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G.A.C.
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gac-reference · 5 years ago
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A volte ho come l'impressione che siate così egomaniaci da fissare qualcuno negli occhi soltanto per vedere la vostra immagine riflessa. Non sempre si ha uno specchio a disposizione.
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gac-reference · 6 years ago
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Se mai dovessi scegliere le parole giuste, tacerei. Chi mai vorrà credermi.
Il vocabolario di uno stronzo è colmo di aggettivi.
Se mai dovessi credermi diverso, sparami. Fammi fuori con galante ironia.
Se mai dovessi dirti ti amo, credimi. Credimi, ti giuro, credimi, non so che farmene di frasi ad effetto ed acrobazie, credimi ti prego e saremo i due scemi più liberi di questo pianeta.
Se mai dovessimo incontrarci, giù al mercato, sceglimi, avanti, sceglimi, così potremo compiacerci un po' meno della nostra solitudine.
Se mai dovessi farti ridere, non coprirti i denti, fammi vedere la fame attaccata ai canini. Sono carne, sei carne, carne per la nostra fame canina.
E se andassimo a fare il bagno di notte non dire niente sulla luna piena, lasciala splendere, per stasera fatti i fatti miei.
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gac-reference · 6 years ago
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gac-reference · 6 years ago
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Perdersi a Venezia con uno strano esemplare di bassottona mediterranea.
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gac-reference · 6 years ago
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Mio padre avrebbe voluto che facessi il dottore. A me non è mai passato per il cervello. Avevo voglia di scrivere, credo. Sin da subito. Non sono mai stato dissuaso dal farlo. Non venivo nemmeno incoraggiato, sia chiaro.  Arreso, già bambino, all’estraneità. Che spasso, eh?  Loro comunque, gli altri, andavamo fieri di me, almeno apparentemente; a parole, come si dice.  Ero intelligente, in fondo. Anche spigliato, a mio modo. Forse addirittura efficiente. Ma lui voleva un dottore. Era così evidente. Un bel figliolo con la testa sulle spalle; e che conosce nei dettagli i meccanismi per cui la testa ci si regge, sulle spalle. Un bravo figlioletto arreso all’anatomia, insomma, con il duodeno al posto giusto.  Mi hanno messo sin da subito in conflitto con quello che sono, credo. Senza fare melodrammi. Senza farne della psicologia, per carità. Solo che mi sono sentito sempre così: ammirato e al contempo additato in quanto diverso, destinato all’eccellenza, ma di un’eccellenza con il marchio dell’accessorietà. Un’eccellenza che non salva vite umane.  Non capivano che ero uno a cui interessavano le facce, insomma. La faccia di mio padre, per esempio, era quella di uno che si era arreso alla mediocrità.  Non ricordo chi ha scritto che ogni figlio maschio desidera fare a botte con il proprio padre. Anche molte figlie femmine, aggiungo. Fare a botte con il proprio padre, e dargliele. Io la scena la immagino in un parcheggio di un centro commerciale. Lui ha l’auto carica dei suoi stupidi sacchetti, colmi di tutte quelle futilità che lo fanno sentire meno vuoto e inutile. Io gli dico di accostare. Scendo, gli intimo di fare altrettanto. Poi gli dico che se gli è rimasto un residuo di coraggio in mezzo a tutto quel piattume che chiama esistenza è il momento di tirarlo fuori. Gli dico che lo farà sentire meglio. E a quel punto gli mollo un cazzotto, esattamente al centro del viso, sul suo grugno da uomo di mezza età abbrutito dalla televisione e dalla poca esposizione alla luce del sole e da tutto il cazzo di veleno che ingurgita ogni giorno e da tutta la merda che gli riversano addosso e che lui ingoia, senza nessuna difesa. Dammi una reazione, padre mio. Un rigurgito di vita. Finirebbe molto male, o molto bene, a seconda dei punti di vista. La verità è che gli voglio bene io, a mio padre.  Ma io vivo di catarsi, ho luce e buio qui con me, e notti di luce e giorni di buio tra le dita, ho uno strano animale nel petto che urla e squarcia e ride e ama e scrive, e lui questo non lo capisce. Mi intuisce, ma non mi comprende. Devo smettere di fargliene una colpa. Dagli un bel pugno sul muso, se è il caso.   (Forse il desiderio di ogni figlio di picchiare il proprio padre è un modo di scongiurare la possibilità di diventare esattamente come lui? Mi rieduco, nel presente, ad un futuro che misconosco. Ma senza fare della psicologia, per carità.)
