#mi strappo tutto
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se mi stacco da te, mi strappo tutto:
ma il mio meglio (o il mio peggio)
ti rimane attaccato, appiccicoso, come un miele, una colla, un olio denso:
ritorno in me, quando ritorno in te: (e mi ritrovo i pollici e i polmoni):
tra poco atterro a Madrid:
(in coda qui all’aereo, selezionati miei connazionali
gente d’affari, dicono numeri e numeri, mentre bevono e fumano, eccitati,
agitatamente ridendo):
vivo ancora per te, se vivo ancora:
(Edoardo Sanguineti)
#culture#letteratura#letteratura italiana#scrittura#bellezza#poesia#poesia italiana#edoardo sanguineti#leggete poesie#bnwphotography#ritratto#mi strappo tutto
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VI STRAPPO UNA RISATA..
“Papà, ti ho mandato sulla mail la rata del mutuo che dovrei pagare ma non ho soldi" - “che bello, non aspettavo altro, guardo subito!”
Ho ingoiato un po' di saliva e ho aperto l'allegato.
Chiamo mia figlia: “Giu', ma si deve pagare subito o abbiamo un po' di tempo?” - “Pa', ieri già era tardi! Perché c'è qualche problema?” - “nooooo, quale problema, figurati...”. Pero', cavolo, per pagare sempre tutto uno si dovrebbe mettere a far rapine.
Rapine? Ho detto rapine? Mumble mumble..La banca si trova a due chilometri e ho la schiena che mi duole senza tralasciare l'uomo nerboluto che sta all' ingresso. Penso di optare per il negozio di cibo per animali sotto casa. C'è sempre una vecchietta da sola e le crocchette per cani vanno a ruba. Sicuramente gli incassi non mancano, sembra il posto perfetto da rapinare..
Il piano è da preparare con cura. Avrò bisogno di qualche complice. Chi meglio del mio cagnolino?
Gli racconto un po' la strategia: “Ascolta Dandy, le crocchette non ti sono mai mancate, anche le scatolette di manzo, pollo e cinghiale di quella marca che tu preferisci. I croccantini, quelli che a te fanno schifo, ma costano poco, non te l'ho mai imposti, quindi, se vuoi continuare a fare la vita da nababbo come un parlamentare mi devi essere complice. Ascoltami bene: stasera verrai con me, indosserai questo marsupietto colorato, anche se il disegno di Pluto non ti piace, non ho altro, quindi zitto! Andremo nel negozio di cibo per animali. La signora ama i cani e di sicuro quando ti vedrà sarà un gioco facile. Ti prenderà in braccio, tu, in un primo momento, sarai dolce, occhi mielosi e strusciamenti continui: “Ma quanto è bello..., come si chiama..., ma che carino...”, dopo qualche minuto tu, con uno scatto gli scivolerai via dalle braccia e ti nasconderai nel retro bottega. Naturalmente la signora ti vorrà seguire e ti cercherà, bada che non ci vede bene, quindi perderà del tempo: "Cagnolino, dove sei?" E in quel tempo io mi pappo la cassa..., intesi?”
Il piano è fallito vergognosamente, io me lo sentivo, Dandy non è affidabile. In quel caxxo di negozio, proprio mentre tentavo il furto è entrato un tizio con un Rottweiler bavoso e anche un po' scontroso. Ha trovato Dandy che si era nascosto in due secondi.... quel bastardo!
Dandy è scappato come un vigliacco!
Oltre al mutuo ci sono le bollette da pagare..., forse opterò per la banca, almeno lì i cani non li fanno entrare!
@ilpianistasultetto
Il complice..😱
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Non è Natale senza la tavolata grande di parenti, la confusione, i bambini che vogliono uscire fuori ma mettiti il giubbotto che c’è freddo e non correre guarda come sei tutto sudato!
Non è Natale senza le partite a carte e gli sbadigli, gli auguri a mezzanotte ma senza regali perché siamo troppi dai e non si può fare
Non è Natale senza vedere i nonni e prendere veloce quei 20€ che la nonna spaccia poco prima di salutarci
Un po’ mi manca quando il Natale era semplice, era facile e non vedevo l’ora mentre ora auguri, uno strappo con il pranzo, una cena comandata e passa la paura, anche questa l’abbiamo spuntata.
