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“MIA Foundazion X Passarellas” reunió en Art Basel Miami a célebres diseñadores y artistas en favor de niños desamparados
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AHHHH meet Anika Song!!! Our new character designs are courtesy of Mia Passarella, and we’re so in love with them. Listen to Anika come to life here.
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podcast posters ★ ALL IN MY HEAD
Nova is a young woman suffering from extreme bouts of sleep paralysis and night terrors. As she attempts to get to the bottom of her condition, she finds out there might be more to the monsters in her dreams than she thinks.
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Conversation
Nova: yeah so you know how sometimes you're just trying to get to bed and suddenly BOOM your sleep paralysis demon rips through time and space and the fabric of the universe to get you?
Lana: literally no wtf
Nova: oh yeah, me neither.
#all in my head#all in my head podcast#nova chambers#lana chambers#sleep paralysis#just your every day kinda issue you know?#sleep#who needs it#not nova#mia Passarella#Alexandra tandon#fiction podcast#audio drama#audio fiction
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Mondiali (parte 3)
Nel 1986 l'Italia inaugurò i campionati mondiali che si svolsero in Messico. Non ci sono più Zoff, Gentile, Antognoni e Graziani. C'è ancora Altobelli che ha finalmente l'età giusta per essere titolare, ma la squadra non è più la stessa di 4 anni prima. Rossi e Tardelli non sono in condizioni di forma tali da poter giocare e infatti siederanno in panchina, quando va bene.
Bearzot lo ammetterà anni dopo: si è affezionato a quei giocatori che gli han fatto vincere il mondiale 4 anni prima. Avrebbe dovuto dimettersi subito dopo la vittoria ma non lo fece e fu il disastro: mancata qualificazione agli Europei di Francia nell'84 e girone brutto nei mondiali 1986. Agli ottavi proprio la Francia di Platini ci butterà fuori.
Nel nostro girone c'è anche l'Argentina che, secondo sorteggio, sarebbe dovuta andare nel girone del Brasile, ma per non togliere lo spettacolo alla manifestazione viene dirottata nel girone dell'Italia.
I sudamericani sono criticati in patria, molti sono spaccati sul chi dare la fascia di capitano: Maradona o Passerella? Bilardo, l'allenatore dell'Argentina, decide per il primo. Passarella non gioca nemmeno, si dice abbia la "Maledizione di Montezuma".
Noi pareggiamo con l'Argentina, 1-1 segna Maradona. Un gol in diagonale che Galli, portiere dell'Italia, giudica troppo frettolosamente fuori. Galli si è alternato per circa 2 anni con Tancredi in porta tanto è difficile stabilire chi è l'erede di Zoff.
l'Argentina va avanti e dopo aver eliminato l'Uruguay si trova di fronte l'Inghilterra, l'avversario che Maradona aspetta dall'82 dalla "Guerra delle Falkland" le isole a largo delle coste Argentine che i sudamericani chiamano "Malvinas".
Sono in salotto assieme a mio padre che, molto più tollerante di mia madre, mi fa vedere la partita nonostante io abbia gli esami di terza media. Siamo ai due lati del divano, quello rotto 4 anni prima e che resiste con le viti usate da mio padre per riparare la traversina di legno.
Fuma sempre tanto mio papà. Mia madre credo sia andata a dormire.
A Città del Messico fa caldo, è mezzogiorno mentre in Italia e sera. Non ho L'Italia per cui tifare ma l'Argentina e il suo capitano Maradona mi piacciono.
La maglia dell'Argentina e blu perché l'Inghilterra ha la divisa bianca e dunque la tradizionale divisa "albiceleste" si confonderebbe con quella inglese. Solo recentemente ho saputo che Bilardo non era soddisfatto della seconda maglia della sua nazionale. Le Coq Sportif, lo sponsor tecnico dei sudamericani, non è riuscito a fornire una seconda maglia traspirante come la prima, così, dopo la partita con l'Uruguay, Bilardo dà ai suoi collaboratori l'incarico di trovare in Messico altre maglie più leggere per i suoi uomini. Trovano quelle di una squadra locale che veste con la maglietta blu, simile alla seconda maglia argentina, molto più traspirante, ci appiccicano lo stemma della Seleccion e le decalcomanie dei numeri.
l'Argentina gioca bene, ha davanti altri due fenomeni oltre a Maradona: Burruchaga e Valdano.
Io e mio padre tifiamo per l'albiceleste, lui perché odia gli inglesi e la Thatcher, io più perché Maradona mi sta simpatico, tutto sommato. Solo un anno prima, poi, c'era stata la tragedia dell'Heysel nella finale Juve -Liverpool e dunque gli inglesi ci stanno sulle balle.
Arriva il primo gol dell'Argentina, un'azione elaborata con una triangolazione che si chiude con un difensore che alza a campanile e Maradona che si avventa su una palla troppo alta. Vedo il movimento, la palla che entra in rete e poco dopo mio padre che dice sicuro: «Lo ha fatto con la mano».
A me servono tre replay per accorgermi di quel tocco malandrino. Maradona, si vede nel replay, esita un attimo prima di esultare, sa di aver fatto gol con la mano, solo dopo aver visto il guardalinee che indica il centrocampo, va verso la bandierina ad esultare.
Dirà Maradona che è stata "La Mano de Dios", che è un risarcimento per le Malvinas e "Chi ruba a un ladro ha cent'anni di perdono".
A nulla servono le proteste inglesi: è 1-0.
Solo pochi minuti e vediamo l'altra faccia di Diego Armando Maradona: il genio, "el genio del futbol mundial" come lo chiama Il cronista argentino Morales.
Maradona riceve palla sulla sua trequarti, è spalle alla porta avversaria e, nonostante ci siano due uomini su di lui, trova lo spazio e il tempo per girarsi e puntare verso la metà campo inglese. Supera il centrocampo, salta altri due uomini in dribbling ed è già in area di rigore. Il portiere inglese Shilton esce alla disperata, cerca di frapporsi con il suo corpo, di non far vedere la porta a Diego, di mettergli fretta, di costringerlo a tirare prima. Maradona però si ricorda di un'azione simile di sei anni prima in un'amichevole sempre contro l'Inghilterra. Quella volta c'era Clemence in porta, Maradona aveva saltato gli avversari come ora ma davanti al portiere aveva tirato fuori. Uno dei fratelli lo aveva rimproverato: «Perché non hai saltato il portiere? Avevi lo spazio, potevi farlo».