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gac-reference · 6 years ago
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Beh, sì, sono nato negli anni ’90.  Fiero esemplare della classe 1993. Quell’anno lì scoppiavano bombe un po’ in tutto il mondo. Irlanda, Stati Uniti, India. I miei genitori, novelli sposi, vedevano il mondo cambiare dentro un Panasonic mezzo scassato. C’era -le immagini incerte, poco nitide- il faccione schifoso di Totò Riina catturato e portato in manette dopo più di vent’anni di latitanza; c’era Federico Fellini che ritirava l’Oscar alla carriera prodigandosi in ringraziamenti nasali; c’erano le immagini così lontane ed estranee di un disastroso incidente nucleare in Siberia. C’era, ci scommetto, un giornalista compunto e dalla mascella squadrata leggere in tono neutro la notizia dell’accordo di reciproco riconoscimento tra lo Stato del Vaticano e Israele e il cadavere di Pablo Emilio Escobar Gaviria con la pancia di fuori su quelle cazzo di tegole in terracotta. Tutto andava egregiamente di merda come al solito, insomma. Il giorno in cui sono nato una piccola folla fuori dall’ospedale giura di aver visto una statua della madonna muoversi in avanti, come in benedizione. Tra quella piccola folla c’era anche la mia nonna materna, fervente cattolica. Ogni anno, per il mio compleanno, mi chiama raccontandomi di quella volta che la madonna ha benedetto la mia nascita e blaterare di angeli custodi. Sì, angeli custodi. Un gioco di luce, probabilmente, una pura casualità fenomenica, ma quanti di voi possono raccontare una storia così figa sul giorno della propria nascita? Sono stato un bambino negli anni ’90, dunque, e anche all’inizio del ‘2000. Ho mangiato le girelle, le fiesta piene di liquore, bevuto il latte con il Nesquik in povere, mi sono piazzato davanti la televisione a guardare Dragon Ball e i Simpson tutti i santi giorni dopo pranzo. E poi, sì, giocavo, tutti i pomeriggi, per strada, come un matto.   Manco a dirlo, si giocava a calcio. Ero piccoletto ma, come si dice dalle mie parti, “cafuddavo”, che può essere tradotto più o meno come “ci davo dentro”. Proprio sotto la mia casa d’infanzia c’era un parco giochi. Lo chiamavamo così, ma non è che ci fossero giochi: era un corridoio di simil-marmo largo pochi metri e lungo una quindicina delimitato da delle sbarre di ferro. Sì, quello della foto. Era il nostro campo da calcio. Ci si andava nel primo pomeriggio e si stava lì fino ad ora di cena. Mia madre, quando era ora di salire, mi chiamava dalla finestra, a volte mi chiedeva di andare a comprare il pane e mi lanciava i soldi. Erano partite all’ultimo sangue le nostre, estenuanti, combattutissime. Si tornava a casa con le ginocchia sbucciate e le gambe, le mani, tutte nere di sporcizia. Amavamo quel posto, era proprio la nostra isola felice. Forse facevamo un po’ di casino, è vero, tant’è che i condomini del mio complesso di palazzi cominciarono a lamentarsi. In fretta e furia venne prese un provvedimento radicale. Vennero eretti dei muretti per tutta la lunghezza del parco giochi per impedirci di giocare a calcio. Ma non avevano fatto i conti con la fantasia di un gruppo di bambini che non vedono nei muri necessariamente dei nemici, ‘sti vecchi. Dopo giorni di partite in campi minuscoli e fitte discussioni tra i membri del gruppo si trovò un modo di riappropriarsi di quello spazio. Di reinventarlo. Che bella parola, r e i n v e n t a r e. Dentro il ripostiglio di casa trovai delle vecchie racchette da tennis. Oh, vecchie sul serio, in legno, con il manico spropositatamente lungo, pesantissime. Ma chi se ne fregava, andavano più che bene. Erano quattro, una un