L’abbiamo spuntata senza magia, senza quel pizzico di magia che fa sembrare tutto più semplice e bello.
L’abbiamo spuntata senza feriti, senza liti e lamentele. E fin qui ok…
Ma ci siamo portati a casa un Natale che non ricorderemo. E in effetti, che abbiamo fatto lo scorso Natale?
Boh non mi ricordo…
Però ok, buon Natale 💫
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La fine di una relazione tossica.
Dopo un anno di relazione, dal giorno 29 agosto 2023 sono ufficialmente “libera”. In che senso? Intendo LIBERA non nel senso di “Fatevi avanti, ragazzi!”, ma nel senso che mi sento come se mi fosse stato tolto un grande peso di dosso. Come mi sono ritrovata in quella relazione? È una storia lunga. Perché l’ho definita “tossica”? Ebbene: piangevo sempre, avevo bisogno di lui ma al tempo stesso stavo male (“dipendenza affettiva”), volevo già uscirne da molto tempo prima ma non riuscivo a farlo o a dirgli di no e anche se abbiamo passato dei momenti teneri insieme non sono mai stata veramente felice. Certo, quando abbiamo ufficialmente rotto, qualche lacrima è scesa. C’erano pur sempre dei sentimenti coinvolti. Ma se avessi continuato a “vegetare” in quella situazione sarei stata molto, ma MOLTO peggio.
Scrivo tutto questo anche per aiutare chi magari è intrappolato in una relazione simile ma non sa come uscirne. Il mio consiglio è: NON abbiate paura di troncare il rapporto. FATELO E BASTA. Senza pensarci. Come uno strappo di cerotto. Ve ne sarete grati, credetemi 😊
Detto questo, passo e chiudo!
P.S. Sentitevi liberi di far girare questo messaggio a chiunque credete che possa averne bisogno, ricordando che: 1) non siete soli e 2) potete farcela!
~ Ragazza libera
#frasi#storie#storie di vita#lezioni di vita#relazioni#relazione tossica#relazioni tossiche#relazione finita#vita#libertà
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Al freddo sapore di mela renetta,
in lingua, per tutta la bocca
che succia ed aspetta,
ritorna negli occhi la ciocca
immobile al dolco d’autunno,
sospesa alla voglia — una frasca
di verde cognate a Vertunno
distesa nel latte di vasca.
Mela renetta che mordo,
in questo riposo di festa,
adagio, come un ricordo
di dolcezza manifesta.
Una mi basta: nel gusto
di quell’instante, di quel morso,
rivedo all’ombra obliqua del fusto
passare il blù come un chiaro discorso.
Tutto abbandono in disparte.
Figliolo di terra ed erede
d’incontrastabile parte
il Dio mal creduto mi vede.
Mia la foglia che strappo odorando
le dita — ma più la discesa
che rifarò, tra poco, pensando
a me, sotto l’aria che pesa.
Mia tutta, la campagna, in quel sapore
che maturamente si distrugge e si disfà,
mio l’odore, l’afrore
dell’imprecisa immensità.
Nessuno godrà quel che presi
con la docile calma de' minuti,
masticando le frutta di tanti paesi
ricchi al sole e da me sconosciuti.
Ma nel termine d'ogni più fine dolcezza,
nella più persa dimenticanza,
un'acida puntura d'amarezza,
rompe ogni sacra alleanza.
Io e me, nati al medesimo istante,
consegnati ad una sorte,
ritroviamo, in un ritmo andante,
passi e sussurri di morte.
Al largo, nell'ombra dell'acqua
più zitta, ove il colpo del remo
l'erba marina risciacqua,
stretti assieme affonderemo.
Ma oggi, nell'ansia tranquilla
di questa giornata che affretta
la sera, non lascio una stilla
del sugo di sole di mela renetta.
