c'è parola. Non c'è musica. Senza silenzio non si sente. Solo nel silenzio è possibile tornare in sintonia con noi stessi, ritrovare il legame fra il nostro corpo e tutto quello che ci sta dietro.
Da tempo predicavo, a chi mi voleva ascoltare, la santità del silenzio, finché tra le vecchie storie indiane ne avevo trovata una che in poche parole spiega tutto: Un re va da un famoso rishi nella foresta. <<Dimmi, qual è la natura del Sé? >> chiede. Il vecchio lo guarda e non risponde. Il re ripete la domanda. Il rishi non risponde. Il re chiede di nuovo la stessa cosa, ma il rishi resta muto. Il re si arrabbia e urla. <<Io chiedo e tu non mi rispondi!>> <<Tre volte ti ho risposto, ma tu non mi stai a sentire>>, dice, calmo, il rishi. <<La natura del Sé è il silenzio.>>
Col passare dei giorni avevo l'impressione che al silenzio fuori dal mio rifugio nelle montagne corrispondesse sempre di più un silenzio dentro di me e questo, unito alla solitudine, mi dava momenti di vera esaltazione. Senza distrazioni, senza stimoli esterni, la mente era libera di seguire i suoi fili, di uscire dai suoi limiti e alla fine di calmarsi. Una mente silenziosa non vuol dire una mente senza pensieri. Vuol dire che i pensieri avvengono in quella quiete e possono essere meglio osservati. Possono essere pensati meglio.
Mai come oggi il mondo avrebbe bisogno di maestri di silenzio e mai come oggi ce ne sono così pochi. Bisognerebbe averli nelle scuole: ore dieci, lezione di silenzio. Una lezione difficile perché, sintonizzati come siamo sulla costante cacofonia della vita nelle città, non riusciamo più a “sentire” il silenzio. Eppure varrebbe la pena provare. Se da ragazzo mi avessero insegnato la filosofia cominciando col farmi star zitto a chiedermi chi ero, avrei forse finito per capire qualcosa: se non altro che tutte quelle teorie avevano un rapporto con la mia vita ed erano meno noiose di come me le facevano apparire.
Ci sono vari modi di comunicare con qualcuno: toccandolo, parlandogli, ma soprattutto col silenzio.
Tiziano Terzani - Un altro giro di giostra.
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selenesilvia · 2 years ago
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Watched “Musica per vecchi animali” and that movie live now rent free in my mind.
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gazemoil · 5 years ago
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5 DISCHI IMMANCABILI PER LA NOTTE DI HALLOWEEN #01
di Viviana Bonura
La notte più macabra dell’anno è alle porte. Tra gli amanti della ricorrenza con alcune delle più interessanti tradizioni popolari c’è chi la celebrerà in grande partecipando a qualche festa in maschera o chi la passerà nell’intimità della propria casa con una piccola compagnia. Ad ogni modo, ognuno ha le sue maniere per prendere parte alla festa del 31 ottobre e tra un travestimento ed un altro, uno scherzo e qualche strano dolciume, ci sarà sicuramente spazio per la musica - e non una qualsiasi. Se volete sentirvi a pieno dentro l’atmosfera di Halloween questi sono cinque dischi a tema che dovete assolutamente ascoltare.
5. S U R V I V E - RR7349 (Relapse Records, 2016)
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Per farvi venire i brividi non c’è niente di meglio dell’elettronica minimale dei S U R V I V E. Forse li conoscete più di quanto pensate, infatti due dei quattro componenti, Kyle Dixon & Michael Stein, sono i compositori delle premiate colonne sonore della serie marcata Netflix “Stranger Things”. Nel terzo disco RR7349 il gruppo continua la ricerca del loro suono elettronico dai tratti oscuri e inquietanti attraverso l’inconfondibile sapore senza tempo degli strumenti analogici. Ascoltare questo disco significa farsi proiettare in uno scenario cinematografico tra i vecchi horror ed i nuovi sci-fi, ambientato in una fredda notte d’autunno nella radura umida e nebulosa, popolata da animali notturni e chissà quali altre creature, oltre la quale si erge una spaventosa casa illuminata da pulsanti luci verdi. Raccontatevi storie macabre a lume di candela mentre in sottofondo suonano i synth sinistri dei S U R V I V E. 
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4. Sevdaliza - Ison (Twisted Elegance, 2017)
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Pop, ma sicuramente trasversale e prontamente poco rassicurante è quello di Sevdaliza nel suo debutto Ison. Suggestionante senza essere blandamente esoterico, grazie ad una bellissima fusione col trip-hop, il disco converge energie opposte e contrastanti per dare vita a misteriose simulazioni di identità e fantasie difficilmente distinguibili dalla realtà. I brani giocano con la percezione e disorientano i sensi, li alterano, parlano di umanità - della forma tangibile e intangibile - con una visceralità che porta ad estraniare il corpo dal non-corpo che rimane un timido e sudato guscio, vulnerabile e irriconoscibile, forse proprio per questo terrificante. 
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3. Marilyn Manson - The Pale Emperor (Hell, etc., 2015)
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Non è Halloween senza Marilyn Manson, il controverso e grottesco “Antichrist Superstar” della musica che a suon di alternative rock potrebbe scaldare abbastanza l’atmosfera. Qualunque album della sua discografia sarebbe stato appropriato e stavolta la scelta ricade su uno dei più recenti, The Pale Emperor, e dato che significa letteralmente “l’impero dei pallidi”, richiamando inevitabilmente le creature soprannaturali protagoniste di molte leggende di Halloween, a maggior ragione non possiamo sbagliare.
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2. Massive Attack - Mezzanine (Virgin Records, 1998)
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Sarà scontato, ma anche i Massive Attack sono immancabili, il duo che attraverso l’elaborazione in chiave trip-hop di atmosfere misteriose, ipnotiche e ritualistiche ha segnato un bellissimo momento di rigenerazione musicale. Il loro capolavoro Mezzanine del 1998 è forse il più animalistico e scuro, travolgente di sensualità e pieno di una spiritualità anticonvenzionale che riporta in mente immagini di figure tra il sacro ed il profano come mai le avete potute immaginare.
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1. Crystal Castles - (II) (Polydor, 2010)
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Nel secondo album, (II), il duo Crystal Castles nella sua formazione più famosa - quella formata da Ethan Kath e Alice Glass - perfeziona la formula vincente di elettronica e voce estremamente lo-fi, dalle influenze eclettiche rielaborate secondo una decostruzione inafferrabile dove alla base c’è la distorsione del suono a livello della musica noise, ma con una fruibilità inspiegabilmente pop. Il risultato è un agglomerato difficilmente definibile, forse synth-punk per la sua natura rudimentale e l’estetica o, usando un termine più particolare, witch house per la sensazione di oscurità ed inquietudine di fondo che emergono soprattutto dalla voce sofferente di Glass. Il loro è un caos disperato dove si percepiscono atmosfere ed emozioni forti, forse troppo per essere espresse chiaramente.
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emmalynthewriter · 2 years ago
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Le nove e più dolci vite di Moxie
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                                        Le nove e più dolci vite di Moxie
Denise aveva sedici anni, e Kiana ne avrebbe presto compiuto quindici. Le due non erano sorelle, ma a giudicare dalla profondità del loro rapporto, avrebbero potuto esserlo, apparendo ad occhi estranei come gemelle diverse. Diverse in tanto, ma non in tutto, e con molte, moltissime cose in comune. L’amore per i libri, per la musica e la natura, e ultimi, ma non per importanza, gli animali. Se una aveva dei criceti come amici, l’altra non poteva dirsi così fortunata, ma fermandosi a pensare, si stringeva ogni volta nelle spalle, e la conclusione a cui arrivava era sempre la stessa. Non importava. Le sarebbe piaciuto, certo, ma come le ricordavano spesso entrambi i genitori, se davvero doveva, sarebbe successo, e quello giusto sarebbe entrato nella sua vita. Strano a dirsi, parlando di un animale, una creatura dolce, buona e indifesa, molto spesso abbandonata dall’uomo e dalla sua crudeltà. A quel pensiero, Denise si rabbuiava, rattristandosi in silenzio e perdendosi fra le righe e le pagine di un libro per distrarsi, o chiedendo, saltuariamente e se proprio ne aveva bisogno, di poter accarezzare uno dei tre amichetti domestici dell’amica, Grey, Opie e Foggy. Tutti grigi, come in qualche modo i nomi suggerivano, essendo uno di loro una sorta di diminutivo per la parola opaco, che Denise si divertiva a coccolare sfiorando loro il pelo con le dita, avendo ogni volta tanta, forse troppa paura di far loro del male. Soltanto una volta il piccolo Opie aveva provato a spiccare un balzo dalla spalla della padrona a quella della ragazza, e nonostante lo sforzo, per sfortuna era caduto. Un semplice errore nel calcolo della traiettoria, chiaro, seguito da un lievissimo tonfo e da uno stridio acuto come pochi, in tutto simile a un urlo. Al tempo stesso tenero e potente, forte abbastanza da essere sentito in tutta la silenziosa e vuota biblioteca. Sorpresa, Kiana aveva fatto presto a riprenderlo da terra e ad accarezzarlo perché si calmasse, ma per loro sfortuna, quell’incidente non era di certo sfuggire al signor Carroll, il bibliotecario. Denise e Kiana lo conoscevano e anche bene, tanto da aver ormai perso il conto di quanti libri avevano preso in prestito grazie a lui facendosi guidare prima e consigliare poi, e nel tempo, avevano imparato una lezione. Per quell’uomo il silenzio era davvero d’oro massiccio, e romperlo costava sempre caro.
“Chi rompe paga, ragazzi.” Ricordava sempre a tutti gli studenti, indicando ogni volta l’apposito cartello appeso proprio all’ingresso. E come? Semplice, con un’ammonizione che, se ripetuta, si sarebbe poi trasformata in una nota di demerito. Conoscendosi, sia Kiana che Denise sapevano di non averne mai ricevute, e no, non avevano nessuna intenzione di iniziare proprio allora. Così, ancora una volta e per l’ennesima ricerca di storia, rieccole. Lì sedute insieme nella grande, silenziosa e polverosa biblioteca. In quel luogo di quiete e studio i minuti sembravano ore, e senza proferire parola, Kiana fu la prima ad alzarsi. “Torno subito.” Sussurrò all’amica, indicando un punto imprecisato alle proprie spalle. Annuendo, l’altra tornò subito a rileggere i suoi appunti, e poco dopo, alle sue orecchie non giunse che un’eco ormai troppo conosciuta. Il leggero rumore dei passi di Kiana, memore della probabile punizione per il frastuono eccessivo, l’occasionale colpo di tosse di qualche altro studente, e ultimo, ma non per importanza, il fruscio di una e mille pagine che venivano voltate, e che spesso si univa al tipico ticchettio delle tastiere dei computer. Portatili, chiaro, e che nulla avevano a che vedere con quelli della biblioteca stessa, forse vecchi di un secolo, incredibilmente lenti e rumorosi perfino da spenti, nonché con la snervante tendenza a bloccarsi, spegnersi o smettere di funzionare proprio nel momento del bisogno. Era quello il motivo per cui le amiche avevano ormai smesso di utilizzarli, optando invece proprio per i cari vecchi libri. Pozzi di scienza su carta stampata, o almeno così a Denise piaceva chiamarli. Ancora intenta a leggere i propri appunti e aggiungere di tanto in tanto nuove righe mentre consultava un nuovo tomo sulle piramidi egizie, si perdeva e fermava a pensare, ridacchiando sommessamente da sola.
“Vecchia paccottiglia, la tecnologia…” si disse, volgendo per un attimo lo sguardo ai fossili multimediali tutti stipati in un angolo. Chi lo sapeva, forse per una volta il vecchio signor Carroll aveva ragione. A quel pensiero, la ragazza per poco non rise, e sospinti da un soffio di vento, alcuni fogli caddero dal tavolo al quale era seduta. Dannati spifferi, era mai possibile che luoghi come quello dovessero sempre esserne pieni? A dirla tutta lo stesso valeva anche per il laboratorio di chimica e scienze, ma almeno i camici da laboratorio erano pesanti abbastanza da tenerla al caldo. Per ciò che riguardava la biblioteca invece, Denise non sapeva mai come vestirsi. Sbuffando scocciata, sentì un brivido correrle lungo la schiena, e lasciato il suo posto, si chinò per raccogliere quei fogli. In quel mentre, però, le sembrò di notare qualcosa. Lontano da lei, nel mezzo di uno scaffale di sole enciclopedie, una sorta di movimento, seguito da quella che, data la distanza, le parve una strana ombra. “Kiana?” chiamò, con la voce sempre bassa per non disturbare nessuno attorno a lei. Nessuna risposta. “Kiana?” riprovò, sforzandosi di tenere bassa la voce eppure essere sentita. Anche allora, purtroppo, invano. L’amica sembrava sparita in quei corridoi a metà fra polvere e volumi, e ormai erano passati quasi venti minuti. Forse era meglio provare a cercarla. Annuendo con decisione, Denise posò gli appunti appena raccolti lì sul tavolo, fermandoli con uno dei libri che consultava così da non perderli di nuovo, poi iniziò a camminare. Lenta e metodica, sbirciò in ogni angolo senza farsi distrarre da niente e nessuno, e dopo un tempo che non riuscì a definire, finalmente la vide. Proprio lei, proprio Kiana, circondata da decine di libri, in piedi accanto a una scala trovata chissà dove, forse presa in prestito proprio dal signor Carroll.
“Ma che stai facendo? È una ricerca come altre, non te ne basta uno solo?” non potè evitare di chiederle, del tutto colta alla sprovvista.
“Probabile, ma con la signorina Lewis non si può mai sapere.” Le rispose l’altra, serissima. “E poi guarda.” Aggiunse poco dopo, indicando qualcosa con un dito. In un istante, Denise fece ciò che le era stato chiesto, ma pur sforzando gli occhi contro uno spiraglio di luce e innumerevoli nuvole di polvere, non riuscì a vedere nulla.
“Di che stai parlando?” azzardò, confusa come mai prima d’allora.
“Dai, Denise, lì in alto! Come fai a non vederlo?” insistette l’altra, senza mai togliere il dito da quello stesso punto. Da allora in poi, fu questione di soli attimi, e dopo un altro movimento e una sorta di strano gioco di luce, finalmente Denise capì. Divertita, poi, non riuscì a non sorridere.
“E che ci fa un gatto qui?” azzardò, contagiando l’amica con il suo ridacchiare.
“Non lo so, ma è carinissimo, non credi?” rispose infatti quest’ultima, restando lì ferma ad osservarlo e spostando appena la scala di legno. A quella vista, però, il micetto si ritrasse, sparendo per un attimo poco oltre uno degli scaffali.
“No, aspetta!” lo richiamò Kiana, alzando la voce per farsi sentire.
“Ragazze!” tuonò un’altra al loro indirizzo, carica di rabbia. “Secondo avvertimento!”
“Scusi, signor Carroll!” non tardarono a rispondere le due amiche, parlando all’unisono come gemelle. Alle loro parole non seguì che il silenzio, rotto solo pochi istanti più tardi da un debolissimo miagolio amplificato dall’eco in quel luogo così vuoto.
“Denise, veloce!” proruppe Kiana in un sussurro strozzato, preoccupatissima. Se il bibliotecario era riuscito a sentire il loro vociare, presto la stessa sorte sarebbe toccata al miagolio di quel gattino, e che sarebbe successo allora? Dopo aver sfiorato un incidente con il suo minuscolo Opie e la sua altrettanto piccola ugola d’oro, Kiana non si era più permessa a portare né lui né gli altri criceti in biblioteca, ma se loro erano piccoli e facili da nascondere, lo stesso discorso non era applicabile al gattino, anch’esso piccolo ma non abbastanza da entrare nella tasca della sua giacca o in quella del cappotto. Se ricordava bene, inoltre, dopo di lei soltanto un’altra compagna aveva azzardato nel portare il proprio animale domestico a scuola, e nonostante tutti si fossero divertiti a giocarci e ad accarezzarlo, dato che si trattava di un cane, il bibliotecario non era stato dello stesso avviso, e da quel giorno in poi, oltre al classico cartello che invitava al silenzio, ne era stato affisso un altro. Gli animali non sono ammessi. Recitava, infrangendo ogni possibilità degli studenti di condividere il loro amore per il sapere, o anche solo alleggerire il peso delle proprie ricerche con i propri animali domestici. Che bello sarebbe stato tornare indietro nel tempo a qualche mese prima, a quando a occuparsi della biblioteca c’era l’assai più dolce, buona e tranquilla signora Wilbur, anche lei amante tanto degli animali quanto della libera espressione, il motivo per cui aveva sorriso e riso nel vederla arrivare nell’aula studio con le cuffie indosso e gli amici roditori al seguito, lasciandola fare fino a vederla coinvolgere con la sua musica tutti i compagni presenti. A quel ricordo, la ragazzina sorrise a sé stessa, poi scosse la testa, tornando subito alla realtà. Che stava facendo? Non c’era tempo per distrarsi, dovevano agire, o per quel micetto sarebbero stati guai. Affrettando il passo, raggiunse Denise, già in testa alla marcia e con lo sguardo rivolto quasi al soffitto, alla ricerca di un singolo guizzo di quella piccola coda tricolore, bianca e macchiata sia d’arancio che di nero. Velocissima, non accennava a rallentare, e poi, finalmente, eccolo.
