#moderatismo
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" Mi sono sempre considerato un uomo di sinistra, e quindi ho sempre dato al termine «sinistra» una connotazione positiva, anche ora che è sempre più avversata, e al termine «destra» una connotazione negativa, pur essendo oggi ampiamente rivalutata. La ragione fondamentale per cui in alcune epoche della mia vita ho avuto qualche interesse per la politica o, con altre parole, ho sentito, se non il dovere, parola troppo ambiziosa, l’esigenza di occuparmi di politica e qualche volta, se pure più raramente, di svolgere attività politica, è sempre stato il disagio di fronte allo spettacolo delle enormi diseguaglianze, tanto sproporzionate quanto ingiustificate, tra ricchi e poveri, tra chi sta in alto e chi sta in basso nella scala sociale, tra chi possiede potere, vale a dire capacità di determinare il comportamento altrui, sia nella sfera economica sia in quella politica e ideologica, e chi non ne ha. Diseguaglianze particolarmente visibili e – a poco a poco irrobustendosi la coscienza morale col passare degli anni e il tragico evolversi degli eventi – sempre più consapevolmente vissute da chi, come me, era nato ed era stato educato in una famiglia borghese, dove le differenze di classe erano ancora molto marcate. Queste differenze erano particolarmente evidenti durante le lunghe vacanze in campagna dove noi venuti dalla città giocavamo coi figli di contadini. Tra noi, a dire il vero, c’era affettivamente un perfetto affiatamento e le differenze di classe erano assolutamente irrilevanti, ma non poteva sfuggirci il contrasto tra le nostre case e le loro, i nostri cibi e i loro, i nostri vestiti e i loro (d’estate andavano scalzi). Ogni anno, tornando in vacanza, apprendevamo che uno dei nostri compagni di giochi era morto durante l’inverno di tubercolosi. Non ricordo, invece, una sola morte per malattia tra i miei compagni di scuola di città. "
Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica; Prima edizione: 1994. [ Libro elettronico ]
#Norberto Bobbio#Destra e sinistra#politologia#eguaglianza#politica italiana del '900#liberalismo#socialismo#democrazia#conservatorismo#progressismo#scienza politica#filosofia#categorie della politica#radicalismo#moderatismo#letture#teorie politologiche#saggistica#leggere#citazioni#politici#intellettuali italiani del XX secolo#libri#ideologie#ideologismi#libertarismo#egalitarismo#ricordi d'infanzia#antifascismo#antifascisti
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Gli esecratori del brutto pestaggio del Quarticciolo, ai danni di uno scippatore straniero, non si credano poi tanto cristiani. Bernardo di Chiaravalle scrisse: “Chi uccide un malfattore, non deve essere reputato un omicida ma un malicida”. E Bernardo di Chiaravalle era un Santo. Leone XIII scrisse: “L’arrendevolezza dei buoni aumenta l’audacia dei malvagi”. E Leone XIII era un Papa. Vittorio Mathieu scrisse: “Attribuire la giustizia sommaria solo a ignoranza, e la vendetta solo a un meschino desiderio di rivalsa, significa non vedere in essi tentativi che, per quanto difettosi, mirano già alla giustizia”. E Mathieu era un filosofo cattolico. Gli esecratori del brutto, evidentemente brutto, pestaggio del Quarticciolo, sappiano di essere soprattutto hegeliani. Anni fa Carlo Nordio ricordò che i fortissimi limiti all’autodifesa contenuti nel nostro codice penale sono stati inseriti nel 1930 per assicurare allo Stato (lo Stato etico di Hegel) il monopolio della violenza. Da Vincenzo Manzini e Alfredo Rocco: giuristi fascisti e dunque hegeliani, o forse hegeliani e dunque fascisti.
Assolutamente senza forse (retorico): idealisti, provincia della provincia tedesca che assieme al liberalismo traviato di Croce, han mandato completamente fuori strada il "moderatismo laico" in Italì, tenendolo cinquant'anni indietro; via https://www.ilfoglio.it/preghiera/2023/09/09/news/non-si-creda-tanto-santo-chi-esecra-il-brutto-pestaggio-del-quarticciolo-5659578/
Chissà perché rilancio sempre più frequentemente e sempre più volentieri gli articoli di CAMILLO LANGONE: ma perché il suo è normale buon senso, spiegato con quel garbo ed eleganza che la cultura vera non i salotti ti dà; elegante ma diretto dirompente spiazzante senza sconti; nel panorama di penoso pensiero debole diffuso oggi, diviene manifesto di autentica ANTROPOLOGICA SUPERIORITA'.