Si ricorda quelle parole Diego e stavolta finta tiro e se ne va oltre palla al piede con Shilton spiazzato. Il cronista argentino fa fatica a seguire l'azione, incredulo a quello che sta vedendo. Prima del tiro di Maradona dice solo «Ta ta ta» e vede la rete gonfiarsi nonostante lo sgambetto del difensore inglese Butcher che arriva troppo tardi, dopo che Maradona ha segnato il "Gol del Secolo".
Sedici anni dopo "La Partita del Secolo" l'Azteca di Città del Messico assiste al gol più bello di un mondiale.
Morales è in visibilio, tradisce tutta l'emozione e con grande enfasi si chiede da che pianeta è venuto questo piccoletto che porta orgoglio a tutto il pubblico argentino, a tutto un popolo che aspettava la sua rivincita dopo le Falkland. Ringrazia Dio, Morales. Lo ringrazia per questo campione, lo ringrazia per questo sport per il gioco del calcio, lo ringrazia per questa squadra, lo ringrazia per una lacrima che gli scende dal viso. Lo ringrazia per questo Argentina 2, Inghilterra 0.
Sentirò solo molti anni dopo la telecronaca argentina grazie a YouTube (c'è anche qualche video con la traduzione italiana se volete), quella sera Giorgio Martino dirà semplicemente che il gol di Maradona vale doppio e, almeno parzialmente, fa dimenticare la scorrettezza di poco prima.
Maradona è tutto lì in quella partita: genio e sregolatezza.
Siamo contenti io e mio padre. Maradona è il più forte, vuole vincere i mondiali e gli inglesi sono troppo antipatici per noi.
Poco dopo l'Inghilterra segnerà con Lineker il 2-1 e quasi farà 2-2 in un'azione fotocopia che stavolta vedrà l'anticipo di un difensore.
l'Argentina è in semifinale.
Maradona dirà che negli spogliatoi un compagno, credo Olarticoechea, gli farà i complimenti per quel gol, ma dopo il suo assist se non avesse segnato era da fucilarlo. Un assist. Un assiste fatto nella metà campo dell'Argentina. A parecchi metri dalla porta. Maradona lo manda bonariamente a quel paese.
Valdano invece racconterà di come Maradona si sia scusato per non avergli passato la palla in quell'occasione.
«Ma come? Hai fatto il gol più bello della storia e ti preoccupavi di passarmi la palla?»
Rivedendo quel gol, Valdano dirà che non si spiega come Maradona potesse averlo visto. Nessun giocatore normale poteva vedere Valdano da lì, con tutti quegli avversari addosso.
Ma Maradona non era un giocatore normale.
Sembrava finito dopo l'infortunio alla caviglia in Spagna per un'entrata da tergo di un difensore e invece era lì ora a pochi anni da quella botta a trascinare la sua nazionale in cima al mondo.
Altri due gol contro il Belgio porteranno l'Argentina in finale contro la Germania Ovest. Lì Maradona non riuscirà a segnare, ma farà l'assist all'ultimo minuto o quasi per il gol del 3-2 a Burruchaga. I tedeschi non si sono arresi dopo essere andati sotto per 2-0 e riusciranno a fare 2-2.
Brigel non riuscirà a fermare Burruchaga e dirà di essersi sentito "stanco dentro" dopo quel gol.
Maradona proverà a segnare un gol in finale. Devono fermarlo in 4.
La finale dell'86 la vedo a casa di mia nonna paterna, indosso gli stessi pantaloni di Beckenbauer (allora allenatore della Germania) mi fanno notare. Detesto quei pantaloni a quadretti.
L'esame di terza media è andato bene, per la prima volta non ho compiti per le vacanze da fare ma l'anno prossimo inizierò le superiori. In casa si farà via via più pesante la situazione fino ad arrivare alla separazione dei miei.
Finito quel mondiale ci aspettano le notti magiche di Italia '90.
Avrò quasi 18 anni e sogno di vedere la mia Nazionale nuovamente sul tetto del mondo.
Ma questa è un'altra storia.
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Diario veneziano: Jude Law papa scostumato (con paradiso di belle fanciulle) in “The New Pope” di Sorrentino; tutti (ipocriti) contro Polanski; voglio parlare con il figlio di Tarkovskij, autore di un documentario commovente. In appendice, Thomas Mann e un carro di m***a
Nella sua abbacinante semplicità, il primo sketch di The New Pope, divulgato ieri, seduce. Paolo Sorrentino non ha fumi felliniani, né fughe nella bruma del simbolo. È essenziale, essenzialmente cinico, come un pubblicitario di genio. Anche in questo caso, la ‘trovata’ è ottima. Jude Law, in costume smilzo, sguardo che annienta e fisico augusteo, sfila in passarella, in spiaggia, tra turbe di belle fanciulle – il paradiso coranico? –, l’ultima delle quali, inequivocabilmente in calzamaglia da Madonna, sviene, stordita da cotanta divinità. In alternativa, John Malkovich, addobbato da ‘nuovo papa’, dribbla un tripudio di cardinali in estasi. Se Jude ha la faccia spavalda, John la china in ardua concentrazione: chi dei due è figura di Dio? The New Pope è la caramella cinematografica che andrà in onda, prossimamente, su Sky: nel frattempo, alla Mostra del Cinema di Venezia, il primo e il 2 settembre, vanno in anteprima un paio di puntate. Fiction batte cinema. In ogni caso, sarà un successo perché il potere papale, la sottana di Dio, è la sola cosa di cui è merito parlare.
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Una scena da “Andrej Tarkovsky. A cinema prayer”, in scena alla Mostra del Cinema di Venezia
In UK si domandano, Is the political novel dead? Il romanzo “politico”, che indaga l’arte del governo, è morto. Restano i dilettanti del diletto, i borghesi dell’indignazioni, quelli del romanzo ‘sociale’: temi astratti, ben distesi, che fanno felici tutti (es. aiutare il prossimo, proteggere l’ambiente, che brutto il precariato). Al contrario, spopola la fiction “politica”. Di recente è stato pubblicato il trailer di 1994, ultimo capitolo della serie, produzione Sky, in onda, su Sky Atlantic, il 4 ottobre. Le immagini sono bellissime – Stefano Accorsi è sfizioso, malizioso, convincente. La fiction “politica” – si racconta l’alba di Berlusconi, l’impero della Seconda Repubblica – resta, però, “spettacolo”. Gli occhi ammirano, la mente si eccita, tutto resta lì. Il potere del ‘verbo’, che fa accadere le cose, che ordina il caos dando caos all’intelletto, si sta esaurendo.