“Kiana, va verso biologia! Io prendo storia, lo bloccheremo!” quasi urlò, indicandole la direzione con un cenno del capo. Annuendo a sua volta, l’amica non se lo fece ripetere, e giunte al bivio fra le due materie, si divisero. Una verso sinistra, l’altra verso destra, di nuovo a correre fra quegli scaffali tenendo alta la guardia in favore di quel gattino, che spaventatissimo, correva e correva a sua volta, alla ricerca di un’uscita, e forse, se mai l’avesse trovata, della libertà. Fra un tentativo e l’altro, la povera bestiola miagolava, e con ogni lamento, le amiche speravano che nessuno si accorgesse di nulla. Un pensiero inutile e patetico, lo sapevano, specie data l’eco che regnava nella biblioteca, ma non avrebbero certo abbandonato le speranze. Poco dopo, stanche e senza fiato, Denise e Kiana si ritrovarono insieme, e con un misto di terrore e disperazione negli occhi, il gattino, ora in cima allo scaffale appena accanto a entrambe, spiccò un balzo. Bastò un istante, e agile come pochi suoi simili, il piccolo atterrò, con un tonfo ma fortunatamente illeso, su uno dei tavoli della vicina sala studio. Colta alla sprovvista, una ragazza cacciò un urlo, ma un ragazzo lì di fianco fu svelto, e svuotato lo zaino, lo afferrò per usarlo come goffo e strano retino.
“Preso!” dichiarò poi, chiudendo la zip perché quel piccolo fuggiasco non potesse più scappare. Non completamente, ovvio, doveva pur sempre permettergli di respirare, e come grato di quel gesto, il micetto fece sbucare solo la testa dalla stretta apertura, poi miagolò.
“Marv! Grazie al cielo!” esclamò Denise alla sua vista, contenta che quell’assurda e rocambolesca avventura fosse giunta alla sua fine.
“Di niente, Den.” Replicò semplicemente lui, tenendo saldamente lo zaino prima di posarlo su uno dei tavoli vicini. “Però, veloce il piccoletto. Si può sapere com’è entrato qui?” provò a chiedere poco dopo, confuso.
“Non l’abbiamo capito. Non lo sa nessuno, e forse si è semplicemente perso.” Ipotizzò Denise, parlando all’amico con tranquillità.
“Già, e magari ha fatto di questo posto la sua giungla personale. Ne so qualcosa, anche a Opie e Foggy piace stare in alto, nella loro gabbia. Grey invece è più il tipo da starsene con le zampe per terra.” S’intromise Kiana, che non perdeva mai occasione di parlare dei suoi amati criceti.
“Sì, ma adesso? Non vorrete lasciarlo qui, spero!” commentò Marvin, sollevando quel quesito mentre riprendeva la parola. Non sapendo cosa dire, Denise si limitò a guardarlo, muta.
“Perché? Cosa proponi?” tentò poi, come facendosi coraggio dopo quel breve silenzio.
“Lo prenderei io, ma i miei sono allergici, perciò…” spiegò il ragazzo, conscio dei problemi di salute dei genitori. Giusto, che stupida era stata. Come aveva fatto a non pensarci?
“Kiana?” chiamò Denise, notando che l’amica, distratta, guardava il cellulare.
“Sì? Cioè, no, non posso neanch’io. Immagini un gattino in casa assieme a dei criceti? Mi dispiace, ma non c’è storia.” Fu svelta a dirle, sicura che due specie tanto diverse, nonché rispettivamente preda e predatore per natura, non potessero coabitare. A quelle parole, Denise finì per rabbuiarsi, e aperto lo zaino di Marvin per estrarne il micetto, aprì il proprio quanto bastava, così da dargli una nuova, e temporanea, s’intendeva, casa.
“Bene, allora. Il Destiny’s Paws saprà cosa fare. È vicino a casa mia, ce lo porterò dopo la scuola.” Decise la ragazza, il tono mesto mentre si voltava, dando le spalle ai due amici. Senza una parola, i due la lasciarono fare, ma soltanto pochi passi più tardi, Denise udì di nuovo la voce di Kiana.
“Den, aspetta! Perché non lo tieni proprio tu? I tuoi non dicono sempre di lasciar fare tutto al destino? Magari è un segno!” le disse, sincera e sorridente. Colta di nuovo alla sprovvista, Denise rimase in silenzio, poi, fermandosi a pensare, decise.
“Hai ragione.” Rispose soltanto, imitando l’amica in quel bel sorriso. Con lo zaino su una sola spalla, poi, si voltò quanto bastava per guardare il sempre presente micetto negli occhi. “Hai sentito, vero? Ti porto a casa con me. Sei contento, piccolino?” chiese, sfiorandogli per gioco il nasino con un dito. Per tutta risposta, il gattino miagolò ancora, poi tacque.
“Piccolina.” Si corresse Denise sorridendo ancora, stavolta con fare divertito. Insieme, i tre amici uscirono dalla biblioteca camminando fianco a fianco, totalmente dimentichi della ricerca di storia per la signorina Lewis. Dopo quanto era accaduto, avevano altro a cui pensare, e anzi, c’era qualcosa di molto più importante da fare ora, dopo la scuola. Per loro fortuna, le ultime tre ore prima della campanella trascorsero veloci, e sempre seduta al suo banco, Denise non potè fare a meno di notare che, complice l’apertura della zip del suo zaino, la sua nuova piccola amica sembrava prestare attenzione alle lezioni. Che fosse appassionata di storia, biologia e chimica anche lei? Non c’era davvero modo di esserne sicuri, ovvio, ma intanto, era sempre divertente immaginare. Con l’ultima campanella della giornata, i tre amici si riunirono, e sulla strada di casa, Kiana ebbe l’idea perfetta per festeggiare l’entrata in squadra di quel nuovo, peloso e dolcissimo membro.
“Sugar Rush, ragazzi? Forza, dobbiamo festeggiare!” propose, felice alla sola idea.
“Sugar Rush sia, andiamo.” Rispose subito Denise, già convinta. Rimasto in silenzio fino a quel momento, Marvin esitò brevemente, poi si convinse, e accelerando il passo, si unì alle ragazze che, correndo, si erano allontanate, ridendo e scherzando insieme mentre la gattina miagolava e si lasciava accarezzare.
“Aspettatemi!” finì per urlare, sforzandosi per raggiungerle e farsi sentire. Ma invano. Denise e Kiana erano sempre state inseparabili, e con una gattina come nuova amica, non c’era più nulla che potesse distrarle. Divertito, Marvin scoppiò a ridere, e dopo dieci minuti per strada, i tre arrivarono a destinazione. Fatti pochi passi, la campanella accanto alla porta suonò annunciando il loro arrivo, e sorpresa e felice di vederli, la proprietaria sorrise.
“Denise! Kiana! Chi è il vostro amico?” chiese, salutandole con calore.
“Signora, non si ricorda? Sono…” provò a dire il ragazzo, entrato per ultimo.
“Marvin, certo che mi ricordo, solo… non parlavo con te.” Rispose la donna, quasi ignorandolo e sorridendo invece a quel nuovo piccolo amico a quattro zampe.
“Non ha ancora un nome, sa?” spiegò in fretta Denise, che per tutto quel tempo non era ancora riuscita davvero a dargliene uno.
“Ma non si preoccupi, glielo troveremo.” Aggiunse poco dopo Kiana, quasi leggendo nel pensiero dell’amica.
“Sono certa di sì, ragazze, ma intanto… vada per il solito?” si limitò a rispondere la donna, già indaffarata dietro al bancone.
“Sì, grazie.” Disse semplicemente Denise, regalandole un sorriso mentre sceglieva dove sedersi. Lasciandola fare, la signora si limitò ad annuire, e rimettendosi al lavoro, ben presto servì i tre amici con la solita gentilezza.
“Milkshake al cioccolato per tutti, godeteveli.” Disse infatti, regalando loro un ultimo sorriso prima di dedicarsi alla prossima coppia di clienti. Veloce come non mai, non diede ai tre il tempo di ringraziarla, e incuriosita, la gattina non esitò a tirare di nuovo la testa fuori dallo zaino di Marvin. Provando pena per come cercava di liberarsi, Kiana decise di farla uscire, approfittandone anche per tenerla in braccio, ma non appena se la posò in grembo, la piccola scattò in avanti, posando le zampe sul tavolino prima e dentro al milkshake della ragazza poi. Stupita, Kiana tentò di sollevarla perché non si sporcasse oltre né facesse danni, ma purtroppo con scarsi risultati. Scalciando con tutte le sue forze, infatti, la bella gattina fu determinata a finire ciò che aveva iniziato, e tuffato il muso nel bicchiere di vetro per un assaggio di quella dolce bevanda, ne emerse solo pochi istanti più tardi, sazia e felice nonostante il musetto sporco e un buffo cappello di panna montata. Era ufficiale. Il trio composto da Denise, Marvin e Kiana era appena diventato un quartetto, e la micina, chiamata Moxie, quasi come la marca della cioccolata che tanto aveva insistito per assaggiare, ossia Mocha, ne avrebbe fatto parte da allora in poi, passando assieme ai ragazzi, e alla famiglia di Denise, ognuna delle sue nove vite.
Image credits: https://www.deviantart.com/cryptid-creations
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Bonus: His full desperation
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tempi-moderni · 3 years ago
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Qui dove io vivo tanti uomini -vecchi cinquantenni e sessantenni ma anche giovani- passano il tempo libero a ridere parlando di come hanno ammazzato un cinghiale, una lepre, un fagiano.
Un colombaccio, un istrice, un daino. Poi ci faranno la coppa e le salsicce, sai che bontà. La mi moglie, la mi mamma ci fa le pappardelle, te non hai idea.
Poveretti, non sanno leggere: ometti. Mezze cartucce.
Che ne sanno di Cervantes, di Anais Nin, che ne sanno di Gadda, di Bianciardi e di Duras, di Camus, di Salinger. Vivono al buio e pensano di essere al sole. La poesia, Vivaldi, Hopper. Haydn.
Vecchi 50enni e 60enni, non sanno di musica, né di fisica quantistica. Non hanno mai letto più di dieci parole di seguito. Sanno tanto ma di come si inchioda una tavola di come si svita un bullone di come si dà il rame e soprattutto di come per divertirsi si ammazzano animali innocenti.
Non si sentono assassini, non si vergognano, non si nascondono. Non si sentono sporchi.
Anzi lo gridano -gretti, cafoni, cattivi, ignoranti- per la strada e alla bottega del salumiere come si faceva una volta, da podere a podere, per farsi sentire. Se non lo gridano che hanno ammazzato animali innocenti non si sentono veri maschi.
Ed è proprio così che si sentono uomini veri, veri figli della terra -come il povero babbo, come il povero nonno- mica professori o musici inutili, e vanno al bar del paesino dove vivono, vestiti da Marines o da Navy Seal. Stirati dalla mamma o dalla mamma-moglie.
E ordinano un Campari che al bar pagano 4 euro anche se costerebbe 0,50 centesimi e ridono degli animali che hanno ammazzato a pallettoni e ridono delle loro donne che mentre loro, mariti o figli, bevono il Campari stanno a casa a preparare il pranzo.
E bevendo beoti il cazzo di Campari da 4 euro, sporchi del sangue di poveri animali innocenti, ridono anche del potenziale cornuto di cui loro vorrebbero trombare la moglie.
Prostatite permettendo. Cancro permettendo.
E parlano del cazzo di cui dispongono e di come glielo metterebbero nel culo a quella o a quell’altra. Sempre duro quel loro cazzo chilometrico (anche se ndr strumento di erezioni perlopiù solitarie, evanescenti, stimolate dall’immagine del sangue di un cinghiale accoppato in un botro).
E qui -qui quando il vecchio cacciatore 50enne dice io ce l’ho ancora duro sai- tutti gli astanti ridono grassi e anche le poche ragazze presenti, intimorite, compassionevoli, bellissime nella loro superiorità naturale.
Vecchi cacciatori 50enni e 60enni che in urologia ci dovrebbero fare il viottolo. Ma soprattutto in psichiatria. Risparmio il giudizio sui cacciatori 70enni e 80enni per compassione laica medica ed ecumenica.
A me questi uomini italiani mi fanno schifo e mi ripugnano: non sono poi così lontani dai talebani. Per tanti versi sono peggiori.
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karassiopoulos · 3 years ago
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Quando mi chiedevano durante una serata o un party "Quand'è che hai cominciato?", rispondevo con la frase di una canzone di Dj Gruff " Ho iniziato tanto di quel tempo fa, che manco mi ricordo più.."
Ma io ricordavo eh, io non mi ero dimenticato nulla.
Ma stamattina, mmm stamattina guardando questa foto, ecco guardando questa non foto non mi ricordo cosa si prova a toccare un vinile che gira. Non sono passati mille anni, sono "solo" tre anni che non metto un disco in una consolle, e sta sensazione di pace che mi dava "suonare" la sento un po' distante sai.
La vita è strana.
Trent'anni passati con la musica ed ero arrivato ad un punto in cui, il nome, la mia musica, mi presentavano. Non serviva dire "Salve sono Dj Morph, questo sono io, questa è la mia musica", ormai c'era un surplus dire che ci fossi io a suonare, quello tatuato con la barba con quella faccia sempre seria era per forza Morph, poi se la musica ti svuotava il cervello e ti portava in alto, era sicuramente Morph che suonava.
Avevo uno strano vizio, che oggi posso spiegare, visto che ci ho pensato a lungo in questi anni, rallentavo sempre un po' la traccia. Ti senti un po' padrone del tempo quando puoi fare certe cose, io rallentavo i dischi per rallentare la mia vita, e sì, a volte cerco di dare un esempio di cosa volesse dire essere Morph, e Valerio Vama mi è testimone di questo esempio, open set a Lequile, ospite a Brindisi ad un party, di corsa sotto il diluvio verso Taranto per la serata con Tormento dei Sottotono, e poi afterhours a Campobasso. Ma ero sereno.
Oggi sarà un po' il tempo incerto, mi sento incerto anche io, e al di là di ogni foto di ogni sguardo nei miei selfie, ritrovo un uomo arrabbiato. Odio dover spiegare, odio dovermi arrampicarmi di nuovo in questa vita, mi ero posizionato in un posto che mi stava comodo, sceglievo dove svegliarmi, anche se per la maggior parte delle volte mi svegliavo sul sedile posteriore della mia macchina, ora mi costringo ad una vita "normale" e l'unica via d'uscita è scrivere. Scrivo per farti capire che nonostante tutto c'è un conflitto interiore. Io volevo essere un dj, ero bravo a scrivere lo so, ma era quella la mia strada, e non riesco a capire amic* mi* come si possa strappare qualcosa di vivo dal proprio corpo. Spesso faccio dei sogni, mi riportano in consolle, sogno ed ho la musica alta nelle orecchie, mille persone davanti e sono sereno, ho la certezza che se abbasso un cursore tutti si fermano, mi sento Potente. Poi mi sveglio, la musica si abbassa, lascia posto al ronzio nell'orecchio sinistro, sono a buio in camera mia, solo.
"E per far passare il ronzio cosa fai?"
Scrivo.
Ci metto amore, rabbia, il 100% di me.
Levo ogni cosa che potrebbe nascondere chi sono.
Magari fosse un profilo costruito ad hoc per attirate follower attraverso storie scritte a tavolino. No. Qui c'è sangue e anima messi su un giradischi, io appoggio puntina e tutto comincia, comincia su un foglio, sullo schermo del telefono o del pc.
Ogni tanto metto le cuffie, quelle vecchie, quelle di mille serate, sanno di strada, di migliaia di km in macchina da solo, di albe, tantissime albe, di pochissime mattine, di studi di registrazione, di telefono che non smette di suonare, che per fortuna c'era Marco, e c'era Silvano, Silvano era sempre con me, la mia ombra, la mia spalla forte, quanto è diventato bravo Silvano ragà, e c'era Paolo, conosciuto una domenica mattina, avevo 39 di febbre e dovevo fare un matrimonio ad una coppia giapponese, per fortuna che c'era Paolo. Vedi la mia vita era questa ma non te la so spiegare fino in fondo, la mia dovrebbe essere questa, ma non so perché il destino ha deciso o ha voluto che cambiassi vita. E mi chiedi cosa mi manca? Mi manca Marco, Silvano, Paolo, le decine di migliaia di occhi che ti guardano mentre fai la cosa per te più naturale del mondo, mi mancano gli occhi dei quasi diciottenni che ti vedono arrivare perché sarai il dj della loro festa, mi manca dormire poco, mi mancano i ragazzi degli autogrill di mezza Italia che ti chiamavano per nome, quelli di "Antò il solito?", mi manca volare, arrivare in una città e sentirmi coccolato.
Ed ora scrivo, scrivo per non impazzire spesso, scrivo d'amore almeno per calmare te, per far si che tu possa avere uno spiraglio di luce su questo social, tra mille stronzate condivise, tra calciomercato, vaccini si vaccini no, e tanto altro, provo a rasserenare te mentre dentro provo a domare quel drago, e a tenere a bada la tigre, ma sono animali difficili, nati liberi, ed incatenati da un destino che ancora non capisco, e allora indosso le cuffie, alzo il volume e certo di fare stare zitto tutto, tutti, cerco di far sparire il ronzio nell'orecchio, e per un'ora cerco di far sparire anche me, tra le note di un mio dj set.