Giovanni Papini, da Opera prima, 1917
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Nino Benvenuti: «Senza ricordi non c’è futuro»
Campione olimpico nel 1960, campione mondiale dei Pesi superwelter tra il 1965 e il 1966 e dei pesi medi dal 1967 al 1970, Giovanni (Nino) Benvenuti è stato uno dei migliori pugili italiani di tutti i tempi e il suo nome troneggia tra i grandi del pugilato internazionale. È entrato nell’immaginario collettivo in una notte di aprile nel 1967 quando 18 milioni di italiani seguirono la diretta del suo incontro con Emile Griffith al Madison Square Garden di New York. Di quel match che gli portò il titolo di campione mondiale dei pesi medi, ma anche dell’infanzia a Isola, dei primi passi nella boxe, del significato dell’essere pugili, del rapporto con gli avversari sul ring e di tanto altro Nino Benvenuti – insignito nel 2018 dalla Can comunale del premio Isola d’Istria –, parla in un’intervista esclusiva di Massimo Cutò pubblicata di recente sulla Voce di New York, che riproponiamo.
[...]
Chi è un pugile?
“Uno che cerca sé stesso sul ring. Uno che vuole superare i propri limiti come faceva Maiorca in fondo al mare o Messner in cima alla montagna. La sfida è quella: fai a pugni con un altro da te e guardi in fondo alla tua anima”.
Lei cosa ci ha visto?
“La mia terra d’origine, una verità che molti continuano a negare. La storia di un bambino nato nel 1938 a Isola d’Istria e costretto all’esilio con la famiglia. Addio alla casa, la vigna, l’adolescenza: tutto spazzato via con violenza, fra la rabbia muta e la disperazione di un popolo. Gente deportata, gettata viva nelle foibe, fucilata, lasciata marcire nei campi di concentramento jugoslavi”.
Una memoria sempre viva?
“Ho cercato di non smarrirla, per quanto doloroso fosse. Riaffiora in certe sere. Ti ritrovi solo e sale una paura irrazionale”.
Riesce a spiegare questo sentimento?
“Il passato non passa, resta lì nella testa e nel cuore. A volte mi sembra che stiano arrivando: Nino scappa, sono quelli dell’Ozna, la polizia politica di Tito viene a prenderti. Un incubo che mi tengo stretto perché senza ricordi non c’è futuro”.
Che cosa accadde in quei giorni?
“Isola d’Istria odora di acqua salata. È il sole sulla pelle. La nostra era una famiglia benestante, avevamo terra e barche, il vino e il pesce. Vivevamo in una palazzina di fronte al mare: papà Fernando, mamma Dora, i nonni, io, i tre fratelli e mia sorella. Siamo stati costretti a scappare da quel paradiso”.
Come andò?
“Mio fratello Eliano fu rapito e imprigionato dai poliziotti titini, colpevole di essere italiano. È tornato sette mesi dopo, un’ombra smagrita, restò in silenzio per giorni. Mia madre si ammalò per l’angoscia. È morta nel ‘56 di crepacuore: aveva 46 anni. Attorno si respirava il terrore delle persecuzioni. Un giorno vidi dalla finestra della cameretta un uomo in divisa sparare alla nostra cagnetta, così, per puro divertimento”.
Finché fuggiste?
“Riparammo a Trieste dove c’era la pescheria dei nonni. Fu uno strappo lacerante, fisico. Così la mia è diventata in un attimo l’Isola che non c’è. Non potevamo più vivere lì dove eravamo nati”.
[...]
Quant’è difficile invecchiare?
“Dentro mi sento trent’anni, non ho paura della morte. Sono allenato. Sul ring risolvevo i problemi con il mio sinistro, la vita è stata più complicata però ho poco da rimproverarmi. E ho ancora un desiderio”.
Quale?
“Vorrei che un giorno, quando sarà, le mie ceneri fossero sparse da soscojo. È lo scoglio di Isola d’Istria dove ho imparato a nuotare da bambino”.