po’ più moderna me la beccai io. Andammo in un negozio di articoli per lo sport e comprammo delle palline da tennis. Ricordo che facevano proprio un buon odore, dentro quella specie di tubo dove te le vendono. Dal giorno dopo cominciammo a giocare a tennis, tutti i giorni. Diventammo pure bravini, uno di noi finì per appassionarsi sul serio e adesso fa l’insegnante di tennis per vivere. Prego, Roberto, non c’è di che. Gli inquilini del palazzo ci guardavano da dietro le finestre, qualcuno arrabbiato, qualcuno non riuscendo a trattenere un sorriso. “Fanculo ai muri, viva i muri”, scrivemmo con un pennarello su uno di questi. Adesso quando torno qualche giorno a casa dei miei osservo dalla finestra il parco giochi. Ho notato che è ancora un luogo di ritrovo dei ragazzini del quartiere, ma non ci gioca più nessuno. Stanno e lì chiacchierano, ogni tanto qualcuno si rincorre. Uno dei muretti è stato distrutto, su un lato è stata aperta una breccia. La scritta “fanculo ai muri, viva i muri” non esiste più, al suo posto c’è un “Giusy ti amo” scritto con una grafia orribile. Ho chiesto a Marco, uno dei miei amici d’infanzia con cui ideai la cosa, se ha voglia di andarci a giocare a tennis uno di questi giorni, solo per ridere. Mi ha detto che è proprio una bella idea, ma so già che non se ne farà niente.
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gac-reference · 6 years ago
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Fuori dalle mia finestre non c’è niente. C’è solo terra arida e indicibile, sterpaglia bruciata da un sole che esiste e arde oltre ogni mia volontà. Un sole che se ne infischia, bellamente, di ogni mio torcicollo. Lo spettro di un filo d’erba fa capolino dal terreno, verde e incerto, poi torna a nascondersi, forse mai esistito, fantasma nascituro del suo eclissarsi. Ma no, esiste, certo che esiste, ciò che si nasconde esiste, nella sua assenza vorace, nella sua assenza-buco nero; è come una porta che trascende e divora, questa assenza di verde, questo verde in potenza, ma occhi allenati distinguono le singole unità in volo in uno stormo compatto, vedono nel cielo sgombro il maestoso trionfo aereo della migrazione. Migro anche io, adesso, occhio così allenato da diventare stanco, dentro e fuori il mio corpo dolorante, abituato a traversare ere in un battito immobile di ciglia. E il filo d’erba erba diventa frutto, nato già maturo, già divoratosi, ucciso nel grembo del tempo, nutrice per combinazione d’eventi. Inghiottito è il suo seme dalle spire delle terra che l’ha concepito, annullato dal fuoco. Mi viene da ridere ma non lo faccio perché non c’è nessuno a vedermi. Da qualche tempo, sulle pareti esterne della mia piccola casa che affaccia sul nulla, cresce, come una strana malattia, una macchia nerastra, inquietante, viva. Assomiglia alla macchie scure sui polmoni nelle radiografie toraciche dei fumatori. La casa in effetti pare respirare male, scricchiola, la muffa cresce negli angoli. Dalla finestre rotte entra un po’ di luce, adesso, e l’ombra si colora, rossa, gialla, bianca, tutte sfumature cangianti dell’ombra stessa. Che noioso, mio dio. Il sole è un’ imparziale stella nel cosmo. Il sole splende perché non può fare altrimenti. E sta a me dire questa è luce, questa è ombra, questa è casa. Adesso esco. Voglio mangiare qualcosa. Qualcosa di ancora vivo, appena colta. Ho bisogno di sentire la pancia piena, di sentirmi solleticare. Ma non voglio uccidere. Niente io ucciderò. Morirò di fame. Chi si nutre di vita ha bisogno prima di ridurla in brandelli inerti. Voglio nutrimi di cose dalla forma magnifica. E rinascere.
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