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piermarino-scoccia · 3 years ago
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Il muscolo maiuscolo
 C a r d i o m a s t u r b a z i o n i   in   a g r o d o l c e
  Il concetto di realtà parallela Un continuo ritorno per me Specialmente in questi ultimi tempi In ogni scatto Non cerco tanto il corpo l’oggetto Quanto la scia di energia che esso lascia L’intenzione Il divenire Da agnostico bipolare Cerco Dio in ogni click Trovando solo l’effetto del suo passaggio Un turbinio di foglie La danza della realtà   Reflexplore
     Sette capitoli indossa l’uomo nel giorno del suo esimo genetliaco
la luna gocciola giù dalla finestra del cesso
Cessa di battere il suo cuore
di lui medesimo
 Il bicchiere mezzo vuoto
è già vuoto da tempo
è già vuoto del tempo
tanto che
si sono formate delle melliflue
scagliformi
onomatopeiche profusioni frangiflutti
dette anche fiori di muffa
 Nessuno guarda le sue azioni invisibili
Invivibili simboli di genuflessa prece
un falò copre la visuale
nessuno starebbe a guardare ugualmente lo stesso
poiché a nessuno frega niente
di quello che lui sta facendo
lui sé stesso medesimo
chiaro
 La stanza ha un colore furbetto
Perspicace
Marpione
Ma anche ottuso volendo
Violento
di quelli che s’arrampicano su pei muri
su su fino al piancito
dove Dario
l’illuminatore a tempo
dondola da più parti
da più tempo
da solo
da nord a sud
da est a west
non riusce a fare su e giù
ma si sta addestrando
perché in ogni caso
tale meccanismo
è importante
non si sa perché
funzioni nel migliore dei mondi
 Naturalmente il soffitto �� bianco
Bianco con sfumature di patatine fritte
ben dorate
fulve quasi
profumate
con fragranza di reazione
vomitevoli a stomaco pieno
 qualche chiazza color ruggine di Checiap Santamerica
l’unica marca commerciabile
introvabile
invendibile
si allarga da decenni
agli angoli ormai scomparsi della casa
due sciuscabap molto pelosi
reggono una pila di libri
gialletti
di colore
recanti benessere
a una delle ultime
piccole comunità di bacteri procarioti
nonché
semplicemente
schifosi muffi repelli
 Una sedia impagliata vicino al camino
sintonizzato su Fahrenheit 451
che trasmette musica da cammino
e countryjazz
testimonia un certo attaccamento alle vecchie antiche saghe
di necessità virtù
Un’altra sedia imburrata
più latte e marmellata varia
avaria
vicino a un tavolino
impagliato anch’ello
ma più impacciato
più goffo
più timido
unto e bisunto di sudori effimeri
e lanzichenecchi in putrefazione
 Lo chiamano Otto
poiché cammina rasente i muri quatto quatto
Otto non ha ricordi
non ha storie di cui vantarsi
non ha progetti
Non ha visioni mistiche
né televisioni
né visualizzazioni propedeutiche
né proposte
neanche supposte
supposizioni
e presunzioni
manco l’ombra
ombrelli però ne ha
più o meno
da pioggia
possibilmente
 Passato presente futuro
mescolati in una caraffa di vetro spento
smunto
ogni qualche ne brinda un centellino
schiacciando acni gravidi ad un orologio impazzito
e pisolini di primo pelo all’ombra di un gigalbero fiorito di funghi
facendo stramazzare batter d'occhi purulenti dentro la caraffa di cristallo esangue
L’organo prensile di un Dio ignoto e ignorato impasta assiduamente le frattaglie del cerebro
Quelle di lui medesimo ovviamente
in cerca di chissà
cosa dove quando perché
come
A volte lambisce il filo buono
A volte cagiona più condanni di quanti già ne sono
Troppe genti all'interno dell’involucro rivestito di zazzere
troppa ressa
troppo viavai
S’è bevuto il cervello e ora bighella per gli ambienti barcollando
Ondeggiando
Ormeggiando a volte
Oscillando
Ciondolando
senza propositi
Ne cosa dare
Ne cosa essere
Ma neanche cosa non essere
Dormire sognare morire et cetera
Batuffoli di primavera soverchiano la sua visione
il vento effervescente dell’autunno lo infervora nell’anima
indossa l’inverno sul muscolo cardiaco
L’estate è distante
In un baleno di stasi apparente riprende a scrivere
Scrive di oblunghe lunazioni lattee
di torreggianti protuberanti papaveri sonnolenti
sotto i quali prospera una spezia battezzata Gattacicova
di origini russie per parte di mamme
che
assunta per via anale non genera alcun risultato
per via orale lo stesso
a parte una tenue circonvoluzione ambientale al basso ventre
e prolissità conclamata al ventre di sopra
con collegamenti sporadici alla mansarda
circondata di neurotrasmissioni a camme
e pallottole di sogni a salve
ciao
dice con l’apertura orale
e In un bagliore di lucidità s’accorge di avere sbagliato strada
L’angusta via era sgualcita
Offuscata avariata
Spenta sparita
persa chissà
Cerca
Cerca nelle nebbie di sciampagna di mezzanotte
in vetuste strade perdute
in altre strade già buttate via
nei recinti invalicabili del pensare
nei caselli autostradali di fine inverno
nei guardaroba della coscienza
dove marciscono scheletri di parole osteoporotiche
usate
riusate
usate male
mai usate
La trova infine
Forse
in un cestino immonditico di Via Pappareale
appollaiata sopra un’ampolla d’olive amare d’enucleate ascolane
d'accordo con una confezione sfinita ma quasi integra di Pampers gustolungo
con sintonizzatore cerebrale
che subito toglie di mezzo il bugiardino
per deficienza d’istruzioni
 Ora i suoi piedi sono paghi
le papille estasiate
la sua mente sale
Saporita saliva scende
lungo le lunghe vie del respiro
conducendo per mano una minuta cicca
americana d’origine
che per un ciglio non lo strozza
Dietro lo spigolo lo attende un tartagliante a piedi nudi
con rivoltella in palmo lo intimorisce di vita o borsa
Lui si sgomenta sbigottendo
come un corbezzolo annaffiatato in una sera di luglio
Caccia un urlo che neanche Tarzan in groenlandese
la gomma spruzza sul volto livido del tartaglione
unitamente alla saliva che ora scende
comodamente
sul muso dello stesso
questo
con una sequenza di bizzarri agiti isterici a buon mercato
mirando l’indice latra
Ma ma ma ma ma
Al che lo tronca l’altro
dovresti dire ta ta ta ta
ma tu non hai un mitra
quindi devi dire
pa pa pa pa
E comunque mio caro
la filosofia di un criminale non si misura dalla potenza di vampa
bensì
dall’alveare che ha sotto lo squarciapatate
Il secondo lo scruta tentennante
poi non lo scruta più
esplode un colpo a casaccio che trafigge lo sfigato in piena evoluzione mascellare
poi dice
Pa virgola pa virgola pa punto
Si gira senza prendergli nulla
fuorché un pendaglio portasfiga che l’individuo tiene agganciato all’orecchia sinistrorsa
e un paio d’occhiali a pescemorto effigiati a mano sul baratro del naso
 Il mattino è agli estremi dei vigori tra il bene e il male
In lontananza un vermiglio prato conquista il tono dell’ambra bagnata
poi della giada
e infine della giogaia lì dietro a nordest
nuance imprecisata
stoppia e beton o giudilì
 La folla affolla le strade già di mattina presto
Signore adipose e cappellute chiacchierano bitorzoluti discorsi
conquistando un bar vicino al Café De La Cruà
ai piedi calzature di cocco affumicato con gore d’oro sommario
per la pipì
Addosso sdraiati manti d’amianto
privi di calore
e fardelli di cazzidaltri sui pendii delle groppe
La nottata avanzata avevano dormito nulla
per questo farfugliano furenti paranoiche filippiche all’incrocio dei pali
 Più tardi è notte
ma con riserva
La conserva si difende bene
i nerbi sono saldati al pene con fibre di stagno
alluminio e corame potenziato al limone
catturato fresco nel Mar dei Ragassi
con peluria di pube alla lenza
Stringati e scuoiati vivi
le parole masticate con bonton
il quale verrà poi sputacchiato da più parti e disidratato al sole di mezzanotte
Il giorno dopo
verso le dieci di quel mondo afoso
la grafia è grave
vuota
famelica
infiacchita
perplessa
rivestita d’ustioni
dentro il pantalone principale del principale
qualcheduno attende pingue lo sbarco dei milleccinque
mentre alza le gonne per manifestare la gioventù bruciata
Sentire sente
guardare guarda
il vino però viene male coerentemente lo stesso poiché nel tino
di primo mattino
sono precipitati per quiproquo un punto e una virgola
che imbrattano il dolce miele d’ambiguità assordanti
precoci inflorazioni
sgradevoli straripamenti di gusto
instillano uno stanco imbarazzante pudore
a guardar bene
inoltre
un effluvio stagnante libra all’inverso del capoverso
svenendo i controllori linfopapillari
 A volte penso non abbia senso cercarne uno
Dichiara il modulatore di frequenza
che poi svanisce nell’etere assediato da cento microfoni con ali di c’era
Quando da terra non si vede altro che un puntino fugace
sprangano i ponti radianti
il dicastero della sfiga benvolente dichiara aperta la cerimonia di guerra
Intervengono numerosi
essenzialmente tutti
alcuni svengono
altri aiutano a svenire
certuni vengono ma non volevano venire
La stanza è piena di gruppi sparsi
qui e là
suppergiù
Zingari rapaci
scuoiano con gli incisivi anteriori
vecchi e rincitrulliti luoghi comuni del cazzo
intercalando con parole nuove
vecchie liquefazioni emotive
del cazzo
cechi ubriachi tracannano a tastoni slovacchi ustionanti liquami
e come fradici barboni beoni
zuzzurellano verso l’ultime pagine d’uno strano dicasi dizionario di lingua mamma
eschimesi abbronzati voltano canti saltalenanti a quattrocchi
con organi prensili tostati e fessure per la posta celere
dallo sfintere del corridoio annuale arrivano di filato
indiani damerica e indiani dindia
indiani di Napoli e di Caserta
Un gruppo di marijuani incalliti passeggia strade perverse in cima ad assopiti pensieri
Matrone incastrate, vivide, purulente, squallide matrone invernali
Appollaiano pensieri involontariamente anali percuotendo a vanvera
Illuminanti pentole minestroidee al farro di ceci anarchici
e prensilmente magichi
Asdrubale coi suoi maiali è appollaiato sopra un trespolo aureo
una cartapecora di banano nell’altra mano
è da un po’ che riposa su quel soffice divano che ancora in molti si ostinano a chiamare vita
Annibale coi suoi cinghiali di montagna
quelli con più gusto
discendono a perdifiato giù per la calata
scapicollandosi a ogni piè sospinto per non sembrar pupazzi del presepe
Quando all’incirca appaiono alla metà
scambiano per praticità i cinghiali con voluminosi africanti animali dagli uditi a ventola
e raffreddore pererre
detti topofanti.
Un topofante cinque cinghiali di montagna
quelli con più gusto
Recandomi di sprazzo al lato dello spiazzo
vedo Matusalemme che si conta le emme e riattacca le penne
dopo uno scontro frontale col sultano del bidè
che intima stupidi boicotti agli ultradizionali traditori della plebe dal pube pepato
mangiando alici peperonate al dentice con scroscio di limone dorato
Quando in fine ci sono tutti
tutti chiacchierano del più a scapito del meno
allorquando giungono alla frutta il caffè è servito immanente
conpocozuccheromiraccomando
Rimestando ben bene
due chicchere al giorno
dopo i sogni di mezzanotte
prima dei pasti ai propri posti
stesi a due a due sul lettino di Froid
Tanto per cambiare
 Non tutto finisce quì
una gatta arancione valica la strada
ma di questo pronunceremo in qualche altro incubo
ora dobbiamo pensare a scappare sul serio
fuggire di brutto tutto il giorno
non dobbiamo fare altro che dileguarci
Annibale finge di sfringuellare le passere scrutando gli stormi
ma con sua enorme sorpresa divenne presto un cercaprugne tediato
eccedente di incremento fecale con milza diroccata
dente perdente e fegato a credito
Quando sì risolleva
non rimembro quando cadde
ma sono sicuro lo giuro
che in qualche modo si rialza
ha vigorose dolenze in tutto il versante destro della letizia di esistere
Un parafulmine è precipitato addosso a un tuono e non si sente niente bene
ma lui è un principe nella sua stola di piduino ed è il primo delle classi
micacassi
Il secondo è Coppo Gimondo detto Merchkxs
a causa dei suoi lunghi sguardi a sfaldamento ancestrale
epperò i compagni più stretti lo denominano affettuosamente Sfegamonti Cipriano
generato di lunga era
con vista all'incirca e un capello sul labbro anteriore
che la madre gli acconcia continuamente
prima di salpare per la consueta lezione di polluzione notturna
Il terzo non c’è mai pertanto non lo racconterò
So soltanto che porta due ingombranti orecchini al posto dei testicoli
sono i telai sostiene lui
è sopravvissuto solo ciò
Vaccascrofa
a forza di fioretti al bambin Paradiso
Zè per gli amici
Il lividore sul suo volto è ormai sgonfio
la sera del giudizio universitario c’è anche Apollonio battezzato dai più Versaccio
il gran mastro della loggia di Fiordimonte
Fa tre capriole con le mani e una senza piedi
di modo che la gente intorno non capisce più il dritto e il capovolto
Dalla mente di Versaccio colano verdi sapori dalle sembianze rapaci
sta notte piange a colori
quando si sveglia di soppiatto
Le forme s’appiattiscono poco dopo il crepuscolo
espressioni limitate poco convinte
sclerotizzate senza senso
In fondo che senso ha scavare nelle fosse del soffice bigio
tappare buchi con forsechissàperò
Onde naturalmente provare che l’esistenza di Dio esiste
Naturology etology scentology di varia natura ci provano
nei secoli dei secoli amenchenonsidica
un videogioco di fanfaluche buone per perdenti di tempo
principio immateriale denti e affini
Gravidi foruncoli esplodono all’ora di pranzo quando nessuno se l’aspetta
Quando
A me non capita mai
quando
Allupoallupo
Risolvere è facile
Forse
basta poco
basta spegnere il tivì e continuare a mangiare
Le scarpe sono piene di merda in quest’ora di merda
fino ai piedi
Il dotato di sacralità sputacchia parole a gettone dall’altare sopra la porta
l’altare che occlude l’accesso
non ha templi da perdere santinumi
I circoncisi sprangano la fabbrica di altari-atari a metaprezzo
n’aprono una di speranze affumicate in società col signore dell’anello
Bianco da ogni parte
Non c’è più spazio
terminato lo spazio
E a merenda mangeremo cavoli amari
Gli speziali bandiscono un banchetto per il capretto
milioni di cannoni riscaldano le pietose pietanze
qualcuno grida giù nelle stanze della primavera
Bastaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa
Poi tutto si liquefà
tutto è scarlatto
poi merda
poi cinereo
poi forse
Stilano la lista dei vaffanculo dopo il rancio delle seiettrenta
mentre il resto della folla parla in silenzio
folate di vento trascinano via il silenzio della folla che parla in silenzio
Qualcheduno ascolta addirittura
Magdala deterge coi regina il volto del crocifero prima del rimpatrio dei mestrui di fine millennio
il pane azzimo in un angolo
zitto zitto
quatto quatto
sempre otto
La Sachertorta atterra di soppiatto
scaraventando il pane con prestanza dalla parte opposta della calca stanza
Con un diniego perverso acquerellato sul volto
abbozza una dimezzata locuzione
State bene al caldo quando sapete di poter invocare il consueto qualunque Iddio
perché ci siete incappati in mezzo
L’alterco si fa bislacco
soverchiando l’ammasso un wafer napoletano ingigantito sul falsopiano
scaraventa il suo muco nell’intelligenza in alto
verso il firmamento
e rivolto al dotato apostrofa
Scarabocchia la tua verità sulla carta nettaculo
io lo farò con la mia
Dal versante della montagna dove qualcuno sta discorrendo
discende ansimante uno stronzo di mosca a cavallo di una cacca di vacca
che a mani giunte supplica
Per favore
vi scongiuro
NON PROSPERATEMI SULLE SFERE TESTICOLARI
Letteraminuscola afferra il balzo alla palla che si ferma a mezz’aria
abbandonando quell’altra dimezzata a vituperanti spazio-testosteroni
per la divulgazione psicodinamica a fermentazione naturale
Naturale un cazzo
Sente la sua voce gridare
La sua voce di lui medesimo ovviamente
Ovviamente un cazzo
Replica
senza accorgersi di star parlando da sé
Stesso luogo stessa ora centoventitre anni dopo
è seduto sopra un peto che da anni lo sorregge e sostiene nei lavoretti domestici
Fa di tutto
eccetto l’aspirapolvere
si rende conto tuttavia ogni giorno
che sedere incessantemente sopra un peto sia una posizione alquanto soffice
ma decisamente poco pratica
poiché i peti non hanno un piano stabile
sarebbe come adagiarsi sopra una bolla di sapone
ma un po’ più resistente
La sua voce è identica a quella di altri
il suo organo del gusto sfiora l’ansia della caparbietà
mentre sfiorisce il suo organo riproduttivo
esili lampi
fulgori postumi schiariscono il bianco dei suoi oculi
 I fari anteriori non sono mai secchi
qualcuno li conduce di nascosto al travaso del sole
da questo lindo mondo a quell’altra metà di là
L’ipotenusa regge bene
sebbene
le configurazioni siderali di quella notte sembrano ricondurre agli albori del borsellino esaurito
quando i cateti smettono la fantasia e girano
girano
girano
girano
basta
Le parvenze mestruali sono sem’inumate da transiti di cilicio granulare
ortogonale al ciliegio di Diego Walles
l’estremo cesellatore della crosta terrestre rimasto
vivente a tutt’oggi sul pianeta Ekatonchiri
o viceversa
 Ekatonchiri
l’entità dalle cento energie
ricordi?