Intervista di Massimo Cutò a Nino Benvenuti per La Voce di New York, 23 luglio 2022
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Qualitativamente, la sensazione assomiglia al panico, ma quantitativamente è più un dolorino muscolare, di quelli che si portano appresso da anni e di cui si prende consapevolezza di tanto in tanto, fino alla prossima distrazione. L’essenza è che sta cambiando di nuovo tutto, che Valerio è morto, che sono morta io in un senso diverso, la stessa me che si impegna a ricordarsi che nessuna cosa (pochissime cose) può essere più spaventosa di quel che è oramai già successo. Il volo è fissato lunedì sera: mi dico che devo decidere, ma mi stupirei di me stessa se alla fine lo prendessi. Non lo prenderò. Ma sarebbe (stato) meglio prenderlo? Dovrei scegliere la pace. La stasi. Un po’ di stasi, almeno. Fermarmi per la prima volta in quanti, dieci anni? Io con Valerio ho vissuto la mia prima rivoluzione copernicana, con lui ho sentito la pace e la stasi e la sensazione di essere a posto col tempo, nonostante non poteva esserci illusione più grande. Valerio è morto ed io ho avuto la mia seconda rivalsa, e da quando sto qui io le cose le vedo chiarissime: la bambina di tredici anni per la prima volta da sola in un paese straniero, la rappresentate di classe al liceo classico, quella che piace alle nonne, la professoressa che tiene lezioni, la donna che non deroga mai alla propria bussola morale, e quella che in ultima battuta prende quell’altro aereo, tre giorni dopo il funerale, e parla alle riunioni di laboratorio in un inglese che non ricordava di saper usare, con una voce che non sapeva di essere in grado di far sentire, e piace, se la cava, esplora la città tutta sola. Sono io, non è uno strappo: mi mancava lo spiraglio di luce giusto per cogliere il quadro nel suo complesso e vedere i puntini unirsi da soli. In tutto questo, però, manca ancora il desiderio (dov’è il desiderio?), c’è una tempistica fangosa, una cattiveria del destino per cui, quando domani sarò finalmente ed ufficialmente libera, non potrò fare nulla di ciò che avevo rimandato, ma, al contempo, posso fare molto più di quello che abbia mai osato sognare. Del resto il lavoro non è il mio sogno. Quando sono in grado, io sogno la libertà assoluta, la stasi, la pace, l’incanto di poggiare la testa sulla spalla di Valerio. E forse non pensavo avrei potuto avere di meglio, ma per natura me lo chiedevo e la risposta era sincera: niente poteva essere tanto.
Poi ci si mette la fortuna, o il destino, o il grande principio di senso del mondo che mi gioca i soliti scherzi cui ancora soccombo: stamattina a lavoro c’erano delle casse da morto (vuote), ma poi una signora mi ha fermato per dirmi quale è il nome che i residenti hanno dato ad un certo scoiattolo. I miei se ne vanno, ma devo staccare da lavoro alle 19. Mi offrono il contratto, ma dovrò dividere l’appartamento con un’altra persona. Persino l’ultima puntata di quella serie tv del cazzo che ho iniziato a vedere quando sono arrivata, e che avevo messo in pausa senza sapere quanto mancasse. Tutto incerto, ambivalente. Un po’ di morte ed un po’ di bellezza, con me al centro a gestire il traffico con una divisa scintillante, col plauso degli astanti.
Domani i nodi vengono al pettine ed io decido. Finisco ufficialmente il dottorato e decido quanti e quali affitti pagare. Metto a posto le mie cose, nell’armadio che ho qui in prestito o nella valigia grande da stiva. Domani queste cose, quando vorrei soltanto dormire, o scrivere, o arrivare a guardare la morte premendo quel pulsantino di emergenza che nessuno sa che ho, che dice: fermate il mondo, voglio scendere!
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Mi strappo di dosso
tutto quello che sa di te
Ma non so come
cancellare dal cuore
l'impronta della tua mano.
Maram Al Masri
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Attesa
C'è una bellezza disarmante nei tuoi occhi Ed in tutti i loro piccoli dettagli Ogni lacrima, ogni luccichio Mi fa innamorare follemente di te Ancora più di prima. I sentimenti vivono da così tanto in me Che a volte mi domando con un filo di voce Quanto di tutto questo potrò tenere ancora nascosto nel mio cuore, Quanto della tua anima potrò forse un giorno Stringere tra le mie braccia vuote. Eppure non oso avvicinarmi Ti amo e non ti dico niente, Ti amo e mi tradisce solo lo sguardo, Ma tu non sai, tu non mi vedrai mai Poiché non sono io colei che vive nei tuoi occhi. Allora disperata cerco invano il coraggio, La notte resto sveglia straziandomi la pelle, tormentandomi il cuore Ti scrivo poesie con inchiostro sbiadito Confessandoti segreti che mai ti potranno raggiungere.
