#meno fiero delle mie foto
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Mercoledì del cavolo.
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con cadenza più o meno bimestrale, per ragioni del tutto fortuite mi ritrovo a pensare ai miei compagni di classe e alle persone della mia città natale; si tratta di un pensiero di matrice archeologica, se consideriamo che quasi con ognuno di loro ho interrotto i rapporti da almeno dieci o più anni. di quel posto sento, e neppur tanto, una o due persone: un'intera adolescenza e prima gioventù completamente rigettate allo scopo di provare a voltare pagina; non so bene le ragioni che mi hanno spinto a fare questo: in parte il provare a dare una svolta alla depressione, in parte un naturale svolgimento delle conoscenze che, se grossolanamente gestite, vanno nell'inevitabile dimenticatoio
capita dunque, ogni due mesi circa, che mi ritrovi a cercare persone, conoscenti, compagni di classe su facebook per poi, puntualmente, turbarmi di fronte alle loro vite, o a quello che vogliono manifestare, o ancora a quello che hanno manifestato prima che smettessero di usare quel social. alcuni di loro sono imprenditori spiccatamente normie; nessuno di loro si è scoperto queer. chissà come ci si sente ad avere quella capacità di sentirsi integrati nel mondo: io è quasi una settimana che non metto piede fuori casa, e se oggi lo farò sarà solo per la scusa di un evento di musica. manager, dentisti, medici, ingegneri; tutti eterosessuali e, se i figli non sono ancora arrivati, di certo lo è la foto mentre si baciano col partner sotto la torre eiffel
poi, tutti quegli alternativi che oggi, seppur esteticamente ancora 'alternativi' (che poi, dalle mie, parti, i millennial tali si identificano con: look da pin-up per le ragazze, fanboy di breaking bad per i ragazzi), hanno aderito alla più alta forma conformista possibile: sposarsi e avere figli. ciò che hanno in comune le due categorie, i normie e gli alternativi, è una sorta di orgoglio per quel che sono: che siano dei dirigenti o dei tatuatori con pargoli (e relativa foto con il figlio, per dimostrare che anche i tatuati sono brave persone), è la capacità di sapermi trasmettere, con una serie di foto banali quanto in alta qualità, se non anche in bianco e nero per donare quell'effetto di 'apprezzo i tempi passati' e magari anche una foto con risata genuina per manifestare l'amore per la vita, un orgoglio per la loro identità
ecco, per quanto possa trovare grossolane le loro manifestazioni su internet, per quanto di mio non abbia voglia di sbandierare sui social la vita privata e, per quanto abbia un concetto di privacy che comprende l'idea di non fare sharenting, ho pensato che forse dovrei iniziare ad andare un po' più orgoglioso di quello che sono: d'istinto, infatti, non mi vengono molte ragioni per esserlo. poco dopo l'aver subìto questo confronto con i miei anni trascorsi e la gente mia coetanea, ho deciso di riascoltare brevemente i due brani ambient che farò uscire e di rivedere i lavori grafici, seppur amatoriali, di cui sono soddisfatto
poi è arrivata la gattina, ci siamo coccolati e mi ha reso di buon umore. ho la mia vita e non mi dispiace; è il confronto con quella altrui a darmi un senso di insicurezza. forse dovrei iniziare a etichettarmi, mostrarmi fiero delle etichette: geek di musica nonchè musicista, appassionato di cinema, letteratura e scienza, di arte e di storia, transfemminista, gattaro, in una relazione stabile da più di sei anni, uscito da pensieri suicidi e dipendenze senza aiuto di psicologo e di farmaci, non ho perso la curiosità nel conoscere e mi vesto anche abbastanza bene. dopotutto, sono uno splendido trentatreenne (semicit.) e dovrei smettere di sentirmi inferiore nel vedere i profili social, falsati e per nulla attendibili, di persone che non sento da dieci o quindici anni
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Alice was beginning to get very tired of sitting
Ok ok ok ok questo blog è stato aperto per caso in un momento di noia a caso e dubito che sarà mai letto da qualcuno ma non importa, voglio scrivere merlate MIO DIO già incominciamo male con il correttore automatico che cambia "merdate" con "merlate"; che c'è google, hai problemi con parole poco simpatiche? Non banni un simpaticone con un cappello da ritardato che riprende un uomo impaccato in una foresta ma modifichi le parolacce portandomi alla soglia delle bestemmie? Ok ok ok ok.Comunqueeeeee stavo dicendo che voglio lanciare golose manate di merda nello spazio freddo e blu come le profondità dell'acqua del mio cesso quando mia madre lo inonda di sostanze chimiche sconosciute che prima o poi, quando sarò adulto (brrrrr che paura), mi toccherà imparare ad usare. Non sapevo neanche cosa fosse Blogger, questa roba è più vecchia di me, ma l'ho trovato ruzzolandomi a bocca spalancata nel fango infinito di internet, e mi è sembrato fantastico da subito! Un meccanismo semplice quanto una corda ed un tutorial su YouTube su come fare un cappio che mi permetterà di raccontare le mie storie oleosamente autistiche e di farle leggere a qualsiasi anima dannata che si troverà qua. Skkkkkk skaaaaaa skkkkkyyyyyy prova prova siamo sintonizzati? OK Computer, fammi scrivere che in questa storiella c'è una certa discrepanza temporale, ho incominciato a scrivere questo blog mentre ero così ubriaco di noia da vomitare inedia tra la testiera del mio laptop, precisamente, non ho idea che momento fosse, per quanto mi possa sforzare di stuprare con la lente di ingradimento il blocco di ambra in cui siamo tutti intrappolati, il non afferrano proprio che giorno ora secondo fosse: la mia corteccia destra dorsolaterale é in vacanza a quanto sembra. So, o almeno intuisco, che ci sia il modo di smanettare un po' e capire quando ho messo piede per la prima vola in questo poligono di tiro virtuale incominciando a sparare colpi di inchiostro virtuale nelle vostre cervella virtuoreali, ma sono pigro. Lo dicevano sempre i professori a scuola, ma non ci credevo, non ci credo, mai creduto, lo giuro; mi piace dire che ero poco stimolato, come un prigioniero della CIA che viene inchiodato al muro della sua cella e costretto a cagarsi addosso in un pannolone di fortuna fatto con scotch da pacchi industriale ma che si ostina comunque a non parlare: poco stimolato. Brancolo nel buio, mi rotolo a bocconi sulle pareti delle mie tempie e stiro le braccia avanti in cerca di fortuna, effettivamente trovo qualcosa: posso diro con la sicurezza di un'ubriaco alla guida di un bolide che incominciai a scrivere prima della maturità.Ah, la maturità, divertente gioco di prestige della cultura italiana: come rendere una visita dal dentista l'evento più importante nella vita di migliaia di persone. Un' incombenza burocratica fine a se stessa, completamente inutile, che non avrà nessuna ripercussione sul futuro, eppure sembra questa grande serata di gala, ne parlano persino i TG. Pasolini sarebbe divertito da un simile giochetto: una mano ti inganna con le carte, l'altra ti stupra il carattere. Comunque munque unque que ue eeeeeeeeeee........................ Un animale allo zoo, sì, ecco un animale allo zoo, questo volevo dire, questo non volevo essere: ero lì davanti la commissione seduta tutta in cerchio ed io al centro, un bukkake intellettuale, e incomincio a sciorinare la mia tesina scritta in fretta e furia in un giorno di cui non vado molto fiero, mi riferisco alla tesina, ma anche di quel giorno non sono particolarmente fiero a dire il vero. Invece di studiare mi ero fissato con una roba alquanto inquietante e alquanto da stalker, ma ne è valsa la pena, è stato divertente, ed ha inspirato una delle storie che ho in mente di scrivere. O forse è solo quello che mi voglio ripetere per giustificare il tempo perso e quel mio agrodolce comportamento da maniaco... Continuo a pensare che ne sia valsa la pena. Alla fine faccio quello che dovevo fare, i prof mi fanno sentire a disagio per il mio essere un allein Mensch perché non avevo portato alcun testimone (a dire il vero non ci avevo neanche pensato con il retro del mio cervello, ho realizzato di averne bisogno 5 minuti prima dell'inizio dell'esame) e insomma, entro, spaccano il mio Es, ciao.Torna a casa, raffica di domande dai miei, slalom tra i proiettili, mi strappo la puzza di dosso facendomi una doccia, mi vesto in maniera fantastica come faccio (quasi) sempre, e mi vedo con i miei amici di scout. C'è un tipo che amo (in senso etero, naturalmente) che se ne andato in Trentino e torna in questa fogna ogni tanto, ed ogni volta ci becchiamo con gioia, cioè con l'alcol. Quello era il giorno della gioia. Allora ci vediamo, ci incontriamo a subaugusta, prima ci sediamo sulle panchine lgbt lì vicino finché non arriva Polentone (il mio bro dal trentino) e quindi eravamo in 5: Io, Ste, Polentone, Giulia e Greta. I nomi sono fittizi, naturalmente: voglio mettere dei nomi, ma non so se sia legale scrivere i loro veri nomi senza il loro consenso, quindi nomi falsi nel dubbio (anche se questa roba non verrà letta da nessuno, probabilmente).La polenta è pronta e allora andiamo dentro al centro commerciale, CinecittàDue, il tempio del natale: quando addobbano l'alberone natalizio nel mezzo del centro commerciale, può dire che il natale è giunto a Roma. Ma non era Natale purtroppo (Inverno, ti amerò sempre), era estate e quindi siamo andati al baratto con terrazza all'ultimo piano di CinecittàDue e prendiamo da bere. Non preoccupatevi: 4 coca-cole e una Sprite, tutte rigorosamente annaffiate con cubettini di ghiaccio mordente.Parliamo del più, del meno, di nuovo del più e Polentone ci dice che a settembre ci sarà il suo 18esimo io e Ste proferiamo subito la fatidica domanda: "E le ragazze?".Allora ci sciorina i profili instagram e le foto delle tipe che saranno alla festa e analizziamo il tutto con rigore galileiano; un po' eravamo goliardici, un po' eravamo seri, come possono essere seri dei lupi davanti a dei cartonati a forma di pecore.Insomma, niente male, specialmente una di cui chiedo maggiori informazioni per motivazioni scientifiche e ottengo informazioni interessanti: alla tipa piace l'indie, non Phil Elverum (male) ma Calcutta (malissimo), e piace il black humor, così tanto che ha fatto un cosplay di Stefano Cucchi. Una personcina frizzante .
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The one with the make-up
Se Ermal ripensava a come fosse iniziata tutta quella storia, quasi gli veniva da ridere. Era cominciato tutto da una banale conversazione con Fabrizio, che gli aveva detto che avrebbe assolutamente voluto Claudia - una delle fotografe che abitualmente partecipava agli eventi di Ermal - al suo prossimo concerto perché anche lui avrebbe voluto delle foto belle come quelle del compagno. "Come se ne avessi bisogno. Potrebbero scattarti una foto mossa e con una pessima luce e saresti comunque bellissimo" aveva detto Ermal. Fabrizio aveva replicato dicendo: "Non è vero. Quello bellissimo sei tu! E nelle foto di Claudia lo sei ancora di più, quindi..." "Quindi niente. Lo sai che una delle mie foto preferite in assoluto è una tua foto di qualche anno fa? E pensa un po', non è stata scattata da Claudia! Anzi, a dire il vero non ho idea di chi l'abbia scattata" aveva risposto Ermal. A quel punto, la curiosità di Fabrizio aveva preso il sopravvento. Aveva voluto vedere quella foto che sembrava piacere così tanto a Ermal ed era rimasto stupito di vedere che fosse una foto di qualche anno prima che lui non aveva mai trovato particolarmente interessante. "Non capisco cosa ti piace così tanto di questa foto" aveva chiesto un attimo dopo. Ermal, con non poco imbarazzo, aveva ammesso che la matita nera sotto gli occhi lo avesse attirato fin da subito, rendendolo particolarmente attraente ai suoi occhi. E Fabrizio, a metà tra lo scherzoso e il serio, aveva detto: "Tu saresti sicuramente più bello con la matita sotto gli occhi. Chissà, magari prima o poi mi farai vedere come ti sta." Ed ecco perché in quel momento Ermal si stava guardando allo specchio, tenendo una matita nera tra le mani e cercando di colorarsi il bordo degli occhi senza accecarsi. Fabrizio non era presente all'evento, ma Ermal sapeva benissimo che sarebbero uscite delle foto, dei video e sicuramente degli articoli sulla serata e su quel premio importante che gli avrebbero consegnato nel corso dell'evento dedicato a Modugno. E in fondo, tutto ciò che Ermal sperava, era di fare a Fabrizio lo stesso effetto che gli aveva fatto lui in quella foto con gli occhi truccati.
Fabrizio non poteva che sentirsi estremamente fiero di Ermal. Era felice per lui e per il riconoscimento che aveva ricevuto. Aveva sempre trovato la sua versione di Amara terra mia così emozionante che assegnargli quel premio sembrava quasi scontato, ma non meno importante. Avrebbe voluto essere con lui in un momento così importante, ma avevano concordato che la presenza di Fabrizio non sarebbe sicuramente passata inosservata e sarebbe stata ingiustificata, e in quel momento nessuno dei due aveva bisogno di stare al centro dei pettegolezzi. Così, mentre Ermal era andato in Puglia - approfittandone anche per vedere la propria famiglia e organizzare una vacanza con qualche amico - Fabrizio aveva deciso di passare il tempo con i suoi figli. Era stata un'ottima decisione per tutti, soprattutto per i bambini che non vedevano l'ora di passare un po' di tempo con il padre e che lo avevano subito trascinato nella loro routine, obbligandolo a guardare insieme a loro una serie TV che avevano iniziato a vedere con Giada qualche tempo prima e che sembrava appassionarli più di qualsiasi cartone animato. E così, mentre Ermal era a Polignano a partecipare a un evento dedicato a Domenico Modugno, lui se ne stava comodamente seduto sul divano insieme a Libero e ad Anita a guardare Once upon a time. Non era particolarmente interessato alla trama - aveva solo capito che i protagonisti erano quasi tutti personaggi delle favole catapultati nel mondo reale - ed era impegnato più che altro a scorrere svogliatamente la home dei suoi social, ma quando sollevò il volto per un attimo e vide sullo schermo quello che - se non aveva capito male - doveva essere Capitan Uncino, il telefilm catturò tutta la sua attenzione. "Lui è buono o cattivo?" chiese improvvisamente interessato. "All'inizio sembrava cattivo, ma ora sta aiutando Regina e Emma a ritrovare il figlio che è stato portato sull'Isola Che Non C'è" spiegò Libero. "Quindi ora è buono?" chiese ancora Fabrizio. Anita, seduta accanto a lui, annuì muovendo la testa e disse: "Gli piace Emma. Ecco perché ha deciso di aiutarla a trovare suo figlio." "Emma è la mamma del ragazzino che si mette sempre nei guai?" "Una delle mamme. L'altra è Regina, che è quella che l'ha adottato perché Emma non poteva tenerlo" disse Libero. Fabrizio annuì sovrappensiero, cercando di collegare tutti gli elementi che aveva appena appreso, ma senza riuscirci perché troppo distratto dagli occhi truccati di quella versione di Capitan Uncino. Una versione decisamente più interessante di quella del cartone animato, doveva ammetterlo. Iniziava a capire per quale motivo Ermal amasse tanto quella sua foto con gli occhi truccati, anche se era certo che Ermal con la matita nera sotto gli occhi sarebbe stato molto meglio di lui. Probabilmente anche meglio di quel Capitan Uncino che stava osservando con tanto interesse. Sentendo il cellulare vibrare tra le sue mani, Fabrizio riprese improvvisamente contatto con la realtà. Abbassò lo sguardo e controllò il display del telefono, notando che Ermal gli aveva appena inviato una foto. Aprì la conversazione quasi sovrappensiero, convinto che il compagno gli avesse inviato l'ennesima foto del paesaggio stupendo che aveva davanti, e gli si spezzò il fiato quando vide che invece Ermal gli aveva mandato un selfie in cui non solo tentava di fare un'espressione ammiccante, ma aveva anche in testa il cappello che gli piaceva tanto. E aveva gli occhi truccati. Deglutì a vuoto, ormai con la gola secca e senza nemmeno più una goccia di saliva, e digitò velocemente una risposta.
Vuoi farmi morire?
Poi bloccò il telefono e lo abbandonò accanto a lui sul divano, passandosi una mano sul viso. Iniziava a pensare che qualcuno ce l'avesse con lui, perché non era umanamente possibile che in un paio di minuti si fosse preso una cotta mostruosa per un personaggio di un telefilm e che giusto un attimo dopo Ermal gli avesse inviato una foto in cui sembrava quasi aver replicato il look di quel personaggio. Pochi secondi dopo, la vibrazione lo annunciò che Ermal aveva risposto al suo messaggio.
Una volta ti sei chiesto come mi sarebbe stata la matita nera. Mi sembrava carino fartelo vedere. Mi sta così da schifo?
Al fondo del messaggio aveva aggiunto una faccina che rideva, anche se in quel momento non c'era proprio nulla da ridere perché Fabrizio si stava sentendo davvero morire di fronte a quella foto del suo fidanzato. Era più bello del solito, e lo sguardo ammiccante di certo non aiutava la situazione.
No, sei bellissimo. È che credo di essermi appena preso una cotta per un tizio di un telefilm, e la prima cosa che mi ha colpito sono stati gli occhi truccati. Vederti così, non aiuta.
Ah, ti sei preso una cotta per un tizio di un telefilm?
Fabrizio rimase a fissare lo schermo, temendo che Ermal se la fosse presa per quella confessione. Ma appena il più giovane inviò una faccina sorridente, capì che non aveva nulla di cui preoccuparsi.
Sì, è una versione sexy di Capitan Uncino. Ma tu sei più bello e il trucco ti sta meglio.
E non glielo aveva detto così, giusto per compiacerlo. Lo aveva detto seriamente perché, per quanto fosse attraente l'uomo sullo schermo, nessuno sarebbe mai stato più attraente di Ermal per lui. Ermal aveva sempre avuto qualcosa di particolare, qualcosa che Fabrizio non era mai riuscito a identificare ma che lo attraeva come una calamita. E questo non significava che Fabrizio fosse immune al fascino di altre persone, ma semplicemente nessuna di loro avrebbe mai avuto quel magnetismo che lo teneva legato a Ermal e che lo rendeva - almeno ai suoi occhi - l'uomo più bello al mondo. E ora che lo aveva visto in quella foto, non poteva che vederlo ancora più bello.