Non mi rammendo
Sostiene il paltò del sarto
masticando giugulari vuotate di plasma all’amatriciana
dette altresì bucatini
 In ufficio non s’accorgono di nulla
su al milionesimo livello del grattacielo perenne
o per G non so
Chissà se fingono di non vedere
La cupola ora è spenta e nessuno si sogna di dormire
Chissà per quanto tempo ancora la corte si appellerà al novantunesimo emendamento
Chissà se ancora il fumo uscirà dalle sue maiuscole
Il prepuzio gestisce l’incombenza in forma effimera e non ci sono più cipolle
Etimologicamente la visione onirica è perfetta
Sintesi di stralunati pensieri
principiano finalmente a venir fuori da quel bizzarro forno a microonde
il suo scatolo cranico
timida mente
svogliata mente
assopita mente
fagocitando ancestrali spazioperdite
Casual mente perversa
Seduto sulla tazza della colazione
i suoi pensieri guerreggiano con la puzza di merda che sovrasta la stanza
quasi tangibile
La sera prima ha ingerito cibo
Punto
Gli arcani del delirio coerente aleggiano impolverando
Offuscando
Opacizzando
coagulando linfa vitale
mancando dalla nascita tenta di fermarsi
poi cambiando idea guizza di lato come un vettore maldestro raschiando i pianciti
vuole assassinare la morte cantando messa alle sei di mattino per Via del Vino
parallela a Via del Tino ma con più virgole
All'esterno le giovenche ammaestrate puzzano di miglio lontano un chilometro e seicento
La notte seguente il sole cola a picco dentro nelle tazze della mariuana
la pozione maliarda
in fondo in fondo scende piano
per fecondare i pensieri ne bastan due calici
calici belli
belli colmi
colmi e roventi
da svenire o venire a piacere
Peccato però purtroppo che l’ora del mattino è tarda la sera di notte sul far dell’alba
Prima dell’apertura delle soglie del solstizio di zia Naftalina
che non ha più cicli da qualche millennio
Da tempi non riesce più a cuocere quegli amabili ambigui sughetti
al sapore di pomodori notturni e ricotte maliarde
peperoncini mistici all’ombra dei salici
mistificati masticati sputati mescolati alla salsa rossa
sugo alieno
intingolo marziale
Che aspetto
che solletico allo stomaco
che rilassante putiferio delle membra
affamate di potenza mediterranea
un piatto di pastasciutta coi suoi sughi
Per quanto
se sia seduzione per uno stomaco vuoto
o a volte di una mente carica di vuoti cicli e ricicli che circondano la giornata di un individuo
non saprei dire
ma il piatto è lì pieno di pappa invitante
rosso assordante
profumo di vero
Non sa come riempire il tempo rimasto tra le penne e i rigatoni
Ci pensa su un bel po' poi opta
Spaghetti
Alla chitarra
Armonia per le papille in un amore immenso di Rosso Piceno d’annato
Volendo potrebbe aggiungere una candela
magari rossa
forse anche profumata
per sottolineare la sua passione e soddisfare la sua buona volontà
ma riesaminando l’apparecchio
considera che c’è effettivamente tutto
la misamplas è perfetta così com’è
la candela potrebbe essere un po’ troppo
così la vede
Aspetta da un’ora che giunga l’ora dell’incontro
Al termine del tavolo
addosso a una grattugia
un bel gran pezzo di arrapante Parmigiano
iddio lo accolga nell’eden
attende di fioccare prima o poi
addosso a rigagnoli di fumiganti vermicelli
Il vino
c’è anche lui
un po’ più in là
un po’ a metà
mezzo pieno per l’ottimismo
rosso senza virgole e puntini
impetuoso al gusto
morbido al muscolo cardiaco
inebriante al pensiero
antico remoto arcaico polveroso
appena migrato dalla vecchia dispensa muffosa
tutto procede per un verso qualunque
ma nessuno ancora bussa all’uscio
ha disposto anche dei fiori
Nello spigolo destro della tovaglia a fiori
la candela no
è troppo
davvero
La pignatta si lamenta che quando uno scrive deve tacere altrimenti la digestione accade apatica
Il Maieutico si scrolla di dosso la pipì
suo fratello il boia del villaggio glie la fa sempre sotto il naso
ma lui è buono lui
sostiene tutti lui
è continuamente là con lo schioppo mirato
accorto ad ogni moto
mosso da pura inventiva
immagini accidentali
Suo fratello attende fuori
Tormentati del fatto che altri possano parlare ingiustamente del loro operato
serrano i rubinetti della mente
non ricordo quando li dischiusero
ma li chiudono
sicuro
lo assicuro
Arcani scivolano dalla mensa sacra in basso
verso la cripta del santo
Il maieutico del dopopranzo diviene Cicero
e asseconda un ammasso di labirinti stipandoli nella valigia cranica
la più adulta che ha portato
raggiungendo peraltro uno splendido intrigante senso di libertà intrinseca
Senza pudore percarità
libertà che a benguardare non ha il più grande degli scopi del mondo
solo futilità di vita e avversione da forze avulse al suo intento
La poesia è in ogni caso autobiografica?
Gli domanda il coltivatore di datteri
che nella bella stagione trasporta il frumento a falcidiare negli elevati pasci di montagna
Quello che è avvenuto dopo
nel corso del collasso degli elementi
a casa di Vanni
il taumaturgo piscione
dove si fronteggiano per una festicciola esclusiva:
la Teresina
la zia Naftalina
il Maieutico e suo fratello il Boia del paese
che attende fuori in compagnia del dotato di sacralità
Titti la cacona
Lettera Minuscola
il paltò del sarto
che ancora sgranocchia giugulari amatriciane
Coppo Gimondo detto Mrckhss
la Sachertorta accompagnata dal Wafer napoletano
che l’abbraccia folle
A un certo punto la virgola incespica sulla Teresina
che non si sveste mai due volte con lo stesso uomo
stramazzando sulla moquette rossa della stanza dei pensieri strani
e da lì tutto precipita
il maieutico raccoglie mozziconi disattivati dal sacco di plastica cupa che ha in mano
non è dato sapere perché lo ha in mano
poi comincia a disseminarle sulla stessa moquette rosso fiamma di cui sopra
quella della stanza dei pensieri strani
Questo da tanto fastidio alla sposa del Taumaturgo Piscione che
preso uno zucchero a velo per la coda dall’ambiente sterile del cesso
lo scaglia addosso agli sposi primaticci
che però non sono giunti ancora
ma farebbero sensaltro in tempo a riceverlo in faccia
poiché non c’è vento
Nel quintunque del batter d'occhio Titti
la cacona
esala strani concetti che evocano tutta la flatulenza dell’essere
poi
senza scomporsi
la fa lì
sul consueto tappeto rosso nella stanza dei pensieri strani
già zeppo di mozziconi estinti lanciati dal maieutico
intanto che suo fratello temporeggia fuori
Rintanati nel posticipio passato dei sensi
Letteraminuscola con in groppa il paltò del sarto piscia nell’occhio destro a Coppo Gimondo
detto Merckhss
per una sveltina urinoterapica di gruppo
dicasi Orgiasta-bombasta
Punto
La notte è precipitata giù dal letto da quindici secondi virgolasette
Sachertorta ha deciso di psicoatomizzare per via orale la Teresina
che più tardi respingerà in calciodangolo
Non c’è più niente da fare
la serata si colloca male
la mattinata sarebbe in modo peggiore
Nell’angolo catodico Zia Naftalina cessa di sognare Eta-Beta
i miti si stanno squagliando a bagno-Maria intanto che Jesubaby
denominato all’epoca Cicciotom
dissolve le preghiere in un cucchiaino d’argento
Punto
all'esterno in giardino
il Bestiale raccatta ogni natale per l’imminente venturo minimale
a tergo assume strane pose di libidine universale
innanzi sviluppa languidi e facinorosi cazzotti a dissuadere ogni tentazione evolutiva
lui resta comunque tenacemente lì
appeso all’ultimo centesimo
economizzando apnee e divincolandosi dagli ultimi nodi in gola
 Rincasando a casa trettrenta del mattino
stanza della camera a dondolo
mentre il coma s’aggira per la casa
perpetuando strani malesseri al lezzo d’orgasmi retrivi
Oscar la lavattrice
comincia a strimpellare con sguaiata svenevolezza arie degli anni tali
questa cosa rimanda in belva la consorte del taumaturgo piscione
Il giorno dopo
La sfuriata
 Masturbazioni cerebro-spinali scortate dalle proprie particelle cromosomiche
o da chi in quel momento ne avrebbe fatto le veci
bussano cazzutamente al portone dell’edificio scolastico
la targa spicca aurea
I.C.A…Istituto di Corruzione Antropologica
il custode dischiude rasentando la tragedia
getta secchielli d’umorismo a buon mercato
dalla finestra del piano sovrastante a quello centrale
quello con le virgolette per capirci
è gennaio trascorso da quindici minuti puntuali
perintenderci
dietro le quinte sembra tutta un’altra storia
L’esimio s’avverte che il regista del sovrano ha dimenticato di dimenticarsi il copione a casa
sono obbligati a girare il film
Prima scena
interno notte
mezzobusto trequarti di uno sfintere encefalico in putrefazione
Seconda ed ultima scena
esterno notte americana
primo piano
il culo va in paradiso
la merda no
 Dopo il film
per cent’anni a venire non avrebbe cucinato più
si ciba come capita
random
nella fattispecie
di vermi Malthusiani
criceti di Betlemme
asinelli del Peloponneso
rivestimenti in madreperla
appetitose esplorazioni sgonfiate
qualificate anche come sgonfiotti
fluttuofobie delle focacce
combinazioni meschine di mediocrità ben ponderata
per dessert
ali di fegato di foca obesa con testicoli devitaminizzati
Piccoli capricci importati da lontani passi
chi viene al mondo sperando
chi ha il rodaggio pronto
 Il fondotinta lo sveglia di colpo dal suo sonno impossibile
Perdio
Sbraita rauco
e si girò dall’altra puttana
quella soprassale gorgogliando
Porcavacca
La libertà è un dolce un po’ melenso che quando lo mangi svanisce sotto i denti
bello da studiare punto
Lui non comprende l’ultima frase e s’addorme daccapo
Lei frustrata si chiede quali ingredienti sono essenziali ma non n’è sicura
A volte ora finge spesso
manco coi grandi sentimenti può mascherare la sua maschera
Spesso cerca dei falò
altrettanto sovente recupera solo cerini disattivati
adoperati da altri per infiammare i loro falò
sigarette
sogni
 Introspector volteggia col suo vascello sui piani elevati
li avvista
accovacciati sulla stessa ampiezza di flusso
la stessa banda di frequenza
Così sembra osservando attraverso i cristalli nebulosi del primo mattino
In un’altra stanza
al piano di sopra
in una vasca da bagno
biancheggiantemente immane fluttua il volto di una bambola
La nave sussulta
per un vuoto di reminiscenza si trova all'imprevisto nelle veglie viscerali di un genetliaco matto
Qualcuno ha versato tutto in un grande calice e s’appresta a bere
Ruggini
pietà
viltà
sinonimi
contrari
astenuti
epidermidi
dischiusi boccioli di mente
ha bevuto
comunica da solo
è sbronzo
il sole si sta pettinando
Il giorno dopo di buon’ora sarebbero sopravvissuti tutti i defunti
Insetticidi spray per insignificanti significati
 Andante mosso spiritoso con brio e sorrisetto finale
 Un piatto di partiture tracima in testa al primo della lista
che tirando di naso si getta dal primo ponte dove Caronte
l’evoluzionista
sta sostituendo uno pneumatico trafugato forato al mercato
Non c’è adipe per gatti
Strepita il Caro Caronte dal naso paonazzo smorzandosi una paglia in un globo oculare
Non passerete dall’altra parte solo per feeling
Replica il primo della lista dei favoriti
Vedrò il muso della morte cazzo
dovessi metterci tutta la vita
 Mentre continua a marciare piano colla melma fino ai ginocchi
S’accorge che i suoi organi tattili sono diventati pasta di carbonio cristallizzato
il suo seme ha vaghi riferimenti erotici
di volata travolge quanto gli si para d’avanti
sul teschio ha un copricapo da marinaio ottomano
Genuflessa gli corre dietro per tutta la patria d’Ade
una sola cosa vuole da lui
lo scrigno d’anime posticce che trasporta nascosto sotto il mantello
trafugata per scarse monete al mercato di Fiordifragola molte epoche prima
Fluiscono gli anni i mesi i minuti i secondi la frutta il dolce il caffè
dona il suo scrigno di anime posticce al primo che capita
e s’imbarca sopra un vascello di papaveri rossi dove incontra un Dio privato
Hatù di nome
Vuole eclissarsi dall’impetuosità della madre
lei è in tutte le cose
non può farne a meno
non ne può più
gli ruba i segreti trasformandoli in minareti
si affanna a masturbargli la mente quando può farlo tranquillamente da solo
Vuole eliminarla
Sopprimere la madre non è di grande efficacia è sconveniente e cagiona sentimenti di mancanza
Gli dice il Dio nella sua opulenza
Devi rimuovere l’astrazione che hai della madre
Perché il concetto che hai della madre è obsoleto ombelicale e luttuoso
M’Hatù che cazzo ne sai
Reagisce lui nel pieno senso della sua dignità
Non ama essere inculcato per non dover sentirsi dire dalla madre che lo è
è tardi a quell’ora tarda
è fresco di giornata l’uomo appena scolpito
Né più piaceri schiaffeggiano le sue membra
né più gementi e piangenti battono al suo uscio orifizi-anali-peli-compresi
a domandar cagione di una smarrita ragione espettorar sentenze dall’alto di altari a quattro zampe
Parte per un molteplice orgasmo a quattro testine
niente lo frena più
fuorché il visuccio pallido che spunta al bagliore della luna dalla finestra mezza aperta
dalla finestra mezza schiusa
Lui scruta
lei sfuma la luce per non farsi identificare
Buca l’ultima gomma rimasta
Dopo qualche mese
nove o giudilì
sprizzerà un giuoco d’h2o
Furor natale bestiolitico
rosso fuoco il manto
oro di maggio l’encefalo
Distinguibile dalla invetriata che attornia il suo angusto teschio
Ecco io sono
Mormora
Ecco sono nato
Esulta
Non bastano più tempi profani
Il puledro scalcia di già
 Comandante vuotate il torace
Prima dell’alba qualcuno volteggerà sulle proprie utopie
Dice il luogotenente Beccaceli
Il comandante Anton Mauro Fitti Paldi ha le lame affilate
ma non vede il lunghicoltelli dagli occhi blu arrampicarsi sulla la collina alle sue spalle
Il cucù limitrofo alla boccia della linfa al limone marca già primavera e un quarto
è tardi
Troppo tardi
Le facciate del lunario volano via capo dopo capo dopo capo
A capo
Quattro colline più in là
il popolo perverso s’accapiglia sparando nel mucchio
per un miserevole brandello di soffritto atomico
Il rapporto del Generale Quartarulli detto Sanbecco decanta
Prima che la legge non ammetta ignoranza
bisogna abbattere gl’ignoranti che fanno la legge
  Nella piazza a pecoroni sciamano le folle
con le eliche sulle palle d’amianto color pelle di daino
 conservare in luogo asciutto e ventilato scadenza a breve termine
 La maschera gli sta a pennello ma non entra nel fardello
 L’unica trasgressione possibile oggi è quella che ieri era considerata normalità
 ha dei braccialetti ai piedi e alle mani
 Che l’autunno delle stagioni corrisponda a quello della vita?