Ma nel buio soffocante non si sente altro che la mia attesa Le parole non dette mi deridono guardandomi dalle pagine, Mi chiedono aspre cosa io stia aspettando Tra i singhiozzi rispondo piano che sei tu, Tu che sarai sempre il miracolo mai arrivato. La realtà mi colpisce violenta, D'improvviso sono le parole a smettere di essere Nella desolazione strappo e brucio le mie insulse poesie d'amore, Le fiamme mangiano viva la mia codardia E di me non vi è più traccia. Ma ora è giorno, Vago lenta per la città affollata, tutti guardano ma nessuno mi vede, Sono il fantasma della persona che ero In silenzio urlo il tuo nome sperando che finalmente mi ascolti Mentre tu giaci con lei e le baci il collo, mentre tu le accarezzi il volto, Mentre tu ami chi ha saputo dirtelo ad alta voce.
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Da Torinese di adozione, ex fornitrice di FCA che ha visto nascere lo stabilimento AGAP che ora stanno svendendo... questo articolo mi fa riflettere.
Già in tempi non sospetti, qualche anno fa, mi sono resa conto che il particolare ramo della grossa azienda in cui lavoravo aveva una dipendenza patologica da FCA, che era IL cliente, quello che pagava lo stipendio a tutti noi di quella Business Unit, gli altri erano briciole. E perfino io, nella mia giovane ingenuità, mi sono resa conto di quanto questo costituisse un enorme rischio, perché i rubinetti potevano chiudersi in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo. Ho cambiato lavoro e azienda, per questo e altri motivi, e ora lavoro in un'azienda molto più solida e diversificata che mi dà più tranqullità per il futuro.
Tutto ciò per dire: se l'ho capito io che sopravvivere solo grazie a FCA non era una garanzia, e che i tempi di magra erano in arrivo, com'è possibile che tutte 'ste aziende non abbiano in questi anni fatto nulla per diversificare in qualche modo il business? Trovando altri clienti, diversificando i prodotti sfruttando il know-how, ingegnandosi un po' per non andare incontro a una inevitabile fine...
Torino per anni ha contato così tanto solo su FCA che pare che la vena imprenditoriale e ingegnosa della città si sia molto inaridita, ma forse questo strappo potrebbe dare una botta di vita e dare i natali a nuove realtà più innovative e flessibili. Invece di continuare a pregare i mangia-baguette di darci le briciole forse investire su questo potrebbe non essere una brutta idea.
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO SECONDO - di Gianpiero Menniti
GLI STRATI DEL TEMPO
«Fino alla nascita dei décollage, nel 1953, io facevo della pittura neo-geometrica. Avevo studiato tutti gli stili e tutti i più grandi maestri, da Kandinskij a Mondrian, da Picasso a Matisse. Poi mi trasferii per due anni negli Stati Uniti, e realizzai una mostra anche lì. Quando tornai in Italia, non volevo più dipingere, perché ero giunto alla conclusione che tutto ormai, in pittura, fosse stato fatto. Una mattina del ’53, mi trovavo nel centro di Roma, e osservavo i muri completamente tappezzati di manifesti pubblicitari lacerati. Ciò mi colpì moltissimo, e pensai: ‘Ecco le nuove immagini che io devo dare al pubblico’. Nessuno aveva mai fatto questo. Così è nato il décollage: è stata una sorta di… illuminazione zen. Allora uscivo di notte dal mio studio e rubavo i manifesti dai muri. Una sera venne a vedere i miei lavori un critico giovane e molto intelligente, un filologo, Emilio Villa. Fu entusiasta, e mi disse: ‘Tu stai inventando una nuova forma d’arte, che va al di là della pittura’. Mi invitò ad allestire una mostra con sei pittori romani sul Tevere. All’inaugurazione c’era un critico americano, il quale sostenne nella sua recensione che l’unico a proporre un nuovo messaggio ero io. Mi definì ‘neo-dadaista’.».
Con queste parole Mimmo Rotella (Catanzaro 1918 – Milano, 8 gennaio 2006) rievocava la nascita del "decollage", intuizione capace d'innovare il linguaggio artistico del secondo Novecento, inserendosi nella scia della Pop Art, dell'Informale, del Nouveau Réalisme, del NeoDada.
Tuttavia, gli schemi non raccontano.
Indicano un percorso, delle assonanze, dei richiami.
Non bastano: gli artisti fanno storia a sé.
La libertà in quegli anni convulsi è massima.
La tecnica diviene essa stessa fenomeno creativo, così prorompente da ribaltare il tradizionale rapporto tra significante e significato, fino a una semiosi inaspettata, controversa.