Nonostante fossero passate settimane da quando Ermal gli aveva inviato quella foto, Fabrizio non aveva smesso di pensarci. Un po' era anche colpa di Ermal, il quale gli aveva inviato una foto - che poco dopo aveva postato su Twitter - in cui indossava un cappello da pirata e gli aveva scritto: "Sono più sexy del tuo Capitan Uncino?" Fabrizio si era limitato a rispondergli di tornare a casa con quel cappello, così gli avrebbe dimostrato davvero quanto lo trovava sexy. Così sexy che, a dirla tutta, avrebbe voluto vederlo ogni giorno con quel cappello addosso. Solo con quel cappello. Per giorni interi, Fabrizio non era riuscito a pensare ad altro e in quel modo la mancanza di Ermal era diventata quasi ingestibile. Ovviamente era felice che Ermal avesse trovato il tempo di fare una piccola vacanza con degli amici mentre lui passava il tempo con i suoi figli, ma non poteva negare che avrebbe preferito che avesse trascorso quei giorni insieme a lui. Erano rimasti d'accordo che Ermal lo avrebbe raggiunto appena finita la vacanza, ma Fabrizio iniziava a temere di non essere in grado di aspettare così tanto e così tutto ciò che rimaneva per cercare di sopportare quell'attesa era crogiolarsi nei ricordi e nei pensieri di ciò che sarebbe successo appena avrebbe rivisto Ermal. Sapeva già che lo avrebbe stretto a sé, che lo avrebbe baciato fino a fargli mancare il fiato, che... Ancora totalmente immerso nei suoi pensieri, si rese conto che qualcuno era entrato in casa solo quando sentì la porta chiudersi con un tonfo. Rimase in attesa, cercando di capire chi fosse l'intruso. Le persone che avevano una copia delle chiavi di casa sua non erano poi molte. C'erano i suoi genitori, ma non piombavano mai a casa sua senza avvertire. C'era Giada, ma prima di usare le chiavi aveva l'abitudine di suonare il campanello per controllare se Fabrizio fosse in casa. E poi c'era Ermal. Lui, in effetti, era l'unico che ormai entrava e usciva da lì come se fosse casa sua. Forse perché un po' lo era davvero. Fabrizio uscì velocemente dalla cucina, precipitandosi verso la porta d'ingresso, e non appena vide Ermal davanti a lui si gettò tra le sue braccia. Il più giovane lo strinse a sé, affondando il viso nell'incavo del suo collo e respirando il suo profumo. "Mi sei mancato da morire" mormorò Fabrizio, lasciandogli un tenero bacio su una guancia e scostandosi da lui. "Anche tu mi sei mancato. È per quello che sono tornato prima del previsto." Fabrizio sorrise felice, prima di dargli un'occhiata più attenta e notare che non solo aveva in testa il cappello che aveva indossato nella foto di qualche giorno prima, ma si era anche truccato. "Quanto sei bello" disse Fabrizio continuando a osservarlo. Ermal sorrise e gli stampò un bacio sulle labbra, poi disse: "Ah, sì? Dimostrami quanto mi trovi bello, allora." Fabrizio colse l'occasione per attirare Ermal a sé e baciarlo, prima lentamente, poi con sempre più passione fino a farlo indietreggiare verso il muro. Ermal si lasciò sfuggire un lamento quando la sua schiena scontrò la parete dietro di lui, ma continuò a baciare Fabrizio tirandoselo addosso e strusciandosi contro di lui. Era bello essere tornato a casa, essere di nuovo tra le braccia del suo uomo, così tanto che iniziava a chiedersi se davvero ne fosse valsa la pena di fare quella vacanza. Forse avrebbe semplicemente potuto tornare a casa. Ancora completamente preso dal bacio e dalle mani di Fabrizio che avevano iniziato a sbottonargli la camicia, Ermal si sfilò le scarpe abbandonandole in un angolo e poi infilò le dita oltre l'elastico dei pantaloni della tuta di Fabrizio, pronto a calarli verso il basso. Fabrizio intanto aveva finito di sbottonargli la camicia e aveva iniziato a dedicarsi al suo collo, lasciando una scia di baci e morsi sulla sua pelle, mentre premeva il proprio corpo verso quello del compagno quasi come se servisse a fondersi con lui. Gli era mancato da morire e tutto ciò che voleva era stargli accanto il più possibile. Ermal spinse le dita verso il basso, abbassando con un unico movimento sia i pantaloni che i boxer di Fabrizio, mentre il compagno - ancora intento a baciargli il collo - aveva iniziato a trafficare febbrilmente con la cintura e la cerniera dei suoi jeans. Quando finalmente riuscì a sfilarglieli insieme ai boxer, Fabrizio prese Ermal per le cosce e lo sollevò, tenendolo fermo tra il suo corpo e il muro. Ermal gemette sentendo l'erezione di Fabrizio strusciarsi contro il suo corpo, sentendo quanto lo desiderasse e quanto avesse sentito la sua mancanza in quelle settimane. Ermal allacciò le gambe alla vita del compagno e disse: "Vuoi scoparmi qui? Non hai nemmeno la pazienza di arrivare al letto?" Fabrizio si lasciò sfuggire un lamento e rispose: "L'idea era quella, ma mi sa che mi si è bloccata la schiena." Ermal scoppiò a ridere mentre Fabrizio gli faceva posare nuovamente i piedi a terra. "Sei vecchio per fare certe cose, ormai." Fabrizio si massaggiò la schiena dolente - per quanto possibile - e si ritrovò costretto ad annuire. Non aveva più l'età per fare certe acrobazie, Ermal aveva ragione. "Perché non lasci che sia il tuo capitano a prendersi cura di te?" sussurrò Ermal al suo orecchio, con tono malizioso. Poi si sistemò il cappello, come per fare capire a Fabrizio che se aveva deciso di indossarlo non era perché pensava che gli stesse bene, ma perché era intrigato da quell'assurdo gioco di ruolo che si era creato senza nemmeno farlo apposta. Non lasciò a Fabrizio nemmeno il tempo di rispondere. Lo spinse lentamente contro la parete opposta, facendogli appoggiare delicatamente la schiena dolorante al muro, e poi si inginocchiò di fronte a lui. Impugnò saldamente l'erezione del compagno e iniziò a muovere lentamente la mano lungo tutta la sua lunghezza. Fabrizio sospirò gettando la testa all'indietro, mentre Ermal continuava a masturbarlo lentamente. Dopo qualche attimo, Ermal fermò il movimento della mano guadagnandosi un lamento frustrato da parte di Fabrizio, ma appena il più grande sentì le labbra del compagno circondare la sua erezione il lamento si trasformò in un gemito. Abbassò lo sguardo vedendo Ermal, impegnato a regalargli uno dei migliori pompini della sua vita, che lo fissava. Gli occhi truccati con quello strato di matita nera sembravano ancora più profondi del normale, e Fabrizio non poteva che sentirsi attratto da quella versione di Ermal così diversa da solito ma anche così seducente. Ermal intanto continuava a tenere lo sguardo fisso su di lui, mentre muoveva sapientemente la lingua lungo l'erezione del compagno, muovendo svogliatamente una mano su e giù, stimolando così anche la base. L'altra mano, invece, era finita ben presto tra le proprie gambe, muovendosi velocemente sulla sua lunghezza. Fabrizio gemette senza ritegno rendendosi conto che Ermal non solo si stava prendendo cura di lui nel miglior modo possibile, ma contemporaneamente si stava masturbando, ormai troppo preso dalla situazione. E Fabrizio non poteva che sentirsi orgoglioso di provocare quell'effetto al compagno, di costringerlo a toccarsi senza avere nemmeno la pazienza di aspettare che fosse lui a farlo. Gli sfilò il cappello, abbandonandolo a terra, e gli infilò una mano tra i ricci accompagnando i suoi movimenti. Ermal iniziò a succhiare più forte, incavando le guance attorno al membro del compagno e continuando a fissarlo. Bastarono pochi secondi - e lo sguardo seducente di Ermal su di sé - e Fabrizio venne copiosamente nella sua bocca, mentre Ermal non perdeva nemmeno una goccia del suo rilascio e muoveva più velocemente la mano su di sé fino a venire tra le sue stesse dita. Fabrizio sospirò lasciandosi scivolare contro il muro, fino a sedersi a terra. Il dolore alla schiena sembrava essere miracolosamente svanito, o forse era solo troppo intontito dell'orgasmo per rendersene conto. Ermal, ancora inginocchiato di fronte a lui, sorrise malizioso pulendosi gli angoli della bocca e poi disse: "Come va la schiena?" Fabrizio annuì e sollevò un pollice in risposta, senza avere la forza di dire una parola, ed Ermal sorrise soddisfatto. In fondo, tutto ciò che voleva era che Fabrizio stesse bene. "Bene. Ce la fai a muoverti? Io intanto andrei a fare una doccia" disse Ermal alzandosi in piedi. Fabrizio annuì, poi disse: "A proposito della doccia..." "Che hai combinato mentre ero via?" chiese Ermal. L'ultima volta che Fabrizio aveva iniziato una conversazione in quel modo era stato quando gli aveva confessato di aver accidentalmente rotto la porta scorrevole della doccia. "Mi sa che non avrai vestiti puliti da mettere, dopo la doccia." Ermal aggrottò la fronte confuso e Fabrizio, leggermente imbarazzato, ammise: "Potrei aver fatto la lavatrice senza mettere le tue cose. Volutamente." "E perché?" "Perché così saresti stato obbligato a girare per casa nudo. Solo con quel cappello addosso. È una cosa stupida, lo so, ma mi mancavi e lo sai che quando sento la tua mancanza faccio cose stupide." "Hai ragione, è una cosa stupida" disse Ermal, prima di avviarsi lungo il corridoio che conduceva al bagno. Poi, ormai giunto davanti alla porta, si voltò verso Fabrizio e aggiunse: "Ma non vuol dire che l'idea mi dispiaccia."
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Beh, sì, sono nato negli anni ’90. Fiero esemplare della classe 1993. Quell’anno lì scoppiavano bombe un po’ in tutto il mondo. Irlanda, Stati Uniti, India. I miei genitori, novelli sposi, vedevano il mondo cambiare dentro un Panasonic mezzo scassato. C’era -le immagini incerte, poco nitide- il faccione schifoso di Totò Riina catturato e portato in manette dopo più di vent’anni di latitanza; c’era Federico Fellini che ritirava l’Oscar alla carriera prodigandosi in ringraziamenti nasali; c’erano le immagini così lontane ed estranee di un disastroso incidente nucleare in Siberia. C’era, ci scommetto, un giornalista compunto e dalla mascella squadrata leggere in tono neutro la notizia dell’accordo di reciproco riconoscimento tra lo Stato del Vaticano e Israele e il cadavere di Pablo Emilio Escobar Gaviria con la pancia di fuori su quelle cazzo di tegole in terracotta. Tutto andava egregiamente di merda come al solito, insomma. Il giorno in cui sono nato una piccola folla fuori dall’ospedale giura di aver visto una statua della madonna muoversi in avanti, come in benedizione. Tra quella piccola folla c’era anche la mia nonna materna, fervente cattolica. Ogni anno, per il mio compleanno, mi chiama raccontandomi di quella volta che la madonna ha benedetto la mia nascita e blaterare di angeli custodi. Sì, angeli custodi. Un gioco di luce, probabilmente, una pura casualità fenomenica, ma quanti di voi possono raccontare una storia così figa sul giorno della propria nascita? Sono stato un bambino negli anni ’90, dunque, e anche all’inizio del ‘2000. Ho mangiato le girelle, le fiesta piene di liquore, bevuto il latte con il Nesquik in povere, mi sono piazzato davanti la televisione a guardare Dragon Ball e i Simpson tutti i santi giorni dopo pranzo. E poi, sì, giocavo, tutti i pomeriggi, per strada, come un matto. Manco a dirlo, si giocava a calcio. Ero piccoletto ma, come si dice dalle mie parti, “cafuddavo”, che può essere tradotto più o meno come “ci davo dentro”. Proprio sotto la mia casa d’infanzia c’era un parco giochi. Lo chiamavamo così, ma non è che ci fossero giochi: era un corridoio di simil-marmo largo pochi metri e lungo una quindicina delimitato da delle sbarre di ferro. Sì, quello della foto. Era il nostro campo da calcio. Ci si andava nel primo pomeriggio e si stava lì fino ad ora di cena. Mia madre, quando era ora di salire, mi chiamava dalla finestra, a volte mi chiedeva di andare a comprare il pane e mi lanciava i soldi. Erano partite all’ultimo sangue le nostre, estenuanti, combattutissime. Si tornava a casa con le ginocchia sbucciate e le gambe, le mani, tutte nere di sporcizia. Amavamo quel posto, era proprio la nostra isola felice. Forse facevamo un po’ di casino, è vero, tant’è che i condomini del mio complesso di palazzi cominciarono a lamentarsi. In fretta e furia venne prese un provvedimento radicale. Vennero eretti dei muretti per tutta la lunghezza del parco giochi per impedirci di giocare a calcio. Ma non avevano fatto i conti con la fantasia di un gruppo di bambini che non vedono nei muri necessariamente dei nemici, ‘sti vecchi. Dopo giorni di partite in campi minuscoli e fitte discussioni tra i membri del gruppo si trovò un modo di riappropriarsi di quello spazio. Di reinventarlo. Che bella parola, r e i n v e n t a r e. Dentro il ripostiglio di casa trovai delle vecchie racchette da tennis. Oh, vecchie sul serio, in legno, con il manico spropositatamente lungo, pesantissime. Ma chi se ne fregava, andavano più che bene. Erano quattro, una un po’ più moderna me la beccai io. Andammo in un negozio di articoli per lo sport e comprammo delle palline da tennis. Ricordo che facevano proprio un buon odore, dentro quella specie di tubo dove te le vendono. Dal giorno dopo cominciammo a giocare a tennis, tutti i giorni. Diventammo pure bravini, uno di noi finì per appassionarsi sul serio e adesso fa l’insegnante di tennis per vivere. Prego, Roberto, non c’è di che. Gli inquilini del palazzo ci guardavano da dietro le finestre, qualcuno arrabbiato, qualcuno non riuscendo a trattenere un sorriso. “Fanculo ai muri, viva i muri”, scrivemmo con un pennarello su uno di questi. Adesso quando torno qualche giorno a casa dei miei osservo dalla finestra il parco giochi. Ho notato che è ancora un luogo di ritrovo dei ragazzini del quartiere, ma non ci gioca più nessuno. Stanno e lì chiacchierano, ogni tanto qualcuno si rincorre. Uno dei muretti è stato distrutto, su un lato è stata aperta una breccia. La scritta “fanculo ai muri, viva i muri” non esiste più, al suo posto c’è un “Giusy ti amo” scritto con una grafia orribile. Ho chiesto a Marco, uno dei miei amici d’infanzia con cui ideai la cosa, se ha voglia di andarci a giocare a tennis uno di questi giorni, solo per ridere. Mi ha detto che è proprio una bella idea, ma so già che non se ne farà niente.
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Philippe Daverio, 69 anni, alsaziano di nascita e milanese di adozione, ha vissuto tante vite in una. Gli manca solo di andare nello spazio. Critico d'arte, saggista, autore-conduttore tv, animatore culturale, politico e instancabile viaggiatore. «Quello che mi piace di più? - fa eco alla domanda il professore seduto nel suo affascinante studio tra quadri, oggetti carichi di memoria, computer - quello che sto facendo ora, scrivere un libro a favore dell'Europa».
Roba da niente, insomma. Sempre avventure di un certo peso; chissà che cosa si immaginava della sua vita quand'era giovane. «Inizialmente, quando ero francese, volevo fare il funzionario pubblico. Diventato italiano ho pensato che era corretto campare. Credo alla Provvidenza e che se uno dà retta al piano di sopra la strada gli viene indicata».
Nato in Francia, si considera un immigrato?
«No, eravamo degli europei di base. In casa si parlavano tre lingue e due dialetti; mio nonno fece il servizio militare a Berlino e il mio prozio a Parigi, mio nonno era italiano, insomma una famiglia Ue. Siamo venuti qui per una grossa operazione immobiliare a Varese fatta da mio padre».
Che ricordi ha della sua educazione giovanile?
«Ho avuto una educazione ottocentesca in un collegio episcopale (mostra la foto, ndr). Ricordo ancora una severità assoluta. Alzarsi alle 5 del mattino, ritmo di vita durissimo, ogni giorno l'obbligo di giocare per mezz'ora a football. Penso ancora a quel pallone scuro e gelido, di cuoio, che quando ti colpiva portava via un pezzo di pelle. Ma quella scuola mi ha lasciato una formazione di base con la quale ho vissuto di rendita a lungo, una bella formazione per la crapa (testa in milanese, ndr). Nella provincia francese la borghesia veniva tutta formata lì, in quel luogo».
Può dipingere un ritratto di famiglia?
«Mio padre era piccolo e napoleonico come il suo nome, Napoleone appunto, molto grintoso e totalmente lumbard; parlava in alsaziano. Un suo prozio fece le Cinque Giornate di Milano. Come carattere ho preso da papà, ma forse di più dalla mamma, Aurelia, un colonnello molto umano e con una inclinazione a difendere il gusto».
Uno come lei non può non avere un po' di sangue nobile, o no?
«C'è l'elenco dei milanesi doc del XII secolo e il nome Daverio è già lì. Perciò non ho fatto altro che andare alla radice, come un salmone che ritorna alla fonte. Sento di appartenere a Milano, e me lo dice la memoria dei cromosomi. Che mi suggerisce pure che appartengo al posto di mio nonno, Berlino».
Sembrerebbe che alle origini ci tiene proprio...
«Per evitare che questo discorso sull'appartenenza fosse una pazzia letteraria, ho chiesto a mio fratello, il meno letterato, Paul, che è uno dei più noti chirurghi plastici svizzeri. Gli ho domandato ma quando sei a Berlino come ti senti? e lui mi ha risposto: A casa. Insomma lo sa pure mio fratello che non ha letto la letteratura guglielmina».
Non solo la provenienza, nella vita contano pure scelte e bivi, ne vuole rivelare almeno uno?
«Beh, quando ho deciso di mollare gli studi. Non mi sono laureato all'università Bocconi. Mi ero rotto, non avevo più voglia di stare lì. Ero sessantottino, come me diversi miei amici anche loro sessantottini non si sono laureati. Ho dato l'ultimo esame, non la tesi. Ho deciso di fare altro nella vita».
Qual è stato il suo primo lavoro?
«Lasciata l'università mi sono messo subito a fare il mercante d'arte. Prima l'ho fatto stando a casa, subito dopo ho aperto una bottega vera e propria nel centro di Milano. Allora fare questo era una cosa facilissima».
Milano è stata almeno un po' buona con Daverio?
«Una mattina sono uscito di casa e mi sono detto voglio trovare una bottega. Avevo 27 anni, ne ho parlato con mia moglie. Quel negozio l'abbiamo cercato in Montenapo, l'ho trovato subito, ce n'era uno in affitto. La città a quei tempi offriva tante opportunità ai ragazzi, occasioni che nessuno ora si può immaginare. Adesso Milano offre decisamente meno».
Ci fa un bilancio delle sue avventure lavorative?
«Per quanto riguarda l'editoria, decine di libri scritti nel campo dell'arte. Scrivere è il modo più personale e libero per guadagnare denaro. Una persona sta in casa, apre il computer, digita i tasti e via. La sopravvivenza si fa con le dita. È un lavoro artigianale fantastico».
E quali sono gli argomenti che l'appassionano di più?
«Sostanzialmente quelli di cui mi occupo. La storia dell'arte, un po' la politica. E la musica, naturalmente. Dove lavoro e abito ci sono più pianoforti. Ho studiato e mi piace moltissimo suonare Mozart. La musica serve per calmare i nervi ed è inoltre propedeutica all'estetica, tutti i concetti di armonia sono legati alla musica».
In tutto questo che spazio hanno gli affetti?
«Sono fondamentali, senza questi una persona non carbura. Credo che la famiglia non sia una roba del tutto sbagliata. Il pregio numero uno è che rappresenta la prima struttura di solidità alla quale uno appartiene. Vengo da una famiglia enorme ma vivo in una piccolina: io, mia moglie, il figlio, la sua ragazza e poi abbiamo allargato con cinque cani».
Vissi d'arte e di famiglia, e le amicizie dove le mettiamo?
«Importantissime, quelle vere, quelle che legano al destino. Io devo gran parte della mia fortuna milanese al fatto di avere avuto tre o quattro persone, di una generazione anteriore alla mia, che mi hanno dato una mano a fare quello che ho fatto».
E se (ri)pensa alla politica...
«Come assessore leghista mi sono trovato benissimo, perché c'era un sindaco come Marco Formentini. Lui parlava francese e inglese come l'italiano. Era di ottima famiglia, suo zio aveva seguito gli scavi archeologici della Lunigiana, c'è un museo. Io sono arrivato a lui perché era molto amico dell'editore Mario Spagnol e io pure. Ai tempi amavo la forza di rottura rivoluzionaria che aveva la Lega, che ora però è diventata rurale».
I suoi amici quella scelta non l'hanno presa benissimo...
«C'è una persona alla quale ero molto legato, amico pure di mia moglie, il giornalista Giorgio Bocca. Lui mi sostenne contro tutta la buona borghesia. Perché quando feci la scelta di Formentini, la mia buona borghesia di Montenapo mi guardò male. Ma io forse per genesi francese, sono un po' giacobino».
Di cosa va fiero di quell'esperienza?
«Quando ero assessore ho lavorato anche all'idea della cosiddetta Città metropolitana, la sua genesi; un'idea che ancora oggi credo sia importante. Ho spinto tanto in questa direzione ma la cosa non è ancora sbocciata, sono convinto che nei prossimi anni succederà, ce lo chiederà l'Europa».
Cambiamo canale: dalla pubblica amministrazione alla tv...
«Ho fatto Passepartout sui canali Rai, trasmissione nata per caso e nata con uno spirito anti-televisivo che si occupava di storia dell'arte. Abbiamo dimostrato che esiste una fascia di italiani interessati all'argomento, avevamo un 5% di audience, circa tre milioni di persone. Poi, purtroppo, la televisione non si interessa a noi, le nicchie in Italia sono proibite».
Televisione o no, come speaker si trova a suo agio?
«Io faccio molte conferenze pubbliche ed lì che trovo il rapporto fisico con il lettore. In questo senso devo la mia fortuna ai quattro anni di politica che ho fatto. Prima avevo paura a parlare in pubblico. È stato come imparare a nuotare cadendo in un canale».
E nei panni del critico (o giudice)?
«Una faticaccia davvero anche se molto bella. Sono presente sia nello Strega sia nel Campiello e devo occupami di centinaia di libri ogni anno. Lo faccio ricorrendo pure a un meccanismo di annusatura dell'opera. È come negli esami all'università, si capisce subito se uno studente c'è oppure proprio non c'è».
A questo punto della sua vita, ha altri progetti?
«Assolutamente sì. Da pochi giorni sono entrato nel settantesimo anno di vita, è stato uno choc psichico ma il primo progetto che ho è quello di non rimbambire. Adesso ci sono tempi e progetti molto più brevi. Ho degli amici novantenni che sono molto svegli, per me sono un modello da seguire».
Come vede il futuro, c'è qualcosa che le fa paura o terrorizza?
«Una cosa che mi fa paura, vivendo in Italia, è la povertà. Sono molto riconoscente alla nostra sanità per le cure che ho ricevuto in passato, ma qui se si diventa poveri è una catastrofe, non ti risollevi più. So che fino a quando posso lavorare vado bene, nel caso contrario diciamo che mi potrei sentire un po' imbarazzato».
C'è qualcosa a cui non vorrebbe mai rinunciare?
«Vorrei ancora avere una possibilità di partecipare alla politica. Penso che questo sia molto importante per ogni persona. Potrei accettare una proposta in questo senso in un'unica direzione, in una sorta di europeismo riformato. Io sono fautore non dell'Europa di oggi, ma assolutamente dell'Europa sì, e la vorrei composta di cinquanta regioni, che è l'unica soluzione vera che possiamo avere».
Ma di tempo libero per sé ne ha?
«In generale no, poi c'è da dire che il tempo applicato alle cose è più bello. Se c'è da cucinare un piatto mi piace molto farlo, mia moglie mi frena perché sporco troppo le pentole. Ero legato alla cucina delle mie origini, amo gli arrosti, amo il puree, amo certe zuppe francesi. Però amo molto anche l'italianità. Senza spaghetti non si può vivere, il risotto è fondamentale».
Qualche giorno per le vacanze lo scova da qualche parte?
«I viaggi hanno un senso quando non sono solo turistici, quando dietro c'è un progetto. Una volta con sei amici abbiamo preso in affitto un rompighiaccio alle Isole Svalbard per andare al Polo Nord. Oppure apprezzo gli spostamenti che nascono per motivi di lavoro. Per esempio in Cina a fare un video, all'Avana per un trasmissione. Ancora ricordo la trasferta per la Biennale di Dakar».
Per i viaggi intellettuali e artistici lo spazio lo trova...
«Beh noi siamo sempre stati legati alla musica. Quindi in questo senso viaggi tanto. Mi piace l'opera lirica, perché è una delle identità dell'italianità. L'Italia non è un Paese fondato sul lavoro ma sul melodramma; la Germania sulla tragedia e la Gran Bretagna sull'arrivo dall'estero di forze musicali. Senza Haendel non ci sarebbero stati i Beatles. La Francia, infine, ama la musica pomposa».
Con l'opera ha mai avuto «incontri ravvicinati» di qualche tipo?