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Ormai si assiste a una corsa sfrenata verso il centro della politica, considerato un modo per ottenere prestigio e un seggio in Parlamento. L'esigenza di una rappresentanza moderata si fa sentire, specialmente in un contesto dominato dal bipolarismo, dove emerge la voglia di abbandonare gli scontri diretti e il ricorrere a strategie più equilibrate. In questo scenario, emerge un desiderio collettivo per un ritorno all'idea di una Democrazia Cristiana, sebbene trasformata dai tempi moderni. Politici e potenziali tali si affannano a dimostrare la propria centralità, con la convinzione che essere "più al centro" rappresenti la chiave per il successo. Tra i protagonisti c'è il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che ha idee chiare sul tema. Egli sostiene che non basti una semplice foto per realizzare un schieramento ampio e unito. Allo stesso tempo, altri nomi affiorano nella scena: Carlo Calenda e Matteo Renzi, attori "storici" che hanno subito un forte ridimensionamento delle loro ambizioni. La figura del prefetto Franco Gabrielli, così come quella di Ernesto Maria Ruffini, dimessosi di recente dalla direzione dell'agenzia delle entrate, sono indicate come possibili candidati per un nuovo centro. Ruffini, in particolare, è al centro di voci secondo cui potrebbe puntare a un ruolo di rilievo in Parlamento. Tuttavia, egli smentisce queste voci, lasciando aperto il dubbio sulla sua reale intenzione. Matteo Renzi, sempre in cerca dell'ultimo treno verso il moderatismo, potrebbe trovarsi in una posizione critica. Malgrado le sue difficoltà a convincere gli elettori, non si arrende, soprattutto alla luce di una recente normativa che limita i finanziamenti esteri ai politici, mettendo a rischio la sua sostenibilità politica. La sua preoccupazione è evidente: se il centro continuasse a respingerlo, potrebbe perdere anche le risorse economiche provenienti dalle sue conferenze all'estero, lasciandolo solo con un possibile futuro in Parlamento, sempre che continui a ricevere consensi. In sintesi, la corsa al centro rappresenta un tentativo disperato di ripristinare un clima politico più moderato e meno conflittuale, rispondendo a un bisogno collettivo di stabilità e rappresentanza.
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Gli idioti ci costano caro
Gli idioti ci costano caro
Anna Lombroso per il Simplicissimus C’è una nuova declinazione del moderatismo: si esprime prendendo le distanze dalle tifoserie contemporanee aizzate le une contro le altre, contro le curve che sarebbero parimenti infiltrate chi da estremisti di destra e da rottami dell’antagonismo, che da ultrà del neoliberismo. I neocentristi, nel somministrarci la loro saggezza un tanto all’etto, premettendo…
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#carobolletta#carovita#censura#crisi energetica#disoccupati#green pass#informazione#moderatismo#Monti#privatizzazioni
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L'illusione moderato-ragionevole
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L'illusione moderato-ragionevole
di Piero Visani
Ho sempre pensato – e lo penso ancora di più oggi – che il moderatismo sia un dato caratteriale, molto più che politico. Avendo un carattere diverso, di moderatismo non mi sono mai interessato.
Potrei dire tutto il male possibile dei moderati, ma non lo faccio e non mi interessa farlo. Nella mia vita, i miei percorsi esistenziali non si sono mai incrociati con i loro e, le rare volte in cui ciò è avvenuto, sono stati incroci casuali e assolutamente non interessati. Io ovviamente non interessavo loro, e viceversa.
Una sola cosa mi preme sottolineare, oggi. Nessun moderato si faccia illusioni che la deriva in cui sono preda l’Italia e l’Europa possa finire bene. L’Italia è ormai in preda a una cleptocrazia il cui unico impegno, ogni giorno accentuato, è la spoliazione totale della popolazione, nella corretta consapevolezza che, se il popolo non sarà totalmente spogliato di ogni suo avere, la cleptocrazia stessa non sopravviverà, non avendo risorse ulteriori cui attingere.
La cleptocrazia europea, a sua volta, è una versione raffinata e di maggiore cabotaggio di quella italiana, e anch’essa si avvia verso i medesimi lidi.
Non esiste alcun potere che sia sopravvissuto senza operare periodiche ridistribuzioni di ricchezza. Solo di spoliazioni non si vive e si va incontro a grossi guai. Naturalmente le cleptocrazie continentali non mancano di alimentare le proprie clientele, burocrazie e scherani, ma tutto ciò per quanto tempo sarà sufficiente? Il terribile abbassamento dei livelli di vita di una cospicua percentuale degli europei quanto potrà durare senza contraccolpi, per di più in presenza di massicci fenomeni migratori? All’azione di una banda (o banca…?) di ladri patentati si potrà rimediare con una moderata ragionevolezza? Non posso certo escluderlo, ma formulo sinceri auguri in tal senso, perché è un’ipotesi che va incontro a terribili rischi e, tanto più sarà procrastinata, quanto più sarà destinata a rivelarsi difficile, se non impossibile. Stiamo andando sorridenti verso l’abisso e non ci limitiamo a guardarlo, come nella nota immagine nietzscheana, ma siamo ben decisi a buttarci dentro. La più moderata, prudente e ponderata delle soluzioni: “tutti morimmo a stento” (del resto, i moderati sono spesso parsimoniosi, non solo economicamente: della vita conoscono e desiderano solo una parte, possibilmente non eccessiva; il tutto per loro è troppo…).
Ho sempre pensato – e lo penso ancora di più oggi – che il moderatismo sia un dato caratteriale, molto più che politico. Avendo un carattere diverso, di moderatismo non mi sono mai interessato.
Potrei dire tutto il male possibile dei moderati, ma non lo faccio e non mi interessa farlo. Nella mia vita, i miei percorsi esistenziali non si sono mai incrociati con i loro e, le rare volte in cui ciò è avvenuto, sono stati incroci casuali e assolutamente non interessati. Io ovviamente non interessavo loro, e viceversa.
Una sola cosa mi preme sottolineare, oggi. Nessun moderato si faccia illusioni che la deriva in cui sono preda l’Italia e l’Europa possa finire bene. L’Italia è ormai in preda a una cleptocrazia il cui unico impegno, ogni giorno accentuato, è la spoliazione totale della popolazione, nella corretta consapevolezza che, se il popolo non sarà totalmente spogliato di ogni suo avere, la cleptocrazia stessa non sopravviverà, non avendo risorse ulteriori cui attingere.
La cleptocrazia europea, a sua volta, è una versione raffinata e di maggiore cabotaggio di quella italiana, e anch’essa si avvia verso i medesimi lidi.