 I braccialetti ai piedi sono color pioggiadorata
anche l’odore è quello
forse sono i piedi ad essere quelli ma per quanto quelli potrebbero essere loro
loro non lo verranno mai a saperlo
 Perché profumino d’incenso questo ancora non lo s’è capito
s’è capito invece perché non si sono recati alla celebrazione di Calatafimi il vetusto
che quel dio d’inverno compisce ventunsecoli venticinquecentesimi restomancia
Acquavite a catinelle piove per questo non sono andati
Batteranno il marciapiede per alcuni giorni
 Quando il culo è basso gli uccelli volano raso
 Sguardi indiscreti scrutano da dietro i massi di plastica
occhi importuni di vecchi piceni semi assorbiti dal manto stradale
 I gradini del palco ancora imbratti di sangue
tre secoli e mezzo dopo nessuno è più andato a quel paese
Un parco dei passatempi
sipario sul teatro del terrore
La ruota panoramica ruota apatica
unico cliente non pagante il vento che zompa da un posto all’altro
facendo oscillare le stridenti rugginose altalene
carta straccia nei viottoli del parco della luna
Un quotidiano letto tempo fa
la foto risalta tra le colonne
senza capelli senza cappello
il naso d’aquila
un neo sulla punta centrale del pensare
Ricardo Fiordileone se ne va rosicchiando un osso del secolo precedente
i peli del corpo incespicati nel tempo
pure quelli del pube
finanche il pube
 Barbablù frattanto
seduto sul il suo stesso pensiero
mangia una sigaretta
quelle pesanti
col retrocorpo innestato da fuliggine cinerea
Globi di cristallo cacati dall’azzurro conforme alle norme
Dietro la porta
un grigio azzurrato si tiene i fianchi stretti dalla risata
Dietro i seggi delle maiuscole nessuno finge più
 La roccia è rovente
miserabili formiche danno il sangue per un miserabile avanzo di pane
l’Aria greve entra fin dentro nelle più profonde viscere degli esseri senza tessere
Quando capiamo d’aver smarrito Erode
abbiamo già percorso cento metri umani dall’immenso salone del grande scheletro di roccia
Le cinque bobine scomparse si trovano
secondo le tavole
nella cabina del signor Mastrovadapiano della Vecchia
discendente d’antenato
nato prima che lui lo sapesse
postnato in assenza del timbro postale
dopo
e un assegno posdato in arrivo da Uoscinton da parte di un ecclesiale apostoloide apostolato
dalla missione terracquea di San Penino il Glande
Il sibilo s’è fatto violento non possiamo tornare indietro
Dalla grande crepa ci accorgiamo che il sole fuori è alto
dai muri cola una sostanza viscida color cocacola
è cocacola
fugge al tatto
nelle palme non rimane che pulviscolo
quasi niente
poche lacrime di fosco pulviscolo
il sapore però è eccellente
urlano
viva la passera
prima che li arrestino al posto d’assedio di nome Ubaldo
un posto elevato e massiccio di nome Ubaldo
ma questo l’ho già palesato
Procedendo ad altro mi accorgo che in quel dunque nevica
a tempo smarrito ma nevica
quando arriva d’oltralpe Antombucchi Palese
Passeo per i compagni poiché ha gli occhi a Fiordipanna
un paese lì limitrofo
Molte volte fa fatica a sollevare le patate
il quadrupede infecondo gli da una mano con la coda
ogni tanto
quando gli tira il deretano
il mulo parla una lingua bislacca
a scuola è stato un somaro
fabbrica ciarle senza senso
quando pronuncia gli discendono i cucchiaini sulle i
Passeo si conduce a quattr’occhi
con un bimbo gatton gattoni che strimpella il piano a quattro mani
con un pianista dalla lingua biforcuta
l’equazione è facile
agguanta un equino
fa la sottrazione
ciò che resta lo mangierà il giorno dopo a colazione
che tanto poi alle sette e un quattro sarebbe arrivato Balaustro
il lucidatore di lumache da corsa
ha conquistato cinque trofei d’orate
sei chiocce tedesche in do diesis perché fanno kokkoddoi
una galla austropiteca incazzata che avrebbe potuto fare kokkoddio
ma si trattiene per rispetto dei pulcini che sono pii
molto pii
pii pii
Il totale fa diesis
Dopo tutti questi premi conseguiti si ostina ad allenare ancora le sue lumache
ma alle corse ormai arriva sempre tardi
finisce tardi e di solito non pulisce il vate
i versi imputridiscono sotto il carico del suo ponderoso e affardellato culo del cazzo
Punto
e a capo
 Atroci perversioni aspettano all’estremità d’ipotenuse
incapaci di mantenere equilibri con la qu di qualsivoglia incombenza
Il dubbio si scaglia come saetta
Due esemplari dello stesso tomo?
Un libro per tutti i destrieri assetati di cultura?
Coltura forse
menzione o minzione per ovomaltinici frutti squamosi e bituminosi d’oltremanica
e se non si capisse l’antifona?
non è che l’abbia capita molto neanche io
di manicomici sconquassati bimbi che in età adulta mangeranno ancora col cucchiaio dell’incoerenza
 Riusciremmmo poi a riguardar le belle con tante elle giornate assolate di ottobre o giudilì
e potremmo anche tener loro compagnia
mentre cacche lesse dal sole leggono la messa della novena incatenata
abbreviata all’esigenza per insufficienza di ore
di fronte al santuario della Vergine Allucinogena
Per le vie sfilano vecchie crisalidi
Cariatidi incotennate
incatenate d’avorio mani e piedi
le accompagnano a discreta distanza
un Bianco Socadò con le sue organze ascensionali a velare papule purulente
succulente leccornie iniziatiche
un tecnotubo a scanning laterale
messaggero di massmediologici messaggi
peripatetiche persuasioni e avanguardie mistiche
un giallo rossiccio e un giallo giallastro
uno stupro affumicato con gagliardi perpendicoli al seguito
due verruche Zoppas
venti efelidi indie
quattro rex gloria mundi
una mondina col cappello in bocca
in compagnia di una suora che sorride sempre intitolata Suor riso
altre mondine con in bocca altre cose indefinibili indefinite ma belle turgide
cento mondane colla veste da puttane
una puttana colle scarpe a transizione extrauterina
venti levatrici
venti posatrici
un ventilatore alato al lato del corteo a sventolar le gonne matrilinee
5 trentilatori appesi al ciglio della musica per raffreddare i gelati allo scoglio
Che i tritardi si sono trasportati da soli dalle lontane montagne del Gozzo Vico
Poi ci sono
un goliardo che spilluzzica liquerizie liquefatte appollaiato sulla riva di un biliardo prosciugato
quattro mosche di velluto frigido a tergo
che avendo sentito l’esalazione del liquepardo
spingono ansanti di vanagloria e malcelato orgoglio
gorgoglianti di fragranza stantia e vecchi elisir spaccabudella
Completano il corto corteo
un soprano e la sua sottana a braccetto per le vie del suburbio
un miliardario
due biliardari
tre triliardari
quattro del quadrifonico rimasti senza pittore per gli artigli
Ormeggiate al suolo con una nappa di ghirlande ci sono
sette cosce di formica affumicate
una persiana a gambe aperte
la cacca di mosca a cavallo della cacca di vacca
recante al guinzaglio un foxterrone del nord
all’uscita della strada vicino al fiordo centrale del paese attendeno
un filisteo
un samaritano colla sua pochette imbottita di melensa bontà del Cazzo
un monte sopra Pechino chiamato così per la sua strana forma vaginale
insieme a un barracuda a tariffi lacerati
e me
giochiamo a unduettre stella mentre Aldo Buchi ostenta la favella
 Tincastro mincastri dinchiostro timpiastri titingidinero però non è vero
Dice il signor egregio dottor sindaco di Guastamelata alla fine della sfilata
Il signor egregio dottor sindaco è un granduomo
proprio così
di grossa levatura morale
Proprio così
di grande gesso acqua fredda e sanguimbocca
proprio così cazzo
in parole miserrime un baccala
o qualdirsivoglia stoccafisso
duetti di lonza uno di mortadella e una fettina di parmigiano bentesomiraccomando
 F  l  a s  h  b  a  c  k
 Sono le ore tredici del tredicesimo millennio dopo Maicbonjour
Dice il venditore viandante
Serve niente signora tettona?
solo un chilo di burro per questa sera
dice la signora tettona
sa io e il mio sposo celebriamo proprio oggi l’estremo tango a Parigi
Fa freddo quell’estate
in tintoria i cappotti non sono pronti e non sappiamo di che spogliarci
Grazie per l’appetito
dice il commesso viaggiatore
tale Petito Alonso,
per gli amici stronso
per la moglie ruffiano di prima fila
La verità è inversamente proporzionale alla ricchezza
Risponde la signora tettona
Che cazzo c’entra
Stucca l’Alonso sbattendo il chilo sul banco di servizio
 C  o m  e  b a  c  k
 L’intima capacita di respirazione a volte toglie la brama di sanare i patonzi
facendo sì che ometti di modesta entità essenziale cadaverino al suolo
ammarando cordialmente sul campari delle seiettrenta
Il sindaco è un uomo vendicattivo
propriocosì
Ma è un uomo anche molto cattolico
questo fa sì che appaia al popolo come un hombre vendicattolico del tipo Occhioperocchiosessantaquacchio
 Porta canestri per via degli incesti
parallela a via dell’Arca puttana quella della ricerca perduta
altrove ingoiata persa sparita
Lo chiamano Sottovoce
colla testa bassa a sfiorar le sue pantofole da pedemontano
pedestre sultano che alle tre di mattina mangia il divano per Via dell’insonnia
parallela a Via della Madonna Parallela
Improbabilmente saluterà il nuovo anno con un piatto di rigatoni
nella sua casa all’estremo piano della sfera celeste
al piano di sotto invece
una donna svergina un pollo appena comprato pensando in cordis sia una polla
Al piano laterale al mio
quello con le persiane a forma di cuoricini sudafricani
un’attempata signora di tredici anni sta allestendo un pasto formale a mo’ di pitale
e lo dà in pasto al commensale di turno
sperando in quorsuo che l’agriturismo di turno non sia chiuso per turno
 Ben inteso
io non ho verità da dare ai torchiati dalla vita
ma qualcosa posso ben fare
per esempio
cucinare favelle alle tre di mattina per mettere in scena la cena del delitto perfetto
oppure
dire a Babbonatale che si è cresciuti e desiderare castighi maturi
sparare la befana dalla canna del camino usando lo stesso carbone che ci ha portato in dono
e non ultimo
stropicciare i fantasmi nelle notti destate all’improvviso
che ti fanno trasudare sotto le lenzuola senza sapere il perché
Chi c’era in fondo al campo lo so solo io
so solo altro che non dormii quella notte fino alle sei di mattina
In seguito per distrarmi giocai a malasorte per trent’anni col buco del diavolo
che non lavava mai
che puzza perdio
 Il giorno della crocefissione cerco invano un’insalata al dente
condita d’aceto
per imbalsamare i circuiti indifesi della memoria
Quanto zucchero ci vorrà per fare una banana?
Nessuno può impedire
nessuno può sapere
anche perché nessuno è presente in quel dunque
quindi nessuno fa
ma cavalcando il flutto del verosimile aiuto mi ritrovo nel vestibolo del mio encefalo
quando lo strizza mi chiama dicendo
Caro signore lei è sano come un pesce malato d’ulcera pluriglicemica
con puerilità semi defogliante incompleta di semafori acustici
e feritoie per gli spari al nemico
Alche mi schernisco poiché il viso gli brilla ancora di tenerezza immacolata
e aspettando Ernesto Psichevara mi scavo la fossa
quella nella quale collocherò in seguito dodici uova di airone deflorato
 L  E     U  O  V A     S  I     S C  H  I U  D  O N  O
 Un’incursione di panico con imboscata mi prende alla gola
imperlato e imbibito di sudore artico rimango immobile di paralisi fissità
Certe mie utopie
quasi tutte
cadono in disuso
il terrore scala di gradi la mia febbre massiccia in tesi non dubiti
Non so più scrivere il mio nome
nemmeno al contrario
neppure il cognome
Non vivo
non scolo bottiglie
non ascolto l’arte dei suoni
non confeziono più barbe simulate
non ingozzo siringhe
non stornello più la cantica d’Ernesto
non manovro più pistille sparnanzate
non faccio feci
Stipsi pianificate a tavolino usurpano di dolci e ariose fragranze le mie stanze del mezzodì
Nomi svariati solcano un ponte nel lontano marasma denominato Mammata
schivano pietre e bufali fuori dalle rotaie
ardendo adagio
qualcuno chiama
altri non risponde
l’epilogo è garantito
il principio non si sa
 Ernesto soggiorna in una bolla di spuma da peli
i suoi pensieri sono eccellenti smaglianti geniali
ma purtroppo per lui non pensa mai
all’interno della sua bolla ha tutto
tutto ciò di cui si può aver bisogno
anche qualcosa di cui non si dovrebbe aver bisogno
anche qualcosa in cui scaricare il bisogno
insomma ha di tutto tutto
una brocca d’acqua vuota
una spiga di grano tenero vuota
una pelliccia di baccalà
un cesto di vittime illese dalla sua crudele comicità
vuota ormai anch’essa
ultimo
uno scrivano fiorentino senza peli sulla lingua
Nella bocca di Ernesto vige sempre il coprifuoco
un sapore stagnante
amaro
da secoli ha invaso anche la sede del giudizio universale
che ancora deve spuntare e fa un boia male
un sapore amaro come di shampoo e balsamo al duepercento e ha paura degli aghi
Nella sua casa nulla è spigoloso
niente di tagliente
niente di piccante
tutto ha forme tonde
tutto è liscio tranne la sua faccia da cacciatore di caciotte
per questo non dorme mai in casa
s’appollaia sul suo ottovolante privato arrapato a destra del piano montano
col pertugio anale cinguettante al di fuori di certezze primordiali
è come se flirtasse col destino
tutto quello che gli capita è fuori rigo con falsa riga di sudorazione
cancella tutti i ritratti di sfacelo che ha immagazzinati nel file biologico
divulgando insani fastidi prorompe in insoliti ritmi tribali
tirando fuori la lingua per cercare di bere all’amara fonte della realità
Il militare sta facendo di tutto per liberarsi della bella
senza soddisfazione suona il flauto tutta la notte
cercando invano delittuosi pertugi stellari
per lui in questo momento di vitale memento
 La voce del gracchiofono suona sommaria a quest’ora tarda
Il crepuscolo ha inebriato di rosso i cadaverici palazzi in miflex della periferia
dove non sono ancora arrivati i proiettori mentali di notificazione
Non servirebbero in ogni caso
poiché da quelle parti ancora non esistono gl’installati
i riceventi
gli integrati
In quei vicoli
in quei cunicoli di bianchi giganti mattoni
vivono disarmati i fuggiaschi
la feccia
lì vive chi per il grande sistema non è degno della libertà civile
la prigione della città
la mensa delle epoche
dove si nutre la storia e caca la memoria
ridicoli senzatetto apprendono i postumi dell’infinito nel bagno del padrone pieno di lavandini
sfiorando pollici di basso volume
Austeri degustatori portatili di parvenze miserrime
polifosfati ingigantiti dal gusto apostrofino di stilettate performazioni ipnotiche
Anche qui la primavera assume aspetti da conquistatrice
Barbara strumentazione microsomoidale dettata da ulteriori sgravi psichici
stretti in parallasse con circoncentrici tipi maschi a sfondo parasessuale pluriconcentrato
su masmediologici ammassi di plutomarmellata cosmica
con sintesi bilaterale obliqua e yonizzazione parafrasante
Per degustare tale rarità di misfatti si dovrebbe tornare all’età della sfinge paralitica
tra le virgolette piantare dei semi di puntevvirgola
poi stirare il tutto a centocinquanta gradi superiori alla scala Richter
Ma
Purtroppo
lo sfintere cosmico è costellato di Asdrubali saltalenanti con mitigazione infinitiva a visualità totale
spero tanto che un giorno mi farai infine il caffè come piace a me
 Come dico io
come dicevo una volta tanto tempo orsono
tale spinta di generosità ambigua a fissazione pluriennale è
a volte
non sempre
quasi spesso
spesso sempre orsù
ovvia avvolte delle volte infondo infondo
sintomo di fissità planimetrale con sconvolgimento misurato
ma sempre al dente
 Certo che aspettare Godò alle cinque di mattina
con l’aria che puzza di spettri e una sistemazione della faccenda cosiddetta alla bellemmeglio
Se non altro per quei pochi caratteri di lucidità
che a volte rimangono a chi fa surf sott’acqua a quell’ora di mattina presto
Mi dispiace baby
non c’è tempo per la favola di mezzanotte
 E pensare che a volte mi chiedo anche
Quando torniamo al punto di partenza che ho perso da tempo il cammino?
Nessuno mi risponde mai
Forse perché cromosomi scansafatiche somatizzano tinte nuance degradè
balbuziando in me come melliflui saltapasti della domenica nella riviera delle palle
Lui pensa che niente al mondo lo farebbe smettere di pensare
che nient’altra qualunque quintessenza
quantunque quel quale quantitativo quorum di braghe vergini gli farebbe cambiare idea
E così prende la palla al balzo
comincia a menar fendenti alla vita che si dirama in mille congiunture improbabili
Impossibili ma accettabili
Accettabili ma con riserva
Che il caso voglia non sfruttare a corto sospiro vacanze proibite appese alle palle di fine millennio?