«Nel 2008 sono stato chiamato dal regista Pier Luigi Pizzi a interpretare il narratore Njegus nell'operetta La vedova allegra di Franz Lehár, in scena al Teatro alla Scala. È stata un'emozione formidabile perché sono rimasto in scena per tutta la durata dello spettacolo».
Che rapporti ha con il Teatro alla Scala?
«Attualmente sono nel consiglio di amministrazione. In verità i miei ruoli gestionali si sono svolti tutti qui, a Milano: prima a Palazzo Marino, poi mi sono occupato del Duomo e del suo museo, e ora il Piermarini, tutti luoghi che raggiungo a piedi».
Con tutte queste esperienze che cosa ha capito dell'Italia?
«A proposito ho scritto un libro. L'Italia è un Paese diverso da tutti gli altri Paesi europei, con parametri aggregativi differenti. Tutta l'Europa è monarchica, noi siamo comunali, una sommatoria di comuni. L'Italia è unita con la forchetta e con il bicchiere».
Gioco della torre: un quadro, un brano, un libro, un film che non butterebbe giù, che salverebbe...
«Per l'arte La colazione sull'erba di Monet perché riassume il passato e anticipa il futuro. Per la musica L'arte della fuga di Bach, è una costruzione colossale. Riguardo ai libri la Crocifissione rosea di Henry Miller, c'è tutta la complessità del nostro mondo moderno. Infine il film, penso a Senso di Luchino Visconti, è il più bel riassunto epico del nostro Paese».
Ultima domanda su Dio.
«Sono religioso ma non baciapile. Il rapporto col piano di sopra è fondamentale e faccio di tutto per mantenere un dialogo costante».
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Ora ve lo dico io come funziona un buffet in Sicilia.
(Tratto da una storia vera)
Si prende un giardino con capienza duecento persone massimo e se ne ospitano quattrocentosettanta, di cui almeno la metà bambini. Si preparano tre tavoli da due metri scarsi l'uno in un punto con accesso a strozzatura e una sola postazione bevande sotto un ombrellone.
Il buffet apre alle ventuno. Alle venti e quindici l'intera area è già stata divisa tra i quattro clan tipici di un buffet: i Purosangue, i Burraco, i Continentali e i Bambini.
I Purosangue sono quelli che non hanno mai visto altro buffet che quello siciliano. Tutti gli altri sono stati meramente introdotti al buffet; loro ci sono nati dentro. Sono figli della tradizione e sanno quali sono i pilastri di un vero buffettaro siculo: Ignoranza, Passione, Accumulo e Pressing. Panze spartifolla per gli uomini, unghie fluorescenti retrattili per le donne. Stanziano a pochi metri dai tavoli ancora vuoti e accendono le sigarette anche se la zona fumatori è lontana: serve per intimidire i Continentali, per marcare la zona.
I Burraco sono infidi perché all'occhio inesperto passano per Continentali, ma quando un veterano capita in mezzo a tavolini occupati da settantenni vestite come Marta Marzotto allora sa di trovarsi in territorio Burraco. È gente esperta che grazie all'età ha capito come apparire innocua, persino chic, ma dentro di loro cova una fame antica figlia del dopoguerra, e una volta arrivato il cibo si muovono come ninja, silenziosi ed efficienti. I Burraco occupano il tempo libero prima della cena giocando con le carte portate da uno del gruppo, da cui il nome.
I Continentali sono quelli che almeno una volta nella vita hanno visto una fila a un buffet, in nord Italia o addirittura all'estero. Sono contaminati dalla civiltà e per questo in fondo alla catena alimentare buffettara, dove giacciono con i loro abiti casual e i sandaletti di cuoio fingendo di non essere interessati al cibo. Sono qua per la musica e la compagnia, dicono, seduti a turno nell'unico sgabello che gli hanno lasciato. Tra i Continentali c'è un piccolo sottoinsieme di cui fa parte anche la mia famiglia, ovvero i Continentali con DNA Purosangue delle generazioni passate. Siamo una bomba a orologeria, i doctor Jekyll del buffet. Non sappiamo mai quando il mostro può venire fuori.
I Bambini sono i bambini. Non hanno regole stabilite, non hanno un vero territorio e grazie ai vantaggi dati dalla piccola taglia posso fare tutto quello che vogliono. I Bambini sono il clan più pericoloso.
A dieci minuti dall'inizio della cena arriva l'annuncio dell'animatore al microfono. «Il buffet durerà sino alle undici meno un quarto, vi assicuriamo che il cibo verrà portato a rotazione continua e in abbondanza. Non ci sarà bisogno di accalcarsi. Confidiamo nella vostra educazione.» Seguono trenta secondi di risate registrate durante le quali si è già formata la ressa a imbuto davanti ogni tavolo. I Burraco svaniscono dai tavolini in fondo alla sala e compaiono direttamente tra le prime file senza che nessuno capisca come.
Alle nove in punto si aprono le porte della cucina e per primi mandano avanti i kamikaze, cioè i camerieri assunti da meno tempo che vengono offerti in sacrificio all'orda. I kamikaze sono vestiti di bianco virginale e reggono vassoi enormi di antipasti sopra le teste urlando “attenzione, caldo, brucia!” per farsi strada sino ai tavoli, anche se lo vediamo tutti che hanno l'insalata di pollo appena uscita dal frigo. Una precauzione commovente ma inutile, perché il destino di un kamikaze è quello di venire assorbito dalla folla senza mai toccare la meta. Noi Continentali, ancora fermi ai nostri posti, li vediamo inabissarsi a poco a poco mentre avanzano con sguardo fiero come capitani di vascello.
Dal momento in cui i camerieri più esperti riescono a portare tutto ai tavoli sino a dieci minuti dalla chiusura del buffet è tutto un tragico affresco della condizione umana, un palcoscenico senza maschere, un campo di battaglia dove la violenza soffoca ogni barlume di civiltà in ciascuno. Tranne che nei Burraco: i Burraco sono ricomparsi seduti nei tavolini con i piatti pieni e mangiano tranquilli, sorridenti, senza che nessuno capisca come.
I Purosangue invece spingono, afferrano, sbuffano vapore dalle narici e tengono in equilibrio tre piatti per braccio dove hanno impilato cibo sino a mezzo metro di altezza con un sistema a incastro che sfrutta la solidità delle bruschette. Non si allontanano dal perimetro del tavolo per non rischiare di far spazio ad altri; piuttosto mangiano lì in piedi o al massimo si danno il cambio con un parente Purosangue per tenere il posto. Una strategia tuttavia fallace contro la potenza infiltrante dei Bambini, che sono il vero sistema circolatorio del corpo buffettaro e svuotano con manine svelte tutti i vassoi di patatine, crocché e arancine sbucando da ogni minuscola crepa incustodita della massa Purosangue.
E noi Continentali? Una parte del nostro gruppo si stacca con spirito pionieristico per vedere se dopo mezz'ora ci si può avvicinare. Costoro non faranno più ritorno. Passati altri dieci minuti mio padre decide che almeno due bicchieri d'acqua potremmo provare a prenderli. Si avvia verso l'ombrellone delle bibite mentre io abbraccio mia madre e le dico di non piangere. Mio padre ce la fa, ma ha lo sguardo del tenente Dan dopo il Vietnam e non vuole parlarne. Mia madre allora va in berserk, aumenta la massa delle spalle in uno spasmo hulkesco e cala sulla zona pizze come una valkiria, tornando da noi con una porzione incandescente di sfincione che regge A MANI NUDE. Lo spezza e lo distribuisce a me e mio padre suscitando l'ammirazione delle altre signore Continentali sedute accanto.
«È una vergogna però, neanche fossimo nella giungla» mi dice una di loro scuotendo il capo. « Io a questi eventi non riesco a mangiare nulla, non ce la faccio proprio ad azzuffarmi là in mezzo.»
«Nemmeno io, signora» rispondo rauca, mentre affilo il bordo del piatto di plastica contro il muro con le mie braccia muscolose e verdi. «Nemmeno io.»
(In foto: mia madre che si è già scassata la minchia e punta allo sfincione, io circonfusa di santità ma ancora per poco.)
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Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri
di Cristina Manzo
Quando tornai al mio paese nel Sud,
dove ogni cosa, ogni attimo del passato
somiglia a quei terribili polsi di morti
che ogni volta rispuntano dalle zolle
e stancano le pale eternamente implacati,
compresi allora perché ti dovevo perdere:
qui s’era fatto il mio volto, lontano da te,
e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.
Quando tornai al mio paese del Sud,
io mi sentivo morire.
(Vittorio Bodini) [1]
Santa Maria di Leuca, tramonto a Finibusterrae (foto Cristina Manzo)
L’idea di turismo, come filosofia di viaggio può essere ricondotta a una sorte di memoria inconscia della condizione nomade dell’umanità. Molte volte si comincia un viaggio per uscire momentaneamente da sé, fare un giro e ritornarvi; per orientarsi verso qualcosa che ci distragga momentaneamente dal peso dell’abitudine; perché si ha il ricordo e il richiamo di una terra che abbiamo già visitato o di cui abbiamo sentito parlare e per il sospetto che essa potrà essere determinante nella nostra vita. Ma, come quando Ulisse intraprese la sua odissea, è nel corso d’opera, in itinere, che accade l’inaspettato che cambia il corso dei giorni. Ad un certo punto della vita non siamo più noi a cercare i viaggi ma sono loro a cercare noi. La vita non è mai dove è ma dove si arriverà. Una ricerca di sé sempre in partenza, in attesa di un approdo per dipanare la matassa della vita, in cui siamo aggrovigliati e chiusi come in un bagaglio, prima di arrivare alla meta. Quanta ironia c’è nelle carte d’identità, nei passaporti e negli strumenti indispensabili del viaggio: ci sono tempi, luoghi, dimensioni e professioni nelle quali ci si conosce bene, eppure non ci si riconosce mai, perché ogni volta è tutto nuovo, è come ricominciare ogni volta daccapo. Ma che differenza c’è tra il trovare e l’essere trovati? Una diversità che affascina nel momento fondante della propria esistenza, quando l’io riconosce la sua dimensione e la dimensione riafferma l’io; quando l’anima chiama al viaggio sopra ogni cosa, superando anche la paura di smentirsi. Nel viaggio abita l’ironia profonda di non sapere mai a cosa si va incontro e in che modo esso cambierà il percorso della nostra vita. L’anima e la terra sono le note in sintonia a cui l’uomo, in corso di ricerca, dovrebbe evitare di contrapporre l’elemento razionale. E, tuttavia, anche l’Odisseo ad un certo punto del Nostos è combattuto tra l’irrequietezza originata nel bisogno di vagare e di conoscere e la razionalità del ritorno a casa e agli affetti. Tutto sta nell’ambiguità dello scambio, della novità di culture, tradizioni, cibo, persone, prospettive e, nel fine da raggiungere, per mediare la nostra esistenza con la felicità. Potremmo dire che ad un certo punto si è rapiti da un bisogno di avventura e di incognito come quello che rapì la mente del Don Chisciotte di Cervantes che, in groppa a Ronzinante, al fianco di Sancho Panza, si dedicò all’esplorazione delle terre della Mancha.
Il Salento, nel profondo sud, non è mai stato luogo di confine ma piuttosto quel “sud nel sud”, quell’idea di “luogo non luogo” dalla quale è difficile uscire e a cui è altrettanto difficile non tornare. Il Salento è sin dall’antichità quella terra-paese che bisognerebbe attraversare tutta, per poterla trasformare in un racconto itinerante di poesia proprio come nel pensiero di Bodini e di Carmelo Bene che, per consegnare voce e visione a quella poesia dell’amico Vittorio, avrebbe voluto compiere quel Don Chisciotte itinerante nel “Salento della Mancha”. Progetto purtroppo rimasto irrealizzato. ( Nel 1975, siamo stati vicini di casa, io e Carmelo, al secondo piano del palazzo Bozzicorso, in via degli Antoglietta n° 42, dove io abitavo con mia nonna. Ricordo che ero appena undicenne e una mattina ci incontrammo sul pianerottolo mentre lui apriva la porta, di ritorno da uno dei suoi impegnatissimi viaggi, (infatti restò solo pochi giorni) e quella era la casa in cui da Campi Salentina si era trasferito con la famiglia. Vedendo che io sbirciavo curiosa, all’interno, mi fece segno di entrare e io lo feci, mi fermai nell’ingresso e scambiammo qualche parola, era appena morto mio padre. Carmelo era molto gentile e carismatico, una personalità stravagante e immensa, con il senno di poi, (intendo per me che, ancora piccola, non conoscevo la sua importanza). Mi è sempre rimasto impresso quell’incontro. Per i condomini del palazzo non era chiaro se la presenza del “personaggio” fosse gradita o scomoda ma, di sicuro nelle mie memorie ricordo che lo definivano “uno strano”. Proprio la sua città è stata quella che meno lo ha capito e ha riconosciuto il suo talento. Quando mise in scena l’Amleto al teatro Ariston, i leccesi gli furono apertamente ostili e quindi, come dare torto a quell’animo straordinario che sosteneva di « essere nato al Sud del Sud dei santi e che del Salento era orfano»? E questo è forse, uno di quei pochi casi inversi, in cui per concedere libertà all’immenso genio, si ebbe bisogno di lasciare un luogo amato, pur portandolo nel cuore.
Il Salento che Carmelo sognava è una parte di quel sud che con grande fatica, eppure senza sforzo, si era impegnato a raggiungere il resto dell’Italia e dell’Europa dopo la sua unità ma che, pur tuttavia, aveva sempre conservato con onore e gelosia quella piccola distanza silenziosa nel fiume del dialogo con il resto dei luoghi. Ed è stata questa rispettosa distanza che ha permesso al Salento di restare “Il Salento” nei cuori di tutti coloro che l’hanno lasciato e poi ritrovato o semplicemente scoperto. Il Salento degli incontri e degli scontri, della terra e del mare, dell’accoglienza e dell’ascolto, dei tramonti e del dolce naufragare. Delle partenze, dei transiti e dei ritorni.
Forse quel giorno avrò sognato… ma di certo lungo la via, nei borghi e attraverso i campi infiniti della Mancha, ho ritrovato il piacere del viaggio povero e sconclusionato, e ho sentito mie le parole che un Sancho, reso più esperto da tutte le peripezie attraversate, confida alla moglie dopo il suo ritorno: “Non c’è al mondo cosa più piacevole per un uomo che l’esser l’onorato scudiero di un cavaliere errante che va in cerca di avventure … Che bella cosa che è aspettare gli eventi attraversando monti, frugando selve, scalando picchi, visitando castelli, alloggiando in locande a volontà…”[2].
Chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita. A maggior ragione se, il “viaggio” è stato nel sud che, con la sua poesia, ti scava dentro, un solco nell’anima che nessun’altro luogo può riempire.
[…] Non era qui sorta, nella Magna Grecia, la prima splendida civiltà? Non erano qui nate, in Palermo e nella Puglia, al tempo di Federico II, la letteratura e l’arte nazionale? Non era sempre questo l’incantato paese «dove fiorisce l’arancio»? Tutti credevano che fosse la terra promessa, colma di tutti i doni celesti, a’quali il mezzogiorno «troppo favorito dalla natura», secondo il Bonghi, «eccezionalmente cospicuo» a detta del Sella, «singolarmente ricco», per bocca del Depretis, «il più bello, il più fertile paese d’Europa», a giudizio del Minghetti, il quale parlando alla camera nel giugno del ’61, metteva in prima linea, tra le inesauribili occulte miniere della nostra fortuna, la nuda steppa, che è tutta un bassofondo marino quaternario, del tavoliere di Puglia: già prima di loro, non lo aveva forse descritto Vincenzo Cuoco, esule a Milano nel 1804, come il «più ferace sotto più dolce clima», e Pietro Colletta presso a morte, in Firenze il 1831, quale «terra ubertuosa sotto cielo lascivo», e Petrucelli della Gattina, profugo a Torino nel 1849, «un paese per cui Iddio esaurì la sua opulenza di creazione»[3]? Il termine “viaggio” nel dizionario indica uno spostamento in cui è dato sempre, un luogo di partenza ed un luogo di arrivo. Ma se fosse un mero spostamento, un transito e basta, non riscuoterebbe tanto interesse da parte di chi lo compie. Attraverso il “Nostos”, in cui si origina la nostalgia, il dolore, la mancanza, la tensione, il desiderio del nuovo o del vecchio già conosciuto, avviene il “ritorno”. Gli occhi di ogni viaggiatore sono importanti per descrivere un luogo, come pure è importante la visione di chi ci vive da sempre e non lo ha mai lasciato, ma niente, e ripeto “niente” è così incisivo come la storia di chi lo ha scelto seguendo una sorte fatale e lo ha abitato per dare un percorso nuovo alla propria vita. Nel caso del Salento, per esempio, non sono né gli abitanti che lo vivono da sempre né i turisti che lo visitano per poi ripartire che ce lo possono raccontare; possono farlo, invece, tutti quei personaggi venuti da lontano a scoprirlo quando ancora esso non era una moda ma, un modo di vivere, fiero e ineguagliabile testimone di tradizioni, libertà e cultura in bilico tra afa e tramontana, scirocco e respiro del mare.
(1 – continua)
Note
[1] Vittorio Bodini, Tutte le poesie, (a cura di Oreste Macrì), Controluce, Nardò, 2015.
[2] https://www.scuoladelviaggio.it/alla-ricerca-di-don-chisciotte-it.php
[3] Francesco Melzi D’Eril, Civiltà italiana dell’Ottocento, Mursia, Milano, 1966-1968, p.238,239.
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Mr. Sbatticuore cerca casa, Alice Clayton
Scheda del libro
Titolo originale Rusty Nailed
Titolo italiano Mr. Sbatticuore cerca casa
Autore Alice Clayton
Serie The Cocktail Series #2
1ª ed. originale 24 Giugno 2014
1ª ed. originale 23 giugno 2015 – UN. ANNO. DOPO.
Editore Mondadori
Pagine 264
Genere Contemporary Romance
Lingua originale Inglese
Sinossi È passato circa un anno da quando Caroline e Simon hanno ammesso i loro reciproci sentimenti e sono diventati una coppia, anche se un po’ particolare: lui continua a girare il mondo come fotografo e lei si gode la vita di città, le amiche, il KitchenAid e il gatto Clive. Entrambi sono soddisfatti della situazione finché Caroline, dopo il matrimonio del suo capo Jillian, si ritrova a gestire da sola lo studio di design per cui lavora, e comincia ad allontanarsi da Simon. Lui, nel frattempo, decide di partecipare alla riunione degli ex alunni del liceo e ritorna, dopo tantissimi anni, nella sua città natale. Questo tuffo nel passato lo riporta agli affetti più sinceri e gli fa comprendere di essere ormai pronto per costruire un rapporto profondo, per una vera stabilità. Al rientro, infatti, cancella i suoi viaggi per stare più vicino a Caroline e prova a dare un'importante svolta alla loro relazione comprando una villetta fuori città e proponendole di convivere. Lei è contenta ma al tempo stesso turbata, teme che Simon stia affrettando i tempi, che il rispetto della reciproca indipendenza su cui è stata fondata la loro storia possa essere compromesso. Questa preoccupazione, unita a un crescente caos lavorativo e a un gatto un po’ troppo curioso di esplorare i dintorni di Sausalito, porta Caroline a una piccola crisi…Nel divertentissimo sequel di Mr Sbatticuore sembra proprio che i ruoli si siano invertiti: riuscirà Simon a non lasciarsi sfuggire la dolcissima e inafferrabile Babydoll?
Dettagli
Inizio lettura: 25 giugno 2015
Fine lettura: 30 giugno 2015
Tempo di lettura: 10.5 ore per 156 p/m
Rating: ★★★★
I say...
M dice: ero un pochino in astinenza da Mr. Sbatticuore, tant’è che ho celebrato la sua uscita con questo post, nonostante la giornata disastrosa. Chissà perché ero incazzata! Comunque, tornando a noi.
Mr. Sbatticuore aveva ricevuto 5 stelle, questo una in meno. Sigh. Questo libro è la prova che, sebbene ci fosse tanto da dire, è meglio concludere un romanzo con la parola FINE. No secondi/terzi/dodicesimi libri (Madre e Figlia Cast, mi sentite?).
Mancava un po’ il brio del primo romanzo, e le situazioni erano un po’ più grottesche e meno reali del primo. Inoltre, ci ha provato nei limiti del possibile, s’intende, ma si cerca di trattare aspetti più psicologici. Nel primo, il centro del tutto erano Caroline e Simon che volevano andare a letto insieme. Ora che ci vanno già dalla prima pagina, ci dobbiamo sorbire tutte le seghe mentali di Caroline donna-in-carriera che vuole Simon modellato a suo piacimento. È uno scontro tra ciò che vuole lei e ciò che è lui. Ovviamente abbiamo un happy ending, ma il modo in cui ci si è arrivati è un po’ tortuoso. Insomma, come al solito, il 99% delle seghe mentali erano evitabili semplicemente con una chiacchierata. Eh già.
Ma, ehi! Sono comunque Simon e Caroline, circondati da quella gang di amici psicotici che si ritrovano quindi le risate sono assicurate. Anche se l’ending di Clive è troppo, troppo, TROPPO forzato.
Citazioni
«Insomma, ormai pensavo che stessimo facendo progressi. Guardiamo insieme il baseball, ogni tanto ti faccio avere il burro di arachidi, e tu mi combini una cosa del genere? Perché? Perché continui a farlo? E soprattutto, perché io continuo a permettertelo?» Ero in cima alle scale, quando sentii la conversazione filtrare dal mio appartamento. Simon era a casa da solo, forse al telefono. Una volta dentro, però, sbirciai dall’angolo e lo vidi seduto al tavolo, di fronte al mio gatto, Clive, la sua felpa di Stanford in mezzo. Clive aveva “marcato il territorio” su quella felpa diverse volte all’inizio della nostra storia, ma da qualche tempo non aveva più sentito il bisogno di ricordare a Simon che il vero uomo di casa era lui. Pensavamo entrambi che l’avesse finita con quelle sue marachelle. A quanto pareva, non era così… Soffocai una risata per la serietà con cui Simon guardava Clive, e la scarsa serietà con cui Clive sembrava prendere la faccenda, dato che sbatteva la coda quasi fosse staccata dal corpo. Tornai indietro in silenzio, e poi armeggiai rumorosamente con la maniglia, per avvertire i due che ero a casa. Quando feci ritorno in soggiorno, trovai Simon intento a leggere il giornale come se niente fosse. Non accennò alla conversazione che aveva avuto con il gatto. Per rispetto della sua dignità, finsi di non notare, qualche ora dopo, la felpa nel cestino della spazzatura.