Non esiste alcun potere che sia sopravvissuto senza operare periodiche ridistribuzioni di ricchezza. Solo di spoliazioni non si vive e si va incontro a grossi guai. Naturalmente le cleptocrazie continentali non mancano di alimentare le proprie clientele, burocrazie e scherani, ma tutto ciò per quanto tempo sarà sufficiente? Il terribile abbassamento dei livelli di vita di una cospicua percentuale degli europei quanto potrà durare senza contraccolpi, per di più in presenza di massicci fenomeni migratori? All’azione di una banda (o banca…?) di ladri patentati si potrà rimediare con una moderata ragionevolezza? Non posso certo escluderlo, ma formulo sinceri auguri in tal senso, perché è un’ipotesi che va incontro a terribili rischi e, tanto più sarà procrastinata, quanto più sarà destinata a rivelarsi difficile, se non impossibile. Stiamo andando sorridenti verso l’abisso e non ci limitiamo a guardarlo, come nella nota immagine nietzscheana, ma siamo ben decisi a buttarci dentro. La più moderata, prudente e ponderata delle soluzioni: “tutti morimmo a stento” (del resto, i moderati sono spesso parsimoniosi, non solo economicamente: della vita conoscono e desiderano solo una parte, possibilmente non eccessiva; il tutto per loro è troppo…).
PIERO VISANI
http://derteufel50.blogspot.de/
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Andrea Pertici: "... adesso Berlusconi dovrebbe andare al #Quirinale, per il settennato 2022-2029, dagli 85 anni ai 92 abbondanti.
Il tutto viene presentato con riferimenti al “moderatismo”, l’”europeismo”, il “senso delle istituzioni”, il popolarismo.
Tutto ciò che è accaduto è dimenticato:
- il più gigantesco conflitto d’interessi mai visto, con tanto di ipotesi di affiancargli - quando venne nominato la prima volta Presidente del Consiglio - un “garante” (che doveva essere Spadolini);
- gli accordi elettorali con quell’estrema destra di cui oggi si discute lo scioglimento (ad esempio, Forza nuova è stata in coalizione, all’interno della lista di Alternativa sociale);
- i “No euro” (ah, l’europeismo..) sempre in coalizione;
- l’”editto bulgaro”, ovvero la dichiarazione in cui Berlusconi disse che Luttazzi e Biagi - dico, Enzo Biagi, il più grande giornalista italiano - avevano fatto della Tv pubblica un “uso criminoso”, facendoli sparire dalle frequenze;
- lo scontro - nel 2003 - al Parlamento europeo con il leader socialista Schultz, che Berlusconi, nell’insediarsi come Presidente di turno del Consiglio, disse che avrebbe proposto per il ruolo di kapò in un film sui lager nazisti;
- il “lodo Schifani” e il “lodo Alfano” per impedire che un Presidente del Consiglio in carica potesse essere processato, per qualunque cosa, anche per maltrattamenti in famiglia;
- la affermazione da Presidente del Consiglio in carica, a fronte della sconfitta (seppure di misura) nelle elezioni del 2006, per cui “il risultato deve cambiare”;
- l’elogio di leader non democratici, di cui sottolineava l’ampio consenso popolare (ottenuto chissà come);
- i “cucù settete” a Merkel o le corna nelle foto ai vertici internazionali o gli “apprezzamenti” sessisti per Merkel e Bindi;
- le feste e i festini di ogni tipo, che consentivano l’accesso incontrollato a luoghi che dovrebbero essere riservati;
- le telefonate alla Questura per sostenere che una minore marocchina fermata dalla polizia era “nipote di Mubarak”, Presidente egiziano, con conseguente voto confermativo della tesi da parte della maggioranza parlamentare;
- le intercettazioni con Tarantini che gli diceva che avrebbe portato “le ragazze”;
- l’abolizione delle tasse di successione (“uguale” per tutti) e di ogni tassa sulla casa (“uguale” per tutti), ma mai una redistribuzione della pressione fiscale a vantaggio dei redditi medio-bassi;
- gli interventi sulla prescrizione e sulla depenalizzazione del falso in bilancio che incidevano su proprie posizioni processuali (in corso);
- lo “scudo fiscale” per far rientrare i capitali trafugati all’estero pagando solo il 5%;
- la forzatura sull’alimentazione forzata alla povera Eluana Englaro che “avrebbe potuto aver figli”;
- gli scontri della polizia con i manifestanti di Genova nel 2001;
- gli attacchi alla magistratura, colpevole di “lesa maestà”, fino alla manifestazione a sua difesa dei “suoi” parlamentari sulla scalinata del Tribunale di Milano;
- la conduzione dell’Italia sull’orlo del default nel 2011, con tanto di “lettera di reprimende” della BCE (ah, l’europeismo)
- la condanna definitiva per frode fiscale del 2013;
E molto altro ancora si potrebbe dire… pagine imbarazzanti per Italia, manifestazioni continue di inefficienza, incapacità di governo e utilizzo del potere per farsi gli affari propri…
Ecco, tutto questo sembra oggi dimenticato. La stampa ne fa un “padre nobile” da preferire a Salvini e Meloni, pronto per il Quirinale.
Ma possiamo essere un Paese serio?"
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Non mi piace questo moderatismo.
Sostituire Bella Ciao all'Inno di Mameli è reazionario.
Un progressista vero avrebbe proposto YMCA dei Village People.
