#mappa di Soleto
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Portale in via Arcudi. Soleto / Salento / Puglia / Italia da Paolo Margari Tramite Flickr: Soleto (Lecce) Grecìa Salentina / Salento / Puglia / Italy 04-2011 Photo taken with a Canon 5D Mark II. _________________ «Un mucchio di piccole case bianche dai piccoli tetti bassi intorno al grande e magnifico campanile.» (Martin Shaw Briggs "Nel tallone d'Italia", 1908) Soleto è un comune italiano di 5.592 abitanti della provincia di Lecce in Puglia. Collocato nel Salento ed equidistante dal mare Adriatico e dallo Ionio, a circa 18 km dal capoluogo, fa parte della Grecìa Salentina, isola linguistica in cui si parla un'antica lingua di derivazione greca, il griko. In griko e in dialetto salentino il nome del paese è Sulítu. La 'Mappa di Soleto' è la più antica mappa geografica occidentale proveniente dall'antichità classica. fonte: it.wikipedia.org/wiki/Soleto ___________ Soleto is a small Griko-speaking city located in the province of Lecce in Apulia, Italy. The town has a total population of 5,592 and is one of the nine towns of Grecìa Salentina. In the 5th century, Soleto was probably elevated to bishopric seat, of Greek rite. In the 13th century the Angevine rules of Naples chose the city a capital of a county, ruled by the di Castro, Del Balzo, Orsini, Campofregoso, Castriota and Sanseverino, Carafa and Gallarati-Scotti families, until feudalism was abrogated in 1806. Soleto took part to the Neapolitan Republic of 1799 and a was a center of Carboneria during the Italian Risorgimento. It was ruled in the middle ages by Count Gjon Kastrioti II (the Roman numeral is related to the Kastrioti dynasty, not the county), son of the Albanian national hero Skanderbeg. The Soleto Map was discovered in Soleto by Belgian archaeologist Thierry van Compernolle of Montpellier University on August 21, 2003. source: en.wikipedia.org/wiki/Soleto most interesting photos from Soleto on flickr: flickriver.com/places/Italy/Puglia/Soleto
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Taranto, Falanto, la Pizia, e i pidocchi
di Armando Polito
Nella prima immagine la Mappa di Soleto (V secolo a. C.?1), in cui con l’ellisse tratteggiata in rosso ho evidenziato il nome della città: ΤΑΡΑΣ ( leggi Taras); nella seconda Falanto in una moneta tarantina del III secolo a. C; nella terza una moneta di Crotone, della fine del V secolo a. C., con al centro il tripode sul quale assisa la Pizia a Delfi pronunciava le profezie, mentre a sinistra Apollo armato di arco scaglia una freccia contro Pitone a destra; nell’ultima un pediculus humanus capitis (pidocchio umano del capo). La serie delle quattro immagini vuole essere la sintesi di quanto segue.
C’era una volta (a quantificarlo temporalmente bisogna risalire almeno all’VIII secolo a. C.) a Delfi una sacerdotessa di nome Pizia che nel santuario di Apollo svolgeva le funzioni di portavoce del Dio. Non era certo all’altezza delle moderne indovine che sono in grado di captare certi segnali, per esempio quelli che proverrebbero da tutte le carte, meno quelle igieniche, notoriamente connesse con quella funzione fisiologica al cui espletamento le invio ogni volta che le vedo comparire in tv, insieme con chi dovrebbe intervenire per impedire il proliferare, da una parte, della furbizia, e dall’altra, della stupidità;, e alla captazione dei segnali segue la fase della loro interpretazione da ammannire allo speranzoso quanto stupido cliente. La Pizia, poveretta, fungeva solo da megafono per la voce del dio; spettava poi all’interprete diradare la nebbia che avvolgeva le profezie, espresse in versi di così difficile comprensione immediata che i poeti ermetici al confronto fanno tenerezza, e passibili di tante diverse interpretazioni che, in questo caso al contrario, le profezie impallidirebbero di vergogna di fronte ad un testo scritto dal legislatore dei nostri tempi.
Pare, comunque, che, tanto più una realtà è misteriosa, tanto più essa attrae; infatti il santuario di Delfi godeva di prestigio assoluto e da ogni parte del mondo allora conosciuto, proprio come oggi con gli studi (?) degli indovini, vi ricorreva il capo di stato come il semplice cittadino, il ricco e il povero (quest’ultimo l’ho citato perché anche lui in teoria aveva ed ha bisogno del conforto della religione, ma non sono sicuro che potesse fruire dei suoi servigi, allora come ora, gratuitamente …).