La pialla non scava una fossa si sa
ma il cibo fonte di strane strategie mondiali è strategicamente stato mangiato tutto
tutto da poche bocche abituate a cibarsi col culo
Col senno di poi
Cade la fiducia come neve
è finita
È la morte lenta della vita
 Il miracolo invece avviene
quella sera stessa al declino della luna alle falde del monte Profumo
Lui scende giù rotolando
mentre rotola rolla una sigaretta al rosmarino
Nessuno ha voglia di fare il tè
Quindi bussano alla porta tre imperatori che rifilano gratis effluvi
Cantici
Salmi
Inni
Laudi
Stornelli solenni
Putrefazioni a buon mercato moralmente alterato
liquami
marciumi
fradiciumi
malcostumi ed altri marchi e mutazioni allegoriche
tutto gratis
Nessuno vuole comprare qualcosa e li mandano a cacare
Ma poi i dubbi rimangono ugualmente lo stesso
come fare?
Dove guardare?
Chi espletare ai propri orifizi?
 Siffatto quadrilatero è fuor di misura stretto
mi va ponderoso l’elmetto
Esclama Ernesto Psichevara al simposio del sultano Doutdes
con lieve cardiopalmo
Nessuno ha bubbole da menzionare
nessuno le racconta
Ernesto apre intero il cervello
scopre nell'interno tutto il potere
ne lascia un po’ per sé
divide il resto tra i comandanti di plotone
La via è tremenda
nessuno si nasconde ormai più
Il vino seda i pensieri
l’aceto insaporisce gli arcani
nel Perù nel frattempo si viaggia a testa in giù
ma qualcuno comprende
il trucco è tutto nell’orgoglio
Ernesto discende allora ai piani inferi per una colazione di lavoro col bel Zebù
lo riceve con tutti gli ossequi nella grande aula dei caminetti smorzi refrigeri
che si colloca tra il girone degli oberati e quello degli immutabili
poi traslocherà
Sprofondati su abbondanti capezzali capezzoli di peti con merletti marroni
serviti da anime posticce griffate
U.S.A. & Jet
Il bel Zebù è cariatteriorizato dai suoi cariatterioristici mustacchi rettilinei
i suoi altrettanto occhi rizzati da moicano astruso
orecchie sempre e comunque scaltre
e manco a farlo deliberatamente
capelli invasati da una forma languida di uniformità apostolica
sintattica e melodrammatica
Ernesto non sa più che fare
insieme hanno debellato il maldimondo
Utilizzando pasticche di condensato lunare
ma i lunatici
inappagati
cigolano agli angoli nel corso dei tornei intercontinentali di calcestruzzo
un gioco giocato in velocità due piani più sopra nel girone dei koglioni kolla kappa
Per quanto tempo ancora ci dovremo contentare soltanto delle medaglie al dolore?
Per quanto tempo dovremo continuare a vincere all’ombra delle grandi locuste cicerchiate?
L’ansietà coglie Ernesto tra capo e collo
senza meraviglia si cala le braghe e si mette a stuprare l’orologio da polso che Belzy ha in mano
senza provare peraltro alcun tipo di contraccambio ambientale
dicasi Triciclaggio
Perfetto
Grida dall’alto dell’alveare l’ape regina madre scopennandosi il re-padre di due bei pargoli coronati
poi mostra una foto e dichiara
Queste sono le mie perversioni
stipare nello stipetto vicino agli altarini bleu
Dalla vetrata del cranio s’intravede la sua voglia di vita
greve e melanconica
colare giù dagli occhi pitturata d’avorio
Ad un tratto nell’aula dei caminetti la temperatura aumenta
questo non impedisce di certo a Psichevara di bruciare le tappe
ha in testa sempre lo stesso motivo fisico-musico-lisergico d’acquisto in Messico di sottogamba
S’alza di scatto
allaccia la patta e urla allontanandosi dal Bel Zebù
Arriverò per te fino all’orlo del tempo
Scavalcherò l’orizzonte degli eventi
Pescherò reflussi gastrici convenienti
Grazie
Urla ridendo l’altro
facendolo sparire in effluvi d’incenso allo zolfo di raganelle che usa solo nelle grandi occasioni
 è tutto così veloce atroce
la piana della foce riflette oro zecchino
I lupi seguono il primordiale odore
Un neutro a quattro zampe beve acqua sorgente a zampilli dall’antica fonte delle illusioni
Le pietre levigate dal tempo non rispondono più a tutte le domande
genuflettono atroci vandali allo scemare del vecchio mondo
il primordio odore da uno squarcio a carne viva
regalo delle pingui genti che scottano carne umana prima delle battaglie
per procurare carne umana da mangiare prima delle battaglie per procurarla
huuff!
 Ernesto si ferma di colpo
la luce del mondo illumina la notte
al confine fra cielo e terra negli ultimi bagliori del giorno si scorge il profilo del naso di Caronte
leggendario traghettatore di capre e cavoli di cui questi ultimi solo a merenda
impresso da immensa mano sul massiccio che sovrasta la piana
Lui è forte
ha l’arma
Nel Pleistocenatomangio è il più forte lui
ha l’arma
ancora
Mille Jene su di lui s’avventano frignando all’unisono
ma lui è il più forte
L’arma è un visore a raggi obliqui
L’arma stordisce gli utenti colpendoli nei punti encefalici del corpo
L’antico miraggio della pianura fisso là nei secoli
come pietra scavata nella roccia
le immagini della grande battaglia
Dopo
roso il naso di genti imperturbabili
improbabili marasquen genuflessi
prostrati-odiati all’ombra dell’onda torcono viscere bevendone la linfa
Chi paga la cena?
 Suoni infami stordiscono il cerebro
non è più lì
non sa dov’è
non sa perché
Ernesto s’alza dalle nebbie
attraversa sbadato psicosomatismi infetti d’innominabili oblii
mentre pusillanimi malfamati usurpano e devastano strade prelibate
apparecchiate per l’ultimo banchetto d’inverno
Qualcuno deplora i rotti piatti sporchi
Piatti in meno da lavare
Gridò Miranda dal girone degli indaffarati
 Fiumi di parole
Invocazioni
Imprecazioni
Maledizioni
Invettive
tutto è adulterato senza limiti di prefisso
Sconvolgenti pronomi migrano a nord verso borghi tristi
fatiscenti teatri di agghiaccianti sodomie con veterani porci della parafrasi
 Alcuni inzuppano nel piatto dove sta mangiando il corto renudo
rivestendolo a satollamento per il futuro giorno dell’amara realtà
 Perversi migratori riappaiono dal sud e investono in fondi di caffè
per ripiombare subito dopo in un sonno profondo già durato millenni
e millenni sarebbe durato ancora senza rubare tempo ai preti delle corti
 Ernesto sbaglia tutti i quesiti stradali
ma si prenderà la rivincita il giorno del suo ennesimo compleanno
Ernesto sbaglia tutti i quesiti primordiali e da oggi non si fermerà più
 Prodotti chimici
è scritto sul pacchetto
Fuma ingordamente
Magnifico
Splendido
Intrigante
indossa un abito di melliflua seta
sfrega tre volte la lampada
ne esce fuori uno sciocco elemento di scarsa entità
intenzionalmente perverso
La storia poteva anche concludersi qualche paragrafo prima
ma lui non folle di eventi eclissati continuerà per anni a tracciare il suo nonsenso
Finisce di riscaldare il piatto di cipolle alla fragola donatogli il giorno prima da un pensiero maldestro
sì nutre dei suoi effluvi
Antichi e fiacchi maestri allettati dai primigeni puzzi marciano alle porte del suo benessere
alcuni corazzati di sacrificale deismo
altri nudi
fino allo spasmo
Il freddo ghiaccia la brama di ammazzare
 Suoni tribali inondano la vuota stanza
nessuno sogna più
forse è un bene o forse un male doveroso
c’è negazione nell’aria
troppa
superflua
oltre la misura
 Una catasta di pagine è sospesa all’albero della pastasciutta
I peli del naso arcuano tutti verso levante
dove il sole ha appeso ad asciugare le nuvole
Le tre anime aspettano da anni questo tempo
Novant’anni durante i quali annose solitudini hanno calpestato tutto ciò che c’era da calpestare
inclusa la terra
Durante i quali l’olezzo della carne bruciata ha lordato la parte intima dei pensieri
anche dello stomaco
Durante i quali è considerato lusso mondare i cenci della servitù glebea
 Il tempo s’è vestito di muffa
condom usati
arachidi e Tele d’aracna
 Le femmine delle tre anime sovrappongono le gambe sincronicamente
posizionandole come donne di Picasso
Vogliamo più tempo per rammendare la noia
Dice una con voce stentorea
Non vedono arrivare l’uragano dalla faccia plumbea alle loro schiene
Faccia piano
Dice la seconda donna della seconda anima
sempre stentorea ma con un punto e virgola in più
mentre in cucina miseri miserrimi scoreggiano del dopopranzo affumicato
fumando sigarette deodoranti
L’uragano turbina loro intorno
non li colpisce
va per la sua strada e non lo incontreranno più
Ernesto ne approfitta
s’issa di scatto
ottenebrato dall’ira evoca
il turpe
uno strampalato idioma postnaturale
All’inferno delle nuvole dove tutto appare postumo
qualcuno ha deposto fiori screziati
gialli con risposte di flanella e foglioline verdi
bagnate da punti interrogatori
maculati
con circonvenzione d’Incas
Ernesto accusa alieni brividi
ricolloca con premura le sue calzature da pagliaccio ricotta
si mette in funzione di riconversione
Il villaggio dov’è fuggito è lo stesso borgo dove vive la vecchia della vetta
intitolata anche Mammarinale
tutti gli edifici di codesto paese hanno colori perdenti
nel senso che durante la pioggia s’intenerisce loro il muscolo cardiaco
dissolvendo ogni lacrima colore
sul davanti hanno un giardino pendulo
con la stradina bianca di breccie bianche
di lato virgulti alberi dai frutti agroamari
e vicine misteriose appese avanti ad ogni porta
rossa
ordito lungo la siepe d’astrusa bontà
fluisce un silenzio appagante ornato frequente di pietà ricorrente
Lontano
bufali impazziti serpeggiano itineranti verso le loro anguste e refrigeranti tane
All’interno del paese
impercettibili spazzine invetrate
tinteggiano di lucro immensi soffitti biancheggianti
dove saltimbanchi prelibati schivano di lato malaffari ricorsi sociali
sorseggiando un caffè scoperchiando la ciarla di infami reminiscenze accidentali
 Caronte sta stuprando un fico d’India in questo giorno impermeabile
quando si rende conto di avere terminato gli obbrobri
va di corsa trafelando nell’orto
niente
Fa le scale due rampe alla volta per sgusciare in soffitta dalla porta del mascarpone
Niente
Torna nell’infero piano
in cucina cucina una pentola
guarda nella dispensa
la credenza è finita
la marmellata è scoppiata schizzando ammorbiditi frutti sulle membrane ottiche
Non sa più quali seppie pigliare
Nello sgabuzzo l’aguzzino perde il filo e signoramorte completa la lista
soia brillante
finita
mistico edulcorante
finito
virgole spazientite
finite anch’esse
fialette di nostalgia
due pacchi da cento ognuna
sono rimaste
forse
nascosta in un angolo un po’ di dolce brillantina a tavoletta
ma va di fretta
per di più gli va pure stretta
 la notte non dorme nulla
il pisello sotto il matarazzo è troppo duro
quel diodinverno ha bagnato il suo cuscino con lacrime cromatiche a bioritmi caleidoscopici
La fanfara suona all’ora di pranzo
l’amico vuole che seguisselo
Nessuno ha più dubbi
è molto scontroso mistificatore
all’occorrenza abbastanza appuzzolentente
 La cena della sera prima è stata un vero supplizio
fagioli nell’anticamera del cerebro
caffè in cantina dove i miti suonano il blast
poi continua con un sigaro in soffitta appollaiato sulla slitta di sego al rabarbaro
 nel giorno di festa
Mentre la fanfara suona
lui getta margheritine di primavalle sui passanti
i passanti ridono
oh! Come ridono
 Il supplizio si estende al mattino
quando per colazione
fatta come sempre sul suo letto misfatto
esige tè
caffè
latte suino
tutto macchiato
come il suo encefalo bacato
e rigorosamente
un succo di carote serafine
 Confesso di non sapere più quello che brama
ma di sicuro
un pensiero leggero gli vola intorno alle orecchi
ogni ora
ogni minuto
ogni secondo
ogni giorno in più che passa appollaiato sulle mie spalle comprimendomi le sfere
Un pensiero che non costa assolutamente nulla
un pensiero adrenalinico
attecchito alle sue membra come una radica loquace
lui lo chiama morte
 Fuori
il sole cade a brandelli sulle cose salvate
rimaste immobili dopo l’uragano
Le piante guardano
Parlano
tutto parla
tutto da il meglio di se
tutto accade
il fiume lo sta portando via
cerca di aggrapparsi a qualcosa
tutto si spezza tra le sue mani luride
Lascia che il vento gli pettini i capelli
taglia i capelli
gira le spalle al muro che gli da le spalle
vuole cedergli qualcosa
il muro
forse ce la fa
Perpetua
l’unica parola rimastagli vicina
anche lei sta fuggendo
Pessoa brucia sui fornelli
Niente in questo tedio giorno rimane
niente ha intenzione di restare in piedi
Tutto s’affloscia con due effe sulla sommità dei pensieri dubbi
Tutto seduce cancellando perspicaci bla mentali del cazzo
Allora senza rimpianti decide
Recide
scaglia alle ortiche le tonache del vento
non fanno altro che fargli rimpiangere quello ch’è stato
lo stato delle cose
Trafuga le ossa un dì di novembre
dall’ossario primario nella cappella della novena al Bambin Devastato
il picchiatello per intenderci
Strafatto di dottrine imposte se ne va il giorno stesso
Inseguendo la follia smarrita
Non ci sono più legami
spenge il cervello alle settunquarto smettendo così di direfarebaciare
Orbitano nell’aria pensieri effimeri
Qualcuno si rovescia dal quintunesimo piano di una grave malattia frettolosa
La graticola sfrigola all’estremità di una pozza d’acqua colorata diblù
mentre i monaci sono in ritiro spiritoso
Nessuno gli toglie dalla testa che prima o poi ce farà
è un pensiero fisso
Un pensiero fesso volendo
Qualunque persona mi dia del visionario
sarà appeso per le palle al cielo più alto di tutti i cieli
urla
 Ma Celestino non indossa nobili visioni stanotte
sennonché
con univerbazione e raddoppiamento sintattico
una gli pare degna di nota
l’orologio abbracciato al muro segnala un’ora qualsiasi
un’ora banale
la solita ora
una lacuna madornale per questi tempi di subbuglio ancestrale
 I minuti sono tanti
Svogliati e pedanti
li dispone delicatamente in una pentola verderame
vi versa dell’acqua diluita al punto giusto
con bromuro asettico ad effetto ritardante
Dopo un po’
Ne estrae una melassa
dolce
melensa
docile
inconsistente
e anche balbuziente in certi momenti della sua giornata
la spalma su tutte le pareti della stanza
otto in tutto
per adeguatezza ascetica del prototesto
la stanza si trasforma in un ciclone che spazza via tutti i suoi perché
tirandosi dietro anche i poiché
gli affinché i giacché i cosicché e i talché
i datochè sono indecisi
rimangonoo soltanto i percui
ma si sentono spaesati e oltraggiati dal frastuono stuprante dell’uragano
ormai gocciolante dall’albero delle titubanze
che da frutti obsoleti e intrinsecamente malversi
 Intanto
dall’altra parte dei colori
qualcuno batte a macchina astruse parole d’esplorazione
rimasugli di vita
argomenti mancati
stralci di petulanti angoscianti clisteri claustrofobici
 Con le forbici taglia tutte le “O”
buchi neri che risucchiavano i concetti
Qualcosa succede
lui non da niente per scontato
nei suoi occhi brilla una luce impetuosa
mirtilli neri calpestano le sue pantofole da mezzanotte
voragini color pelle verrucano le sue tre chiappe color amaranto
si sta accingendo a ingurgitare il suo esimo caffè bianco alla bambagia
quando un dubbio l’assale
 E se fossi pazzo?