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Per questo, proprio come in una fiction, l’importante, politicamente, è stupire. Ridurre un decennio in un’ora e mezza di film, un dibattito parlamentare in un cinguettio. Dalla folla dei cinguettanti che si credono aquile, però, manca, terribilmente, un ruggito. La prima cosa che fa un politico è comprarsi uno sceneggiatore che lo faccia diventare un ‘personaggio’ – tutto è teatro fino al delirio (affascinante da osservare, invero) di credere davvero al proprio ruolo. L’uomo sta diventando bidimensionale, le spire del suo cervello sono un immane intestino.
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Roman Polanski è ancora un punto di contraddizione. Prima lo invitano a Venezia, con il film J’accuse, poi la presidente di giuria, Lucrecia Martel, sbotta: “Non lo applaudirò. Non sarebbe giusto nei confronti di tutte le donne che rappresento e delle donne argentine vittime di stupro”. Cosa c’entra Polanski con le “donne argentine vittime di stupro”? Niente. Su di lui grava l’accusa di violenza sessuale perpetrata nel 1977 ai danni di una tredicenne, a casa di Jack Nicholson. Per non sottostare a giudizio, Polanski è scappato in Francia. Ciò non gli ha impedito di esercitare, con lauto successo, la sua arte fino a vincere un Oscar, nel 2003, per la regia de Il pianista, che ovviamente non è andato a ritirare. In effetti, torna sempre a galla questa brutta storia, che si alimenta di ipocrisie. O condono o perdono, non c’è altra via.
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Di padre in figlio. Il 30 e il 31 agosto a Venezia mostrano Andrey Tarkovsky. A Cinema Prayer. Ho avuto il privilegio di vedere il documentario in anteprima. Le immagini sono bellissime – la lingua non la capisco, il film è in russo. Tarkovskij ha il viso quadrato e gli occhi in grado di ospitare tutto il mondo: in alcune pellicole lo si vede che passeggia tra le spoglie del Rinascimento italiano, e si respira un’aria di eternità, come se l’avessimo avuto, il nostro Paradiso in terra, intriso di sangue e di azzurro, e non ne avremo un altro. Andrej Tarkovskij, autore di film necessari come Andrej Rublëv (1966), Stalker (quarant’anni fa), Nostalghia (1983), era figlio del poeta Arsenij Tarkovskij, sodale di Anna Achmatova e Osip Mandel’stam. Il documentario è realizzato dal figlio di Tarkovskij, che si chiama Andrej pure lui, nipote di Arsenij. Questo legame tra padri e figli, questi nomi che iniziano con la lettera A, mi affascina. Presto spero di poter chiacchierare con il figlio di Tarkovskij.
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Una amica mi ricorda chi sono ricalcando il pezzo di una cosa che ho scritto. Mi convince. Ma non ricordo da dove giunge, da quale libro? Di me sono dimentico.
“Oggi l’ho trovata nuda. Si è liberata delle coperte, si è tolta i vestiti. Nuda, nel letto con le sponde, sembra un passerotto in gabbia. A volte mi pare che la nonna si trasformi. Ora è un passero, domani un topo, dopo domani una iguana – fa paura perché la sua natura, ora, è più vicina al resto degli esseri che all’uomo. A volte, penso, può balzare dal letto e sbranarmi. Oltre a spogliarsi, la nonna si è tolta il pannolone. L’ho vista, di pomeriggio, con le mani sporche di merda: si leccava le dita. Mangiare la propria merda vuol dire che non si avverte più la differenza tra ciò che si ingurgita e ciò che si espelle, non si sente più la necessità di ricordare quello che si vede. La scena non mi sorprende. Quando parlo con la nonna assumo la voce rassicurante di un monaco o di un boia. Candida, tesa, indifferente. Tolgo lenzuola e coperte, le butto nella vasca da bagno. Faccio scorrere l’acqua – immagino torrenti artici, il sotterraneo sussurro dei ghiacci. Riempio una bacinella, spruzzo il sapone, piglio la spugna. Abbasso una sponda del letto. Ruoto mia nonna, in modo da avere il suo culo, floscio, magrissimo, davanti a me. Immagino di benedire un bambino. Non ci vuole un carisma particolare per occuparsi del prossimo, non occorre inspirare Dio, indossare l’estasi dei missionari o degli scout. Lo si fa e basta. Per convenienza sociale, per mero desiderio di pulizia. Con la spugna lavo il culo della nonna, lo pulisco dalle scaglie di merda che si sono indurite, sulle gambe. Faccio tutto a mani nude, sperando, forse, che un’infezione letale mi divori gli arti, la lingua, le mani. Cosa sarebbe di me se non riuscissi più a scrivere? L’importante è che funzionino i denti: scrivere, in fondo, è mordere. Non è la prima volta che maneggio la merda: prima della nonna pulivo quella del nonno. La merda, in fondo, infine, è l’essenza dell’essere umano. L’unica cosa di cui è naturale produttore. Ciò che hai sottratto alla terra, ritorna in forma di merda. Ora capisco la teoria puritana del denaro come ‘sterco del demonio’. Basta togliere la parola ‘demonio’ – che è l’analogo del senso di colpa – e il gioco funziona: tanto guadagni e tanto devi ridare al mondo che ti ha concesso quel guadagno. Se rompi l’equilibrio, vai in blocco intestinale, muori. La merda è il reliquiario di ciò che siamo: cosa sacra e intoccabile. Per questo, il water è simile a un trono e facciamo scomparire gli stronzi nell’acqua, l’elemento più puro e importante della terra. Sono il casto sacerdote della merda di mia nonna. Al contrario del cuore – volgare pompa che fa funzionare un meccanismo umano – è la merda la sintesi dei nostri sentimenti; siamo come caghiamo. Non è il cuore la sede dell’amore, ma il culo, da sempre”.
*
Rileggo Thomas Mann, le Considerazioni di un impolitico. La sua lancinante autonomia. “Non solo non penso che il destino dell’uomo si esaurisca nell’attività pubblica e sociale, ma addirittura trovo quest’opinione disgustosa e inumana”. (d.b.)
*In copertina: Jude Law in “The New Pope” di Paolo Sorrentino
L'articolo Diario veneziano: Jude Law papa scostumato (con paradiso di belle fanciulle) in “The New Pope” di Sorrentino; tutti (ipocriti) contro Polanski; voglio parlare con il figlio di Tarkovskij, autore di un documentario commovente. In appendice, Thomas Mann e un carro di m***a proviene da Pangea.