C’era sempre in quel tempo a Sparta un uomo di nome Falanto costretto a pagare (allora era quasi la regola; potrebbe essere un’idea per i nostri giorni …) gli errori (o presunti tali …) del padre. Quest’ultimo, infatti, non aveva partecipato alla spedizione messenica e, perciò, venne dichiarato ilota (in parole povere schiavo) e suo figlio, Falanto appunto, subì il destino di tutti quelli nati da simili padri, cioè perse i pieni diritti di cittadinanza ed assunse la qualifica di partenio, che alla lettera significa figlio di vergine, una locuzione che di lì ad otto secoli avrebbe definito quello che io considero, uomo, il più grande rivoluzionario della storia della nostra specie, ma che allora per il povero Falanto e per quelli come lui era una sorta di eufemismo per figlio illegittimo, anzi politicamente non corretto ….
I parteni, però, non si rassegnarono a quella condanna e organizzarono un complotto contro l’assemblea del popolo, per così dire, normale. Purtroppo il tentativo fallì, furono messi sotto custodia ed il loro capo, Falanto, appunto, fu inviato a Delfi per consultare l’oracolo sulla fondazione di una nuova colonia, che, all’epoca era il modo meno cruento di liberarsi di chi dava fastidio e, per l’interessato, l’unico modo per avere la speranza di una vita dignitosa o, comunque, migliore. Insomma, dal momento che tra i parteni c’erano certamente persone molto intelligenti, essi anticipavano, ancora una volta, ma, come vedremo, in senso inverso, i nostri due fenomeni dell’emigrazione prima e della fuga dei cervelli dopo.
Falanto, dunque, è a Delfi e il responso della Pizia è, più o meno. il seguente: – Fonderai la nuova colonia quando vedrai la pioggia cadere dal cielo sereno -. Una volta tanto sembra che la Pizia sia stata chiara, tanto chiara che a Falanto non pare il caso di scomodare l’interprete, giacché è evidente che le sue parole somigliano alla figura retorica dell’ἀδὐνατον (=cosa impossibile), della quale hanno fatto man bassa i poeti d’amore di ogni epoca mettendo in campo improbabili (oggi non più tanto …) fenomeni in espressioni come l’acqua del mare si sarà prosciugata prima che scemi il mio amore per te, oppure vedrai gli asini volare prima che io mi allontani da te; oggi, invece, il politico direbbe rinuncerei prima al potere che a te e il cittadino, standardizzato da uno stato complice capace solo di vuoti proclami e non di fatti concreti (come, per esempio, l’eliminazione di fatture e scontrini teorici (perché emessi saltuariamente) con quella parallela della moneta cartacea e l’introduzione di quella elettronica), rinuncerò a te solo contestualmente (notare il linguaggio, con tutto il rispetto, da commercialista) all’abbandono del mio status di evasore fiscale.
Falanto, insomma, che non è stupido, pensa che la Pizia lo abbia preso per il culo. Non può, d’altra parte, rinunziare al suo ruolo di capo e parte alla volta dell’Italia con gli altri parteni ed approda un po’ lontano, ma non tanto (vivo a Nardò), dalle nostre parti. Passa il tempo ma ogni volta che ingaggia uno scontro con le popolazioni locali le busca sonoramente. Sente vacillare il suo prestigio di capo e ben presto entra in profonda depressione. Fortunatamente ha una moglie di nome Etra (in greco significa, guarda caso, cielo sereno) che non lo abbandona a se stesso, pare per amore. Il povero Falanto, però, nelle condizioni in cui si trova, oppure per incomprensioni pregresse che