«Piccola, che stai facendo? Mi hai dato un calcio?» Si rigirò come un millepiedi. «Devi smetterla!» urlai. «Smetterla? Di far cosa? Dài, su… torna a letto» mormorò, già scivolando nei sogni, dove sembrava far la parte del tagliaboschi. «Non ti azzardare a addormentarti! Devi. Smetterla. Di. Russare!» esclamai, furiosa dentro e fuori. Essere privata del mio prezioso sonno mi trasformava in un’indemoniata. «Russare? Andiamo, non può essere così grave, che cavolo!» Gli rubai il cuscino, facendogli rimbalzare la testa sul letto. «Se io non riesco a dormire, non dormirà nessuno! Fai un casino terribile, e poi sei bollente!» strillai. «Be’, del bollente sapevamo, no?» «Aaaarghh!» «Aspetta, hai la sindrome premestruale?» chiese lui, per poi assumere un’espressione spaventata, non appena si rese conto del suo errore. Simon finì la nottata al di là del pianerottolo, nel suo appartamento.
-Davvero, sesso a parte, congratulazioni. Sono fiero di te. -Anch’io sono fiera di me. Grazie. -E adesso cosa indossi? -Va’ a farti una doccia fredda, Sbatticuore. -Ah, adesso si fa così? -Sigh. Ricordi il primo messaggio che mi hai mandato? Dall’Irlanda? -Sì. -E ricordi quando ho attraversato il pianerottolo e ti ho dato un calcio alla porta? Ci fu una breve pausa. Poi: -L’hai fatto anche adesso, vero? -Forse. -Ti amo. -Io di più. Attento agli squali.
Il mattino della festa natalizia di Mimi, avevo programmato di passare un po’ di tempo da sola con il mio robot da cucina. Mimi mi aveva chiesto di preparare dei biscotti per la festa e avevo colto l’occasione al volo, anche se ero oberata. Ogni donna ha bisogno di un briciolo di felicità ogni tanto. No? E la macchina della mia felicità era di acciaio inossidabile, potente e aveva un accessorio opzionale per le salsicce.
Quindi adesso, come ciliegina sulla torta, dovevamo liberare entrambi i nostri appartamenti in città e spostare tutto in un magazzino finché non fossimo stati pronti a trasferirci nella casa nuova. Assurdo. Naturalmente, pagai qualcuno che mi aiutasse, ma avevo comunque bisogno di selezionare, eliminare e impacchettare alcune cose da sola. Nell’appartamento di una donna ce ne sono alcune che lei vuole mettere via con le sue mani. Sono certa che mi capite. Nessuno poteva toccare il mio KitchenAid.
Gli presi la scatola dalle mani e lì in cima, circondato da un esercito di peperoni ballerini e con un cappello da cuoco sulla testa, c’era la foto del diavolo in persona. Cory Weinstein. Proprietario della catena di pizzerie. Elargitore di sconti. Autonominatosi uomo dei sogni. Nonché lo stronzo che aveva fatto scappare il mio O. Iniziò a tremarmi una palpebra. Il pavimento si inclinò sul suo asse. La pelle che lui aveva visto una volta sola adesso era accapponata, e prudeva e pulsava. La risata che si era riversata fuori dalle mie labbra si trasformò in un grido che bloccò il traffico in tutta la città, rovesciò diversi carretti della frutta e forse provocò il leggero terremoto di cui parlarono quella sera al telegiornale. Le mie ginocchia adesso erano appiccicate al mento, mentre il mio corpo si raggomitolava nello sforzo di proteggersi a ogni costo. «Dài, vuoi calmarti? Ti giuro che non ci sono acciughe in questa pizza» disse Simon, e mi passò un tovagliolo alzando gli occhi al cielo. Per tutto il pomeriggio fui tormentata dai flashback. Cory, che brindava con la sua birra Natural Light quando l’avevo incontrato per un drink al nostro primo e unico appuntamento. Cory, che sghignazzava dietro il volante della sua stupida Auto da Uccello Piccolo, gialla e tirata a lucido, con la targa LECCOLATOPA. Per la cronaca, non è vero.
«Non ho mai vissuto con nessuno. Lo sai, vero?» Annuii. Per un attimo restò in silenzio, lo sguardo assorto. Poi mi aprì la mano e vi piazzò sopra la chiave. Mi chiuse la mano e sorrise. «Benvenuta a casa, piccola.»
Decidere l’altezza dell’isola era stato un cabaret. Simon mi aveva portato in giro per la casa, piazzandomi su mobili a diverse altezze per trovare quella più comoda. Sono certa che tutti gli operai capissero cosa stava cercando di fare e non mi importava niente. Stavo per avere la cucina dei miei sogni e il mio uomo voleva assicurarsi che il piano di lavoro fosse a un’altezza perfetta per gli intermezzi hot. Che si può volere di più dalla vita?
Note
Nei ringraziamenti sono citate – tra le altre - Sylvia Day e Katy Evans… ma anche LEI. EL James. Non ci volevo credere, e Alice Clayton ha perso tipo 310873810037191202 punti. Ma ne ha recuperati 310873810037191201 perché continua dicendo “… Grazie a Nina per l’infinito incoraggiamento, le foto RPatz, e i Gummy Bears quando sono nervosa. Il che, diciamo la verità, capita quasi sempre”. È il mio animale guida.
Piccolo OT: MA CHE CAGATA DI COPERTINA HANNO CREATO!?
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La mia mistica Maratòn Valencia Trinidad Alfonso 2017
Che maratona quella di Valencia! Sono già passati diversi giorni, eppure il senso di gratificazione, gli “animo, animo” e i “campeones” del pubblico, i riflessi del sole sugli edifici storici, riecheggiano ancora intensamente nella testa e nel cuore.
Fino all’estate non avevo un grande stimolo a correre questa maratona, non sentivo una particolare attrazione per la città e per la Spagna in generale. Ciò mi risultava strano perché uno dei viaggi che ricordo con maggior piacere è stato quello post laurea, in Andalusia insieme al compagno di studi e amico Marzio. Anche i week end a Madrid, i viaggi di lavoro a Barcellona, le vacanze alle Baleari mi erano tutti molto piaciuti, eppure, per la Maratona di Valencia non sentivo una grande attrazione. Hanno deciso la mia partecipazione Stefania e i suoi amici, io con grande resistenza ho… ceduto. A metà agosto ho organizzato la trasferta e mi sono concentrato sulla preparazione formulata dal grande coach e amico Marco Boffo.
Quest’ultima è stata molto diversa dalle precedenti e anticipata da un buon numero di chilometri a bassa intensità intervallati da una gara al mese sui 30 km in montagna, non proprio dei trail, ma quasi. Questa fase credo sia stata molto utile sotto diversi aspetti tra cui l’aumento di forza specifica, sempre un’area critica per gli amatori vecchietti come me. Durante le ultime 12 settimane ho continuato a gareggiare molto più del solito, con mezze maratone e ancora gare di 30 km, non ho invece corso lunghi lenti né ripetute brevi e veloci. Vado però ora al dunque, il week end della maratona: partenza il 17 novembre, venerdì, giorno nero per molti, positivo e ricco di significato per me, per le mie origini, per i valori che mi sono stati trasmessi. Oggi mio padre avrebbe compiuto 85 anni e ci penso con intensità. Cosa direbbe sapendo che parto per la Spagna per correre la mia decima maratona? Lui, fiero di essere (più che esser stato) Alpino, sa qual è il valore della fatica ma, questa della maratona, senza un apparente scopo specifico e tangibile, come lo considererebbe?
Prima di partire corro l’ultima corsa lenta di 6 km, faccio colazione con un bel piatto di pasta e delle proteine e via con tutto il gruppo verso il Marco Polo di Venezia. Un paio di panini, uno scalo a Madrid, mezz’oretta di taxi e lasciamo le valigie in hotel a 500 metri dalla Ciutat de les Arts i les Ciències. Una breve camminata, il tempo per rimanere con il fiato corto per la bellezza architettonica dell’area, qualche foto e siamo dentro all’Expo per il ritiro del pettorale. Incrociamo i pacer, rubo una foto a uno di loro che sta provando lo zaino e l’asta con cui correrà domenica con il vessillo che indica 3:00. Dentro di me mi chiedo se “sarà la volta buona”, perché in effetti è dall’autunno del 2015 che credo di essere pronto per andare sotto le 3 ore e non ci riesco per mille motivi diversi.
il giorno dopo facciamo un po’ i turisti, mangiamo paella e pasta e, presto, la sera presto andiamo tutti a dormire. La mattina della gara facciamo colazione e con sommo piacere ci diciamo tutti: non male poter stare in camera fino alle 8:00 e poi uscire dall’albergo per entrare nel blocco di partenza percorrendo soli 20 metri, proprio come a NY 2 anni prima, quando abbiamo fatto la maratona ancor prima di iniziare a correrla!
Saluto gli amici, un bacio a Stefania con l’augurio reciproco di divertirci e via per un breve riscaldamento in griglia, poco ma sufficiente per avere caldo e indurmi a togliere il pile che avevo indossato; lo lascio a terra a beneficio di qualcuno che ne avrà più bisogno di me con l’arrivo della stagione fredda. Pochi minuti di attesa e ci siamo: partenza. Il clima è buono in termini di temperatura (circa 10°) e umidità, c’è però anche il sole, che io temo particolarmente. Dallo sparo alla mia partenza vera e propria mi sembra passi qualcosa più di un minuto. Dopo poche decine di metri siamo sul ponte d’avvio gara e componiamo un bel serpentone. Trovo abbastanza spazio mantenendomi sulla sinistra, scelgo anche di fare qualche metro in più pur di mettermi comodo. Il primo km va via in 4’13”, sono contento perché mi sento sciolto e l’andamento della frequenza cardiaca non fa scherzi. Mi sono dato, come spesso accade, qualche blocco di frazionamento della gara, pensando solo a quello e non ai 42 km complessivi: frazioni di 5 km da correre in 21’15” e frazioni di 14 km da chiudere in un po’ meno di 1 ora. All’inizio del secondo km c’è una curva che gira dalla parte in cui mi trovo io, a sx e inizio a sentirmi “stretto”… dopo un po’ la situazione migliora, ma verso il 5° km la situazione si ripete a una rotonda che nuovamente va a sx, sulla dx c’è il mare, ma io non me ne accorgo perché sto attento a trovare il mio spazio per correre. Sento che sto bene e mi sento comodo con il ritmo impostato: i primi 5 km si chiudono in 21’12” (official time) e la FC è sotto controllo a 155. Io mi sono dato l’obiettivo di stare qualche punto sotto i 160, possibilmente fino a un po’ dopo la mezza; essere così sotto pur mantenendo il ritmo medio di 4’15”, mi fa stare tranquillo. In questa prima frazione la strada sale un po’ ma non me ne accorgo. Il pubblico è presente ai lati ma io non ci faccio troppo caso anche perché, pur numeroso, non è né come a Londra, né come a New York o a Berlino. Non ho l’aspettativa di trovare un clima particolarmente caloroso. Percorro un viale alla fine del quale c’è un tornante, il percorso va a ritroso, siamo in Avinguda dels Tarongers. Prima di fare l’inversione sull’altra corsia, vedo David, non riesco a capire bene quanto più avanti di me si trovi, ma non mi sfiora minimamente l’idea di fare riferimento a lui, sono solo ammirato del fatto che stia andando a un ottimo ritmo. Verso la fine del viale, quando ancora vedo le persone nel flusso opposto, cerco di vedere Stefania e Irene, ma so che è abbastanza improbabile che ciò accada perché sono partite un bel po’ dopo di me. Al nono km circa, altre 2 curve a 90° a sinistra, la strada qui si mantiene un po’ più larga e non ho particolari difficoltà a mantenere il passo. Prendo il primo gel, bevo un po’ d’acqua, così come avevo fatto al ristoro del 5° km e vedo Titti con Alex il suo bimbo di pochi anni. È un’immagine di pochi istanti ma per me preziosa, gioiosa e solare, mi fa sentire bene. Riusciamo a salutarci e via… ancora un colpo d’occhio alla frequenza cardiaca e ancora 155: bene, sono contento, si chiudono i secondi 5 km, 42’12”, ottimo, sono un po’ in vantaggio rispetto alle 3 ore! Avanti ancora verso nord fino al 13° km e ritorno verso sud girando all’interno di una rotonda. Siamo prossimi a verificare di essere sotto l’ora del 14° km: 58 e 50 secondi circa. Il Garmin segna una settantina di metri in più rispetto alla distanza indicata dai cartelli, ragion per cui guardo il cronometro in prossimità di questi ultimi e non il dato dell’autolap. Intorno a me in questa zona c’è un bel po’ di gente, mi da l’idea che ci sia vero interesse per ciò che sta succedendo a questi 19.000 intenti a correre per 42 km di fila, sensazione simile a quella che ho provato lungo la riviera del Brenta in occasione della Maratona di Venezia di un mese prima. Sono contento! 1 ora 3’10” al 15° e ancora grande facilità di corsa. Il sole da me temuto è attenuato abbondantemente dai palazzi e dagli alberi e mitigato da un po’ di vento che aiuta a mantenermi fresco. Poco più avanti incontro nuovamente Titti che saluto a pollice alzato e braccio della mano opposta rivolto verso l’alto come per dire che va bene e sono lucidamente presente! Non me ne accorgo ma in questo momento lei mi scatta una foto che esprime veramente questo mio “steady state”(http://bit.ly/2iQ7VQC) …penso che tutto sta andando bene e che oggi “deve” andare bene fino alla fine, ho corso almeno 7.500 km nel tentativo di andare sotto le 3 ore, obiettivo che sento mio senza un perché specifico, senza la possibilità di vincere qualcosa, senza essere il primo in una qualche classifica. Ma lo voglio. Per me è una sfida interiore che esprime un senso di scopo, un po’ come nelle culture antiche il sacrificio per gli Dei: la mia fatica e l’impegno per raggiungere questo traguardo è un modo per mettermi in pacing con le ormai tante persone a me care che non ci sono più e che mi mancano. Spesso mentre corro le maratone mi trovo a dialogare con loro, in particolare con mio padre e con Corrado, collega e amico che ha lasciato un anno e mezzo fa una moglie e due bambini dell’età dei miei. Con la piccola Hyba. Con Massimo. Con Tatiana. Con tanti, purtroppo, altri. In questi chilometri, dopo che ho visto per la seconda volta Titti, anche lei toccata fortemente quest’anno, sono affiorati puntuali, forti, vivi, questi pensieri. Oggi però è diverso dalle altre volte, oggi sento che andrà bene e potrò condividere anche con loro l’impresa!
Al 18° km, torno in contatto con la realtà che mi circonda e, con sorpresa prima vedo e poi raggiungo i pacer delle 3 ore, sono in 2. Ho un momento di sbandamento: io sono in vantaggio sulle 3 ore, perché ora raggiungo ora i pacer? Stanno andando troppo forte? Pochi istanti e realizzo che sono partiti davanti, allo sparo, io un po’ più indietro e il mio recupero equivale alla differenza tra gun time e real time. Il pensiero immediatamente successivo è stato prudenziale: se sto con loro certamente faccio il mio tanto atteso sub 3 ore. Decido quindi di rallentare il mio passo di quei 3 o 4 secondi al km per rimanere con loro e con il gruppo nutritissimo di runner che vanno allo stesso ritmo. Nei 2 km successivi ci sono diversi cambi di direzione, curve a novanta gradi con strade non particolarmente larghe. L’affollamento intorno a me m’infastidisce ma rimango concentrato sulle sensazioni che mi rimanda il corpo. Sono ancora molto buone, FC 157, caldo poco, cadenza di passo prossima a 190: tutto molto bene! Ormai siamo alla mezza, altro check importante: 1:28:50, oh yeah, c’è margine. L’entusiasmo per il cronometro è un po’ smorzato dal fatto che il traguardo è indicato solo dalle strisce a terra della misurazione cronometrica e da nessuno striscione o gonfiabile, peccato, mi sarebbe piaciuta maggiore evidenza, è pur sempre il giro di boa, il secondo inizio. Io comunque mi sento pronto a correre un’altra mezza maratona a un ritmo che mi risulta facile, mio, quello che sto tenendo in questa fase. Al 22° lambiamo la marina di Valencia, sede di qualche America’s cup, uno degli eventi che hanno ridato vita alla città, neanche il tempo di accorgersene e siamo nuovamente in zona Ciutat de les Arts, il pubblico è ancor più numeroso rispetto alla partenza, sono circa le 10:10, il sole è alto e proprio alle nostre spalle. In questa fase si va verso nord ovest, in un leggerissimo dislivello positivo (questo lo vedo solo a posteriori dalla traccia GPS, non lo percepisco), con poca ombra e le strade non molto larghe. Mi trovo, quindi, tra il 24° e il 27° km a fronteggiare le prime preoccupazioni. Io soffro il sole, già due volte in pochi chilometri nelle maratone di Milano 2016 e Venezia 2017, mi ha messo in crisi. Sto, quindi, particolarmente attento a cercare la poca ombra ai lati della strada e a non alzare troppo la FC: 158 – 159, gestisco e mi curo di non rallentare troppo. Ci riesco perché rimango con i pacer senza difficoltà. Entriamo in centro storico e percorro i miei 2 km più lenti a 4’21” e 4’25”, qui non sono certo che il GPS “veda bene” e non mi preoccupo, le strade sono strette e io non ho lo spazio che vorrei per correre, mi trovo spesso a dover accorciare il passo per non far cadere altri runner e sto attento di non cadere pure io. Al 28° sono sull’ora e 58, penso che potrò amministrare con un buon margine, ora la fatica è un po’ più intensa ma ampiamente sopportabile. Al trentesimo 2 ore 07 scarsi. Prendo il terzo gel e viste le condizioni buone ipotizzo di non prenderlo al 40°. Al 33° cambiamo direzione puntando verso l’arrivo, proprio mentre giriamo a sinistra, uno dei due pacer si porta a bordo strada, è a un metro da me, lo riconosco bene, è quello che ho fotografato il giorno prima e al quale avevo fatto riferimento: io devo arrivare prima di te domani! Non avevo però ipotizzato che potesse ritirarsi così come stava facendo a due passi da me. Il suo compagno 50 metri dopo si gira per cercarlo, non lo vede, rallenta, gli dico che si è fermato, non mi capisce, lo aspetta ancora un po’ perdendo 20 metri rispetto a me, poi riprende il ritmo, mi raggiunge e mi sopravanza di una ventina di metri: ho “rotto il ritmo” e sta strappando. Io rimango tranquillo, so correre tenendo il mio ritmo. Ora non pongo più attenzione forte all’andamento della FC, so che quanto mi manca all’arrivo in termini di tempo è per me gestibile anche sopra la fatidica soglia: ora la mia prossima meta sono i 39 km e Plaza de Toros, so che da lì sarò anche aiutato da una leggera discesa. Passano i 35 km, sempre in gruppo e con il pacer, gestisco bene i chilometri successivi, arriva l’arena dei toreri: ora non ci sono più dubbi, il sub 3 ore sarà mio! Il pubblico aumenta, gli incitamenti pure, energici, vivi, rumorosissimi, allegri: animo, animo… campeoooness, campeeoooness…. Vamos, vamos…. Bambini, adulti, anziani, famiglie, c’è tanta Valencia sulle strade, tanta Spagna. Io sono contento, non sento la fatica, già assaporo l’arrivo. Ma il godimento è lungo tutti gli ultimi chilometri che ancora mi separano dal traguardo. Le persone per incitare invadono le strade, ma contrariamente a prima, il fatto che si assottiglino non è un problema, ora lo spazio per correre rimane abbondante perché molte persone hanno perso il contatto con il pacer e perché, comunque, prevale la forza del calore che le persone mi stanno generosamente e genuinamente offrendo. Sono contento, molto contento. Voglio chiudere in up, prendo anche il 4° gel al 40°, lambiamo il parco, ex letto del fiume, ora paradiso per i runner locali dove possono correre in totale sicurezza ad ogni ora del giorno e della notte. La strada scende ancora un po’, la abbandoniamo, entriamo nel parco che si fa stadio, tanta è la gente che assiste al passaggio dei maratoneti, il palazzo delle arti Reina Sofia, mastodontico, si apre come una conchiglia davanti a me, ne rimango affascinato come era già successo i giorni prima, ma questa volta la prospettiva è diversa e mi sembra ancor più bello e imponente. Siamo alla fine. L’ultimo chilometro è segnato ogni 100 metri, mi ricorda i cartelli delle yards del Birdcage Walk e del Mall di Londra, prima di quel memorabile traguardo. Quando mancano 400 metri, mollo i freni e vado, sento che sono abbondantemente sotto i 3’50” al km ma non guardo l’orologio, lo spettacolo è fuori, le sensazioni non sono hi tech da GPS, sono tutte mie, dentro, hi touch, umane, è così che voglio chiudere questa maratona. Ecco il tappeto blue, ecco che vedo le tribune, sento la musica, vedo il real time nello schermo davanti a me: anche quello segna il 2 come prima cifra. Anche il pacer sopravvissuto è dietro di me! Real Time 2:58:48, ho ottenuto l’obiettivo che mi sono posto nel 2015, due anni abbondanti fa. Ho perseverato, ho faticato, ho sbagliato, ho perso anche la fiducia, ma oggi l’ho fatto. Anche questo, per dimostrare che volere è potere, che gli ostacoli vanno superati, che senza sofferenza non si ottiene ciò che si desidera, che ci si deve porre i giusti ambiziosi ma non impossibili traguardi, che impossibile però non deve essere una scusa, anche per questo corro la maratona. Per questo volevo il sub 3 ore. Per questo e per altre cose, come uno sguardo verso l’alto dopo il traguardo, dopo aver ottenuto il mio obiettivo, che corro la maratona. Verso l’alto, verso persone care, verso il futuro che voglio vivere con la mia famiglia, i miei cari, gli amici, le persone che continuano a riempire la mia vita anche se non ci sono più, che danno senso di scopo al fluire dei giorni. Alla vita.