@Ingestibile79
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Che ripresa è se i lavoratori poveri sono sempre di più? Ci sono sempre pi�� lavoratori poveri e indebitati a causa dei bassi salari, della precarietà, del part-time involontario, dei contratti truffa, della dinamica salariale spinta verso il basso dalle privatizzazioni e del rincaro di tariffe e beni essenziali. Di Federico Giusti per La Città Futura. Come si misura la povertà lavorativa? Una domanda di non facile risposta, per quanto l’esperienza comune insegni a giudicare poveri quanti non percepiscono un salario adeguato a supportare le esigenze personali e familiari. (...)È povero chi lavora meno di sette mesi all’anno; è povero chi non va oltre un contratto part-time; sta diventando povero anche chi ha un full-time ma con contratti nazionali di riferimento che prevedono una bassa paga oraria. La povertà delle famiglie non riguarda più solo i nuclei monoreddito o con figli a carico. Sovente a non arrivare in fondo al mese è il lavoratore che fino a 10 anni fa poteva definirsi privilegiato, con un posto fisso e contratto full-time. Ogni considerazione sulla povertà riporta la mente alla figura sociale del lavoratore o pensionato indebitato, costretto a continui prestiti per far fronte a esigenze familiari e a spese insostenibili con la sua semplice fonte di reddito. Il debito non è solo un rapporto economico; resta anche una tecnica di controllo e di governo delle soggettività individuali e collettive. Chi contrae debiti è generalmente, per ovvi motivi, un soggetto ricattato e ricattabile, vive una situazione di inferiorità e un senso di colpa che poi è stato insinuato per anni nella nostra mente, una sorta di espiazione del debito pubblico, esploso fragorosamente nel corso degli ultimi anni per salvare il sistema finanziario privato, che diviene il giusto pretesto per abbattere le spese sociali e quelle pensionistiche. Nei 40 anni di politiche neoliberiste, il lavoratore indebitato è divenuta figura di massa, indebitato rispetto alle banche per onorare prestiti atti all’acquisto della prima casa, a ripagarsi le spese universitarie o sanitarie (specie laddove istruzione e sanità pubblica non funzionano), a coprire le spese per un’assicurazione privata o semplicemente arrivare a fine mese. (...) E se oggi gli stipendi sono leggeri, anzi leggerissimi, lo saranno anche le pensioni di domani tra vuoti contributivi e un sistema di calcolo dell’importo previdenziale alquanto svantaggioso per i bassi e medi salari, in primis i precari e le precarie. Going for Growth 2021, Ocse a Italia: crisi sta aggravando le disuguaglianze Il lavoratore indebitato vive una situazione paradossale: subisce la crescita dei carichi di lavoro ma percepisce salari del tutto insufficienti, vive sulla sua pelle la colpevolizzazione tipica della miseria vissuta con senso di vergogna, percepisce una sostanziale inadeguatezza, un fallimento esistenziale. La povertà non è solo economica ma etica e morale, tanto che ciascuno di noi nasce già con un fardello di debiti da pagare (ma specularmente c’è chi – pochi – nasce con un cospicuo credito!). Potremmo sintetizzare l’intero ragionamento nel luogo comune secondo il quale si vive per lavorare e pagare i debiti. E il fardello del debito pubblico per anni è stato scaricato sulle nostre spalle per sviluppare un senso di colpa diffuso che alla fine impedisce di avanzare rivendicazioni forti in termini di salari, pensioni e servizi. (...) Secondo noi serve un radicale cambiamento di prospettiva che non potrà essere quello di adeguarsi alle politiche fiscali, previdenziali e occupazionali della Ue o dei paesi a capitalismo avanzato. Bisogna osare e pensare in maniera radicalmente diversa da come si è fatto nel recente passato, aggredire le cause economiche e sociali della miseria e per farlo bisogna uscire dal moderatismo salariale ed economico che ha instillato nella classe lavoratrice il senso di colpa tipico dell’uomo indebitato. Perché, a scanso di equivoci, colpe noi non ne abbiamo. La Città Futura
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Ludovico Geymonat, Contro il moderatismo. Interventi dal... http://bit.ly/2Sfr0j4
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“ I due concetti «destra» e «sinistra» non sono concetti assoluti. Sono concetti relativi. Non sono concetti sostantivi o ontologici. Non sono qualità intrinseche dell’universo politico. Sono luoghi dello «spazio politico». Rappresentano una determinata topologia politica, che non ha niente a che vedere con l’ontologia politica: «Non si è di destra o di sinistra, nello stesso senso per cui si dice che si è “comunisti”, o “liberali”, o “cattolici”» [Marco Revelli, Destra e sinistra: l’identità introvabile, dattiloscritto di 65 pp.; sarà pubblicato nel 2007 col titolo Sinistra destra. L'identità smarrita]. In altri termini, destra e sinistra non sono parole che designano contenuti fissati una volta per sempre. Possono designare diversi contenuti secondo i tempi e le situazioni. Revelli fa l’esempio dello spostamento della sinistra ottocentesca dal movimento liberale a quello democratico, a quello socialista. Ciò che è di sinistra è tale rispetto a ciò che è di destra. Il fatto che destra e sinistra rappresentino una opposizione vuol dire semplicemente che non si può essere contemporaneamente di destra e di sinistra. Ma non dice nulla sul contenuto delle due parti contrapposte. L’opposizione resta, anche se i contenuti dei due opposti possono cambiare. A questo punto si può anche osservare che sinistra e destra sono termini che il linguaggio politico è venuto adoperando nel corso dell’Ottocento, e sino a oggi, per rappresentare l’universo conflittuale della politica. Ma se questo stesso universo può essere rappresentato, ed è stato di fatto rappresentato in altri tempi, da altre coppie di opposti, di cui alcune hanno un valore descrittivo forte, come «progressisti» e «conservatori», altre hanno un valore descrittivo debole, come «bianchi» e «neri». Anche la coppia bianchi-neri indica soltanto una polarità, cioè significa soltanto che non si può essere nello stesso tempo bianchi e neri, ma non lascia assolutamente intendere quali siano gli orientamenti politici degli uni e degli altri. La relatività dei due concetti si dimostra anche osservando che l’indeterminatezza dei contenuti, e quindi la loro possibile mobilità, fa sì che una certa sinistra rispetto a una destra può diventare, con uno spostamento verso il centro, una destra rispetto alla sinistra rimasta ferma, e, simmetricamente, una certa destra che si sposta verso il centro diventa una sinistra rispetto alla destra che non si è mossa. Nella scienza politica è noto il fenomeno del «sinistrismo», come quello simmetrico del «destrismo», secondo cui la tendenza allo spostamento verso le posizioni estreme ha per effetto, in circostanze di particolare tensione sociale, il formarsi di una sinistra più radicale alla sinistra della sinistra ufficiale, e di una destra più radicale alla destra della destra ufficiale: l’estremismo di sinistra sposta più a destra la sinistra, come l’estremismo di destra sposta più a sinistra la destra. “
Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, edizione del ventennale con una introduzione di Massimo L. Salvadori e due commenti vent'anni dopo di Daniel Cohn-Bendit e di Matteo Renzi, Roma, Donzelli, 2014. [ Libro elettronico ]
[Prima edizione: 1994]
#Norberto Bobbio#Destra e sinistra#Marco Revelli#politologia#politica italiana del '900#liberalismo#socialismo#democrazia#conservatorismo#progressismo#scienza politica#filosofia#categorie della politica#radicalismo#moderatismo#letture#teorie politologiche#saggistica#leggere#citazioni#politici#intellettuali italiani del XX secolo#libri#ideologie#ideologismi#libertarismo#egalitarismo
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Allearsi con "uno dei due poli"? Non conveniva farlo prima delle elezioni, lo faranno dopo e solo col Polo raccomandato da chi piace alla gente che piace. Per il resto, il terzopolismo è ben fotografato: espressione di pensiero debole camuffato da "moderatismo". Sono solo collaborazionisti (cit.) dalle mani pulite.
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Fiorentino, eretico e intransigente, Berto Ricci fu uno spirito inquieto che seppe sintetizzare la visione eroica della vita con quella intellettuale.
Fiorentino, eretico e intransigente, Berto Ricci fu uno spirito inquieto che seppe sintetizzare la visione eroica della vita con quella intellettuale.
Le sue tesi anticapitaliste incrociavano quelle del socialismo, della lotta alla borghesia, al moderatismo e al carrierismo politico. Sposò gli ideali del regime e in seno ad esso operò una produzione culturale fatta delle migliori eccellenze letterarie del tempo, dove si aggregavano fede e disincanto, valori e criticismo, filosofia e pragmatismo. Il ritratto di Berto Ricci, intellettuale libero…
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Gli idioti ci costano caro
Gli idioti ci costano caro
Anna Lombroso per il Simplicissimus C’è una nuova declinazione del moderatismo: si esprime prendendo le distanze dalle tifoserie contemporanee aizzate le une contro le altre, contro le curve che sarebbero parimenti infiltrate chi da estremisti di destra e da rottami dell’antagonismo, che da ultrà del neoliberismo. I neocentristi, nel somministrarci la loro saggezza un tanto all’etto, premettendo…
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L'illusione moderato-ragionevole
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L'illusione moderato-ragionevole
di Piero Visani
Ho sempre pensato – e lo penso ancora di più oggi – che il moderatismo sia un dato caratteriale, molto più che politico. Avendo un carattere diverso, di moderatismo non mi sono mai interessato.
Potrei dire tutto il male possibile dei moderati, ma non lo faccio e non mi interessa farlo. Nella mia vita, i miei percorsi esistenziali non si sono mai incrociati con i loro e, le rare volte in cui ciò è avvenuto, sono stati incroci casuali e assolutamente non interessati. Io ovviamente non interessavo loro, e viceversa.
Una sola cosa mi preme sottolineare, oggi. Nessun moderato si faccia illusioni che la deriva in cui sono preda l’Italia e l’Europa possa finire bene. L’Italia è ormai in preda a una cleptocrazia il cui unico impegno, ogni giorno accentuato, è la spoliazione totale della popolazione, nella corretta consapevolezza che, se il popolo non sarà totalmente spogliato di ogni suo avere, la cleptocrazia stessa non sopravviverà, non avendo risorse ulteriori cui attingere.
La cleptocrazia europea, a sua volta, è una versione raffinata e di maggiore cabotaggio di quella italiana, e anch’essa si avvia verso i medesimi lidi.
Non esiste alcun potere che sia sopravvissuto senza operare periodiche ridistribuzioni di ricchezza. Solo di spoliazioni non si vive e si va incontro a grossi guai. Naturalmente le cleptocrazie continentali non mancano di alimentare le proprie clientele, burocrazie e scherani, ma tutto ciò per quanto tempo sarà sufficiente? Il terribile abbassamento dei livelli di vita di una cospicua percentuale degli europei quanto potrà durare senza contraccolpi, per di più in presenza di massicci fenomeni migratori? All’azione di una banda (o banca…?) di ladri patentati si potrà rimediare con una moderata ragionevolezza? Non posso certo escluderlo, ma formulo sinceri auguri in tal senso, perché è un’ipotesi che va incontro a terribili rischi e, tanto più sarà procrastinata, quanto più sarà destinata a rivelarsi difficile, se non impossibile. Stiamo andando sorridenti verso l’abisso e non ci limitiamo a guardarlo, come nella nota immagine nietzscheana, ma siamo ben decisi a buttarci dentro. La più moderata, prudente e ponderata delle soluzioni: “tutti morimmo a stento” (del resto, i moderati sono spesso parsimoniosi, non solo economicamente: della vita conoscono e desiderano solo una parte, possibilmente non eccessiva; il tutto per loro è troppo…).