avevano logorato il loro rapporto spingendolo a pensare che il nome della moglie fosse per lui una presa per il culo ben precedente a quella della profezia della Pizia, comincia a trascurarsi anche fisicamente, non si lava né taglia barba, baffi e capelli, non mangia più, si sta lasciando lentamente morire. Nei capelli i pidocchi hanno fissato, loro sì, una popolosissima colonia. Etra ogni tanto guarda sconsolata il làgunos (bottiglia) gigante di shampoo che aveva regalato al suo uomo quando questi sembrava più un atletico eroe che una larva imbozzolata. La sua composizione sarebbe stata poi scopiazzata dal produttore dello shampoo che a distanza di quasi due millenni sarebbe stato il preferito da Federica Pellegrini e che, magari, avrebbe pure contribuito a farle vincere qualche medaglia, visto che siamo in tema, pure olimpica. Una donna innamorata le escogita tutte pur di salvare e stimolare il suo uomo. Dopo aver invano tentato più volte di fargli trangugiare almeno un càntaros (tazza) di vino in sostituzione di quello che ormai è diventato per lui l’unico alimento quotidiano, cioè un chiùlix (bicchiere) di acqua attinta dall’idria (ampio vaso a tree manici usato per conservare l’acqua, ma anche per votare nelle assemblee; un segno premonitore della nostra condizione di quest’ultimo periodo? …), lo convince a posare il capo sulle sue tornite (quest’aggettivo consolatoriamente compenserà i problemi salariali di milioni di metalmeccanici …) ginocchia. Nessuna intenzione erotica, almeno in prima battuta. Infatti comincia a spulciare la testa di Falanto e, nel contempo, pensando forse che lui non si lascerà nemmeno sfiorare dal richiamo erotico delle sue tornite ginocchia, si abbandona ad un pianto dirotto: per ogni pidocchio catturato mezzo litro di lacrime. Dicono che il pianto è liberatorio, ma in questo caso lo fu prima per Falanto che per Etra, che avrà pure avuto delle ginocchia tornite ma soprattutto un apparato lacrimale di assoluto rispetto. L’eroe, infatti, comprende in un attimo che il cielo sereno e la pioggia cui alludeva l’oracolo erano, rispettivamente, il nome della moglie e le sue lacrime. Non sappiamo se per precauzione lasciò che la moglie finisse di spulciarlo e, quel che importava, continuasse a piangere. Sappiamo solo che Falanto, magari con ancora parecchi pidocchi tra i capelli, quella notte stessa conquistò Taranto.
E, concludendo senza malizia,
al fine di ristabilir giustizia,
dico che talora la sporcizia
tramutare puotesi in delizia,
conforme al responso della Pizia.
Si può ben dire, così, che Taranto deve moltissimo ai pidocchi e, se avessi sparato questo titolo, avrei dovuto sorbirmi gli strali di parecchi, non necessariamente tarantini. Sono consapevole di restare esposto, comunque ad attacchi di ogni tipo, ad accuse come la mistificazione storica e l’invenzione di favolette. Prima, però, di scatenare l’attacco, leggete quel che segue …
Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, VI, 3, 2, riporta copsì la testimonianza di Antioco di Siracusa (V secolo a. C.):