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Lo stuolo di sciarpe che si staglia sulla facciata dello stadio Franchi non cela il sentimento ancora cupo che da settimane pervade la Firenze calcistica. Quella notte di marzo in terra friulana ha segnato fortemente l’ambiente vuola e tramutato Astori in simbolo di una sofferenza e un dolore che paradossalmente ha forgiato il clan gigliato.
Nella morte ci sono sempre reazioni contrastanti. Spesso opposte. In tutti i modi specchi di quello che si è e dic ome si interpreta la propria esistenza.
In questa tiepida domenica pomeriggio di aprile, con le nuvole che “tappano” il cielo fiorentino, ascolto con estremo interesse le parole “estorte” dall’amico Sebastien ad alcuni sostenitori toscani sulla vicenda Astori. Quasi nessuno sembra intenzionato ad eloqui conditi da una facile retorica, che in questi casi troppo spesso prende il sopravvento sull’analisi razionale dei fatti. Tutti sono concordi nell’onorarne la memoria ma più di qualcuno sottolinea come non occorra caricare troppo la sua figura. E con molta onestà ammette che i suoi capitani si chiamavano Antognoni o Passarella. Quasi un volersi astrarre da un’era che spesso, con le sue esagerazioni e i suoi romanticismi forzati, non solo non rispetta la morte ma la trasforma in un evento da avanspettacolo.
Al contempo è anche vero che le nuove generazioni – spesso cresciute all’ombra di giocatori inermi e dirigenti asettiche – hanno bisogno di miti e icone a cui legarsi, quanto meno per fugare il grigio calcio contemporaneo. Se poi si prende ad esame la Fiorentina e i suo fedele popolo, non si può evitare di danzare sul filo della sua storia recente: poche soddisfazioni sportive, frequenti frizioni con la società e numerosi attriti proprio con calciatori che in maniera presunta hanno illuso la piazza per poi lasciarla. Spesso in luogo del peggiore dei nemici.
Insomma. Volente o nolente la morte arriva sempre a sconvolgere la vita. Ed è per questo che tutte le reazioni spontanee vanno rispettate e comprese.
Un po’ meno comprensibile – a mio avviso – è vedere un paio di signore appostate davanti allo storico Bar Marisa con un libro sul “Capitano Astori” tra le mani. Proposto quasi a mo di Testimoni di Geova. Ecco, francamente questo lo trovo una schiaffo a tutto quello che di umano e spontaneo un evento tragico come la morte di un giovane calciatore può produrre. È una mia idea, sia chiaro. Ma purtroppo credo sia un fedele specchio di come in tanti (troppi) aspettino queste occasioni per far passare il lucro/la speculazione come commemorazione. Questione di punti di vista.
Fatta questa dovuta premessa, che avrei voluto stendere già precedentemente, posso passare al cuore della giornata: la sfida tra viola ed estensi. Una gara che personalmente arriva dopo un sabato speciale, passato tra Livorno (per il derby col Pisa) e Pontedera (per la partita contro la Carrarese). Immagine, canti e tifo che mi hanno restituito una bella immagine della Toscana curvaiola, facendomi tornare indietro di qualche anno.
Firenze è il degno punto esclamativo. Che peraltro farà da prologo al derby di Roma, qualche ora dopo.
Gigliati e spallini tornano ad affrontarsi dopo un’andata turbolenta, preceduta da alcune tensioni al di fuori del Mazza. Non c’è grande feeling pertanto, nel pieno rispetto di quell’assioma che vuole emiliani e toscani nemici giurati.
Salite le scalette della tribuna stampa lo sguardo cade subito sul settore ospiti, dove si registra un’ottimo colpo d’occhio. Sono circa 2000 i supporter biancazzurri, che si fanno sentire sin da subito provocando i dirimpettai. Come spesso avviene al Franchi, anche a loro sono state sequestrate le aste dei bandieroni, ritenute pericolose. Credo sia inutile soffermarsi sulla stupidità di tale provvedimento (con le bandiere non è mai morto nessuno, come con tamburi e megafoni, visti per anni come primo nemico), quindi riporto la notizia solo come spiegazione alla mancanza della classica macchia sventolante della tifoseria spallina.
Fortunatamente non c’è stato alcun problema per il drappo di Federico Aldrovandi, che fiero viene appeso sulla vetrata centrale.
Sul tifo ospite: in trasferte come queste è inevitabile constatare la larga presenta di tifosi “occasionali”. Termine che non viene usato dal sottoscritto in maniera dispregiativa, ma solo per dar spiegazione a un giudizio complessivamente positivo (gli spallini tifano, lo fanno costantemente, sono colorati e come sempre dimostrano di portare dietro una discreta tradizione calcistica e curvaiola) che però tiene ovviamente conto di una veloce crescita numerica dovuta al doppio balzo dalla C alla A, causa inevitabile di un maggiore impegno e costanza da parte del direttivo nel non disperdere un grande potenziale.
Per quanto riguarda i viola, la Fiesole si esibisce in una classica prestazione casalinga. Gruppone centrale a tirare le redini e buoni picchi supportati da un impegno canoro costante e colorato dalle tante bandiere, oltre che dai petti nudi nella ripresa. Se c’è un appunto che posso fargli è la frammentazione tra le diverse anime della curva che spesso si evidenzia in una mancanza di unione a livello visivo. Figlia anche di un’affluenza che ormai troppo spesso fa difficoltà a registrare sold out nel cuore del tifo gigliato.
In campo finisce 0-0. Un risultato figlio di una gara tutt’altro che spettacolare, “movimentata” solo dal rigore prima concesso e poi tolto alla Spal. Momento in cui la Fiesole sbeffeggia gli arcirivali juventini dando ironicamente dell’insensibile all’arbitro nel momento del rigore concesso e del sensibile quando il penalty viene revocato. Il tutto ovviamente in scherno alle parole di Buffon dopo l’eliminazione in Champions League subita per mano del Real Madrid.
Testo di Simone Meloni
Foto di Simone Meloni e Valerio Poli
Galleria Poli:
Galleria Meloni
Fiorentina-Spal, Serie A: contrasti generazionali e fedeltà alla bandiera Lo stuolo di sciarpe che si staglia sulla facciata dello stadio Franchi non cela il sentimento ancora cupo che da settimane pervade la Firenze calcistica.