…mi rifocillo velocemente dopo il traguardo, incrocio David che ha fatto un eccellente 2:52, vado a farmi la doccia e torno in prossimità del traguardo per aspettare Stefania. Quando la vedo, la chiamo, si accorge con un po’ di ritardo di me, decide di tornare indietro per salutarmi con un sorriso di sollievo che spazza via una tensione sul viso che mi lascia intendere che ha molto faticato. Sono contento di vederla tagliare il traguardo della sua quarta maratona, anche per lei il miglior tempo di sempre anche per lei un’impresa che ha un significato più profondo rispetto al solo gesto sportivo. Viva la corsa, viva la maratona, viva la vita! (http://bit.ly/2jopEOu)
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Incontriamo LP, la cantautrice che dovete assolutamente conoscere
Benvenuti a “Kind of a Big Deal”, la rubrica dedicata alla presentazione di grandi donne impegnate ad abbattere muri e pregiudizi nei loro campi d’azione. Conoscereste questi astri nascenti e avrete scoop riguardo il loro successo, ciò a cui stanno lavorando al momento e i loro piani per il futuro.
Conosciamo LP, nota anche come Laura Pergolizzi. Lei è la cantautrice che ha scritto “Cheers (Drink to That)” di Rihanna e “Shin Ya Light” di Rita Ora. I suoi vocalizzi incredibilmente acuti sono stati comparati a quelli di Janice Joplin e Florence Welch (che LP considera una grande amica) dei Florence and the Machine.
Il suo nuovo album ha avuto un grande successo all’estero (il suo singolo “Lost on You” ha raggiunto il primo posto nelle classifiche di più di dieci Stati europei), ma la musica di LP è davvero difficile da inquadrare con precisione, ragion per cui, secondo lei, molte case discografiche l’hanno ingaggiata per poi lasciarla inerme nella lista dei loro artisti.
Ora LP ha finalmente trovato il suo ritmo, o probabilmente è riuscita a mettere sotto controllo il suo sound grazie a un team di produzione che ha permesso alla sua incredibile voce di splendere. Sull’onda del suo nuovo video “When We’re High”, pubblicato la settimana scorsa e con già circa 600 000 visualizzazioni su YouTube, abbiamo alzato il telefono e chiamato l’artista per discutere con lei della “musica pop”, sessualità, e come spingere il proprio successo nell’industria musicale.
Sei stata etichettata come rocker e come artista indie, ma ti piace scrivere musica pop. Cosa connette tutti questi generi?
Quando ho iniziato a scrivere canzoni pensavo che la cosa più sicura da fare fosse scrivere il maggior numero di testi possibili, perché non tutti i tipi di mercato danno lo stesso tipo di rendimento. Ma credo che la confusione riguardo la mia musica sia più relazionata al modo in cui abbiamo deciso di dividere i generi. Le persone non sempre capiscono la loro fusione, ma l’obiettivo di qualsiasi tipo di musica è semplicemente quello di essere accattivante. Quindi qualsiasi tipo di musica mi piaccia, anche se classica, ha in sé un elemento pop. Sento la necessità di continuare ad ascoltare una canzone se ce l’ho fissa in testa, capisci? Credo che “pop” sia semplicemente una strana parola senza senso…
“Pop” significa “popolare”.
Sì, esatto. I Beatles erano pop. I Rolling Stones erano pop. Quando canto una mia canzone sul palco mi sento come se stessi facendo un rock show anche se non credo che tutta la mia musica sia prettamente definibile rock. Mi fa piacere quando qualcuno chiede ai miei fan “che tipo di musica è?” e loro rispondono “ah, non lo so, è un po’ di pop con un po’ di funk e un po’ di alternativa”.
Hai detto in passato che essere una “rocker femminile” è limitante, puoi spiegarlo?
Credo che l’essere una “rocker femminile” evochi immagini del passato. La quintessenza della rocker femminile non si è vista per un po’. La cosa più simile a ciò che era Stevie Nicks che abbiamo ora, secondo me, è Florence Welch… beh, anche Joan Jett. Joan Jett è sempre Joan Jett, ma non c’è nessuna donna che porti il testimone del rock in senso stretto al momento. Faccio di tutto per provarci quando sono sul palco, ma non credo che qualcuno potrebbe riconoscerlo.
Sei anche un membro fiero della comunità LGBTQ. Che ruolo ha la sessualità nel tuo lavoro?
Credo che la sessualità di una persona non dovrebbe essere un valore rilevante. La prima volta che ho fatto outing come lesbica sono rimasta sconvolta da come la mia vita sessuale fosse improvvisamente messa in mostra. Come quando la tua famiglia allargata scopre che sei gay: può capitare di sentirsi come se loro pensassero solamente alla persona con cui fai sesso. Poi però, quando i tuoi cugini etero portano il loro ragazzo/a ad una riunione di famiglia credi che nessuno si immagini la coppia mentre ci dà dentro. Per me è sempre stata una questione un po’ scomoda. Ma ci sono un sacco di persone che hanno fatto outing ora. Voglio dire, mi sono appena fidanzata ufficialmente con la mia ragazza ed è stato incredibile.
Ho visto. Congratulazioni!
Grazie. È successo una settimana fa e sui palchi su cui sono stata in Italia, Francia, Atene è stato tutto un “Congratulazioni!”. Tutto ciò è bellissimo, credo di aver visto il mondo cambiare davanti ai miei occhi e sono fiera di fare parte, nel mio piccolo, di questo cambiamento. Credo anche che mantenere un basso profilo riguardo a questo argomento possa aiutare a (non userò il termine “normalizzare”) prenderla più alla leggera: “ah sì, sono gay!”, senza che questo significhi qualcosa. Ricordo che quando ho pubblicato il mio primo video qualcuno ha detto “ah, stai baciando una ragazza”. Io ho risposto “no, sto baciando la mia ragazza, è solo un bacetto sulle labbra.” Probabilmente è il video più innocente che possiate vedere là fuori, non c’è niente di spinto. Sto baciando una donna perché è la mia ragazza. Sto molto bene con me stessa, il mondo sta cambiando e la cosa non mi preoccupa minimamente.
Il tuo ultimo video, When We’re High, a cui ha partecipato anche la tua fidanzata, sembra celebrare l’informalità. Che idea c’è dietro?
Ad essere onesti quando lo abbiamo registrato ero a casa per un giorno di riposo. Con un po’ più di tempo saremmo riusciti ad approfondire meglio la trama, ma il testo della canzone racconta di una relazione che all’inizio sembra quasi pura fantasia; quindi, in tutta sincerità, questo video mette in scena delle situazioni dominate dal divertimento tentando di evocare un qualcosa dell’atmosfera festaiola che la canzone richiama.
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È già un po’ che sei nel giro, hai collaborato con varie case discografiche con cui però sembra non aver mai funzionato. Cos’ha di diverso l’album “Lost On You”?
Il mio ultimo album è andato fuori dal mio controllo ed è stato una delusione, specialmente nell’aspetto della produzione, perché pensavo di non meritare tutta la pressione che invece mi è stata fatta. Questa volta invece ho potuto lavorare alle mie canzoni con un team di produzione scelto da me, Mike Del Rio e PJ Bianco, e abbiamo potuto muoverci davvero come volevamo. Credo che una delle cose più complicate per un’artista sia essere ciò che si immagina di voler essere, molte persone ci riescono. Io la considero una sorta di sfida, ma alla fine sono felice di aver dimostrato che quando faccio le cose a modo mio acquisiscono anche più senso.
L’obiettivo è trasmettere qualcosa agli altri. Cosa ti piacerebbe che i tuoi fan cogliessero dalla tua musica e i tuoi video?
Credo di avere diversi punti di vista riguardo a cos’è il pop e a cosa può essere accettabile in questa realtà. Ma ciò mi piace, vorrei che i fan capissero che riguardo ai generi musicali non è tutto o bianco o nero. Ho un atteggiamento retrò nei confronti del mio lavoro e della mia persona, ma ho anche una visione innovativa per quanto possibile. Ci sono persone che nell’ambito del pop possono avere look e attitudini diverse.
Come descriveresti il tuo stile?
Ammiro chiunque si senta a suo agio nei propri panni anche se stravaganti. Definirei il mio stile come androgino, mi sento sempre come se gravitassi attorno a questa tendenza. Mi vesto più o meno allo stesso modo sia sul palco che non; non mi metto pantaloni della tuta per viaggiare in aereo, è sempre come se dovessi salire sul palco da un momento all’altro.
Per quanto riguarda il tatuaggio del veliero, si riferisce al cambiamento e al viaggio per diventare artista. Giusto?
Dopo anni passati a pensare di tatuarmi questo veliero sul braccio, nel giro di tre giorni a New York ho deciso di tatuarmelo sul petto. Penso di essere riflessiva e allo stesso tempo impulsiva quando si tratta di tatuaggi. E sì, il veliero si riferisce alla necessità di accettare il viaggio. Tra tutti gli alti e bassi, nella costruzione della mia carriera musicale, odiavo quando la gente mi diceva “Oh, sta tutto nel viaggio”. Avrei voluto dire loro di chiudere la bocca, non volevo sentire parlare di viaggi. Poi negli ultimi due anni mi sono resa conto che sì, hanno ragione. Tutto ciò che è successo nella mia vita e nella mia carriera mi ha portata ad essere ciò che sono, ora l’ho capito.
Hai anche un orecchino a forma di croce all’orecchio sinistro. Ha qualche significato speciale per te?
È un orecchino regalatomi da un amico, lo indossava Madonna in alcune foto. Da bambina non ho mai pensato di voler diventare una cantautrice, non sono cresciuta in una famiglia orientata verso questo genere di cose. Ma lo stesso anno in cui decisi di inseguire il mio sogno nel mondo della musica, lui mi regalò questo orecchino. L’ho subito trovato molto bello e semplice.
Hai mai pensato di mollare?
Sì certo, ma non con convinzione. Ci sono stati un paio di momenti, dopo il terzo contratto discografico fallito, in cui sentivo di essere arrivata in modo abbastanza decente alla metà di un percorso che non avrei mai concluso. Ma credo che il peggior sentimento per un giovane artista sia quello di non sentirsi voluto e quindi voler smettere. Può capitare a tutti, ma è una strada inutile da intraprendere, si rischia di perdere sé stessi. Penso che lo scrivere canzoni mi abbia dato la scossa necessaria quando pensavo che non ci fosse più nulla da fare.
Come sai, quando scrivi una canzone, che sarai tu a cantarla oppure qualcun altro? C’è una caratteristica particolare che la rende tua?
È strano. Somiglia a quando scegli dei vestiti o cose del genere. Quando è fatta per te te ne rendi conto, ma è difficile dire cosa la renda definitivamente mia. Di solito c’è un elemento di connessione tra il testo e la musica specifico per me. A volte, per esempio, ci sono vocalizzi che sarebbero fut****mente alti per chiunque altro.
Hai scritto per molti artisti diversi, da Cher a Christina Aguilera a Rihanna, chi è stata la persona con cui hai preferito lavorare?
La prima canzone che ho scritto è stata per i Backstreet Boys. Non ci potevo credere. Continuavo a ripetermi: “Oh me**a. Davvero? I Backstreet Boys canteranno una canzone che ho scritto io? È fantastico”. Sicuramente poi una delle emozioni più grandi è stata scrivere per Rihanna. La adoro. Per praticamente tutta la sua carriera è stata capace di prendere una canzone e piazzarla ai vertici delle classifiche. Anche sentire Joe Walsh cantare uno dei miei testi è stato fantastico. Sono grata a chiunque scelga di cantare una delle mie canzoni.
Ti piacerebbe continuare a scrivere per altri artisti?
Sì, assolutamente. Penso che mi faccia bene, come scrittrice, prendere dei periodi di pausa da me stessa. Non ho in mente nessuno in particolare, ma sarebbe interessante scrivere per qualcuno come Bruno Mars. Credo sia un artista e cantante incredibile. Oppure per qualcuno di folle come Peter Gabriel.
Com’è cambiato il tuo modo di scrivere nel corso degli anni?
Quando firmai il mio primo contratto con una casa discografica, nel 2006, ero terrorizzata. Era davvero difficile scrivere canzoni in una stanza con persone che non conoscevo, è qualcosa di intimo. Ora nemmeno ci faccio caso, riesco ad evocare la mia musa molto più facilmente. Quando abbiamo composto “When We’re High” era dicembre, mi trovavo a Parigi e due dei miei co-autori/produttori, Mike Del Rio e Nate Campany, si presentarono da me nei due giorni di riposo del mio tour. Le persone scrivono continuamente durante i tour, ma non si sa mai cosa ne può venir fuori. È stato bello rendersi conto che, nonostante si trattasse di un piccolo momento di scalo a Parigi, siamo riusciti a creare due buone canzoni; l’altra probabilmente uscirà l’anno prossimo.
Sei di New York ma hai dichiarato di essere una grande sostenitrice del panorama musicale di Los Angeles. Cosa rende LA così accattivante per gli artisti al momento?
Non so se sia il tempo atmosferico, l’acqua o cosa, ma ci sono un sacco di opportunità come artista; mi sento molto più vicina alla mia musa. Qualsiasi tipo di cambiamento è positivo per un artista. Quando fai della tua passione il tuo lavoro è facile cadere nella routine. Non è raro sentirsi sopraffatti dal tentativo di diventare ciò che si ama.
“Lost On You” ha vinto il disco di platino in Grecia e il doppio disco di platino in Russia. Ti aspettavi di riscuotere tutto questo successo all’estero?
Assolutamente no. Sai, ho composto “Lost On You”, “Muddy Waters” e “Strange” per la mia ultima casa discografica, la Warner Bros. , poche canzoni ma che credo di aver fatto molto bene. Sono stata liquidata due settimane dopo. Non si sa mai cosa può succedere e a volte può anche essere divertente. Il primo Paese in cui è successo qualcosa del genere è stata la Grecia, seguita poi dall’Italia. Ricordo persone che mi rassicuravano riguardo al successo che avrei avuto in Grecia grazie al mio ukulele o non so che altro. Mi trovavo sempre a pensare “Ah, davvero? Non c’è nessun ukulele in quella canzone ma ok boo boo, nessun problema. Apprezzo le str****te che dici”. [ride] Davvero non si può mai sapere.
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Cosa diresti a giovani artisti che si trovano sul punto di mollare?
È successo molte volte, durante la mia carriera, che le persone non credessero nella mia musica. Poi dopo poco trasformarono i loro pareri in “Hey, ho un’idea! Le lesbiche ci stanno. Piccole lesbiche con i capelli ricci. Firma un contratto”. Tutto questo dimostra che non si può mai sapere. Se c’è qualcosa che potrei dire per aiutare qualche altro artista sarebbe sicuramente di continuare a fare ciò che fa. Se lo vuoi davvero non mollare, non permettere che pareri soggettivi legati al business ti entrino in testa. Impegnati a scrivere le migliori canzoni possibili e a suonare la miglior musica che riesci.
Traduzione di Ilaria Rostello
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Bellezza e fotografia
di Carlo Delli
-- Ho iniziato a fotografare più di trent’anni fa perché studiavo entomologia. Classificavo gli insetti e le mie foto erano prettamente documentative, dovendo solo mostrare i caratteri distintivi di ogni specie. Ma ogni tanto mi imbattevo in immagini che mi colpivano per una luce particolare, una geometria singolarmente attraente, una combinazione di colori suggestiva... in altre parole alcune di queste foto erano BELLE e anno dopo anno questo mi capitava sempre più spesso. Ero quindi sempre più attratto dalla Bellezza: la macchina fotografica poteva farmi “portare a casa” la Bellezza!! Potevo riguardarla quando volevo e per merito delle fotografie potevo condividerla con altre persone! Ho così rivolto l’obiettivo verso nuovi soggetti fino a esplorare quasi tutti gli aspetti della storia naturale, cercando la Bellezza ovunque essa fosse.
Però un conto è essere anche profondamente immerso nella Bellezza e un altro scriverne. Ho dapprima pensato di cominciare dai filosofi dell’antica Grecia ma mi sono ritrovato in un oceano sterminato. Per affrontarlo ho allora pensato di partire da un molo sicuro, prosaico ma solido: un vocabolario, anzi “il” vocabolario, il Devoto-Oli. Come vi è definita la Bellezza? In maniera splendida: <<Bellezza è la qualità capace di appagare l’animo attraverso i sensi, divenendo oggetto di meritata e degna contemplazione>>. Meraviglioso! Però è importante vedere il significato di “appagare” che è: <<soddisfare, contentare, provare gioia interiore>>. E vediamo anche “bello”: ciò che è <<capace di provocare un’attrazione fisica o spirituale fine a se stessa, in quanto degno di essere ammirato e contemplato>>.
Queste definizioni mi hanno incoraggiato a formulare una mia prima tesi sulla Bellezza, che ho sempre sentito viva dentro di me, una tesi impegnativa ed estremamente profonda, che ci porta nel massimo sistema. La esprimo così: <<la Bellezza è importante, anzi indispensabile, per il compito principale della nostra vita, che è quello di conferirle un senso positivo, per essere sereni e se possibile felici>>. Scusatemi, ma la Bellezza non porta a niente di meno che a questo! Come abbiamo visto, parlando di Bellezza si parla di animo, si parla di gioia interiore, si parla di spirito! E la frase centrale che sorregge la mia prima tesi è infatti “la Bellezza appaga l’animo attraverso i sensi”, perché ci presenta una possibilità di cui io sono convintissimo: la Bellezza è capace di mettere in contatto tra di loro il mondo materiale e il mondo spirituale, il corpo e la mente, il contemplare e l’oggetto contemplato. Ebbene, la capacità di armonizzare tra loro questi aspetti della nostra realtà, spesso erroneamente ritenuti contrapposti da religioni e filosofie, è una delle tappe indispensabili per riuscire a dare un senso positivo alla nostra vita. Attenzione, non ho detto “trovare” un senso positivo, ma “dare” e “conferire”, perché questo senso profondo non è bell’e pronto da trovare da qualche parte fuori di noi, ma dobbiamo impegnarci a costruirlo dentro di noi, occupandoci del rapporto con l’Universo, con gli altri e con noi stessi. Ovviamente capite bene che ognuno di questi argomenti meriterebbe ben altro approfondimento.
© Fabio Beconcini, Papavero (2016)
La seconda tesi, sostenuta da tanti filosofi, è: <<la Bellezza, pur avendo a che fare col “collettivo” e col “sociale” è, nel suo significato più profondo e originale, un fenomeno interiore e personale>>. Interiore e personale innanzitutto perché se non l’abbiamo dentro di noi non possiamo vederla fuori di noi. E poi è banale ma evidente che non c’è niente che piaccia a tutti e, come accade di frequente, quello che per noi è bello e ci dà piacere, può lasciare indifferenti altre persone, o può provocare addirittura una reazione negativa. Purtroppo, per la loro costituzione mentale e per il loro vissuto infantile, esistono persone che difficilmente apprezzano la Bellezza, sia naturale che umana, e moltissime di noi, pur apprezzandola, non la ricercano attivamente, oppure ne rimangono in superficie, senza riuscire a farne un arricchimento per lo spirito.
La Bellezza non è solo nelle “cose” materiali, come vedremo anche nella mia terza e ultima tesi, ma è anche in “cose” immateriali come le emozioni, i sentimenti, le idee, le credenze, la conoscenza, la musica e tanto altro. Mi ha sempre affascinato il fatto che tutti i grandi scienziati, a cominciare da Einstein, hanno sempre detto che anche le formule scientifiche devono possedere bellezza, semplicità ed eleganza, con la Bellezza proprio al primo posto! E più sono belle più le formule sono efficaci e illuminanti. Attenzione però: quando ci viene presentata la supposta bellezza di certe idee bisogna stare molto attenti, la questione è complicata, ricordo solo che anche il sig. Adolf Hitler parlava della bellezza della razza ariana.
L’arte “occidentale” ha iniziato ad abbandonare la Bellezza dall’inizio del ‘900 e lo ha fatto massicciamente dalla sua seconda metà, a favore spesso di una neotenia insensata, dove la “novità” è un valore assoluto e non, come invece dovrebbe, solo un valore aggiunto. Tutto ciò a favore dell’eccentrico e, permettetemi, del brutto e del negativo. Si è arrivati a disprezzare apertamente la Bellezza: credo sia un sintomo importante di un “nostro” probabile declino, preannunciano forse la fine della nostra cosiddetta “civiltà occidentale”… forse… i processi storici sono imprevedibili anche in fisica, figuriamoci nella storia umana!
La Bellezza viene calpestata, non solo teoricamente. Uno dei miei progetti più ampi si intitola “...con lo sguardo verso il basso – Il Cielo in Terra” e vede al suo interno diversi lavori che mostrano la bellezza di pavimenti sia al chiuso (come quello della Collezione Maramotti di Reggio Emilia) sia all’aperto (come quello del centro storico di Volterra), per evidenziare quanto spesso calpestiamo la Bellezza senza nemmeno sospettare della sua presenza, e per mostrare che la Bellezza è ovunque, basta saperla vedere.