Περὶ δὲ τῆς κτίσεως Ἀντίοχος λέγων φησὶν ὅτι τοῦ Μεσσηνιακοῦ πολέμου γενηθέντος οἱ μὴ μετασχόντες Λακεδαιμονίων τῆς στρατείας ἐκρίθησαν δοῦλοι καὶ ὠνομάσθησαν Εἵλωτες, ὅσοις δὲ κατὰ τὴν στρατείαν παῖδες ἐγένοντο, Παρθενίας ἐκάλουν καὶ ἀτίμους ἔκριναν. Οἱ δ᾽ οὐκ ἀνασχόμενοι (πολλοὶ δ᾽ ἦσαν) ἐπεβούλευσαν τοῖς τοῦ δήμου. Αἰσθόμενοι δ᾽ ὑπέπεμψάν τινας, οἳ προσποιήσει φιλίας ἔμελλον ἐξαγγέλλειν τὸν τρόπον τῆς ἐπιβουλῆς. Τούτων δ᾽ ἦν καὶ Φάλανθος, ὅσπερ ἐδόκει προστάτης ὑπάρχειν αὐτῶν, οὐκ ἠρέσκετο δ᾽ ἁπλῶς τοῖς περὶ τῆς βουλῆς ὀνομασθεῖσι. Συνέκειτο μὲν δὴ τοῖς Ὑακινθίοις ἐν τῷ Ἀμυκλαίῳ συντελουμένου τοῦ ἀγῶνος, ἡνίκ᾽ ἂν τὴν κυνῆν περίθηται ὁ Φάλανθος, ποιεῖσθαι τὴν ἐπίθεσιν· γνώριμοι δ᾽ ἦσαν ἀπὸ τῆς κόμης οἱ τοῦ δήμου. Ἐξαγγειλάντων δὲ λάθρᾳ τὰ συγκείμενα τῶν περὶ Φάλανθον καὶ τοῦ ἀγῶνος ἐνεστῶτος, προελθὼν ὁ κῆρυξ εἶπε μὴ περιθέσθαι κυνῆν Φάλανθον. Οἱ δ᾽ αἰσθόμενοι ὡς μεμηνύκασι τὴν ἐπιβουλὴν οἱ μὲν διεδίδρασκον οἱ δὲ ἱκέτευον. Κελεύσαντες δ᾽ αὐτοὺς θαρρεῖν φυλακῇ παρέδοσαν, τὸν δὲ Φάλανθον ἔπεμψαν εἰς θεοῦ περὶ ἀποικίας· ὁ δ᾽ ἔχρησε· Σατύριόν τοι δῶκα Τάραντά τε πίονα δῆμον οἰκῆσαι, καὶ πῆμ�� Ἰαπύγεσσι γενέσθαι. Ἧκον οὖν σὺν Φαλάνθῳ οἱ Παρθενίαι, καὶ ἐδέξαντο αὐτοὺς οἵ τε βάρβαροι καὶ οἱ Κρῆτες οἱ προκατασχόντες τὸν τόπον. Τούτους δ᾽ εἶναί φασι τοὺς μετὰ Μίνω πλεύσαντας εἰς Σικελίαν, καὶ μετὰ τὴν ἐκείνου τελευτὴν τὴν ἐν Καμικοῖς παρὰ Κωκάλῳ συμβᾶσαν ἀπάραντας ἐκ Σικελίας κατὰ δὲ τὸν ἀνάπλουν δεῦρο παρωσθέντας, ὧν τινὰς ὕστερον πεζῇ περιελθόντας τὸν Ἀδρίαν μέχρι Μακεδονίας Βοττιαίους προσαγορευθῆναι. Ἰάπυγας δὲ λεχθῆναι πάντας φασὶ μέχρι τῆς Δαυνίας ἀπὸ Ἰάπυγος, ὃν ἐκ Κρήσσης γυναικὸς Δαιδάλῳ γενέσθαι φασὶ καὶ ἡγήσασθαι τῶν Κρητῶν.Τάραντα δ᾽ ὠνόμασαν ἀπὸ ἥρωός τινος τὴν πόλιν.
(Parlando della fondazione [di Taranto] Antioco dice che, finita la guerra messenica, quelli degli Spartani che non avevano partecipato alla spedizione vennero dichiarati schiavi e furono chiamati Iloti. Ai figli nati da loro durante la spedizione fu dato il nome di Parteni e li dichiararono privi dei diritti civili. Essi, però, erano numerosi, non sopportandolo, complottarono contro i rappresentanti del popolo. Questi essendosene accorti mandarono come spie alcuni che con la finzione di amicizia intendevano carpire notizie sulle modalità del complotto. Tra questi c’era anche Falanto che sembrava essere il loro capo ma non era gradito del tutti a tutti quelli nominati circa la congiura. Si escogitò che mentre si celebravano i giochi per la festa di Giacinto nel tempio di Amicle non appena Falanto si fosse messo in testa il cappello si sarebbe scatenato l’assalto: quelli del popolo infatti erano riconoscibili dalla capigliatura. Essendo stato quest’ordine rivelato di nascosto dai compagni di Falanto, mentre si celebravano i giochi, un araldo fattosi avanti disse che Falanto non doveva mettersi in testa il cappello. Accortisi che la congiura era stata scoperta, alcuni fuggivano, altri chiedevano pietà. Avendo ordinato di farsi coraggio li misero sotto custodia e mandarono Falanto al tempio del Dio per consultarlo sulla colonia. Il dio profetizzò: – Ti dono Satyrion e di abitare il ricco paese di Taranto e di diventare la rovina per gli Iapigi -. I Parteni dunque andarono con Falanto e li accolsero i barbari ed i Cretesi che avevano occupato prima il luogo. Dicono che costoro erano quelli che avevano navigato con Minosse verso la Sicilia e che dopo la sua morte a Camico presso Cocalo se n’erano andati dalla Sicilia e nel viaggio di ritorno erano stati sbattuti qui: alcuni di loro poi fopo aver fatto a piedi avavano fatto il giro dell’Adriatico fino in Macedonia erano stati chiamati Bottiei. Dicono che tutti quelli fino alla Daunia sono chiamati Iapigi da Iapige che Dedalo aveva avuto da una donna cretese e che aveva guidato i Cretesi. Chiamarono la città Yatanto dal nome di un eroe.