Eppure dotata di una poetica profonda, ammessa, come nel caso di Rotella, all'antico mistero del tempo e delle sue infinite narrazioni.
Lo "strappo" diventa scoperta.
E quanto rimane è rappresentazione artistica di un divenire che annulla le distanze, saldando passato e presente.
Suggestione del perenne.
Nascosto.
Svelato.
- Mimmo Rotella, "Europa di notte", 1961, Mumok, Vienna
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È tutto pesante, è tutto una chiavica, è tutta una merda. Come fa il suono onomatopeico dello strappo di una stoffa? Traac? Strap? Ecco, io stasera mi sono sentito così, strappato… strappato da me stesso. Non posso non continuare a pensare alla scena di Barton Fink in cui il protagonista vede il parato staccarsi dal muro, e si rivede in lui inorridito. Il caso stasera si è divertito a giocare con me in modo bastardo: in chat prima di me a chiedere informazioni, accanto a me al botteghino, con la sua solita cattiva ironia di chi vuol pungere, alle mie spalle in sala e, non contento, accanto a me all'uscita e condividere decine di metri. Teste calate, mani al telefono, apparentemente due perfetti sconosciuti che non hanno più nulla da dirsi. E, invece, almeno io di cose ne avrei tante da dire. Ma chi lo capisce? Nessuno. È una merda, la vita, la mia vita, è tutta una merda. Una vita buttata letteralmente al cesso… solo una merda.
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"CONDONO FISCALE FINO A 30MILA EURO"
Eccolo il nuovo coniglio tirato fuori da questo governo. Condono e benevolenza per chi non paga le cartelle esattoriali.
Driinn Driinnn!
- Chi e'?
- Il postino. Una firma per favore. Grazie.
- Sa che le dico? Intanto strappo tutto. Io non caccio un euro, tanto poi arriva Salvini e mi cancella tutto!!
Ecco, Il tam-tam e' gia' iniziato.
E penso a quel 10% dei miei clienti. Non e' che non pagano niente perche' in difficolta'. No! Non pagano per scelta e me lo hanno detto da sempre: "dotto', chiariamo subito le cose, io non pago niente a questi ladri, tasse, inps, inail, multe. NIENTE!!
I capofila del gruppetto (circa una sessantina su 500) sono i fratelli D..... ( omissis per privacy), fratelli che arrivano dalla gestione di una tavola calda nei pressi della Stazione Termini. Qualche anno di lavoro senza pagare niente, tasse, contributi, affitti, molti fornitori. Poi, dopo aver sperperato quasi tutto in bella vita e divertimenti, con i soldi rimasti si sono comprati una licenza taxi ciascuno. Sono passati altri 10anni. Zero pagamenti. Quando provo a dirgli qualcosa, ecco la risposta:
- Dotto' , per adesso ci divertiamo alla grande (passano almeno 6 mesi l'anno in qualche paese caraibico tra una prostituta e l'altra) e in vecchiaia avremo comunque la sanita' gratis, la pensione sociale di 600 euro e circa 200mila euro dalla vendita della licenza. Dotto', siamo in una botte di ferro!
- No, dico, ma quelli che le tasse le pagano?
- So' 'na manica de poracci, Dotto'.. 'Na vita solo a lavora' e poi schiattano.
Ho la sensazione che l'Italia sia piena di fratelli D......., visti gli applausi che riscuotono certe proposte di condono fatte da certa politica. @ilpianistasultetto
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CESENA , 22 maggio 2023
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CRONACHE DAL FANGO
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Ore e ore a riempire bidoni. A trasportare secchi d'acqua. A spalare fango per vuotare le cantine e i garages. A gettare ricordi, libri, oggetti, quaderni di scuola Elementare, di scuola Media, di Liceo.
E poi la scatola coi quadernoni di appunti delle lezioni dell'Università, e ancora, mobili e le scarpe invernali, le scarpette estive, i quadri realizzati durante gli anni del Liceo, e poi gli attrezzi, i trapani e gli avvitatori di mio padre. Ripescare con le mani nella melma, in fondo alla cantina, cacciaviti, forbici, pennelli, la cassetta in legno con i colori acrilici, e poi le valigie imbrattate di fango, i trolley, gli zaini utilizzati ai tempi dei "lupetti" e zaini più grandi utilizzati ai tempi degli Scout in parrocchia...