© Carlo Delli, Fungo (1995)
Ma c’entra tutto ciò con la fotografia? C’entra moltissimo, perché anche la fotografia, proprio come la Bellezza, “è capace di mettere in contatto tra di loro il mondo materiale e il mondo spirituale, il corpo e la mente, il contemplare e l’oggetto contemplato”. Ripeto un esempio che qualcuno avrà già da me sentito, ma è importante. Faccio una passeggiata sui monti, vedo un’orchidea selvatica: per me è bellissima! Ammiro in lei la Creazione, sento di appartenerle anch’io e ne sono fiero, mi meraviglio di poter riflettere su tutto questo, e provo una grande gioia interiore. Mi viene voglia di moltiplicare questa gioia, condividendo l’emozione di questa visione con altre persone, come fare? Se voglio realmente far vedere il fiore ad altre persone devo toglierlo dalla sua terra, ma questo non voglio farlo, e allora? Esiste un modo alternativo, che è definito in italiano da un verbo sconosciuto alla gran parte dei possessori di macchine fotografiche, in particolare ai fotoamatori e ai fotografi di professione, e purtroppo anche a qualche “esperto” di fotografia: questo verbo è “rappresentare”. Rappresentare significa fare presente, attraverso un linguaggio, qualcosa che è lontano nello spazio e nel tempo. In breve ecco tre delle tante modalità di rappresentazione: 1) prendo carta e penna e “racconto” il fiore a parole, posso farlo lì sul monte ma anche a casa, a memoria, se sono bravo susciterò nel lettore tutta o in parte la mia emozione usando il linguaggio verbale; 2) ho con me pennelli e colori e dipingo il fiore, posso farlo lì o, se ho buona memoria posso dipingerlo anche a casa, magari esaltando i particolari che più mi hanno colpito, usando il linguaggio pittorico dei segni e dei colori; 3) tiro fuori la macchina fotografica e faccio una o più fotografie dell’orchidea usando il linguaggio fotografico, ma questo posso farlo lì e assolutamente soltanto lì, perché solo la fotografia è un indice, cioè uno “stampo” (la pittura invece è sempre un simbolo).
La fotografia quindi c’entra tantissimo, perché tra tutti i modi di rappresentare la realtà visiva è quello che con la realtà ha più a che fare: i fotoni devono partire dal fiore, entrare nell’obiettivo e colpire il sensore digitale che ne ricaverà dei numeri, o colpire l’emulsione della pellicola cambiandone lo stato chimico-energetico e rimanendovi dentro fisicamente! Ma i fotografi non sanno cosa mai significhi questo strano verbo, “rappresentare”, e lo confondono con “riprodurre” e dicono accalorati che la fotografia non è realtà, che è come dire trionfanti di aver scoperto che i cani non hanno le ali o che le galline non sanno usare il computer: vero ma per niente interessante! I semiologi sono concordi: la fotografia è un indice, nel senso che esiste un legame diretto, anche fisico, a stampo, tra la fotografia e l’oggetto fotografato.
Ecco l’importanza della fotografia nel trasmetterci la Bellezza, e particolarmente la Bellezza della Natura: ce la riporta nella maniera più diretta possibile, pur con tutti i limiti di una rappresentazione visiva che ovviamente non sarà mai la realtà. Ad esempio il linguaggio verbale può darci indicazioni sull’odore, con similitudini, cosa che la fotografia non può fare.
© Carlo Delli, Paria canyon (1999)
Il linguaggio fotografico è molto vasto ma nei suoi elementi base è molto semplice, conoscerlo può dare al fotografo la possibilità di rappresentare i suoi soggetti in maniera documentativa e più impersonale possibile, oppure in maniera originale e personale, ma riporto un’affermazione impegnativa: la fotografia non dice MAI bugie, sono i fotografi che possono farle dire bugie in mille maniere, prima, durante e dopo lo scatto. Ma se la volontà e l’agire del fotografo sono quelli di non “alterare” la realtà visiva che hanno davanti all’obiettivo, allora la fotografia è spesso la maniera più potente di rappresentare la Bellezza. Attenzione: “alterare” non è qui inteso in senso negativo, ma nel suo significato proprio, dal altino alter: rendere “altro”, far diventare un’altra cosa.
La possibilità di fare arte trasmettendo con poesia e creatività il lato positivo della Creazione, rimanendo al tempo stesso ancorati alla realtà, è per me grandioso. Non importa se certe fotografie sembrano trascendere la realtà stessa, anzi!, solo la fotografia può trascendere in questo senso la realtà visiva senza alterarla e questo è ancor più grandioso! Sì, perché in questi casi l’essere umano, creatura, diventa esso stesso creatore, senza alterare la realtà, cui appartiene anche e soprattutto in senso filogenetico.
La fotografia è nata con l’intenzione di rappresentare la realtà, di esserne un “indice”, è questa la caratteristica che la contraddistingue da qualsiasi altro tipo di rappresentazione ed è per questo che è una delle relativamente poche invenzioni così importanti da dividere la storia dell’umanità in un prima e in un dopo. Il fatto che il giorno seguente la sua invenzione la si sia usata anche per fare qualcos’altro, spezzando il rapporto di indicalità con la realtà, e usandola invece come mezzo puramente creativo, o usandola per dire bugie, è un discorso importante ma successivo. Quando parlo di “fotografia” intendo quindi immagini NON alterate, altrimenti mi sentirete parlare di “immagini fotoprodotte”, cioè costruite a partire da una o più fotografie, ma che hanno perso l’indicalità con la realtà visiva che era davanti all’obiettivo.
Ci sono fotografie fatte nella maniera più documentativa possibile che sono di una Bellezza e una creatività incredibili, sembrano visioni fantastiche, come il rincorrersi di curve e onde di roccia colorata dell’Onda” nel Paria canyon; a volte dicono che questa foto sembra “finta”, e fa pensare a un effetto digitale, a un trucco. Un paesaggio naturale è diverso dalle pur piacevoli geometrie di campi coltivati, il discorso sarebbe lungo e il mio spazio breve, in poche parole la differenza è che mentre coi campi rappresento in definitiva l’opera umana - e secondo me solo umana in quanto sono convinto che noi umani possiamo avere il libero arbitrio – nel paesaggio naturale è rappresentata invece l’opera diretta del Creatore. È importante relazionarci con entrambi questi aspetti della realtà, ma il nostro rapporto col Creatore, che è fondamentale per dare un senso positivo alla vita, è quello più difficile da affrontare, è quello che non curiamo o non sappiamo come curare. Il nostro rapporto col Creatore è frenato da pigrizia e ignoranza; e da paura. Ecco che il fotografo di Natura, che lo sappia o no, ci aiuta a relazionarci col Creatore, mostrandoci a volte quella che noi chiamiamo la brutalità della Natura, ma anche la sua Bellezza, e quando giunge all’astrazione crea un corto-circuito magico tra la creatura e il Creato.
La Natura è opera diretta, direttissima del Creatore. Noi non possiamo invitare a cena gli antichi egizi ma possiamo sapere molto di loro attraverso le opere che hanno lasciato: con tutte le limitazioni evidenti di questo paragone vi dico che possiamo sapere qualcosa del nostro Creatore dalle sue opere dirette, e niente di meglio della fotografia (a parte la cinematografia) ce le può rappresentare visivamente.
© Marco Meniero, Balanced rock (2010)
Per la mia conclusione porto due grandi testimoni, diversissimi per pensiero e epoca: Gandhi ed Epicuro. Gandhi ha detto che “l’opera d’arte più grande e più bella è una vita ben vissuta”, Epicuro ha detto che “non può esistere una vita felice senza che sia anche bella e una vita bella senza che sia anche felice”. La mia terza tesi è: <<la Bellezza più grande è una vita serena e se possibile felice>>. Direte che sono concetti difficili da definire, e invece no: “la serenità è la contentezza e la soddisfazione, consapevoli motivate e costanti, di essere nati e di stare vivendo; è la contentezza e la soddisfazione di avere còlto e capito, dopo averlo attivamente cercato, il senso positivo della propria esistenza (il che implica anche il non aver paura della morte)”. Non è difficile capire queste parole, anche se sono d’accordissimo con voi che è difficile raggiungere questa condizione. Ma vi consolo, e spero di farvi riflettere, dicendovi questo: se io sono a buon punto su questa strada, allora forse non è poi così difficile percorrerla, io sono una persona qualunque, anche se ho avuto e ho un grandissimo aiuto dalla fotografia nel conoscere, riconoscere e riconoscermi nella potenza e nella Bellezza della Natura e quindi del Creatore.
L’ultima parola spetta a Epicuro con un concetto meraviglioso e portentoso che ha una parte importante nella mia vita e che vorrei lo avesse nella vita di ciascuna di voi: “non è simile a mortale la persona che vive tra beni immortali” e la Bellezza è un bene immortale, del quale possiamo sentirci parte. Rappresentarla da artista con la fotografia è per me fonte di serenità e felicità.
Bibliografia minima:
STORIA della fotografia (qualsiasi edizione) Claudio MARRA Fotografia e pittura nel novecento (Bruno Mondadori) Charles PEIRCE Semiotica (Einaudi) Roland BARTHES La camera chiara (Einaudi) EPICURO Scritti morali (Rizzoli) Karl POPPER Alla ricerca di un mondo migliore (Armando) Karl POPPER Conoscenza oggettiva (Armando) Mahatma GANDHI Il mio credo, il mio pensiero (Newton) Bertrand RUSSEL La conquista della felicità (TEA) Albert EINSTEIN Relatività: esposizione divulgativa (Boringhieri)
#alfred einstein#albert einstein#mahatma gandhi#epicuro#collezione maramotti#fabio beconcini#marco meniero#volterra#paria canyon#claudio marra#charles pierce#roland barthes#karl popper#beltrand russel#carlo delli
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Fotografa, rivoluzionaria e decisamente passionaria. La vita formidabile di Tina Modotti, una Rimbaud della fotografia
“Fotografa e rivoluzionaria” lo è stata, a piene mani: il titolo della mostra ospitata a Jesi sino al 1 settembre è quindi vero come le immagini che ha scattato sul finire degli Anni Venti in Messico. Fotografa, certamente, anche grazie ai Maestri che le hanno insegnato l’arte dello scatto tra una sessione di seduzione e una di street photography. Rivoluzionaria invece lo era già da prima: a 16 anni ha preso la nave e si è bevuta l’Oceano Atlantico per raggiungere la Terra Promessa. Lontana giorni, incognite, notti di paure di non arrivare mai. Un Oceano largo, non misurabile. Un biglietto di sola andata.
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Tina Modotti, “Mani del burattinaio Louis Bunin”, Messico, 1929 (Photo courtesy Galerie Bilderwelt di Reinhard Schult)
Fortunatamente non tutto si riduce al libro che ha scritto Pino Cacucci su di lei: c’è molto di più, in realtà. Ci sono le persone, i viaggi, l’occhio e i mezzi. E i numerosi letti lasciati disfatti dopo qualche notte d’amore. Fotografa quindi, certamente rivoluzionaria, decisamente passionaria. Tre ingredienti micidiali che hanno fatto saltare il tavolo e fatto cadere ai suoi piedi la meglio gioventù del tempo.
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Sappiamo che è nata a Udine, nel quartiere di Borgo Pracchiuso, il 16 agosto del 1896 e che è morta in circostanze misteriose a Città del Messico il 5 gennaio del 1942. Il libro di Cacucci parte dalle ultime pagine della sua vita e fa le capriole all’indietro. Un libro storico, una biografia, per dirla con le parole di oggi. Ma mancano le immagini. Maledizione se mancano.
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Una Arthur Rimbaud della fotografia. A inizio degli Negli Anni Venti conosce Edward Weston e alla fine del 1924 un’esposizione delle loro opere viene inaugurata nel Palacio de Minerìa alla presenza del Capo dello Stato. A metà degli Anni Trenta abbandona la fotografia per dedicarsi alla militanza nel Soccorso Rosso Internazionale. Quello che doveva dire lo ha fatto, egregiamente, per poco più di dieci anni. Il maudit Rimbaud, sommo poeta francese, in meno tempo, circa quattro anni, tra i 16 e i 20 anni. L’effetto però è davvero simile: tagli sulla pelle che non guariscono nemmeno sotto il sole, ferite aperte che la polvere del tempo non è riuscito ad arginare, così come l’oblio o le mode. Oggi e domani, se si ha sete di Arte, è necessario attraversarli entrambi: incocciarli, impattarli, lasciarsi accarezzare dalle parole di Arthur e dalle immagini di Tina, e immaginare un abbraccio intenso, lontano e irrecuperabile. Loro non ci sono più. Rimane però quello che hanno fatto. Tanto, molto.
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“Sempre, quando le parole ‘arte’ o ‘artistico’ vengono applicate al mio lavoro fotografico, io mi sento in disaccordo. Questo è dovuto sicuramente al cattivo uso e abuso che viene fatto di questi termini. Mi considero una fotografa, niente di più. Se le mie foto si differenziano da ciò che viene fatto di solito in questo campo, è precisamente che io cerco di produrre non arte, ma oneste fotografie, senza distorsioni o manipolazioni. La maggior parte dei fotografi vanno ancora alla ricerca dell’effetto ‘artistico’, imitando altri mezzi di espressione grafica. Il risultato è un prodotto ibrido che non riesce a dare al loro lavoro le caratteristiche più valide che dovrebbe avere: la qualità fotografica”.
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“Tina Modotti fotografa e rivoluzionaria” è la mostra ospitata a Palazzo Bisaccioni di Jesi a ingresso gratuito. Motivo in più per acquistare il catalogo e portarsi a casa un po’ di bellezza. Ne abbiamo bisogno. Molto bisogno…
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Perché Tina Modotti, semplicemente, deteneva la bellezza. Bellissima, lei, lo era davvero: occhi magnetici dal sapore orientale e un corpo pieno, succoso, formoso, pionieristico e invitante. Edward Weston glielo ha fermato nelle lastre della sua macchina fotografica per donarlo all’immortalità.
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Tina Modotti, “Serbatoio numero 1”, Messico, 1927 (Photo courtesy Galerie Bilderwelt di Reinhard Schult)
L’altra bellezza, quella più duratura, apparteneva alla sua sensibilità. Raccontare il Messico nudo e crudo, esattamente come lo vedeva lei attraverso i mezzi che disponeva per rendere materiche le immagini. Fermare l’amore, dargli un ulteriore respiro di vita. Tina lo ha fatto quando Julio Antonio Mella, il guerrigliero bellissimo di cui era innamorata, viene ucciso davanti ai suoi occhi e lei, per ringraziarlo dell’amore che le aveva dato, decide di fotografare il corpo addormentato.
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Nel 1918 sposa il pittore Roubaix de l’Abrie Richey, soprannominato “Robo”. Fu grazie a lui che conobbe Weston, non esattamente l’ultimo dei fotografi del Secolo breve.
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Pare che tra le passioni amorose di Tina ci sia stata anche la pittrice messicana Frida Kahlo. Come a dire, il cuore non guarda se tra le gambe hai una coda o una fessura.
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La mostra di Jesi è divisa in due parti: le foto fatte da lei e le foto in cui viene ritratta. Sessanta scatti, più o meno, per conoscere meglio una donna che ha mollato tutto le inseguire un sogno: vivere. La grande cisterna, le donne che allattano, i fiori, i burattini, la falce e il martello, i cappelli dei messicani, i pali della luce e le scale. Persone e linee, non serve altro per raccontare il mondo.
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“Tina Modotti, sorella, tu non dormi, no, non dormi: forse il tuo cuore sente crescere la rosa di ieri, l’ultima rosa di ieri, la nuova rosa. Riposa dolcemente, sorella.
La nuova rosa è tua, la nuova terra è tua: ti sei messa una nuova veste di semente profonda e il tuo soave silenzio si colma di radici. Non dormirai invano, sorella.
Puro è il tuo dolce nome, pura la tua fragile vita: di ape, ombra, fuoco, neve, silenzio, spuma, d’acciaio, linea, polline, si è fatta la tua ferrea, la tua delicata struttura.
Lo sciacallo sul gioiello del tuo corpo addormentato ancora protende la penna e l’anima insanguinata come se tu potessi, sorella, risollevarti e sorridere sopra il fango.
Nella mia patria ti porto perché non ti tocchino, nella mia patria di neve perché alla tua purezza non arrivi l’assassino, né lo sciacallo, né il venduto: laggiù starai in pace.
Lo senti quel passo, un passo pieno di passi, qualcosa di grandioso che viene dalla steppa, dal Don, dal freddo? Lo senti quel passo fiero di soldato sulla neve? Sorella, sono i tuoi passi.
Verranno un giorno sulla tua piccola tomba prima che le rose di ieri si disperdano, verranno a vedere quelli d’una volta, domani, là dove sta bruciando il tuo silenzio.
Un mondo marcia verso il luogo dove tu andavi, sorella. Avanzano ogni giorni i canti della tua bocca nella bocca del popolo glorioso che tu amavi. Valoroso era il tuo cuore.
Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade polverose, qualcosa si mormora e passa, qualcosa torna alla fiamma del tuo adorato popolo, qualcosa si desta e canta.
Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome, quelli che da tutte le parti, dall’acqua, dalla terra, col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo. Perché il fuoco non muore”.
Pablo Neruda, 5 gennaio 1942. Epitaffio dedicato a Tina Modotti.
Alessandro Carli
*In copertina: Tina Modotti e Roybaix Richey fotografati da Walter Frederick Seely, Los Angeles, 1921 (Photo courtesy Galerie Bilderwelt di Reinhard-Schult)
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Borderline
Borderline Introduzione di Valerio Evangelisti Sono rimasto letteralmente incantato. Ho letto il racconto con passione, trascinato da una sorte di suspense. La domanda che mi ponevo era: ma perché costui sta in prigione? Chi avrà ucciso o ferito, un compagno di cella o la psicologa che lo affascinava tanto? Sono arrivato all'ultima riga senza trovare una risposta, salvo questioni di droga e delitti connessi. Reati, senz'altro, ma affrontabili sul piano della psicoterapia, senza bisogno di sbarre che non curano niente. Uno scrittore vero, tra i più raffinati in cui mi sia imbattuto, é in prigione invece che davanti alla scrivania di casa sua, a riscattarsi attraverso la ricchezza della sua prosa. C'é il sospetto che ciò sia dovuto a una legislazione sbilanciata, che castiga con ogni possibile durezza colpe facilmente emendabili e toglie dai guai i potenti. Come ai tempi di Pinocchio. Francesco Fusano ha più che altro cercato, indirettamente, di uccidere se stesso. Lo possiamo davvero definire un crimine? Tralascio il Fusano detenuto per passare subito al Fusano scrittore. Duro, efficace, elegantissimo. Non usa mai frasi scontate, e alcune sono capolavori di stile. Nessuna impressione é prevedibile o artefatta. L'introspezione, se é questo che cercano i critici, é al massimo livello. La profondità dei temi anche, la critica sociale (nello specifico rivolta al sistema carcerario) pure. Solo Il bacio della donna ragno di Manuel Puig, prima di diventare film, mi colpì altrettanto. Giuro che non é un'infatuazione, sono piuttosto cauto nei giudizi. Il mio non é entusiasmo, é rabbia. Fusano é Borderline, come dice lui stesso? I due terzi dei governanti della terra lo sono. Consuma droghe? E allora? Bisogna tenerlo per anni in gabbia? Dopo ne consumerà di più, vivrà sempre peggio, passerà a periodi detentivi via via sempre più lunghi. Mi piacerebbe conversare tranquillamente con lui, dirgli la mia ammirazione per ciò che scrive, per come lo scrive. Penso proprio che non mi aggredirebbe, né darebbe di matto. Non posso. Non posso parlare a uno scrittore nato che sta dietro le sbarre. E' un'ingiustizia insopportabile. Ci sono pluriomicidi che sono tranquillamente a spasso. Apprezzo la generosità della legge, purché sia equanime. Ho idea che normalmente non lo sia. Vengo più direttamente al racconto, che suppongo strettamente autobiografico. Il protagonista, che conduce vita svagata e irregolare, é incarcerato due volte, sempre per possesso di droghe e reati conseguenti. Gli psicologi che lo visitano non sono a livello di Binswanger, di cui, probabilmente, non hanno mai udito il nome, né capiscono che la patologia che hanno di fronte, con i comportamenti asociali che origina, deriva da una pena esistenziale. Se lo capissero, saprebbero anche che la detenzione é il meno indicato dei rimedi. Chi invece lo intuisce, non senza sforzo, sono i compagni di cella. Con alcuni di essi il prigioniero instaurerà un rapporto affettivo anche molto profondo. Siamo ben lungi dall'inaffetività dello schizofrenico, dall'aggressività verso gli altri, da un istinto a delinquere radicato. C'è invece un disagio che implica fragilità, e che l'autore analizza meglio di chiunque altro. A questo si limita la trama del racconto; del resto, quale trama sarebbe possibile, nella monotonia di un esperienza carceraria, che costringe un essere umano a comportamenti sempre uguali, intervallati da piccoli riti anch'essi ricorrenti? Esisteva un unica evasione possibile ed é quella che il prigioniero ha tentato. Scrivere. Buttare giù righe di lucidissima intelligenza, serrate, amare, dense, crudeli, autoconsapevoli. E' più della psicoterapia che altri non tentano nemmeno. E' un riscatto totale. Il "deliquente" é cancellato dallo stilista, dal compositore di frasi difficili da dimenticare, dal cesellatore di ogni parola. E' per questa via, credo, che Fusano saprà riconquistare se stesso e smettere di autodistruggersi. Possiede doti che sono di pochi, e un palese patrimonio d'amore che attende solo di essere sprigionato. "Sprigionato", appunto. Come mi auguro che avvenga per Fusano stesso, al più presto. C'é bisogno, in giro, di talenti come il suo. Valerio Evangelisti
DA DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DESORDER, 3A EDIZIONE AGGIORNATA, AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION, 1987, PP.346-347 Caratteristica fondamentale di questo disturbo è una forma pervasiva d'instabilità dell'immagine di sé, delle relazioni interpersonali e dell'umore, che ha inizio nella prima fase dell'età adulta e si presenta in vari contesti. Una consistente e marcata turba dell'identità è presente in maniera pressoché continua, spesso pervasiva, e si esprime attraverso un incertezza su diversi aspetti della vita, quali gli l'immagine di sé, l'identità sessuale, gli obiettivi a lungo termine e le scelte professionali, quale tipo di amici o partner e quali valore adottare. L'instabilità dell'immagine di sé è spesso vissuta dal soggetto come una sensazione cronica di vuoto e di noia. Le relazioni interpersonali sono di solito instabili e intense, e possono essere caratterizzate da un'alternanza tra i due estremi dell'eccessiva idealizzazione e della svalutazione. Questi soggetti mal sopportano la solitudine, e faranno sforzi frenetici per evitare abbandoni reali o immaginari. L'instabilità affettiva è diffusa. Può essere evidenziata da notevoli sbalzi d'umore che vanno da umore neutro a depressione, irritabilità o ansia, che durano in media alcune ore e solo raramente più di qualche giorno. Inoltre, queste persone mostrano spesso una rabbia intensa sproporzionata con frequenti accessi d'ira o ripetuti scontri fisici. Tendono ad essere impulsive, in special modo se alle prese con attività potenzialmente autolesioniste: acquisti smodati, abuso di sostanze psicotrope, guida spericolata, rapporti sessuali occasionali, taccheggio ed eccessi alimentari. Ricorrenti minacce di suicidio, gesti o comportamenti affini e altri comportamenti auto-mutilativi (es. escoriazione dei polsi) sono tipici delle forme più gravi. Detto comportamento può mirare a manipolare gli altri, o essere il risultato di un intensa rabbia oppure può servire a neutralizzare la sensazione d'intorpidimento e depersonalizzazione che si manifesta in fasi di stress acuto … Manifestazioni associate Questo disturbo è di solito accompagnato da molte delle manifestazioni tipiche proprie di altri disturbi della personalità, quali il disturbo della personalità schizotipico, istrionico, narcisistico e antisociale. In molti casi è formulata più di una diagnosi. Molto spesso si osservano rifiuto sociale e una visione generalmente pessimistica. È comune l'alternanza tra dipendenza e autoaffermazione. Durante le fasi di stress acuto possono verificarsi sintomi psicotici transitori, privi, però, di una durata e di una gravità tali da giustificare una diagnosi supplementare. Grado di compromissione Spesso esiste una considerevole interferenza con le funzioni sociali o lavorative. Complicanze Tra le possibili complicanze incluse: distimia (nevrosi depressiva), depressione maggiore, abuso di sostanze psicotrope, e disturbi psicotici come la psicosi reattiva breve. Si possono verificare casi di morte premature dovuti a suicidio. Distribuzione tra i sessi Il disturbo è più comunemente diagnosticato nelle donne. Prevalenza Il disturbo della personalità borderline è apparentemente diffuso. Diagnosi differenziale Il disturbo di identità presenta un quadro clinico simile, ma la diagnosi di disturbo della personalità borderline esclude quella di disturbo di identità qualora si riscontrino i criteri della personalità borderline, la patologia sia sufficientemente pervasiva e persistente e sia improbabile una sua limitazione allo stadio evolutivo.