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Meet Harrison Banks, our resident intern / super-obsessed blogger. Her super power? Never knowing how to shut her mouth. Our character designer brought so much personality out of Harrison, but my favorite detail is her small Semicolon Project tattoo on her ankle. The semicolon project highlights the idea that an author could have ended a sentence, but chose to continue. Harrison, to me, is that audience entry point to something big. She digs into Anika’s story so much because of her own anxiety, and this feeling that someone that struggles with panic attacks, someone like her, could have insane super powers. Harrison’s obsession with Anika’s story is, in part, an obsession with her own. You can meet Harrison by listening to all three seasons of our show now on Apple Podcasts, Spotify, or at superordinarypod.com
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As we prep for season 4′s premiere this summer, we’re getting a whole new look. Check out our official character designs for Anika and Bailey, and this new cover art for season 1! Listen along with us as we go back through the whole show on Apple Podcasts, Spotify, or at superordinarypod.com
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The many faces of Anika Song???? Our character designs for Super Ordinary were done by the absolutely amazing, multi-talented Mia Passarella, and we think so much about this one in particular. We really wanted to figure out who Anika was and when you dig into a character you’ve only known by her voice for so long, you will be amazed how much you think about every little thing. Clothes? She's been on the run for over a year. Her parents don’t know where she is, she’s got every super hero and news organization and law enforcement group hunting her down. Girl has got to be able to run. But sneakers don’t quite fit - ya girl has a tough as nails exterior, and she wants the footwear to match. So, combat boots. Layers that can be stripped down when necessary, used as a pillow on long bus rides, a hood to hide behind when necessary. And a short chop that, you know, Bailey probably cuts for her, so she doesn’t freak out.
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Valentino usa i poeti per fare moda. Sono tutti belli, ex modelli, impegnati nel sociale, molto social. Insomma, una pernacchia in faccia alla poesia (e c’è anche Allah in passarella)
Ora potete sputare sulla mia ingenuità.
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Serata solitaria, sciacalli lungo la riviera, l’ululato della malia. Cassone a sfamarmi, il tiggì di Rai 2 per farmi sentire parte della Storia. Il servizio parla di moda. Ascolto distrattamente. Si parla di una sfilata di Valentino. Il giornalista dice pressappoco che “Valentino ha usato per esaltare la nuova collezione i versi di alcuni poeti contemporanei”. Il cassone mi pare aragosta. Esulto. Con un tot di morigerata invidia. Chi saranno i “poeti contemporanei” che sfogano la loro vena lirica sugli abiti di Valentino?
*
Per un po’ – sputate sulla mia ingenuità da agnellino con fauci da lupo – strologo. Saranno i versi di Milo De Angelis o quelli di Maurizio Cucchi? No, i guru della moda andranno su poeti più modaioli, penso a Isabella Leardini e alle truppe dei suoi lirici liceali. Certamente ci sarà Laura Pugno, forse Antonella Anedda o Mariangela Gualtieri, qualcosa saprà il mio amico Gabriele Galloni.
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Ora sputate sulla mia spuntata ingenuità da idiota con la maschera da Minotauro.
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Mi informo. La collezione è una evoluzione del progetto Valentino On Love, che prevede “la realizzazione di una collezione limited edition di 400 borse Valentino Garavani Rockstud Spike rosse con borchie rosse. Ogni borsa è numerata e personalizzata con una delle 400 poesie d’amore che Yrsa Daley-Ward ha dedicato al progetto, viene accompagnata da un libro contenente 25 componimenti inediti dell’autrice e un packaging speciale”. Chi cavolo è Yrsa Daley-Ward? Gran bella ragazza, mamma giamaicana, padre nigeriano, fa la modella e l’attrice, “spende il suo tempo tra Londra e Los Angeles” – che figata: io lo ‘spendo’, da straccione, tra Riccione, Misano e Milano, ogni tanto… Fa anche la poetessa. Per descrivere le sue poesie, dicono che è “vicina alle questioni femministe, antirazziste e LGBT” e che “le sue poesie, gesti istintivi che raccontano emozioni, hanno raggiunto migliaia di lettori e lettrici in tutto il mondo”. La schiena è attraversata da una scansione di cubi di ghiaccio. La ragazza è bella, sufficientemente ricca per vivere tra UK e USA, descritta, esteticamente, per i temi etici che tocca e attraverso i lettori che ne sono toccati.
*
Provo a leggere una poesia di Yrsa, s’intitola Profumo, comincia così:
In teoria Ti ho scritto fuori dalla mia memoria. Comunque, il centro della mia faccia Rifiuta di essere detto.
Sono annullata. Forse c’è aria nella mia testa. Tre anni. E ho lavorato troppo nel nostro amore. Tra anni
E non posso annullare il problema del tuo profumo.
*
Diciamo che non mi pare memorabile. Con un po’ di sgomento continuo a informarmi. Leggo dal blog di Michele Ciavarella, sul Corriere della Sera. “Sugli abiti di questa collezione, discretamente ricamate all’interno di cappotti e di abiti, gelosamente inserite nei ricami e nelle stampe, ci sono le poesie di quattro poeti, Greta Bellamacina, Mustafa The Poet, Yrsa Daley-Ward, Robert Montgomery”. Non ci sono poeti italiani. Forse, non ci sono proprio poeti, ma poesie utili all’evento.
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Greta Bellamacina è un’altra bella tipa: viene da UK, classe 1990, fa la modella, l’attrice, è anche poetessa. Robert Montgomery è il marito di Bellamacina, classe 1972, è il più poeta di tutti – vizi sessantottini e un amore, dice, per Philip Larkin – celebre per certe azioni legate all’inclusione, all’amore planetario poetico e per le installazioni liriche: una delle ultime diceva “Le persone che ami diventano fantasmi dentro di te ed è così che le fai vivere”, roba che neppure i Baci Perugina. Mustafa the Poet è attore pure lui, poeta per necessità artistica, bilancia il quadro sul lato della tolleranza razziale e religiosa: “utilizza il potere delle arti”, si legge nel suo sito specifico – dacché tutti questi poeti hanno un sito internet proprio, figo – “toccando argomenti come la situazione giovanile, la malattia mentale, l’Islam, l’immigrazione, la violenza, la ricerca della pace”. Se aprite il suo sito, Mustafa vi dice che è “Solo grazie ad Allah e poi alla mia famiglia… sono riuscito a crescere come artista”. In un recente ‘cinguettio’ Mustafa ci dice che “Non vizierò il mio successo con cose di lusso: saprai che sono buono quando vado alla Mecca tre volte all’anno”. Prima di andare alla Mecca, però, Mustafa è in passerella, griffa un abito Valentino. Così anche Allah è diventata la divinità dei politicamente corretti.