Lavorare per ore, staccando il cervello.
Rifiutarsi di pensare.
Sconnettersi completamente dagli abituali meccanismi mentali.
Perchè quella parola: "overthinking", lo sai bene che ora non serve. Anzi ti inquieta e la vuoi allontanare.
Quel veleno tossico, quel fattore che sai bene, genera ansia.
E allora ti imponi pensieri di lunga durata. Pensieri lenti. Pensieri che ti seguano, come un sottofondo, come una musica pacata. Pensieri che accompagnino semplicemente i movimenti fisici.
Rinunciare a voler spiegare il mondo, per ancorarsi a ragionamenti elementari. Come afferrare una cassetta, il bordo affilato di un mobile, un vaso per fiori di vetro, alto e sottile. Una borsa piena di libri inzuppati d'acqua. Come muovere lentamente i piedi immersi nell'acqua, per non creare l'onda.
Muoversi in modalità "pilota automatico".
Una sorta di "anestesia" applicata a se stessi. Staccare il cervello. Staccare le emozioni. Disconnettere il cuore.
Diventare una macchina. Una macchina capace di operare per ore ed ore, ad un ritmo basso ma inesorabile. Non sentir più la fatica.
È l'efficienza che serve, ora.
Efficacia delle azioni, ergonomia dei movimenti. Tentare di risparmiare energie e studiare ogni presa delle mani, ogni sollevamento e spinta delle gambe, ogni strappo verso l'alto delle braccia.
Imparare i meccanismi necessari per lavorare in una catena umana.
Una interminabile catena che passa i diversi materiali dai piani interrati fino al cortile del palazzo. Un movimento, uno sforzo breve il tuo, ma uno sforzo continuo e di lunga durata, capace di andare avanti per ore e ore, quello della "catena umana"...
Aderire al ritmo, al sincronismo, al lavoro collettivo, che mi ricorda tanto la cordata, l'arrampicata in parete, lassù sulle mie amiche Dolomiti.
Ogni gesto va valutato. Soppesato. Ogni muscolo in tensione, braccia che scattano, sollevano, spostano, tirano, dragano con le dita coperte dai guanti, il pavimento dentro trenta centimetri di melma collosa, che è quella rimasta, che ristagna su tutto il pavimento.
Siamo molti, siamo tanti.
Ragazzi delle Superiori, mischiati agli universitari e ai residenti e qualche anziano che conosce il quartiere e ci da informazioni preziose...
Ieri, - tutto ieri - così, e stamattina, di nuovo, fino alle 13.
E così, si rientra a casa per preparare il pranzo. Stavolta novanta grammi di pasta all'amatriciana, sono più che graditi, oltre che meritati!
Come per miracolo, mentre mangiamo, l'Enel torna a darci la corrente elettrica.
Tutti quelli del palazzo, esultano. È uno sguardo raggiante, quello che ci scambiamo sul pianerottolo. Sorpresi davvero, da tanta improvvisa ricchezza.
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Poi ci si saluta.
È l'una passata. Si va a controllare che la caldaia funzioni a pieno regime, dopo che da martedì pomeriggio, era rimasta per giorni, in silenzio.
Apro il rubinetto. Sento l'acqua che è già quasi tiepida. Le dita ritrovano sensibiità
ffffiuuu... pochi minuti e sarà calda!
È un attimo. Mi spoglio alla velocità della luce. Tutto finisce in ammollo nella bacinella più grande che trovo.
Ci sarà tempo più tardi, per lavare via tutto quel fango, prima a mano e poi in lavatrice.
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E ora, finalmente...
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DOCCIA !
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Ma ci vuole musica, adesso. Alzo il volume dello stereo. Parte il pezzo...
È una nuvola di vapore quella che mi investe, quando apro il box doccia.
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youtube
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Chiudo.