Ho sempre pensato – e lo penso ancora di più oggi – che il moderatismo sia un dato caratteriale, molto più che politico. Avendo un carattere diverso, di moderatismo non mi sono mai interessato.
Potrei dire tutto il male possibile dei moderati, ma non lo faccio e non mi interessa farlo. Nella mia vita, i miei percorsi esistenziali non si sono mai incrociati con i loro e, le rare volte in cui ciò è avvenuto, sono stati incroci casuali e assolutamente non interessati. Io ovviamente non interessavo loro, e viceversa.
Una sola cosa mi preme sottolineare, oggi. Nessun moderato si faccia illusioni che la deriva in cui sono preda l’Italia e l’Europa possa finire bene. L’Italia è ormai in preda a una cleptocrazia il cui unico impegno, ogni giorno accentuato, è la spoliazione totale della popolazione, nella corretta consapevolezza che, se il popolo non sarà totalmente spogliato di ogni suo avere, la cleptocrazia stessa non sopravviverà, non avendo risorse ulteriori cui attingere.
La cleptocrazia europea, a sua volta, è una versione raffinata e di maggiore cabotaggio di quella italiana, e anch’essa si avvia verso i medesimi lidi.
Non esiste alcun potere che sia sopravvissuto senza operare periodiche ridistribuzioni di ricchezza. Solo di spoliazioni non si vive e si va incontro a grossi guai. Naturalmente le cleptocrazie continentali non mancano di alimentare le proprie clientele, burocrazie e scherani, ma tutto ciò per quanto tempo sarà sufficiente? Il terribile abbassamento dei livelli di vita di una cospicua percentuale degli europei quanto potrà durare senza contraccolpi, per di più in presenza di massicci fenomeni migratori? All’azione di una banda (o banca…?) di ladri patentati si potrà rimediare con una moderata ragionevolezza? Non posso certo escluderlo, ma formulo sinceri auguri in tal senso, perché è un’ipotesi che va incontro a terribili rischi e, tanto più sarà procrastinata, quanto più sarà destinata a rivelarsi difficile, se non impossibile. Stiamo andando sorridenti verso l’abisso e non ci limitiamo a guardarlo, come nella nota immagine nietzscheana, ma siamo ben decisi a buttarci dentro. La più moderata, prudente e ponderata delle soluzioni: “tutti morimmo a stento” (del resto, i moderati sono spesso parsimoniosi, non solo economicamente: della vita conoscono e desiderano solo una parte, possibilmente non eccessiva; il tutto per loro è troppo…).
PIERO VISANI
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28 Marzo 1965: quando l’Unità stroncò il ‘piccolo borghese’ Alberto Asor Rosa...
Alberto Asor Rosa (1933) divenne famoso per il libro “Scrittori e popolo” (1965) in polemica con gli scrittori e i critici letterari, ispirati o seguaci delle idee di Gramsci, messi all’indice per avere peccato di ‘populismo’ invece di esercitare il metodo marxista di una mai ben chiarita ‘critica di parte operaia’.
Da quel tempo lontano, con il sussulto del 1968, Asor Rosa ha fatto un carrierone nell’ università, e poi nel PCI, tanto da diventare un astro della cultura di sinistra nazionale; e oggi si vede premiato da un volume dei ‘Meridiani’ della Mondadori che presenta una “sfaccettata rappresentazione del suo ingegno versatile”,��come assicurano i curatori del volume, Massimo Cacciari e Corrado Bologna.
Sarà. Ma io di Asor Rosa ricordo solo che fu il cattivo maestro di un comunismo di sinistra radicale in radicale contrasto con la cultura storicista del PCI togliattiano assai vicino, con il Gramsci dei ‘Quaderni’, alla tradizione democratica nazionale.
Da allora Asor Rosa ha riempito tonnellate di carta scritta, ma non risulta che abbia mai fatto persuasiva ammenda autocritica degli spropositi contenuti nel suo giovanile pamphlet.
Ci pensò invece all’epoca il non dimenticato Carlo Salinari –eroe della Resistenza, responsabile culturale del PCI negli anni 50, e valente universitario, storico della letteratura italiana- il quale sull’Unita stroncò senza mezzi termini “Scrittori e popolo” con argomenti che a me paiono ancora oggi validi, una volta ripuliti della polvere di un linguaggio attempato e da certo ideologismo marxista decisamente meno fuorviante, tuttavia, di quello propinato da Asor Rosa.
Oggi, per molti giovani impegnati nella politica e nella cultura, un tipo come Carlo Salinari risulta poco più di un Carneade. Asor Rosa sale invece alla vetta dei ‘Meridiani’. Restano i loro testi a fare confronto. Per le menti che abbiano voglia di scavare oltre la superficie e ragionare di testa loro.
Pubblico dall’archivio storico de l’Unità il testo di Salinari con il corredo del titolo di redazione:
L’Unità 28 marzo 1965
A proposito del libro “Scrittori e popolo” di Alberto Asor Rosa
UN PICCOLO-BORGHESE SUL PIEDISTALLO
Gli sterili artifici di una pretesa critica ‘di parte operaia’ al pensiero di Gramsci e allo sviluppo dello spirito pubblico in Italia dopo la Resistenza.