 Nudo e antico
traslato al mar della tranquillità
quasi sonnolenza che divora ambiguità
fino alla fine della settima lunazione
Amorfo sistema di intravisione uterina differenziata sul tema natale
Ogni volta che apre le orecchie un verso famelico lo attanaglia
curvando in forse la sua ferrea volontà
Bighellonando sul piancito della mera crudeltà
affievolisce ognora la potenza del suo spazio vitale
Perdendo la ragione da il meglio di sé
Aggiunge acqua al fuoco prolifico e non trova più il verso
lo ha perso
nel mare dell’abnorme
guadagnando peraltro uno splendido nome
età
 La mia mente muta
Comincia a dire
Non cercatemi
non trovatemi
Per obliare principia a sorseggiare cappuccini salmastri nel monastero di Madre Tardiva
In altri ambienti
in altri frangenti
sarebbe indubbiamente riuscito a far smarrire le sue tracce
stavolta no
stavolta non sarebbe scappato
stavolta avrebbe sfidato la grande parabola
 Centodiecimila orsi ballerini cadono dalle nuvole
e perdono l’oriente
perdono
 Così
intorpidito nei pensieri più folli      
rinvigorito nella verde aura della saggezza a tempo
principia a cercare paziente negli spazi dietro l’angolo
il sipario si apre su nefaste visioni
su ancestri coglioni che valicano la notte in volo radente
l’aria riempie lo stato di cose mancanti
Prorompe nella stanza dei balocchi ma Alice non c’è più
ha perso l’ultimo treno per la colazione del mattino
si butta giù
Lo sconforto la guarda di soppiatto
il verde ha invaso i suoi bulbi
vicino all’amarezza è sopravvissuto solo un albume d’ovulo rinsecchito
Guardandosi indietro scorge l’autostrada per il futuro
non vuole più saperne di fighettare pei borghi con abiti sopraffini
certezze per i quali non trova più
Porta con sé una coperta di caldo profumo colorante l’accento mutante
Per niente al mondo avrebbe lasciato stare quel vecchio
che alla fine cesserà di pulsare comunque
Non pazienta più padelle unte in frigo
Anticorpi cruenti smaltiscono il pensiero
flirtano tra loro all’interno dello sfintere cerebrale
sposando l’antica causa del vello materno
procreando miseri petulanti spazio-frutti
guidati a distanza da ciò che si pone a lontananza del diverbio tra i sensi
silenti marciscono di vergogna
amara vergogna
 Se di più non si può lasciatemi fare
se di più non si può lasciatemi giocare
il gioco che per niente al mondo lascerei giocare ad altri
E lui
misero perdente
s’accinge a decollare
scomparendo nel buio colorato d’amaranto
spingendo verdi cammelli dalle gobbe flaccide e i capezzoli schifati
Ora o mai più
Pensa
Scrittura bollente cola dalle sue mani bianche d’avorio quasi lattice
Ricchezze celtiche
dardi salaci
sguardi pudichi
questo rimane nella sua larga borsa di mamma orsa
Adesso sono stanco
vorrei dormire sotto un albero di larghe vedute
in riva a un lago
in un giorno di maggio
Tracotante s’infuria
come belva rudemente pone
Qui giace
in onor di giusta causa
colui che non stanco di inversi fati
strappò il cuore al più alto degli altari
E nulla più
 Ora lui non ascolta
è immerso in pensieri sfilacciati
scollegati
nuvole in addensamento
Gli occhi fissi per sbaglio sopra i miei
riesco a vederli i suoi pensieri
come una proiezione olografica
una vestaglia da notte bucata
bianca con su spasmi filettanti
che cammina senza un corpo dentro
niente all’interno
fluttua
s’incendia
prende fuoco il sogno
diventa una pentola a pressione che fischia come un somaro
Fuori dai binari il treno
va a cozzare fragorosamente contro il nulla
che s’infrange come una vetrata
dove ci si sarebbe potuti specchiare le meningi incartapecorite
 Il sogno si trasforma di nuovo
chiudendo i rubinetti s’accorge di non avere più germoglianti spazio-frutti anodali
con inqualificabili viceversa intercambiabili
Tutto è buio ora
nessuno si vede più niente
però si sente con l’anima
il naso
le orecchie
che la grammatica sta stropicciandosi i tarzanelli
cercando uno sbocco fino alle emorroidi del mattino
quando il sole
a volte
fa capolino dalle perturbazioni melmose del suo encefalocranio
Di quì a poco ci sarà un acquazzone zozzone
Non sente più
il sogno si sta annebbiando
quindi più niente più
Si sveglia dal torpore
inaudito percorre a stivali
nudo
l’intera stanza
scartando gli angoli spigolosi
cercando minestre per vari arrotondamenti bicasuali
sulla percentuale onnivora dei carnivori cannibali e cannabinoidi
ortofrutticoli del mercato delle sei
Nega tutto
tranne il fatto di non essere nato
ma questo gl’inquirenti lo hanno già capito da anni
Il fragore di una mano sola esplode all’improvviso
prendendo a schiaffo il suo avvocato prediletto
che tiene come tappetino per gli ospiti da pranzo
quando arrivano le nuvole colorate di personaggi inquietanti
Per nulla al mondo gli faranno cazzare la randa
per una partenza limitrofa nei paraggi del pressappochismo di lì a poco
Nervi saldi ci vogliono
questo si
altrimenti i santi tutti ne approfitterebbero neisecolideisecoliamen
 Il grande condottiero apre la finestra che da sull’aia
c’è un esercito ad aspettarlo
quasi un milione e più e passa che scandisce cantilenando il suo nome
pressappoco così duepunti
Er-ne-sti-no
Er-ne-sti-no
E così via di seguito cantandolo
lui li riconosce tutti
giurotutti
di tutti ricorda il nome proprio di persona personale
e comincia a salutarli
u-n-o-p-e-r-u-n-o
Uga
Riccordo
Isiduro
Dedimo
Ulderetto
Vergina
Sgualtero
Gimma
Marpino
Piermaretto
Alby
Annibala
Bernadetto
Sigilfundo
Adinolfio
Rodomualdo
e tutti e tutti e tutti
Terminerà di salutarli due mesi dopo la battaglia decisiva per la conquista del Regno Munito
alla quale il suo esercito
naturalmente ovviamente
non prenderà parte perdendo percosiddire capra cavolo e fieno
ma tutto è perso fuorché l’odore
puzzano infatti tutti come lanzichenecchi imbanditi per il pranzo di maiale
 Vestiti a festa
per tutte le volte che hanno spalmato nutelle vergini sulla cresta terrestre a sud di Smirnefangulo
un ridente paesello ai confini con la Prostata
la regione appartenente al suo acerrimo nemico
rivale
avversario
nonché cannibale per suo gusto e abbellimento patriarcale dall’interno della porta di natale
dato che hanno perso pure le chiavi
Il cerchio si stringe presso le sei del mattino
si sveglia sul far tardi della sera presto
una ottima colazione con castagne seminude e via volando col vento
leggero come un macigno nel cesso
anticipando le mosse del suo futuro prossimo ventuno
 Si è spenta la sigaretta mannaggetta
Dice la ninfetta in bicicletta ritta sul manubrio davanti e coi fanali sgonfi
Questa notte i righelli sentenzieranno morte
Trangugiando d’un sorso il suo esimo wischi si accende un sigaro femmina
evacuando strane propulsioni cerebrali
 Finalmente il sole è al termine
è un lietofine stavolta
nessuno gli toglie dal pensiero che davvero sarebbe ora di tagliare la corda
appeso alla quale
Mandingo
sta esalando gli ultimi tratti
Mandingo
il loro cane nero
non è proprio quello che si dice un ottimo scrittore
ma non mi sembra proprio il caso d’impiccarlo
 Si sveglia
L’Ernesto
assaltando sopra percuote l’aria dinanzi a lui
medesimamente la porta con uno sdilinguo ansante batte
sbuca fuori immedesimando in un mazzo di fiori l’artefice dei suoi malanni alfabetici
che ovunque lo hanno perseguitato per una vita
forse due
 Huerto Jurtu Gonzales chiede il permesso d’entrare
l’altro nega perversamente dall’interno della sua comoda camicia di forse
che sempre abita nei giorni plumbei di luna vuota
ricordando le famose giornate magre della salita al potere di Pompeo Artefici
grandioso condottiero di pulman a metaprezzo mortadella inclusa
Lui
Huerto
entra di forza sfondando i ricordi
e non uscirà maipiù
Intrappolato da crudele fedeltà
intimorito da stralci di flussi rupestri
Jurtu
l’ergomante
sa subito cosa fare
si toglie i pantaloni
comincia a pulire terra
accanto a lui vicino
stanco e afflosciato
giace
pelle umana
riflessa dallo specchio di una vita quasi inutile
quasi stupida
quasi mediocre filastrocca dei tempi piccoli
pelle di una maschera usata
che avendo sporcato il piancito di grigia materia bigia
s’avvede
non piano
di avere sbagliato miscela logistica
 I raffreddori passeranno presto quest’inverno
il sole pare perfetto
La piramide al suo vertice si sta lentamente sciogliendo
Sgualcendo
l’orlo di nubifragi ancestrali ricorda che il peggio è quasi passato
ipotetiche vie d’affollamento cerebrale attendono
Dall’altra parte della coscienza intanto
nei mercati dei pesci piccoli
la folla si sta riempiendo di persone
misfattte e piene di loro stesse medesime
in parte
Qualcuno colpisce per sbaglio il bicchiere mezzovuoto
che per sbaglio cola strisciando nel bicchiere mezzopieno
provocando una reazione a catena all’interno della concezione di sé medesimo
ancora
un giardino di belle bevute
In fondo in fondo
quale mezzobusto si accorgerebb che lui è sì e no un alquanto capace rapace
pieno di mezzi se
ma
però
forse
chissà
Chi si accorgerebbe che non ha scarpe ai piedi
ma mezzitondi sfigati
scivolosi
smacchi
Qualcuno sta procedendo alla sua ventura
si sa
Altri miagolano di trapassi saltimbanchi con energrumi di sangue perdifiato
Ma
quale di loro è la vista più breve per arrivare al sole dei cechi?
 Per guadagnarsi la fiducia del fior fiore dei prevosti ci vuole Benaltro ci vuole
manco a dirlo
Benaltro arriva
a cavallo di un caval Donato
dondolante su sentieri erbosi
esplosi di praterie sconfinatamene combacianti con paradisi artificiosi di dubbio gusto
in onor di passata carriera e coll’orror della pace
micacazzi
 A quest’ora il calendario segna già le due e un quarto
in ritardo di due lunghissimi miserabili minuti sul treno delle nove
che trasporta bipedi molto sessuali
belanti sul perché del vagone ristorante
con nitrile alle poltrone e sacche per vomitanti assuefatti dal tempo
La sbarra si abbassa giusta giusta
sbarrando la stradina di campagna prima dell’arrivo della sua pornovettura da sorpasso virtuale
 Nella parte anteriore ha seni con capezzoli antinebbia e aureole allo iodio
Il tubo di scarico con precoci sfiati d’animo è solo fumo in più sulla strada
La sfiga all’interno del cervello pneumatico spompina rombando ogni volta che accende il motore
Di scoppio non se ne parla neanche
Ma la macchina va
gerundia antropofaga
con un occhio di riguardo per miliardi di percussioni monocromatiche
La sigaretta sì spenge
ancora
Magnitudini genuflesse di sigarette perpendicolari sono flesse sull’enorme specchio concavo
milioni di spasmi intestini intervallano sbraiti furibondi
mettendo sottosopra l’intero abitato della mente
per poi robotizzare tachicardie gonorroidali
anodialisi spaurite negli ospedali della grande pera
termodinopropulsioni
maniacali mimetizzazioni
mettono a soqquadro intere generazioni di pistilli
spavaldamente appollaiati sulla femmina di turno
Arcimboldo non da ascolto alle prestazioni armoniche
coinvolge anonimi omonimi di passaggio in paesaggi sprovveduti e sprovvisti di niente
 Flatulenza dell’essere
Il cammino è lento
la velocità appaga i suddetti spiriti
rimarchevoli
spergiuranti spergiuri
alcolisti benestanti conosciuti
L’oppio risolve le sue faccende pomeridiane
Alla terza ora del pomeriggio ha gli occhi lucidi per la commozione
ha visto nevicare al contrario
Subito si posiziona appostando il suo posteriore all’ombra dei suoi ridicoli dubbi
appestando l’aria con effluvi di satira psicoduodenale
inversamente proporzionale alla fugacità del tempo perso
Non s’è mai preoccupato di pensare certi pensieri
un tipo scaltro
senza grilli per la testa
che svolge la sua vita nei mausolei dell’ignoranza
I topi per signore
a spasso per la civiltà
prendono gatti da pelare
mentre patate bollenti stanno assiepate sui trumò dell’indifferenza
all’ombra del loro stesso sudore
 Rumori dal nulla
Crateri
infami solstizi
primavere inutili
cassette terminate
rewind
stringere l’avvenimento
I soliti ignoti fanno i militi davanti ai palazzi del potere
celebrando messe in suffragio
Silenzi addobbati di mistico candore dietro i quali si nasconde il vuoto
 La postilla cadente del prelato pelato lo scardina così dai suoi spensierati pensieri di mezzofondo
i piedi gli dolgono ancora
dopo l’insormontabile acrimonia della vergine otorinolaringoiatria
che termina il suo astioso lavoro scavando voragini profonde ai lati dei lobi degli apparati uditivi
in tempo per l’alba della mezzanotte e mezza
Stanco di una giornata di merda come non ne ha mai avute
Decide
è arrivata l’ora di far visita a quel vecchio uccellaccio moscio di Tommy R.
per gli amici
Thomas Raduno Girardi
 A quest’ora non c’è molta gente nel bar che ha l’aria di uno squallido locale sperduto
mentre è incastonato tra cinque grattachecche al centro della grande pera
Il legno ricopre quasi tutti i muri
completamente ammuffito
torto
Un manto di scacchi scozzesi
decorato da cicche spente e cicche masticate spiaccicate
tappezza l’intero piancito rendendo il lercio locale assolutamente sordido
Due grosse botti di legno scuro scoreggiano a stento
sotto una lunga spessa tavola di scolorito legno giallo
levigata da secoli di colossali sbornie storiche
unita ai bordi da farfuglianti sudori dell’ultima ora
lacrime rimpiante
lacrime rimorse
rimosse la sera dopo da un ulteriore carico alcolico
Tutto questo unito ai lati da due colonnine di finto marmo e finto stile
forma il banco del bar sopra il quale troneggia lui
Tommy R.
emigrato argentino per parte di madre e nonna a suffragio universale
un figlio di puttana di secondo grado
fuggito dal suo paese durante la guerra tiepida dell’ottantadue
è un tipico dal fascino attraente
riesce ad immergere strati di polifonica virtù in melma stravagante
per addetti ai lavori notturni senza un senso prettamente immediato
Il suo motto preferito è
Se vai in giro a mostrare i denti
prima o poi trovi sempre qualcuno che te li rompe
Nel senso che quantunq’io sia
primavera storia
massicciamente perduto
nei meandri della memoria del fottuto villaggio globale
in mezzo a tutte queste leggerissime merdine puzzolenti del cazzo
qualcosa di concreto sicuramente trova
come l’acqua del mare che evaporando lascia strati di sale
alterando gl’impulsi principali della mente bugiarda
che ci fanno vedere sempre la stessa persona allo specchio
la stessa per anni
identica ogni giorno
Poi guardi una foto e non sei più
  Meccanismi Cerebrali Primordiali
 Come farsi pipì addosso in cinque comode lezioni
anticipando i tempi
perdonando anzitempo il vecchio orologio a spronbattente che cavalca tempi immoti da tempi remoti giusto in tempo per la bava alla bocca di caramelle gustosissime al sapor di mutella
 Qualcosa mi sfugge
Dice l’uomo barbuto sedendosi sulla panca bianca di lacca bianca
vicino al bianco banco del bar
mentre Tomas Ray ricorda le tribolazioni passate
e di come è arrivato fin la
Col filobus
Dice
Sono arrivato finquà col filobus delle tre e mezza
  Vediamo cosa c’è all’interno di sittantacapoccia
Dice lo squamone all’altro interprete
perpendicolarmente riversato sul suofà ad ampia luce intestina
Si
Acconsente il secondo
non senza un certo malumore priapico
poiché lui ha una vertenza programmatica aziendalpsicoturistica in corso
Non hanno intenzione
questo è certo
di pretendere clitorifornimenti ad alte temperature
ma
ugualmente s’impadronisce di loro un’autentica giroletterarietà pneumatica
con pseudodivergenze adagiate ai piedi del midollo osseo
Scarso scarseggio
vezzeggio multiplo unidisciplinare
scrittura lineare di base
mistica adolescenziale sbiadita
ecco
questo era importante adesso
ricordare l’infanzia e poi dopo ancora su
su
fino ad un po’ più in là di adesso
Non è più capace d’avere visioni
Ci riprova
ancora
Gli ancestri coglioni sono appollaiati su due treppiedi a quattro zampe
accumulate in seguito a disastrosi conguagli mistico-temporali
 Non ha più ali
non ha più poesia
non c’è più rima
Ricordo
Visione
distorsione dalla sera prima
un minuto prima
un mese prima
Era
È
rantola nel buio in cerca di lumi
 Dora Infischio non ha più capelli da mettere sotto i cappelli per i quali belli non si è mai
per giunta le scarpe gli stanno strette anche senza calzette
Prelibati stipettai ne raccolgono orsù che non flaccide membra
menan per l’aia cani abbandonati
strani musi da gatti abbastonati
 Lumache allupate sul far del giorno lo risvegliano
vola l’aquila dalla torre
non passano più le ore
fermo il tempo
non sventolano più bandiere
il vento s’è fermato
nevica
Fiocchi di parole
lettere analfabete
Cerca riparo all’ombra del sole
Perentorio lessico
De testabile arrogante
Presuntuosi logaritmi asimmetrici con pedanteria ambulante
Gli viene il dubbio che esista da solo
Lui
Percuote raucedini stilliformi
Pensierisalassi maniacali per patetici riflussi
Si manca
S’accorge di aver dormito per anni
Sa
è cosciente
ma non riesce assolutamente a svegliarsi
Languide carezze gli sfiorano il viso e pugni allo stomaco in un sorriso
Perturbazioni intraviscerali
atmosfere non pianificate
fretta di andare
freddo ad andare
bere
perdere
 Due soli splendenti si avvicinano zitti zitti
di nascosto alle stelle
da mille anni luce non sono più soli
  Mestruazioni aziendali
cavalcavia affollati da masturbatori incalliti
orecchie piene
naso pieno
vino senza volontà
senza paragoni
coglioni pieni
voglia di spremere
limoni finiti
saloni sbiaditi
immagini affrescate
Parole squamate
Colori lussureggianti sapori
scorticati da figure rozze e blasfeme
Non più Dio
Una commedia senza personaggi
Personaggi senza una commedia
Personaggio senza coraggio
Penso che lui faccia finta di niente
A volte
 tempo
illusione
crediamo di muoverci ma siamo immobili
fermi in un’immagine senza tempo
passato e futuro diluiti in una spremuta di presente senza zucchero
I server intasati della memoria
Ctrl alt canc
 Per un operatore così scaltro ci vuole un premio
un primo premio
un secondo per volta
un
due
tre
stella
Saltando i pasti
i posti intatti
inoculando malvagi pensieri sugli astanti
verosicchè
nessuno avrà più il coraggio di avanzare proposte oscene tipo
catturare passeri sopra una polenta indurita dal dolore
oppure
scorticare formiche per assaporarne il fegato
le guerriere sono le migliori
o
infine
finire il tempo prima che lo beva qualcun altro
e poi non c’è niente di speciale oggi sotto il cielo
Il leopardo dorme supino sommando le agnelle
 perché andare dove non c'è niente quando si può ardire l'inabitato non luogo?