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Berlino: reprise
Tornare è stato ancora uno strappo, ma mi è piaciuto comunque. Non è come prima, ma è ancora giusto, in un modo che mi fa quasi tenerezza: come il fruttivendolo turco di Wedding dove una volta ho comprato le castagne che mi vede passare e mi saluta stupito, come l’impressione di esistere ed essere in un posto che forse non capisco fino in fondo, ma col quale vibro ad una frequenza comune. Mi fa tenerezza non usare il navigatore nonostante la mia scarsa memoria e le mie pessime abilità di orientamento. Mi fa tenerezza pure lanciarmi fuori dal vagone della metro all’ultimo momento, perché ero soprappensiero - queste cose non mi succedono in Italia, dove sono spesso fin troppo consapevole di me e di ciò che mi circonda. Poi forse la realizzazione più grande, in questo marasma di riflessioni ed impressioni principalmente zuccherose, è legata al fatto che in questa città ho fatto la turista da una posizione privilegiata, ossia quella di qualcuno che ha comunque uno scopo, che partecipa seppure in una misura strana alla vita economica e sociale della collettività. Domani alle 10:30 ho il mio primo appuntamento per la firma di un contratto. Arrivo qui che non so spiccicare una parola della lingua locale, ma non c’è niente di disperato in me mentre mi aggiro per le strade, acquisto nei negozi, mangio tutta sola nei ristoranti. A torto o a ragione, sento di avere uno spazietto mio qui, una mia ragion d’essere - mia come di questa nuova e coerente versione di me, col cappotto lunghissimo di cashmere verde ed i capelli rosso fuoco, lo sguardo gentile e sicuro. Non posso dire di essermi sentita spesso così legittimata ad essere, altrove.
Gli ultimi due giorni, a dirla tutta, hanno avuto un che di cinematografico, con l’aereo quasi perso a Roma, il girovagare in aeroporto, una volta arrivata, il nuovo ingresso in questa casa ancora un po’ meno mia ma sempre senza segreti. Le foto di Valerio recuperate la sera prima della partenza, a casa degli zii alla Garbatella, e appese alle pareti della mia nuova stanzetta qui a Rigaer Strasse. Tutto il mio caos, il ritorno in ufficio ed istantaneamente in azione, e poi i passanti: chissà cosa vedono, chissà se per loro ha senso quanto ne ha quello che vedo io, per me. Ha tutto senso, se non fosse che Valerio è ancora un fantasma, sono ancora convinta che tutto questo finirà e ci sentiremo ancora, magari ci abbracceremo nel suo lettino reclinabile. Ovviamente no: non è questo un sogno, lui è morto davvero, adesso sono nella nuova normalità. Vorrei dire che mi manca, ma non so nemmeno più bene cosa dovrebbe significare. Berlino, comunque, riesce ancora ad incantarmi benissimo.
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Mi chiamo Carlo come te E ora vivo nella tua casa Da quel giorno bastardo in cui te ne sei andato via E dentro al sugo denso di una pasta asciutta rossa Rivedo un bimbo sulle tue ginocchia che non piange più Ma lo sapevo che in un giorno solo sarebbe finita La vita è sempre stata l’illusione più bella che c’è Scrivo ‘sti versi per raccontarti che avrei libri di cose da dirti Ma ora che balli tra i fantasmi senza me Io qui c’ho il cuore pieno di crepe Ma ci scorre dentro tutto ciò che hai fatto per me Neppure il tempo che prende e non chiede mai Potrà strappare il tuo ricordo da qui Sai le scarpette con cui ho corso tanto sono appese a un chiodo Ora lavoro come i grandi come mi mostravi tu Conosco i limiti e le angosce che si porta dentro un uomo Vorrei tornare sulle tue ginocchia e non pensarci più E anche se il cuore è pieno di crepe Ci scorre dentro tutto ciò che hai fatto per me Neppure il tempo che prende e non chiede mai Potrà strappare il tuo ricordo da qui E anche se il cuore è pieno di crepe Tutti quei pezzi stanno insieme dentro di me Perché né il tempo né i giorni in cui mancherai Potranno mai strappare il tuo ricordo da qui Ritorni nei sogni che faccio da tempo nel profumo del vino portato dal vento dentro al panico lento che toglie il respiro ad un uomo che pensa al futuro guardandosi incerto non so c’è la morte ma so che la odio da tempo strappo un fiore, lo lascio appassire ridendo ma tu resti la cosa più bella che ho perso tra tutti i ricordi del bimbo che ho dentro E anche se il cuore è pieno di crepe Ci scorre dentro tutto ciò che hai fatto per me Neppure il tempo che prende e non chiede mai Potrà strappare il tuo ricordo da qui
Cartapesta - Carlo come te
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