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Dite che non dovrei indignarmi? Io mi indigno. Vedere la poesia usata come decorazione dei buoni sentimenti e medaglia sugli ottimi fatturati, come altare dei buoni di cuore e panacea per tutte le stron*ate mi fa male.
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Lungi da fare il tango con gli snobismi: non contano i nomi – le griffe o le gaffe – ma le poesie, l’opera. Alla maison Valentino, brutalmente, dell’opera frega nulla. Ha scelto una nera impegnata per i diritti LGBT, un musulmano che porta Allah in passerella, una coppia di divi lirici inglesi. Tutti, va da sé, belli, fotogenici, social. Politicamente corretto, ormai, è una parola che va bene per i brontosauri, bisogna inventarne un’altra, più adatta, dalle malizie orwelliane. Il poeta non va in passerella, sguaina la spada per partecipare alla guerra degli sconfitti. Detronizza. Scarnifica i miti. Oppure si rinchiude nella purezza. Esagera. Non è servo – serve a liberarci. Se va in passerella, lo fa a suo modo, da disadatto, da re del regno d’altrove. (d.b.)
*In copertina, Greta Bellamacina
L'articolo Valentino usa i poeti per fare moda. Sono tutti belli, ex modelli, impegnati nel sociale, molto social. Insomma, una pernacchia in faccia alla poesia (e c’è anche Allah in passarella) proviene da Pangea.
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La premessa che voglio fare – e che spero venga parzialmente smentita dalla finalissima di domani – è la seguente: ho il sentore che queste Final Four giocate a Firenze si riveleranno, a posteriori, dei veri e propri flop. Se l’intento era quello di catalizzare l’attenzione attorno a questo evento, nella speranza di riempire lo stadio Franchi, diciamo che al momento il risultato è diametralmente opposto. Ma voglio attendere che Parma ed Alessandria abbiano disputato l’ultimo atto della stagione per esprimermi appieno e senza il rischio di dover tornare sui miei passi.
Di certo far giocare le semifinali in mezzo alla settimana, con tutte e quattro le città impegnate relativamente distanti dal capoluogo toscano, non è stato un colpo di genio. Questo possiamo cominciare a metterlo nero su bianco. Beninteso che ho apprezzato la formula di questi Playoff fino ai Quarti, quando squadre provenienti da ogni zona d’Italia si sono affrontate ridando luce a incroci storici e ad altri inediti, alcuni degni di categorie maggiori.
Reggiana-Alessandria, sulla carta, è senza dubbio la più interessante delle due sfide. Almeno per blasone complessivo e tradizione delle due tifoserie. Grigi e granata non hanno bisogno di presentazioni a livello societario: compagini che hanno calcato i campi della Serie A e tifoserie con una storia ultras lunga e ben radicata nelle rispettive città. Solo questo è un biglietto da visita utile per spingermi a presenziare sul manto verde dello stadio fiorentino.
Sensazione personale: è ovviamente un onore e un’emozione poter mettere piede sulla stessa erba calcata da mostri sacri come Antognoni, Passarella, Batistuta, Rui Costa, Edmundo e Toldo. A prescindere da tutto, se si ama il calcio non si può non riconoscere al Franchi quel fascino intriso di storia che si porta necessariamente dietro. Senza dimenticare che lo stadio è una delle tante opere lasciate in eredità da Pier Luigi Nervi.
Il dispositivo di sicurezza appare tutto sommato blando, e l’afflusso delle due tifoserie avviene in modo alquanto snello e rapido. Una volta superato il primo cancello anche io sono nella pancia dello stadio e posso accedere sul terreno di gioco mentre le gradinate vanno a “riempirsi”. Le virgolette sono d’obbligo considerando la chiusura della Ferrovia e di quasi tutta la tribuna scoperta.
A Reggio i biglietti venduti si aggirano attorno alle tremila unità e, come i rivali d’oltre Enza del Parma, anche i granata verranno fatti accomodare nel “formaggino”. Oggi dico: meglio così, la Ferrovia non avrebbe dato la stessa opportunità di compattarsi. Agli alessandrini è stata invece aperta la Curva Fiesole e, malgrado qualcuno parlasse di circa mille grigi in arrivo a Firenze, il numero sarà visibilmente più basso.
Non mi piace fare i processi ai numeri, ritenendo la qualità il pregio più importante di cui far sfoggio, e comprendo che l’orario lavorativo e la distanza sono senza dubbio dei fattori ostativi non indifferenti. Però sinceramente mi aspettavo qualcosina in più. Così come, sempre per essere sincero, non ho molto capito e condiviso la linea adottata dai supporter piemontesi nelle ultime settimane. Ovvio, venire catapultati da una promozione quasi sicura agli insidiosissimi playoff in questa maniera non è il massimo. E nelle viscere del tifoso è ovvio che si accenda la rabbia mista alla delusione. Ma è altrettanto vero – mi permetto questo giudizio che resta sempre personale – che se l’Alessandria, per qualsiasi ragione, non fosse voluta salire in B arbitrariamente, di certo non avrebbe eliminato avversarie toste come Casertana e Lecce, vincendo poi la sfida di questa sera.
Questo per dire cosa? Ho apprezzato e apprezzo tutt’oggi la tifoseria grigia per la sua tenacia, per le sue scorribande a Cirié o a Rivarolo Canavese, ai tempi dei dilettanti. Quando il tifo alessandrino diede una grande prova di attaccamento ai propri colori, come spesso gli è accaduto nei decenni, malgrado i risultati sportivi abbiano latitato per oltre mezzo secolo. Ma non comprendo proprio una protesta così dura e intransigente (i club hanno addirittura saltato le trasferte nei playoff) nel momento in cui – volente o nolente – il calcio cittadino si è lentamente e faticosamente rialzato e da due anni si gioca ormai a pieno titolo la Serie B, senza dimenticare la meravigliosa cavalcata in Coppa Italia dello scorso anno, interrotta solo dal Milan in semifinale.
È una critica agli alessandrini, vero. Ma potrei estenderla a tante tifoserie in Italia, che troppo spesso si lasciano andare a contestazioni fuori luogo dimenticando realtà che da anni mangiando davvero la cosiddetta cacca senza batter ciglio. Basti pensare a chi fallisce regolarmente ogni 3-4 anni o a chi resta impelagato nel fango delle categorie minori vita natural durante, continuando comunque a manifestare senza dubbi la propria fede e il proprio attaccamento a colori, squadra e città.