Ho atteso circa 23 mesi per questa diagnosi, e ora cosa me ne faccio?
Aprile 2006
Sono libero da circa un mese e ho già perso il lavoro. Naturalmente la colpa non è da attribuirsi a me. Ogni mattina, al risveglio, provo a immaginare un "me stesso" diverso, in armonia con l'universo, ma dopo il primo sorso di caffè ritorno alla realtà, e mi accorgo che si tratta di un'utopia. "Dove vuoi andare?" dico guardandomi allo specchio che riflette uno sconosciuto, ansioso di trafiggere pelle e carne, sin nei muscoli oramai atrofici, alla ricerca di un millimetro tra i km di vasi sanguigni che gli permetta, anche oggi di medicare il suo mal di vita. Dopotutto non mi riconosco in quell'immagine riflessa, conservo gelosamente il ricordo di Francesco tra i 21 e i 27 anni, un ragazzo non troppo alto, 1,68 m per 73 kg; nessun accenno di pancetta o maniglie, occhi grigi, fotocromatici, che spaziano nell'iridescenza tra il verde più intenso dello smeraldo e il blu profondo dello zaffiro. Lisci, lunghi capelli biondi ad avvolgermi il viso, che se non educati diventano ricci ribelli, fili d'oro; ne andavo fiero come un leone della sua criniera. La folta chioma è stata sostituita da un taglio 3 mm senza alcuna sfumatura, e i fili d'oro ora sono d'argento: ho i capelli bianchi nella loro quasi totalità. L'occhio ha smarrito la sua vivacità, inespressivo e, più che zampe di gallina, le mie sono rughe d'elefante. In camera espongo orgoglioso le foto di un "fu Francesco". L'ho seppellito insieme a Walter. Oggi è il 24, domani la città sarà invasa da persone che insceneranno la "festa", ma è un illusione, un circo. Io, alieno e alienato, non ho progetti, tranne uno, procurarmi soldi e droga: io eroe della mia eroina e così assetato di coca. I soliti giri. In fondo giro su me stesso, unico centro delle mie attenzioni. Non vedo più gli altri, non sento il loro tocco, i loro sguardi non mi raggiungono, mi sono improvvisato giustiziere! Punisco inconsapevolmente i protagonisti di questa mia esistenza così priva di partenze e arrivi. È già sera. Milano è sicuramente uno spettacolo di luci, suoni, un'orchestra infinita. A dirigere, un Maestro sordocieco. Se solo mi vedesse! Potrebbe condurmi altrove, lasciare che batta il tempo di questa notte, ma il mio male mi trascina peccaminoso: promiscuità! La mia mente reclama una dose di sesso, serotonina naturale! Le domando come faccia ad avere ancora richieste con tutto ciò che le offro, ma il richiamo è forte! L'arrivo è sempre turbolento, parcheggio l'auto tra i posti riservati ai clienti dell'hotel, quello sull'ultimo semaforo della via. Il nome? Non mi è mai importato. Entro all'After, l'atmosfera è calda, lascio il giubbino al disc-jockey, sì perché la mia auto non è che sia proprio mia, potrebbero fare un controllo, portarla via e io ci rimetterei tutto, così, ogniqualvolta la lascio sola, porto con me quel poco che resta a testimoniare che esisto. Ordino un doppio gin tonic, al bar un uomo che mi rivede a intervalli da anni, ma nessuna domanda. Qui nessuno vuole sapere, lasciamo all'ingresso le nostre identità,le maschere, alziamo i veli e godiamo di sorrisi, di mani che si sfiorano, di sguardi che s'incrociano, di musica a manetta e di alcol a fiumi. Mi aggiro per il locale con il mio bicchiere nella mano sinistra e la sigaretta nella destra, cerco la mia preda, mi sono concesso due ora per arrivare al risultato. Il fallimento è dietro l'angolo, ma ho la mia carta di riserva: piazza Trento, un brasiliano, magari ventenne, è sicuramente lì ad attendere qualcuno cui vendere il proprio amore e io ho le tasche piene di "moneta di scambio", dammi il tuo amore e avrai qualche ora di oblio. Sono programmato a seguire l'istinto e così, con solo tre doppi gin tonic che mi gocciolano dalla fronte, mi spingo fuori dall'After, recupero la macchina (c'è ancora) e mi dirigo alla mèta. Sono fortunato, almeno è ciò che credo. Il mio adone è lì, e nell'attesa si specchia sui vetri delle macchine, aggiustandosi i jeans e la camicetta, che praticamente è inesistente. Non ho tempo da perdere, ho già sforato la mia tabella di marcia. Gli propongo lo scambio e accetta. Ci dirigiamo a casa di un'amica, lei non c'è e mi ha lasciato le chiavi: l'appartamento è vuoto! Un frigo e un tavolo nella cucina, in bagno pochi prodotti, e in camera da letto un materasso appoggiato al muro: eccoci nella nostra alcova. Inutile che io provi a convincermi del contrario, la mente ha fatto la sua richiesta, ma il corpo non risponde, così tra un tiro e l'altro si fanno le quattro del mattino e lo riaccompagno a casa. Al ritorno farò tappa alla farmacia di notturna, ho bisogno di tranquillanti. Il risveglio è atroce, doccia di sudore che pare penetrare nelle ossa come a riempirle sino a esplodere, le gambe non rispondono, caviglie e ginocchia pare conoscano la strada, ma le "batterie"sono scariche. Mi sono addormentato vestito, ed è con gli stessi abiti che trasudano dolore e amarezza che mi accingo a raggiungere la macchina. Non riesco a volare. Il volante pare abbia una vita propria. L'auto sbanda e riprende il rettilineo: sono scoppiato devo arrivare al Sert prima delle 11:00. Sono le 10:37 e io sono ancora a Cologno Sud, penso mentre piagnucolo. Mi precede una Punto che sembra essere ferma. "Ci muoviamo?" vorrei gridare, ma è solo rantolo afono ciò che riesco a produrre. Non c'è traffico. Prendo la decisione di superarla, alla rotatoria entrerò contromano: "Bravo! - mi dico - sei riuscito a finire contro il cartello". L'auto non vuole saperne, e gli spettatori di cui sino a un secondo prima non notavo la presenza, ora si avvicinano come zombie che vogliono la mia carne in pasto. Prendo la mia borsa posata sul lato passeggero, un saluto alla compagna d'avventura e via a piedi. Sulla mia sinistra case basse, villini e piccole aziende di periferia; sulla destra una fila di box lunga quanto la via. Riesco a fatica a raggiungere la metà della strada, quando scorgo un uomo intento a lucidare i fari della sua Bmw, lo sportello lato guidatore è spalancato, ci saranno le chiavi nel quadro? Allungo il passo. Sono in ritardo. Lui è chinato, non può vedermi. Arrivo sino all'auto, spingo la borsa sul lato passeggero. Sono seduto al posto del guidatore, eppure tutta la velocità che credo avere impiegato è lentezza. Tiro a fatica la portiera, ma il proprietario è già lì, con il corpo blocca la portiera, con la mano sinistra cerca di tenete il volante provando a inserire il braccio sino al quadro di accensione, con la destra mi stringe forte il collo, non respiro ma insisto. Nel frattempo lui ha cominciato a urlare, accorrono zombie da ogni lato. È forse l'atroce e pungente odore della mia carne ad attirarli? Invano cerco di sfuggire alla stretta, quando all'improvviso mi ritrovo per terra, sento i loro piedi sulla mia schiena, i loro denti reclamano il sacrificio, ed ecco che all'orecchio giunge una frenata e in un lampo riconosco quegli anfibi e quei pantaloni: Carabinieri! Mi caricano sull'Alfa come un sacco di patate: mi hanno salvato dal linciaggio. Sebbene non conosca lucidità da mesi, capisco con sconcerto che sono in arresto. Mi giungono le loro voci, mentre la mia bile si rovescia ovunque: me la faranno pagare. Nella mente un unico pensiero che rimbalza da un emisfero all'altro. Fortunatamente conosco la prassi e ogni sforzo risulterebbe vano: sono destinato a scoppiare per le prossime ore. Domattina in carcere mi somministreranno il sostitutivo: metadone, o benzina, come lo chiamano gli agenti. La macchina della giustizia è lenta, la clessidra è ostruita e il tempo si dilata come le mie pupille. Mi stringo al muro, questa giaciglio improvvisato in una cella di sicurezza, panchina di cemento, una coperta e il mio mal di vivere che mi sussurra all'orecchio: "Ucciditi!Ucciditi!". Stacco la spina e crollo. Il sonno è profondo. Improvvisamente è interrotto da un frastuono familiare: ferro batte contro ferro. La "chiave" batte contro la porta della cella, una voce dall'accento napoletano m'informa che mio padre ha portato la borsa con i miei effetti personali. "Parto?" mi domando. Sì! Biglietto di sola andata per l'inferno. Il viaggio prevede una corsa ad alta velocità, suoni preoccupanti e stroboscopiche luci blu in direzione del Grand Hotel di Monza, Via S. Quirico. I cartelli stradali indicano la direzione, Casa Circondariale di Monza, ma ho imparato a leggere tra le righe, e tra queste mi è palesemente chiaro: centro d'annullamento dei più elementari diritti della Costituzione, clinica di sezionamento della psiche umana. È quanto di peggio io ho conosciuto, eppure esistono inferni peggiori. Io sono destinato a questo! Mentre ci troviamo tra i due cancelli che separano il fuori dal dentro, "la spina" sul lato passeggero perde colorito, pare debba svenire. "Ci sei mai stato?" gli domanda l'altro. "No" risponde con un filo di voce. "Allora preparati a ricevere ogni tipo d'insulto, è l'accoglienza che ci riservano". All'ingresso della gazzella nel cortile un coro di voci si alza: "Bastardi, rotti in culo, infami!" e tanti, innumerevoli epiteti con dedica. Qui non sono più "sceriffi", la loro vulnerabilità è tangibile, la si sente vibrare nell'aria. Arrivato in matricola, mi guadagno subito la mia dose di schiaffi, non voglio togliermi le stringhe, dopotutto, non ho nessuna intenzione di usarle come cappio. Nonostante sin dall'adolescenza abbia avuto una vita sregolata, ho avuto il tempo di comprendere che a ogni contesto corrispondono un insieme di regole: in questo buco, in questo rifugio di esiliati, non ci sono regole. L'amministrazione la fa da padrona ed è rappresentata da individui che credono fermamente nella coercizione e nella violenza psicologica; certo non tutti, ma a me ne sono capitati troppi di stronzi che vogliono solo poggiare i piedi sulla scrivania, bivaccare e ignorare tutto e tutti. È duro il lavoro dell'agente penitenziario quando viene professato con passione; sì, la passione quel sentimento che lega mente e cuore e che si manifesta nelle parole, nei movimenti del corpo, tra le rughe di una vita trascorsa a vedere uomini che credono di !, ragazzi che sperano nel !, e innocenti che nascono da ! Lo sprazzo di lucidità che mi ha folgorato durante il tragitto da Cologno sud alla tenenza dei Carabinieri mi ha abbandonato. È durante la visita medica all'ingresso che percepisco lo stato dissociativo nel quale verso, assenza d'animo e spirito. Sono un corpo devastato da aghi 8 mm, da blister di psicofarmaci e flaconcini con etichette dal nome incomprensibile: Tic-Tac e succo di frutta. Il medico di guardia mi rifila due Tavor sottobanco, preferisce che sia il dottore del Sert a sbrigare la mia pratica, sono troppo impegnativo! Il mio caso richiede attenzioni, e lui è distratto da un tarlo che non gli permette di riconoscere l'extraterrestre seduto oltre la scrivania, lì a 10 pollici da lui, dovrebbe sezionarmi, ma il tavolo verde è il suo unico chiodo fisso. Lo allestiscono negli studi dell'infermeria, i partecipanti? Meglio sorvolare, dico a me stesso,, prendo i due Tavor, ringrazio e rimando a domani tutte le mie richieste. La notte trascorre turbolenta, nella sezione dei nuovi giunti l'aria è sterile, unicamente odore di alcol. Il dottore del Sert è un uomo sulla quarantina 1,80/85 m per 90 kg, lo sto pesando mentre dentro di me l'astinenza si fa sempre più prepotente. Cerco di scorgere fra le sue parole una formula d'assoluzione, ma ricevo solo ammonizioni per le torture cui sottopongo il mio corpo. Trattiamo. Il tossico che è in me ha la meglio. Sono addestrato. Concordiamo di cominciare con 40 mg di metadone. Nelle 72 ore successive arriverò a estorcergli 80 mg. Tuttavia, nulla di ciò che dirò insinuerà in lui il sospetto che l'unico obiettivo è: "non esserci". Dopotutto è il sostitutivo, agisce diversamente, ma il risultato è identico alla sostanza originale: azzera le emozioni, le percezioni, le sensazioni, le deviazioni, i turbamenti; ma amplifica molto altro. Vago per la prima settimana, mi assicuro il caffè a colazione e dopo i pasti, in cambio di qualche sigaretta. Qui solo chi lavora possiede, gli altri sono in attesa. Io non aspetto, già conosco la mia sorte. In questo spaccato di realtà, io, con le mie paranoie, uniche compagne. Ancora non so che si materializzeranno in incubi, in allucinazioni visive e uditive. I giorni trascorrono nell'indolenza più completa, conosco altri degenti, perché tale mi sento, un malato al quale nessuno dottore, nessuno specialista sia riuscito a diagnosticare il male che tanto lo affligge, eppure io sono così dipendente da questo male che se penso a curarlo mi sento male. Effettivamente, le dipendenze d'ogni sorta e genere sono il mio pane quotidiano. Mi alimento a morsi di sofferenza. Seziono la mia carne per rinnovarmi di nuova linfa. Respiro metano sdraiato sul pavimento della cucina, ma non ho calcolato che in assenza di fiamma il gas si arresta automaticamente. Io vorrei solo arrestare il mio cuore, farne cessare il battito, lasciare che i polmoni collassino, assenza d'ossigeno, coma, morte a liberazione da me stesso. Per quanto lo desideri, non avrò mai la forza e la determinazione per compiere un gesto tanto estremo, eppure mi uccido ogni giorno un po' di più, abuso d'ogni genere di sostanza e non ho dubbi o incertezze quando m'infliggo lacerazioni. Mentre mi elimino come un file inutile, come un utensile che non serve più, costruisco un muro tra me e il resto del mondo, quello nel giusto sono io, gli altri non possono capire le mie ragioni. Sono ciechi, una massa di stolti. Per scelta ignorano la morte che gli fa da ombra, è più comodo, facile! Immaginarsi che possano perdere tempo con la morte, che stringe le membra del passeggero seduto accanto a loro sul tran-tran che li conduce a lavoro; ebbene, il solo pensare che s'improvvisino guaritori d'angosce umane, mi fa avvertire lo strano passaggio da incosciente a imbecille. All'alba del settimo giorno si accorgono che esisto, sono uscito ai passeggi una sola volta, dopo aver recuperato le ore di sonno, perse in soli 94 giorni di "libera uscita". Il vice capoposto soprannominato "faccia di merda", come lo sbirro del fil C'era una volta in America, con poche parole e a denti stretti, mi comunica che si è liberato un posto. Tutti italiani. Il posto in questione è quello al suolo, nessuna branda, solo un materasso. Non batto ciglio, il "sostitutivo" controlla l'equalizzatore audio e le funzioni video del mio corpo, gesti e parole sono il prodotto di un automatismo, quelli di un robot programmato alla sopravvivenza, confinato a un esilio fisico e psichico: sono addestrato e malsanamente mi convinco che la sofferenze sia l'unico vero orgasmo di cui io possa godere. Preparo le mie cose, abiti che da anni mi accompagnano nelle galere, fieri di aver conosciuto i confini di Rebibbia, poveri ma dignitosi. Solo io ho smarrito dignità e orgoglio. Mi sovvengono le parole di Vasco: "Corri e fottitene dell'orgoglio"; caro Vasco vinco io, perché fotto eme ne fotto di tutto, non solo dell'orgoglio, e in quanto a correre, ho già dato. Destinazione 3° sezione: tossic-park! Cella: 314. Abitanti: due catanesi ultracinquantenni che mi squadrano dalla testa ai piedi. Nell'arco delle successive dodici ore hanno provato, senza risultato alcuno, a impressionarmi. In 12 minuti li ho resi ipocondriaci, non gli importa che abbia bicchiere e posate segnate, per loro sono un appestato, un lebbroso: ho l'epatite C. Oramai ci convivo da 16 anni. Sono stato programmato, educato, indottrinato alla pulizia e all'ordine, sono un'armatura che riflette i difetti altrui e li ingigantisce, macro-difettoso-tecnologia, la scienza di cui sono professore, abilissimo a celare la mia anima, ceramica di Limoges, Capodimonte, Swarovski, se urtato nel punto giusto potrei franare, crollare, rimanere disintegrato. L'indolenza ha lasciato spazio all'iperattività. È il metadone? È il bisogno di tenere occupata la mente a spingermi in occupazioni meticolose e continue? È bene o è male? Pensieri. Ogni neurone ne produce uno in netta contrapposizione con gli altri. Le paranoie sono più che mai vive, presenti. Ombre che mi volteggiano alle spalle e si prendono gioco di me, voci cui devo rispondere perché smettano d'insinuarsi nella mia mente: sono impazzito! Sto impazzendo ! Sono pazzo da tempo e non mi sono reso conto? I miei coinquilini, concellini, conviventi per cause di forza maggiore, mi aiutano più di quanto non credano, e di quanto mi aspettassi: non so ancora vedermi tra venti anni, ma, piuttosto che assomigliare a loro, preferisco passare da aghi 8 mm a 27 mm, chissà che non riesca ad anticipare la mia tumulazione … Le ultime due settimane le ho trascorse tra pulizie e facendo l'aiuto cuoco. Uno dei due sa cucinare, e io mi sento sollevato da un incarico che in questo momento non sopporterei. Mi sono concesso un'unica uscita ai passeggi, non mi vanno queste facce gialle. Forse voglio solo nascondere la mia. Sono l'incarnazione dell'atroce sofferenza che mi autoinfliggo, peso 53 kg, se mi cogliesse di sorpresa una folata di vento, mi trascinerebbe come una foglia secca. E poi, devo stare attento a Loro, non vogliono che io esca dalla cella. Lì fuori ci sono i demoni, tenebrosi mostri che altro non aspettano: uccidermi. Attendono pazienti che io mi lasci cullare tra le braccia di Morfeo per sorprendermi, tormentarmi nel sonno. Panico e terrore mi assalgono, quando penso che non sii tratta di incubi ma di una realtà parallela in cui vengo catapultato; io vampiro di me stesso. Io nota errata, falso accordo, imprigionato in un'agonia che mi scuote e mi morde. È domenica, sono circa le 3 del pomeriggio,. Il cambio guardia è vicino, quando ci appare il fratello segreto di "faccia di merda": "Preparate tutta la vostra roba - ci dice, fermo e deciso - avete venti minuti per svuotare la cella. E, occhio, quando dico vuota intendo che non deve rimanere neanche un rotolo di carta da culo, chiaro?". Chiaro è il Glen Grant, tu sei chiaramente stronzo - penso - arrogante e presuntuoso, ma qui, ora, comanda lui. Non mi è ben chiaro il motivo di questo spostamento, di domenica poi, bizzarra situazione, ambigua condizione. Al contrario di me, i due catanesi sembrano sapere qualcosa, ma si comportano come chi è all'oscuro di tutto. Domandano spiegazioni, ma qui non siamo a lezione di matematica, nessuno ha diritto a essere istruito sull perché o sul per come. I minuti scorrono veloci, come in una bisca tiriamo i dadi, "12" vinco io, mi aggiudico l'acqua. È una divisione impari e azzardata come il trattamento cui siamo destinati. "Pronti?". Dilatiamo e centilliniamo gli attimi a disposizione e tutto a un tratto ricordo mia nonna, e i suoi proverbi. "Chia lascia la strada vecchia per la nuova, sa quello che lascia, ma non sa quello che trova". Non è certo questo il caso - questi due è meglio perderli che trovarli - ma non posso nascondere che l'ansia cresce, presagio che Loro sono in arrivo. Dal 3° reparto al 2°, sì certo! Viene naturale pensare che siano vicini, si succedono numericamente, ma qui non esiste logica, nessuna scienza. Ci separano. Restiamo in due. Carichi come muli, percorriamo metri, 600 circa, scale, corridoi, e ancora scale. L'ascensore, no! è solo per gli agenti. Arriviamo a destinazione. Per me la suite n. 4, per l'altro la 24. All'ingresso nella cella mi percuote un odore pungente, olio bruciato, puzzo di fritto stagnante. Il disordine regna sovrano, ma sono addestrato. I miei nuovi compagni? Un uomo cileno, ha da poco superato la quarantina, basso, sarà 1,57 m, capelli argentati come i miei, tondeggiante nelle forme ma vigoroso, questo il risultato del mio occhio clinico. È dentro per furto e ricettazione. I suoi occhi? Dovranno passare 4 mesi prima che mi accorga che sono di un color nocciola intenso. Sì perché non guardo più nessuno negli occhi, sono terrorizzato all'idea che qualcuno possa leggere nei miei. L'altro è un ragazzo d'origini marocchine, non ha ancora compiuto 21 anni. È alto. 1,83 per 100 kg circa, un tantino in sovrappeso. Ricci ribelli gli tempestano la fronte, guance paffute e labbra enormi. I suoi denti sono scandalosamente trascurati, perché? Non avrò mai interesse a domandarglielo. È accusato di possesso e cessione: è uno spacciatore. Non sono molti felici, sono il terzo! Sono l'ingombro, rappresentato dal materasso al suolo, sono l'altro! Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa. Qui, in questo rettangolo, tra ostacoli fissati al suolo e al muro, non c'è spazio neanche per uno solo dei miei pensieri, figuriamoci per l'intero mio corpo, che viaggia accompagnato da passeggere indesiderate, violente perturbatrici della mia coscienza, Loro, le paranoie. Non sento più il tempo che scorre, è tutto fermo. Giorno e notte s'inseguono, l'unico che non si muove sono io. Resto tra queste mura confinato da sbarre alle finestre, griglie magistralmente costruite a uccidere l'occhio che tenta di evadere. Mi sono stabilito, ho piantato i picchetti, non mi muovo. Non esco mai dalla cella, se non per la doccia e il metadone. È la mia protesta, grido al mondo il mio non esistere, eppure respiro, mangio, cago. Sono morto dentro e con ostinazione, quella stessa morte cerco di trasferirla anche al corpo, ma a chi posso raccontarlo? Chi mi capirebbe? Piango e mi dimeno nel sonno. Grido al risveglio. Resto immobile, non respiro. Ci vogliono dai 20 ai 35 minuti per convincermi che i lamenti e le voci, le mani sporche che vogliono tirarmi a loro, sono solo frutto dell'immaginazione. Questo film si ripete tutte le notti e, come per gli attori di Nightmare, nel sonno il sogno è il nemico peggiore. È proprio la notte che l'inconscio prende il sopravvento e Loro possono godere, abusare, umiliare il mio corpo e la mia mente. Devo fare qualcosa, ma cosa? 393, domandina semplice, girone dei Dannati, Anonimo Tormentato, chiede alla S.V. colloquio con lo/a psicologo/a di reparto. Nell'attesa, si ringrazia. È il mio primo grido d'aiuto, ma qui sono tutti sordi! Sono passati due mesi e io ho compiuto 32 anni, che per me si traduce in (3+2) - (3-2) = 4 il numero delle mura in cui sono confinato, 4 il numero della cella in cui sono imprigionato. Per il 17 Giugno mi sono regalato un altro tentativo di fare evadere la mia voce oltre questo cancello: 393, domandina semplice, nome, cognome e ubicazione scritti a caratteri cubitali, richiede alla S.V. di poter effettuare colloquio con lo/a psicologo/a del DARS (Detenuti Alto Rischio Suicidio). DARS, un acronimo che mi ha perseguitato già in passato e al quale oggi mi affido, io che con gli acronimi scriverò Dell'Amor, Ritrovato Sollievo. Passano i giorni, passano le ore e io mi aggiro tra questo ostacoli come un atleta, o forse come un leone marino? Ora peso 84 kg, rotolo come il cappellaio matto nel Paese delle Meraviglie di Alice. Purtroppo il mio paese di meraviglioso non ha davvero niente, esclusa la vita, quella degli altri che seppure in rovina resta un meraviglioso dono. Per me è solo un oppressivo insieme di tormenti, turbamenti, abbandoni, sconfitte. È un conto perennemente in rosso. La mia attenzione è richiamata da un individuo che indossa uno strano costume. Conosce il mio cognome, il mio nome, il mio segno zodiacale, mi ha persino beccato segarmi nel cesso. Io, di lui, non so niente! Questo è il carcere: ti spoglia, ti priva dei tuoi più intimi pudori, ti rende un insieme di lettere e numeri, e a ricordare che anche tu "sei esistito", una foto su un cartoncino resta l'unica testimonianza. Scandisce il mio cognome, mi guarda ammonendo la mia mole. Ho sostituito l'abuso di droghe con eccessi d'alimenti. Devasto il fegato con una media di trenta uova ogni cinque giorni, chiaramente le assumo a orari precisi, solo di notte, tra le due e le tre. Il puzzo di fritto stagnante ha sostituito la fragranza Allure pour homme di Chanel, ricordo di un venticinquenne fiero e brillante. "Mettiti le scarpe - mi dice - hai visite". Non faccio domande, dopotutto una visita è pur sempre una visita, chi mai s'interessa a me? Ad attendermi nell'ufficio, una donna. Tra tutte le immagini dei più illustri pittori che ho potuto visionare, nessuna bellezza è pari a quella che mi appare. Ornata di gioielli, argento e oro bianco. Capelli lunghi. Seppur seduta intuisco che le arrivano sino alle anche. Neri, di un nero che ricorda la notte. "Si accomodi - mi dice tendendomi la mano - sono la dottoressa Taccolgo, psicologa del DARS". "Grazie", penso, ma non ringrazio. Non alzo gli occhi oltre i suoi zigomi, e non li abbasso oltre le sopracciglia. "Sono venuta per guardare in faccia chi è tanto coraggioso e incosciente da autodenunciarsi". Le sue parole sono come una doccia gelata. Le spiego che la domanda è stata solo un escamotage. "Sono malato - le dico con voce spezzata - di un male che affligge anima e corpo, mente e cuore. Soffro a causa di un perenne turbamento". Con alcuni gesti mimo: "Chiudiamo le finestre, potrebbero spiarci, e poi non mi sento sicuro. Come posso sapere che lei è veramente chi dice di essere? Questo ufficio è sicuramente disseminato di cimici, cerchiamo di parlare poco. Sarebbe meglio utilizzare carta e penna, e non dimentichiamoci di bruciare o ingoiare le prove". Suppongo sia una professionista, abituata a menti confuse, sconvolte, ai folli! "Mi spiace, non posso fermarmi oltre, sono passata per assicurarmi che non abbia intenzione di compiere gesti inconsulti". Alzo lo sguardo. Incrocio il suo e sento una dimenticata sensazione di lacrimare liberatorio. È una sola lacrima, e io non sono un coccodrillo, ma qui, d'innanzi a lei, non posso non gridare "aiuto!". Giungiamo all'accordo che trascorsi sette giorni tornerà, dopotutto non ha altri casi, al DARS sono l'unica Dannata Anima Ripugnante da Studiare. Lentamente, ma con una costanza di cui mi sorprendo capace, comincio a diminuire il dosaggio del metadone. I rapporti con i miei due amici, gli unici, i compagni di sventura con i quali condivido l'alloggio, sono notevolmente migliorati; dopotutto non sono uno stupido, e sebbene io sia l'unico a non accettarmi, riscuoto un certo successo tra coloro che mi sii avvicinano. Io non cerco nessuno, almeno finché la soglia del "sostitutivo" non calerà sotto i 30 mg. In realtà, è l'ennesima testimonianza di quanto il mio equilibrio sia collegato alla dipendenza, che sia essa da un farmaco, da un oggetto (agofilia) o da una persona. Scoprirò con non poca fatica che i castelli che la mia mente edifica hanno un nome, idealizzazione. Amaramente mi ritroverò a realizzare, tornando con i piedi sulla terra e cadendo di culo sulle ortiche, quanto io sia semplicemente vittima del tramutarsi dei castelli in rovine. Continuo a restare confinato, esiliato volutamente, ma ora tutti sanno che esisto. Io, la nota errata, tutte le settimane siedo di fronte al desiderio d'ogni ragazzo e uomo che sospiri tra queste mura, la dottoressa Taccolgo. Luis, il mio compagno di cella, mi prende in giro, quando nell'attesa mi cambio d'abito in continuazione. Ricerco accostamenti di tonalità che facciano risaltare quel poco di grazioso che di me resta. È per Lei che lo faccio. Ho riflettuto e sono giunto alla conclusione che avendo di fronte a sé un essere composto, dall'aspetto gentile e curato, tutto il tormento, le angosce e la paura che le vomito addosso la turberanno meno. Fiumi di parole e sguardi. Sono la mia concessione, l'autorizzazione all'ingresso nella mia mente, sono l'input a scrutare la mia anima. Le settimane scorrono, ora mi sento fortunato. Nei mesi, molte cose sono cambiate. Ora l'ordine regna tra i 4 angoli della nostra n.4. Pazientemente, sono riuscito a renderli ordinati, a far loro provare piacere nel trovare sapendo dove cercare. Ora la fragranza che ci avvolge è quella del pane che sforniamo quotidianamente e di torte alla carota, ricordo di un'infanzia andata, violata.
Fine luglio 2006
È tempo d'indulto, io e Luis restiamo a guardare con curiosità. Noi, così poveri di spirito, ci limitiamo a saccheggiare i tesori rimasti, ora abbiamo una parete tappezzata di pentole che farebbero invidia al patron della Salvarani. La buona sorte ci si è concessa, Luis è lo scopino di sezione, investito dall'onere di svuotare le celle che si sono liberate. Passiamo circa due settimane a traslocare: lui arriva fino al cancello, il mio confine, e scarica tra le mie mani oggetti vari. Nello stesso modo in cui da bambini scambiavamo le figurine doppie dei calciatori, ora noi barattiamo queste cose. Ci assicuriamo le grazie dei nuovi arrivati, li riforniamo dal nostro magazzino improvvisato, in cambio riceviamo sorrisi e strette di mano. Sono il prezzo che pretendiamo, ricerchiamo Tenerezza. Lei non c'è. La dottoressa Taccolgo è in vacanza. Giusto un paio di settimane prima, il Sert le ha domandato un approfondimento psicologico: "Che cos'è?" le ho domandato quando mi ha informato che avremmo dovuto dare un'impronta diversa ai nostri colloqui. "Anamnesi - mi rispose - immagina che io debba dipingere la tua esistenza" aggiunse sorridendo. E pensare che io tradirò questo sorriso.
18 Ottobre 2006
Oggi, per Luis, è giorno di sentenza, abbiamo passato mesi a immaginare questo giorno. Siamo preparati. Da quando il nostro compagno è uscito, anche lui grazie all'indulto, la nostra convivenza forzata è diventata amicizia. Conosce di me più di quanto io non creda, ma non fa nessuna domanda indiscreta, si limita a cogliere, tra le parole dette, quelle mai pronunciate. Trascorro la mattinata nell'attesa che rientri, ha già scontato otto mesi, se aggiungiamo l'indulto, sono tre anni e otto mesi, questa è la soglia, oltre c'è ancora galera. È liberante, almeno teoricamente. Questione di un paio di settimane e ci dovremo salutare. Negli anni che seguiranno, a ogni partenza corrisponderà un sentimento di abbandono: sarà la vera pena. Amici di quelli veri, considerato che per restarmi accanto, così combinato, si deve amarmi davvero. Vorrei che non mi lasciassero mai. Io così egoista, imparerò a tramutare il dolore in gioia, la loro, oltre questi confini. È il prezzo che devo pagare. Destinato a restare solo. A me manca ancora un mese al processo, sì perché, grazie al mio avvocato, l'udienza nella quale dovevamo patteggiare si è risolta con un nulla di fatto. In effetti, la richiesta è stata presentata con un giorno di ritardo, sicché giudice e P.M. ci hanno proposto tre anni e un occhio chiuso sul lgiorno di ritardo. "Cooosa??? Ma qual è il vostro spacciatore?". Risultato: espulsione dall'aula. Sono trascorse due settimane, Luis è uscito e io ho un nuovo compagno di cella, ma qualcosa mi turba. Non ne ho ancora parlato con la dottoressa Taccolgo, ma sto pensando di cambiare sezione, per non vanificare il lavoro introspettivo al quale mi sottopongo. Prendo la decisione: Chiedo alla S.V. di poter cambiare sezione. Nell'attesa, si ringrazia. Ancora una volta mi sto prendendo gioco di me stesso. Non sono per nulla interessato agli sforzi che si verificherebbero, ma piuttosto all'amichetto che ho conosciuto a teatro. È basso, 1,62 forse 63, carne e muscoli sono ben distribuiti sul suo corpo, moro, carnagione chiara. Se non fosse per quest'ultimo particolare, sarebbe la "copia di Walter". Eh già, Walter. Non manco di festeggiare il suo compleanno, era nato il 3 ottobre 1980, Bilancia. Il 13 novembre è già suffragio, mi vesto a lutto, in ricordo di un amore sepolto da 3 metri di terra a 14.000 km da me. Non mi perdono di essere partito per rientrare in Italia, sarebbero stati solo sei mesi, e poi, l'eternità. Il "per sempre" che si giurano gli innamorati. Ma lui non ha resistito al richiamo, e tra fischi nelle orecchie e catatonia è rimasto tre giorni in coma, il 13 novembre del 2000 alle 4:03 è spirato. È morto. Se ne è andato. Cinque giorni dopo cercherò anch'io la morte. Spinto da un'irrefrenabile desiderio di raggiungerlo, m'inietterò una dose letale, 2 grammi di caramello, 2 gocce di limone e acqua quanto basta: dolce morte: Dai confini di Gratosoglio sarò soccorso in una traversa di Ripamonti, intubato sull'asfalto nel quale voglio sprofondare. Apro gli occhi. Sono circondato da curiosi, Sulla mia sinistra una ragazza pompa ossigeno nei polmoni, ha un costume dal colore sgargiante, un arancio luminoso, a tratti verde, a tratti giallo. Tra le mani ha un palloncino che stringe e rilascia. Mi rivedo bambino, io e il mio fratellino a correre tra la folla della festa di paese … Lo afferro, non è un filo legato al palloncino, ma un tubo 0,20 mm che mi arriva alla laringe e anche oltre. In un solo movimento l'ho estratto come una spada dal suo fodero. Sconcerto tra ii presenti. Vengo assicurato alla barella, mi legano. Ci vorranno sei fiale di Narkan per farmi tornare tra i terreni. Mi domando perché qualunque cosa faccia, ovunque vada, vengo arrestato nel cercare la morte. Sono morto in quel 18 novembre del 2000, ma non c'è nessuna lapide su cui piangere, posare fiori o accendere lumini. Passano solo due giorni e vengo chiamato dal capo reparto. Mi dice che c'è un letto libero al 4°. È l'unico e chissà quando se ne libererà un altro. "Qual è il problema?" domando. "Il ragazzo con cui dovrebbe dividere la cella, è un giovane arabo". Ricapitoliamo velocemente: i primi erano catanesi, italiani, tarantellari; poi ci sono stati il magrebino 21enne e Luis, sorrisi, amici. Rispondo con tono quasi sorpreso di chi è cittadino del mondo: "È qual è il problema?". Ormai è novembre e io sono giunto alla mia nuova destinazione, 4° reparto: nessun cambiamento. Ccomi qui, io così sgraziato, disgraziato eppure così fortunato. Io che in carcere trovo ciò che fuori mi nego, confino tra queste mura i miei piaceri, li ricerco. Arrivato alla soglia dei 20 mg, raggiunti gli 84 insostenibili kg, ora voglio sesso. E lo ottengo. Mi credo innamorato con la stessa frequenza con cui un bambino cade e rialzandosi ricade, eppure non demorde. L'amore è tortura, è sofferenza, è un occhio livido, un sopracciglio spaccato, il labbro gonfio, è Marco Aurelio che mi costringe a lasciarmi usare: sono solo un oggetto, io. Le settimane trascorrono, e il natale si avvicina, Il mio compagno di cella si prende cura di me, ispiro così tanta tenerezza? Oppure è solo pena? Non parliamo molto, sono i gesti a sostituire le parole, il rispetto, la devozione. È quasi amore, ossessione. Loro non demordono mai! Non appena resto solo, si presentano. Bussano al mio cancello. Le sento passare, ma non riesco a vederle, non pienamente, ma sento il loro respiro, e il mio si fa affannato. In casi estremi chiamo l'agente del piano che, a sua volta, chiama l'infermiere di turno. Ho ottenuto che mi somministrino delle iniezioni di Toradol, sono malato, e destinato a esserlo per sempre. Nel peggiore dei casi vivrò come nel film A beautiful mind, nel migliore mi getterò dal 6° piano. L'hanno già fatto in due: 6-2=4! Macabro segno, questo numero è presagio che ritorna continuamente, cosa rappresenta davvero? Perché mi perseguita? Alla dottoressa Taccolgo ho detto la verità sul motivo che mi ha spinto a cambiare reparto. Ha arricciato il naso e poi ha sorriso, di quel riso angelico che solo le anime belle possiedono. Lei non guarda mai l'orologio, mi concede tutto il tempo di cui ho bisogno. Le pubblicità dei panettoni e dei pandori girano su tutti i canali televisivi, Babbi Natale con slitte sorvolano boschi a somministrare Coca, pupazzi di neve bianca come thailandese, ogni immagine mi rimanda costantemente alle droghe. Persino i canditi: Tic tac in blister!
23 dicembre 2006
È l'antivigilia. Vorrei fosse la vigilia della mia morte. Non posso negare, però, il Natale al mio compagno, al fratello che mi accudisce. La notte mi veglia, perché io possa risalire dall'incubo ed evitare il terrore che mi attende, costretto a sognare di mostruosità eternamente. Sto preparando un po' di tiramisù, poco più di 2 kg, per 2 giorni sarà sufficiente. Il risultato di quest'equazione si riduce a qualcosa che già conosco, non mi stupisco che sia lì, lui, il 4. Un agente si spinge sino al cancello del mio confine, cella 22. Ha in mano due sacchi neri, immediatamente penso: "E ora che ho fatto?". "Babbo Natale è passato in anticipo, vai ai domiciliari" mi dice. Non sono ancora le 16:00. Alle 18:00 mi riscopro in una casa che non riconosco. Due persone a ricevermi, mamma e papà. Durante il calvario di questa esistenza hanno penato per me e con me. Sono sempre venuti a trovarmi, puntuali, ogni 15 giorni. Colloquio per me ha sempre significato silenzio. Nel migliore dei casi resto spettatore del loro interloquire, ma io sono assente, invisibile. Continuerò ad assumere il metadone. In principio sarà mio papà ad andare al Sert una volta a settimana, a fare il carico. A febbraio otterrò il permesso di recarmi personalmente al centro di distribuzione, tutti i giorni. Il 7 del 3 del 2007, grazie all'indulto, vengo scarcerato. Il 24 maggio all'una e 03 sarò nuovamente arrestato. Dinamiche diverse, ma stesso risultato: Via S. Quirico 9, Monza. Dei 31 kg aggiuntisi durante la mia ultima permanenza, ne ho persi 13. Questa volta, invece della dose di schiaffi, all'ingresso mi aggiudico un premio. Felice di comunicarle che, per essere il nostro 112° ospite del giorno, ha vinto una bella denuncia per possesso di sostanze stupefacenti, 1.3 gr, principio attivo THC. L'avevo dimenticata nel portafogli e i Carabinieri non l'hanno trovata, dopotutto alle 3 del mattino anche loro sono stanchi. Come motivazione al possesso, adduco l'uso curativo, se non altro la fantasia non mi manca. La dottoressa Taccolgo e sempre lì, a curare menti. Gli agenti sono gli stessi. I visi dei degenti, altri, ma la pena è sempre la stessa. Tutti avanzano, oppressi e depressi. Io non mi muovo. Per ogni passo avanti ne ho fatti due indietro. Fortunatamente, in quest'esplosione atomica che è la mia vita, un sorriso a rivelarmi la via, l'alternativa: la dottoressa Taccolgo. Un anno ancora di duro lavoro. Anno in cui riprenderò gli studi per la letteratura, la psicologia, la filosofia … otterrò persino un attestato. Anno alla fine del quale vedrò assegnare un nome al mio mal di vivere. "Disturbo della personalità di tipo borderline", mi dirà la dottoressa Taccolgo, ma non sorride. Mi spiega che si tratta porgendomi un libro. È la storia di una ragazza borderline. Leggendo riscopro analogie, sfumature. Io, a tratti più bianco, a tratti più nero. Vado in biblioteca 2 giorni a settimana, per 2 ore. Lì mi sento in pace. È l'unico luogo in cui Loro non possono entrare. È la Torre del mio Castello, unico luogo in cui trovo quiete. È arredata con librerie di colore bianco. Sedie di colore bianco. Tavoli che accecano. Il bianco è ovunque. Sembra ovattata. Una sublime sinfonia mi raggiunge: i battiti del cuore. Durante questi ultimi anni sono passato davanti a Lui centinaia di volte. Il suo nome: DSM, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Desorder. Cerco nell'indice, pagina 346 e 347. Improvvisamente ritorna il 4. Ora lo vedo distintamente. È il 4 ottobre, si celebra San Francesco d'Assisi, e con l'immagine del Santo ritrovo la quiete, e in Francesco, senz'occhio livido, l'amore. Apro il manuale.
Francesco Fusano
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