Non è questo un libro (Alberto Asor Rosa-Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia-Samonà e Savelli, pp.580, l.4800) che debba essere trattato con diplomazia (se pure esistono libri verso cui sia giusto usare prudenti sorrisi): e del resto lo stesso Asor Rosa sarebbe molto più offeso da mezze critiche, mezzi riconoscimenti, mezze ammissioni o mezzi silenzi che dall’esposizione chiara o senza reticenze del nostro completo dissenso. Perché il libro a mio parere è sbagliato: sbagliato nella sua struttura generale anche se per avventura possono trovarsi qua e là giudizi esatti e talvolta anche acuti. Vediamo.
L’oggetto del libro non è tanto il ‘populismo’ in senso stretto, quanto il modo in cui nell’ultimo secolo si è venuto configurando in Italia il rapporto tra intellettuali e popolo e in particolare tra scrittori e popolo. La conclusione del libro è che tale modo non esce mai dall’ambito di schemi borghesi, anzi piccolo borghesi; che di conseguenza si possono mettere accanto “populisti di origine democratica, nazionalista, fascista, socialfascista, antifascista, resistenziale e gramsciana”; che, infine, a questo populismo “va attribuita la responsabilità di molta parte del moderatismo letterario italiano tra l’Otto e il Novecento”. L’articolazione del libro è data da tre capitoli dedicati rispettivamente al populismo italiano risorgimentale e postrisorgimentale fino alla prima guerra mondiale, a quello del ventennio fascista e a quello resistenziale e gramsciano. Il volume si chiude con due saggi su Cassola e Pasolini.
Asor Rosa nell’introduzione ci dice che il suo discorso è stato nelle varie parti “congegnato in modo da precipitare tutto verso le sue ultime conseguenze, cioè verso la letteratura dell’ antifascismo, della Resistenza e del gramscianesimo”, perché lontana dalle sue intenzioni era l’esigenza di una “ricostruzione storica pura”. Ci dice anche che tale discorso è “politico” e che l’obbiettivo ultimo della sua ricerca è la “critica di parte operaia” a un aspetto assai importante della letteratura italiana dell’ultimo secolo. Forse questi avvertimenti non erano necessari perché dalla lettura appare molto evidente che il punto di partenza ideale del libro (indipendentemente dai tempi in cui sono stati scritti i vari capitoli) è proprio la parte dedicata al secondo dopoguerra e la critica alla politica di unità svolta dal movimento operaio.
Così i luoghi comuni della critica “da sinistra” della politica del movimento operaio che ci siamo sentiti ripetere da varie parti negli ultimi venti anni, sono tutti raccolti in queste pagine: la Resistenza è stata un fatto popolare, e non di classe; il movimento operaio ha realizzato una politica di unità nazionale e, quindi, ha rinunciato alle sue proprie aspirazioni; gli obbiettivi che la classe operaia si è dovuta porre per mantenere tale fronte largamente unitario sono quelli di “una democrazia rappresentativa, nutrita di forti preoccupazioni sociali: libertà, giustizia, superamento delle strozzature tradizionali in campo economico e politico” e non, quindi, gli obbiettivi della trasformazione socialista del paese, si è snaturata la classe operaia attribuendole una funzione nazionale (e Asor Rosa sembra rimproverare persino il salvataggio delle fabbriche nel ’45) si è imposta al movimento operaio una strategia, quella della via italiana al socialismo, come necessariamente legata all’attuazione della Costituzione e delle riforme borghesi.
Sul piano culturale questo ha comportato in primo luogo il richiamo a una tradizione e non, quindi, la rottura con la cultura borghese; in secondo luogo la caratterizzazione della cultura progressista “come protesta e denuncia dell’arretratezza socio-economica dell’Italia” come “forte indignazione morale, ribellione ideale” e non quindi come critica “di parte operaia” della società capitalistica; in terzo luogo l’attribuzione alla letteratura di un compito direttamente sociale (il cosiddetto impegno); in quarto luogo il collegamento dell’impegno sociale con l’impegno nazionale e, quindi, la incapacità di uscire dal solco della nostra letteratura ottocentesca e di collegarsi con le grandi esperienze della letteratura europea.
Personalmente ritengo che tutte le posizioni indicate da Asor Rosa come errori furono profondamente giuste e che la politica di unità e la ripresa delle bandiere della libertà e della democrazia furono l’unico modo per la classe operaia di fare “storia” (altrimenti sarebbe davvero rimasta nel frigorifero ad aspettare non so bene che cosa):ritengo che senza quella unità non ci sarebbe stata in Italia la Resistenza, che rimane una svolta decisiva della nostra storia anche se Asor Rosa sembra considerarla uno sbaglio, e ritengo che anche oggi quell’unità e quegli obbiettivi democratici siano essenziali per uno sviluppo del nostro paese verso il socialismo.
Ma non è di questo che voglio discutere. Voglio discutere il fatto che partendo da simili premesse Asor Rosa doveva necessariamente scrivere un libro sbagliato. Non solo perché sono sbagliate le premesse, ma soprattutto (ed è questa la cosa più grave almeno in sede di storiografia letteraria) perché tutta la storia è costruita in funzione della conferma di quelle premesse, e gli autori nella maggioranza dei casi, sono cavie, pretesti, oggetto di “esercitazioni” per avvalorare un’ipotesi che già in partenza si considera giusta. Si segue in questo libro un metodo che è il contrario del metodo scientifico: del metodo cioè che dall’esame il più possibile obbiettivo dei fatti ricava un’ipotesi di lavoro e lascia aperta tale ipotesi in modo che possa essere sminuita, sostituita e anche capovolta, finché non si arrivi a una verifica definitiva. Non c’è da stupirsi, di conseguenza, se nel primo frettoloso capitolo (che ci porta in cento pagine da Berchet alla prima guerra mondiale) sfuggono alcuni nodi decisivi come l’elaborazione del tema della questione meridionale e la corruzione del concetto di “nazione” operatasi negli ambienti crispini (per cui, sotto questo concetto, non è possibile, come fa antistoricamente Asor Rosa, raccogliere scrittori e posizioni radicalmente antitetiche).