Di contro c’è quella che, sempre a mio parere, quest’anno si è dimostrata tra le tifoserie più in forma. I reggiani me li ricordo anni fa, sempre in C, in una partita contro la Cavese. Era la prima volta che li vedevo. Andai al Giglio per i tifosi ospiti…rimasi quasi tutta la partita sotto al settore che allora ospitava Teste Quadre e Gruppo Vandelli. Così quest’anno non ho perso occasione di andarli a “sbirciare” qualche volta fuori e in un paio di occasioni anche tra le mura amiche. Ciò che mi colpisce sempre di loro è la semplicità con cui dimostrano di essere una tifoseria di sostanza più che d’apparenza. Il reggiano forse non ti colorerà il settore alla perfezione ma è il classico tifoso che canta perché ha fame. Sa che è l’unico modo per non far scomparire quasi cento anni di storia e ricordare ogni giorno alla propria città che Reggio Emilia è granata e non ci può essere nessun’altro sodalizio (plastificato) in grado di soppiantare il club della città.
E anche oggi sarà questo il leitmotiv della serata: una coreografia semplice fatta di cartoncini bianchi e granata (forse un po’ scompatta nello spicchio del settore alla mia destra, dove dovevano ancora arrivare tutti i tifosi) e un gran tifo per tutti i 90′, malgrado l’Alessandria trovi il vantaggio quasi subito con Gonzalez e raddoppi a inizio ripresa sempre con l’ex giocatore del Novara (uno che a questi livelli può fare davvero la differenza). I supporter emiliani tifano, si mettono in mostra con manate pressoché perfette e lasciano il segno con un paio di sciarpate e qualche torcia accesa (e imprudentemente tenuta in mano) applaudendo nel finale la squadre che esce sconfitta malgrado Guidono a 10′ dalla fine provi a riaprire il match andando in gol.
Per loro è stato comunque un cammino soddisfacente, interrotto proprio sul più bello quando tutti sognavano uno storico derby col Parma in finale (forse sarebbe stato l’unico modo per portare un numero massiccio di persone al Franchi).
Sul fronte opposto i tifosi alessandrini si assiepano dietro lo striscione 1974 Alessandria Football Fans, esposto da qualche mese anche nelle partite casalinghe. Dopo un avvio in sordina, gli ultras piemontesi prendono quota con l’iniziale vantaggio rendendosi protagonisti di una buona prestazione, in particolar modo nella ripresa quando, subodorando il successo, tutto il settore si unisce ai cori degli ultras facendo davvero un bell’effetto. Notevole il continuo sventolio dei bandieroni e le due esultanze ai gol più quella liberatoria nel finale.
Se prima ho criticato la linea scelta dalla tifoseria grigia in queste ultime settimane, devo contestualmente dire che ho perfetto capito quanto essa sia dettata dalla passione ardente che muove un’intera città attorno alla sua squadra. Sono stato ad Alessandria quest’anno, contro il Como, e avevo trovato un ambiente molto bello. Pregno di storia, in grado di mandarti indietro quasi di mezzo secolo e farti capire quanto il calcio a quelle latitudini abbia davvero mosso i primi passi e sia rimasto radicato nelle vene di intere generazioni.
Ci sarà ora una finale da affrontare e sono certo che l’Alessandria calcistica non si farà parlare dietro. E comunque – non me ne voglia nessuno – resto contato del fatto che a disputarsi queste finali siano stati tre sodalizi storici del nostro calcio, con uno che sicuramente tornerà tra i cadetti. Il nostro pallone ha incredibilmente bisogno di una restaurazione geopolitica per tornare a vivere e respirare secondo i propri bioritmi.
Dall’Artemio Franchi per oggi è tutto.
Testo Simone Meloni
Foto Simone Meloni e Marco Florenzi
Galleria Florenzi
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Alessandria-Reggiana (semifinale playoff): storie di ultras e storie di calcio La premessa che voglio fare - e che spero venga parzialmente smentita dalla finalissima di domani - è la seguente: ho il sentore che queste…
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La premessa che voglio fare – e che spero venga parzialmente smentita dalla finalissima di domani – è la seguente: ho il sentore che queste Final Four giocate a Firenze si riveleranno, a posteriori, dei veri e propri flop. Se l’intento era quello di catalizzare l’attenzione attorno a questo evento, nella speranza di riempire lo stadio Franchi, diciamo che al momento il risultato è diametralmente opposto. Ma voglio attendere che Parma ed Alessandria abbiano disputato l’ultimo atto della stagione per esprimermi appieno e senza il rischio di dover tornare sui miei passi.
Di certo far giocare le semifinali in mezzo alla settimana, con tutte e quattro le città impegnate relativamente distanti dal capoluogo toscano, non è stato un colpo di genio. Questo possiamo cominciare a metterlo nero su bianco. Beninteso che ho apprezzato la formula di questi Playoff fino ai Quarti, quando squadre provenienti da ogni zona d’Italia si sono affrontate ridando luce a incroci storici e ad altri inediti, alcuni degni di categorie maggiori.
Reggiana-Alessandria, sulla carta, è senza dubbio la più interessante delle due sfide. Almeno per blasone complessivo e tradizione delle due tifoserie. Grigi e granata non hanno bisogno di presentazioni a livello societario: compagini che hanno calcato i campi della Serie A e tifoserie con una storia ultras lunga e ben radicata nelle rispettive città. Solo questo è un biglietto da visita utile per spingermi a presenziare sul manto verde dello stadio fiorentino.
Sensazione personale: è ovviamente un onore e un’emozione poter mettere piede sulla stessa erba calcata da mostri sacri come Antognoni, Passarella, Batistuta, Rui Costa, Edmundo e Toldo. A prescindere da tutto, se si ama il calcio non si può non riconoscere al Franchi quel fascino intriso di storia che si porta necessariamente dietro. Senza dimenticare che lo stadio è una delle tante opere lasciate in eredità da Pier Luigi Nervi.
Il dispositivo di sicurezza appare tutto sommato blando, e l’afflusso delle due tifoserie avviene in modo alquanto snello e rapido. Una volta superato il primo cancello anche io sono nella pancia dello stadio e posso accedere sul terreno di gioco mentre le gradinate vanno a “riempirsi”. Le virgolette sono d’obbligo considerando la chiusura della Ferrovia e di quasi tutta la tribuna scoperta.