  Rifletti
Gli dice uno specchio insozzato dal nulla
non se lo fa ripetere due volte
ribollendo di rabbia finalmente riesce a vedere coi propri occhiali
c’è erbetta ai lati della frase
verde con striature di sogno
due ciclamini gelsominizzati imprecano a perdifiato vicino a un tombino di riciclaggio
prendendosi a pedalate
un camomillo si avvicina a metter pace
ma pace non è
Sopracigli mandibolari spargono pulci nelle orecchi
vecchi pidocchi scolpiscono segmenti d’anguria melinata
risparmiata la sera prima del pranzo di cozze
con smorfie di secondo grado e stralci di luna sulla narice destra
Comecazzoèmorbida
Dicono in coro
finché non s’induriscono i cervelli
Michelazzo scompare di colpo prima che la rima lo afferri
scappa nella sua stanza per vedere se il paesaggio è pieno
Lo specchio è seno
che fermo riflette
Ruba fiori dal pranzo di notte
lì avvolge nel sacchetto della salsiccia al gorgonzola finita
li porta a casa dove lo aspettano
in ordine di comparizione
due ansiosi postulanti atermici
tre fagociti lessi alla brace di dolci lagrime saponate
un funnambulo con la coda di paglia
un tergiversatore stitico con la sua amica Floppy
detta la Strinfia
a causa delle sue voracità improvvise al basso ventre
Ad ognuno regala i suoi fiori rubati
sprofondando come un porco nel bel mezzo del banchetto dice
Salve
ho fame
non mangio maiale
sono ebromuskat
per gli amici Famok
Sono nato
sto fresco
Poi scappa di nuovo come un fuggivendolo perpetuo
Il bar è aperto anche a quell’ora tarda
Pollici a testa in giù spartiscono le ore appiccicatesi per l’occasione sulla parete opposta
Acqua viva
foglie quasi morte
Per lo spavento chiude le persiane e s’addorme
 Ho troppo sonno per parlare
ho troppo stanco per lavorare
poca fame da mangiare
  Piteto si chiama l’ultimo della fila dei banchi
Gli altri si chinano ad abbassarsi mentre lui passa
Sente affermare che verso le cinque del mattino
ci sarebbe stata una rivoluzione sul terzo pianerottolo
secondo lavandino a destra
Cambia colore immediatamente
da blu diviene color sorella di merluzzo
che invece abita nell’ultimo scantinato
in via dell’estinzione numero cinque
L’estintore frena le fregole
tutti s’innamorano del fronzuto
un rasoio ha affittato un avvoltoio di quarta mano dipinto di giallo
con codest’avvoltoio avvolge rimasti ricordi ammuffiti sul sofà
per rivenderli al mercato dell’indifferenza
Dodici piatti restano sorpresi nell’aria
quando entra improvvisamente sbattendo la maniglia sulla porta a vetri dietro l’angolo
Il tredicesimo
un traditore di lunga data
poiché non ha niente da fare
gli bacia il guanciale
gli bacia
per nulla intimorito gli pesta anche un dito
gli pesta
Questa notte avrebbe portato in tintoria i suoi sogni
  Dopo il risveglio banchettarono a suon di campane azzurre
quelle dei risvegli sempiterni
Moscia nel loro fegato da merluzzi
la scrittura corre avanti con ramoscelli appesi alle code per confondere le tracce
In un vicino boschetto di meandri
sostano opulenti strani alberi dall’aspetto agrodolce
ma dal sapore si capisce al volo che lascino un po’ a desiderare
un cesso
inmenchenonsidica
ma veloce che la pagina è finita
In man che non si abbia
a perdere le chiavi
dell’appuntamento
gradirei che la storia continuasse in altro sito
in altro loco
in altro tempo
magari domani sera all’alba prima di cena
senza scarpe mi raccomando
a casa di un mercante di merletti a tempo
Tom bussa alla porta ricadendo in deboli flussi di luce
poi immerge le dita nel campanello sbagliato
cominciando così la sua candida solfa
contribuendo ad aumentare i tanti cazzi per la testa
scrive parole di fuoco
per l’alma dorata di suo fratello deceduto nella guerra santa dei ricami prêt-à-porter
 Giallo
misericordia
è diventato giallo come un limone questo barbone
servitore delle leghe dell’alba malridotta
che s’abbotta da mane a sera d’aria macchia e fuliggine leggera
nera
con due palle così
Nessuno s’accorge di lui alla festa del lutto perduto
sono dieci
le ore che stanno aspettando per poter svolgere la bandiera col mezzofico
non si accorgono
ma arriva la sera
e perdiana se fa freddo
Con un freddo così c’è da restare per forza coi piedi per terra
Per terra c’è un luogo comune che dice
Come
E risponde anche
Non c’è più niente da fare
Ecco
ora finisce la minestra
E il saltimbocca fa un gesto da sordomuto
finendo la serata accartocciato sul trespolo dell’amore
e Gertrude è simpatica al primo sguardo
ma rimane di stucco ascoltando l’oceano
Da bere è finito già
l’aranciata è da trasformare in vino di coccio
Affrontando lo sguardo a viso aperto
è Tomas
che in mezzo al folto tira più di tutti
mentre l’universo è sfinito
troppe stelle da lavare
troppa merda da rifare
troppi buchi da tappare
Vetri in frantumi diffondono l’aurora e domani non c’è scuola
ne lavoro
né perdono
non permessi
niente sessi
solo fronzoli sconnessi
 Minuscole particelle programmate nell’attesa di un giudizio primordiale
conseguenze cosmiche di un assalto temporale
orifizi anali
contemplazioni oniriche
Ritmi cardiaci dilatati da un aeterna-mente by-pass sincopato
Streghe venture prossime
futuri anelli di contenzione
animati da scaltri difetti dionisiaci
specializzati in normalità relativa
Cosa aspetti
Disse Nero
A volare nelle fauci della verità
Dopo di cui si leva i laccetti che tengono legato il cervello
parte per nidi assolati
Inizialmente ha voglia di farfugli ma
loquacità e permesso aurifero fanno di lui la stanchezza in persona
Ogni volta sembra facile averla afferrata
Eccola qui
ci sono
ci sei
ti ho preso
il rubinetto è aperto
vai
Poi perde colpi
si rifugia in mandragole dorate
allori superflui arrostiti
immediatamente carbonizzati al calore insopportabile dell’incertezza
Menate di pasqua natale e ferragosto
lavoro lavoro lavoro
noia
Non t’abbandoni più a vivere
non vivi più d’abbandono
Cerchi cerchi cerchi
quadrati rettangoli piramidi
animismi superati
avariati avanzati
trigonometrie innocue
farfugliamenti tripponi
Poi
Dove andrai
Ci sei seduto sopra
schiacciando tutto il chidovequandocomeperchè
Perché
Perché tutto è nascosto
Perché tutto è offuscato da sparàgli circonvoluzionari del cazzo
acquartierati in fabbriche in disuso
disossati al termine d’un banchetto loquace di pasqua
a primavera dell’anno che morrà
Punto
Poi
dopo le dodici e quindici
sull’operato centrale nascerà un loggiato di tribali fortezze
di proverbiali mantidi e nefandezze varie
merda
Sotto il loggiato
quadrupedi galoppano accanto a siffatti volumi
s’abbeverano
sì nutrono
sì vestono
sì sparlano
si vergognano
sì svergognano
dopo aver mozzato teste di papaveri addormentati
sotto un cielo di diamanti cherubini
disfatti postumi
aspettando un muro cada addosso
senza il tempo di chiedere ancora una volta
per l’ennesima volta
perché
Scrivere abbattendo muri
virgole e punti
sono a posto
apposta per vergognarsi di noi con supposte presenze nefande
tendenze spericolate
passare al setaccio tutto
Tutto passare al setaccio
Orgoglio a malincuore
Ultradotati maschietti scoprono femminucce in tintarella abbinate a scarpe color cacca
ispirati sproloqui esplodono
Il Dio dell’iniquità provoca traumi insensati in tutto ciò che si muove
e spara a morte su false ipotesi
 Ikonos ha zampe di quaglia
le sue uova sono squagliate
Le luci accese del soggiorno danno la vaga impressione di essere sopra un disco nuotante
circondato da scomposte misurazioni trigonometriche
a fior di pelle
sintoassioamatiche liquefazioni
Chi è
Mi domando
Quell’uomo con l’apostrofo e un accento sull’occhio sinistro
Chi è
Ma è semplice
Rispondo
Cazzonesò
 Poi
alle cinquequarantacinquequattrosecondi
un paradiso malgascio mi colpisce di striscio sotto l’ascella centrale
a quest’ora è ora di cambiare l’anima
Tutto sembra più buio
compreso il buco del cesso
Per quel poco che si scoprirà
anche lui ha deciso di trionfare d’amor proprio
ricompensando misfatti acuti e arguti nelsensochè
Il giorno dopo vivrà due volte di seguito l’alba del diciannovemillesimo giorno
risorgono milioni di perdigiorni che hanno trovato rifugio sui filococchi del tram che va in città
In piazza incontrano un patativendolo che fuma merluzzi avariati in una pentola a mo’ di pipa
Donne al fiume lavano lenzuola strappate
condendo insalate acide con piogge sparse
nuvoloso sulle regioni merdentrionali
con sporadici addestramenti anali e marimossi cazzinostri
Dalla mia piccola finestra sulle visioni mi chiedo
ma chi glielo fa fare di farsi prima di fare la prima comunione la seconda volta che veniva in città
Sempre in tram s’intende
Per caso ha uno stafilococco sui baffi
Se così fosse avrebbedovrebbe fare un saldo indietro nel tempio
proprio lì
dove si prega il dio delle melerancide
Scusa se mi sono permesso di permutare compiti che
Per mio vero e proprio sollievo non sono proprio miei
 Brunilde cerca
Guarda
Espone
Dispone
Esplode
Ma
poi
Al dunque non trova mai il capospago
Quindi
non ricordandomi da dove vengo
cazzonesò dove vado
Per questo si spoglia dei suoi lutti
distrugge i suoi patti segreti
spacca tutti i piatti della casa in testa a quel lombrico moscio senza chiesa
senza squola con la qu
con un paio di baffetti cinciripini alla Allexander Pollodallema
che è poi sé stesso luimedesimo
Poi senza preavviso alcuno si rizza a sedere sul letto
i capelli ritti
gli occhi orbitanti
il naso camuso
le orecchi no
è diventato paonazzo
Grida tuttodunfiato
PerfavorelevatemiditornoquesticalziniallalavandagrecasonoallergicoaimaialiGRAZIE
Poi chiude la porta dietro di sé e ascolta musica per tutto il tempo dopo
 di soppiatto sgattaiola sgusciando in cucina
si avventa sul tetto del barattolo di cioccolata al cocco di mandorle
dove gia bambole sgonfie spompinano benestanti signori di mezz’età
 Però inmenchenonsidica cerca in mezzo
qualcosa c’è stato un tempo
se ne accorge dai rimasugli di vergogna residua
Quella non si può mai bruciare sui roghi perdio
 L’altro resta lì vaporoso
Sonnolento
Corposo
Digitale
Manuflesso
Genuflesso
arcaico capitombolo umano
diverse qualità per tutti i rischi di gratitudine
perverse sensazioni di grattacapi mattutini
 Pertutti è un gioco sadico
Pertutti è un genio
Pertutti è il padrone della città
Da qui comincia la sua strana vita
dal nome
Perbacco invece è il soprannome di Giosuè Scannapopoli
detto Saturno per la voglia di fragola che ha su tutte le certezze
 è così che volto pagina
All’improvviso
Arbusti di selvaggia maestria svelano segreti di angusta poesia
nei libelli impalmati all’alba di ogni primo giorno del mese
per rientrare nelle spese
naturalmente
 Non tocco niente
lascio tutto come sta e me ne vado da solo
non mi volto neanche
guardo dritto
tiro dritto per la lunga autostrada bianca
Il filo rosso avanti a me si spegne piano piano
M’importa una sega
proseguendo vivo
 Il vino che ho in tasca mi carica di elettricità che riverserò poi nel mio stomaco
Cavalco la tigre
Ora lei sfreccia veloce sopra nuvole di polvere d’amaranto
sollevate dal branco che corre avanti impaurito
sulla strada bianca
Guardo la mia carta
la mia foto sbiadisce
si trasforma
spicca il volo
si strappa dalle mie mani
io non lo impedisco
Libera vola la falsa identità di creta
Un incrocio avanti a me
un diavolo sulla sinistra dice
Non c’è posto Per tutti sulla strada bianca
Decidi
Non posso
Non scelgo
Scappo ancora
Non c’è posto per il dubbio sulla strada bianca
 Un clacson alle mie spalle
una lucertola con una pipa smaltata in bocca e carrello antisdrucciolo
guardo
Lei fa un sorriso accidentato
un dente cade
mi offre un tiro di pipa alla melassa dolce
poi sgancia un peto alla melassa amara
svengo per dodici giorni
La lucertola ne approfitta
mi ruba le ruote e una scorta di ginseng alla fragola che tenevo nascosta
per i casi di necessità fotopaleocultocerebrolinguefacentefinzione
Quando mi risveglio ho un paio di mutande a pois sugli oblò
 Le lucertole col cardigan vanno così quando s’innamorano
Io no
Mi alzo
mi reco tosto dal guardavecchi ambulante che ha la bancarella lì
al lato della fortezza dei piselli brizzolati
Espongo il mio caso
Ho le mani sporche di nerofumo
il gruppo si è sciolto centodieci anni orsono dopo aver fatto un colpo alla banca centrale del seme
io mi sono salvato per grazia di zio
mi ha ripescato per le penne dalle acque del ghiaccio Fiume Tremens
 è un impervio e angusto fiumiciattolo fluente a valle
come il sangue nelle vene di un pazzo anfetaminico ubriaco di camomilla
 ma torniamo al presente
c’eravamo già
cioè avantieri
C’è con me uno che quando sogna si toglie sempre i calzetti
perché dice
i sogni degli uomini vanno a finire sottoterra
ed è da lì che a volte ritornano
Io gli dai ragione
All’ottantesimo chilometro
un tanto al grammo
hanno costruito dei cuscini d’avanguardia per rustici ristoratori senza macchia
senza peccati
eccosì che Il capoturno chiama
è l’ora della mezzasega di mezzogiorno
a quell’ora nessuno dorme mai con tutti i gradi
per paura dei temporali
Noi corriamo a perdifiato perdio
quando arriviamo ci ritroviamo trafelati senza sapere se il perché è vero
Il capoturno ci passa il caffè
ci regala poi una maschera col viso stravolto
gli occhi sradicati e perplessi
noi l’indossiamo senza paura togliendo quella che già portiamo addosso
levando la sicura
per sicurezza s’intende
La maschera si trasforma in jena ridenz
Inutile riderenz
disse
Già che ci siete spremete le meningi per trovare una soluzione plausibile
Quale soluzione
diciamo noi in coro
uno anche in falsetto
Una qualsiasi
Risponde
per la mia collezione
aggiunge
Ho la più grande collezione di soluzioni che si possa trovare ai bordi della strada bianca
 Troviamo infine una soluzione qualsiasi per qualsiasi problematico matematico problema
gliela daimo levandocelo per cosiddire gentilmente dai nostri ovali coglioni
 Ma
giorni bui ci attendono
Subito dietro la curva è una lunghissima galleria
buia
Manco a dirlo
Tre milioni di chilometri senza luce
le pagine stanno per finire sotto la padella
cioè in mezzo alla più grigia brace
Alchè mi viene in mente
tra dubbi amletici
scaramantici
circonflessi
una piccola e semplice soluzione
giusto per arrivare in fondo
per non lasciare niente al caso
Scrivere ai piedi della pagina
la parola
 FINE
 il classico uovo alla colombo
giallo
con finiture in piombo
fuso
cottura dieci anni
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