Non c’è da stupirsi se prendendo come metro di misura la critica “di parte operaia” (nell’accezione che abbiamo visto prima) la letteratura italiana si trasforma in un cimitero, da cui si salvano solo tre o quattro nomi e si rimprovera al populismo persino di aver impedito la formazione di una vera letteratura “grande borghese”. Non c’è da stupirsi se viene liquidato in poche pagine ( e sempre nella stessa chiave con cui si era liquidata l’esperienza postrisorgimentale) un nodo storico così complesso e così poco studiato (almeno dal punto di vista degli orientamenti dello spirito pubblico) quale la prima guerra mondiale; non c’è da stupirsi se quasi non ci si accorge del filone gobettiano che permane tenace durante tutto il ventennio e così via. Non voglio insistere perché si potrebbe continuare per molte pagine. Voglio però rilevare ancora alcune contraddizioni o affermazioni che mostrano l’inconsistenza di questa critica “di parte operaia” nel significato che vuol darle il nostro autore. Asor Rosa si dichiara persuaso che non c’è un rapporto necessario tra consapevolezza ideologica e riuscita artistica e poi imposta tutta la sua analisi sul fatto che l’ideologia populista portava anche a scelte stilistiche che mortificavano la nostra letteratura.
Asor Rosa ci dice che il marxismo “non implica una concezione del mondo che impone alla letteratura e alla poesia”, confonde quello che noi chiamiamo “asse ideologico” con la ideologia professata dall’autore o con la concezione del mondo, e dimentica che il marxismo, se non impone una concezione del mondo, non può non ispirare una letteratura “antagonista” a quella borghese. Asor Rosa, pur facendo una critica “di parte operaia”, mantiene intatta la scala dei valori fissata dalla critica borghese per quanto riguarda il nostro Novecento (quello del provincialismo e della sprovincializzazione) non accorgendosi che proprio il movimento neorealista ha portato nello stesso tempo all’approfondimento di aspetti importanti della società nazionale e all’assimilazione compiuta e critica delle scoperte stilistiche delle avanguardie europee (basta pensare al cinema o a Pavese e Vittorini).
Asor Rosa, che pretende di fare una critica “di parte operaia”, ci fa sapere che la questione metodologica è un falso problema ideologico e che per lui è indifferente usare il metodo “stilistico o quello sociologico, quello storico o quello cosiddetto genetico-ideologico”: sposa in tal modo la tesi del revisionismo crociano di questo dopoguerra e, a conferma, della sostanziale anti-scientificità di tutto il suo discorso, ci confessa, “come nel gioco che è a questo livello la critica letteraria, l’uno valga l’altro: può essere divertente, anzi, utilizzarli tutti, l’uno dopo l’altro, così come viene”.
Se mettete insieme tutti questi elementi e cercate di coglierne il tratto comune, vi accorgete che questa pretesa critica “di parte operaia” è una critica (essa si) tipicamente piccolo borghese. Piccolo borghese la volontà di isolare la classe operaia in una sua pretesa purezza, piccolo borghese il massimalismo degli obbiettivi , piccolo borghese il gusto della strage e della stroncatura. Piccolo borghese il rispetto dei canoni della critica borghese, piccolo borghese il trovar provinciale tutto ciò che è nazionale, piccolo borghese il rispetto indiscriminato dell’avanguardia, piccolo borghese il tono di disprezzo e di sufficienza e la volontà di fare scandalo con cui è costruito tutto il volume. C’è una pagina particolarmente rivelatrice: è quella sulla speranza. “Se il popolo è ricettacolo di valori umani perenni, la speranza è fra di questi esattamente il cardine, intorno a cui ruota tutto il sistema. Essa è la virtù principe del progressismo. Sostituisce nel popolo l’incapacità a giudicare razionalmente il mondo e l’impotenza ad agire in senso rivoluzionario. Sentimento naturalmente compromissorio e gradualista, e proiezione di un oggettivo immobilismo storico-sociale in una dimensione prettamente ideologica…L’invito a sperare è sempre invito a ignorare. Non spera chi conosce”. E’ la pennellata finale del ritratto del piccolo borghese. Asor Rosa sale su un piedistallo per sembrare più alto, vuol essere solo e senza alleati, ama la parola rivoluzione, disprezza coloro che agiscono nella storia perché soggetti e compromessi, gli piace scandalizzare e provocare, e mostra orgogliosamente al colto e all’inclita il suo cuore senza speranza.
Mi scusi Asor Rosa ma l’immagine non vuol essere offensiva (e del resto tutto il mio discorso non vuole essere tale). Vuole solo sottolineare l’assolutezza del nostro discorso. E richiamarlo alla coscienza della sterilità della sua posizione. Noi abbiamo commesso numerosi errori (ed una critica ben più profonda, a mio parere, dei limiti anche ideologici del neorealismo l’abbiamo fatta molto prima di Asor Rosa in un convengo dell’Istituto Gramsci). Ma pure qualche cosa abbiamo realizzato: la Resistenza, ad esempio, e il neorealismo che, con tutti i suoi difetti, rimane a tutt’oggi l’unica proposta di una cultura “antagonista” alla cultura borghese italiana. Egli con questo libro ci riporta indietro, sul piano ideologico e su quello scientifico. Indietro forse di cinquant’ anni. E quel che è peggio senza alcun risultato.
Carlo Salinari
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