A Reggio i biglietti venduti si aggirano attorno alle tremila unità e, come i rivali d’oltre Enza del Parma, anche i granata verranno fatti accomodare nel “formaggino”. Oggi dico: meglio così, la Ferrovia non avrebbe dato la stessa opportunità di compattarsi. Agli alessandrini è stata invece aperta la Curva Fiesole e, malgrado qualcuno parlasse di circa mille grigi in arrivo a Firenze, il numero sarà visibilmente più basso.
Non mi piace fare i processi ai numeri, ritenendo la qualità il pregio più importante di cui far sfoggio, e comprendo che l’orario lavorativo e la distanza sono senza dubbio dei fattori ostativi non indifferenti. Però sinceramente mi aspettavo qualcosina in più. Così come, sempre per essere sincero, non ho molto capito e condiviso la linea adottata dai supporter piemontesi negli ultimi mesi. Ovvio, venire catapultati da una promozione quasi sicura agli insidiosissimi playoff in questa maniera non è il massimo. E nelle viscere del tifoso è ovvio che si accenda la rabbia mista alla delusione. Ma è altrettanto vero – mi permetto questo giudizio che resta sempre personale – che se l’Alessandria, per qualsiasi ragione, non fosse voluta salire in B arbitrariamente, di certo non avrebbe eliminato avversarie toste come Casertana e Lecce, vincendo poi la sfida di questa sera.
Questo per dire cosa? Ho apprezzato e apprezzo tutt’oggi la tifoseria grigia per la sua tenacia, per le sue scorribande a Cirié o a Rivarolo Canavese, ai tempi dei dilettanti. Quando il tifo alessandrino diede una grande prova di attaccamento ai propri colori, come spesso gli è accaduto nei decenni, malgrado i risultati sportivi abbiano latitato per oltre mezzo secolo. Ma non comprendo proprio una protesta così dura e intransigente (i club hanno addirittura saltato le trasferte nei playoff) nel momento in cui – volente o nolente – il calcio cittadino si è lentamente e faticosamente rialzato e da due anni si gioca ormai a pieno titolo la Serie B, senza dimenticare la meravigliosa cavalcata in Coppa Italia dello scorso anno, interrotta solo dal Milan in semifinale.
È una critica agli alessandrini, vero. Ma potrei estenderla a tante tifoserie in Italia, che troppo spesso si lasciano andare a contestazioni fuori luogo dimenticando realtà che da anni mangiando davvero la cosiddetta cacca senza batter ciglio. Basti pensare a chi fallisce regolarmente ogni 3-4 anni o a chi resta impelagato nel fango delle categorie minori vita natural durante, continuando comunque a manifestare senza dubbi la propria fede e il proprio attaccamento a colori, squadra e città.
Di contro c’è quella che, sempre a mio parere, quest’anno si è dimostrata tra le tifoserie più in forma. I reggiani me li ricordo anni fa, sempre in C, in una partita contro la Cavese. Era la prima volta che li vedevo. Andai al Giglio per i tifosi ospiti…rimasi quasi tutta la partita sotto al settore che allora ospitava Teste Quadre e Gruppo Vandelli. Così quest’anno non ho perso occasione di andarli a “sbirciare” qualche volta fuori e in un paio di occasioni anche tra le mura amiche. Ciò che mi colpisce sempre di loro è la semplicità con cui dimostrano di essere una tifoseria di sostanza più che d’apparenza. Il reggiano forse non ti colorerà il settore alla perfezione ma è il classico tifoso che canta perché ha fame. Sa che è l’unico modo per non far scomparire quasi cento anni di storia e ricordare ogni giorno alla propria città che Reggio Emilia è granata e non ci può essere nessun’altro sodalizio (plastificato) in grado di soppiantare il club della città.
E anche oggi sarà questo il leitmotiv della serata: una coreografia semplice fatta di cartoncini bianchi e granata (forse un po’ scompatta nello spicchio del settore alla mia destra, dove dovevano ancora arrivare tutti i tifosi) e un gran tifo per tutti i 90′, malgrado l’Alessandria trovi il vantaggio quasi subito con Gonzalez e raddoppi a inizio ripresa sempre con l’ex giocatore del Novara (uno che a questi livelli può fare davvero la differenza). I supporter emiliani tifano, si mettono in mostra con manate pressoché perfette e lasciano il segno con un paio di sciarpate e qualche torcia accesa (e imprudentemente tenuta in mano) applaudendo nel finale la squadre che esce sconfitta malgrado Guidono a 10′ dalla fine provi a riaprire il match andando in gol.
Per loro è stato comunque un cammino soddisfacente, interrotto proprio sul più bello quando tutti sognavano uno storico derby col Parma in finale (forse sarebbe stato l’unico modo per portare un numero massiccio di persone al Franchi).
Sul fronte opposto i tifosi alessandrini si assiepano dietro lo striscione 1974 Alessandria Football Fans, esposto da qualche mese anche nelle partite casalinghe. Dopo un avvio in sordina, gli ultras piemontesi prendono quota con l’iniziale vantaggio rendendosi protagonisti di una buona prestazione, in particolar modo nella ripresa quando, subodorando il successo, tutto il settore si unisce ai cori degli ultras facendo davvero un bell’effetto. Notevole il continuo sventolio dei bandieroni e le due esultanze ai gol più quella liberatoria nel finale.
Se prima ho criticato la linea scelta dalla tifoseria grigia in queste ultime settimane, devo contestualmente dire che ho perfetto capito quanto essa sia dettata dalla passione ardente che muove un’intera città attorno alla sua squadra. Sono stato ad Alessandria quest’anno, contro il Como, e avevo trovato un ambiente molto bello. Pregno di storia, in grado di mandarti indietro quasi di mezzo secolo e farti capire quanto il calcio a quelle latitudini abbia davvero mosso i primi passi e sia rimasto radicato nelle vene di intere generazioni.
Ci sarà ora una finale da affrontare e sono certo che l’Alessandria calcistica non si farà parlare dietro. E comunque – non me ne voglia nessuno – resto contato del fatto che a disputarsi queste finali siano stati tre sodalizi storici del nostro calcio, con uno che sicuramente tornerà tra i cadetti. Il nostro pallone ha incredibilmente bisogno di una restaurazione geopolitica per tornare a vivere e respirare secondo i propri bioritmi.
Dall’Artemio Franchi per oggi è tutto.
Testo Simone Meloni
Foto Simone Meloni e Marco Florenzi
Galleria Florenzi
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Galleria Meloni
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Alessandria-Reggiana (semifinale playoff): storie di ultras e storie di calcio La premessa che voglio fare - e che spero venga parzialmente smentita dalla finalissima di domani - è la seguente: ho il sentore che queste…
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