Pausania (II secolo d. C.), Ἑλλάδος περιήγησις, X, 10, 6-8: Τάραντα δὲ ἀπῴκισαν μὲν Λακεδαιμόνιοι, οἰκιστὴς δὲ ἐγένετο Σπαρτιάτης Φάλανθος. Στελλομένῳ δὲ ἐς ἀποικίαν τῷ Φαλάνθῳ λόγιον ἦλθεν ἐκ Δελφῶν· ὑετοῦ αὐτὸν αἰσθόμενον ὑπὸ αἴθρᾳ, τηνικαῦτα καὶ χώραν κτήσεσθαι καὶ πόλιν. Τὸ μὲν δὴ παραυτίκα οὔτε ἰδίᾳ τὸ μάντευμα ἐπισκεψάμενος οὔτε πρὸς τῶν ἐξηγητῶν τινα ἀνακοινώσας κατέσχε ταῖς ναυσὶν ἐς Ἰταλίαν· ὡς δέ οἱ νικῶντι τοὺς βαρβάρους οὐκ ἐγίνετο οὔτε τινὰ ἑλεῖν τῶν πόλεων οὔτε ἐπικρατῆσαι χώρας, ἐς ἀνάμνησιν ἀφικνεῖτο τοῦ χρησμοῦ, καὶ ἀδύνατα ἐνόμιζέν οἱ τὸν θεὸν χρῆσαι· μὴ γὰρ ἄν ποτε ἐν καθαρῷ καὶ αἰθρίῳ τῷ ἀέρι ὑσθῆναι. Καὶ αὐτὸν ἡ γυνὴ ἀθύμως ἔχοντα —ἠκολουθήκει γὰρ οἴκοθεν—τά τε ἄλλα ἐφιλοφρονεῖτο καὶ ἐς τὰ γόνατα ἐσθεμένη τὰ αὑτῆς τοῦ ἀνδρὸς τὴν κεφαλὴν ἐξέλεγε τοὺς φθεῖρας· καί πως ὑπὸ εὐνοίας δακρῦσαι παρίσταται τῇ γυναικὶ ὁρώσῃ τοῦ ἀνδρὸς ἐς οὐδὲν προχωροῦντα τὰ πράγματα. Προέχει δὲ ἀφειδέστερον τῶν δακρύων καὶ—ἔβρεχε γὰρ τοῦ Φαλάνθου τὴν κεφαλήν—συνίησί τε τῆς μαντείας—ὄνομα γὰρ δὴ ἦν Αἴθρα τῇ γυναικί—καὶ οὕτω τῇ ἐπιούσῃ νυκτὶ Τάραντα τῶν βαρβάρων εἷλε μεγίστην καὶ εὐδαιμονεστάτην τῶν ἐπὶ θαλάσσῃ πόλεων. Τάραντα δὲ τὸν ἥρω Ποσειδῶνός φασι καὶ ἐπιχωρίας νύμφης παῖδα εἶναι, ἀπὸ δὲ τοῦ ἥρωος τεθῆναι τὰ ὀνόματα τῇ πόλει τε καὶ τῷ ποταμῷ· καλεῖται γὰρ δὴ Τάρας κατὰ τὰ αὐτὰ τῇ πόλει καὶ ὁ ποταμός (Gli Spartani fondarono Taranto, l’ecista fu lo spartiata Falanto. A Falanto che si preparava a fondare una colonia giunse da Delfi il responso che avrebbe conquistato un territorio e una città quando avesse visto cadere la pioggia dal cielo sereno. Egli, non avendo preso in considerazione il responso né avendone reso partecipe qualcuno degli interpreti, approdò in Italia; poiché non gli capitava di vincere i barbari né di conquistare città alcuna né d’impossessarsi di un territorio, si ricordò del responso e credette che il dio avesse profetizzato l’impossibil e che non poteva piovere col cielo puro e limpido. La moglie, infatti l’aveva seguito dalla patria, confortava lui avvilito e tra l’altro dopo aver fatto appoggiare la testa del marito sulle sue ginocchia, cercava i pidocchi. In qualche modo per amore accadde alla donna di piangere vedendo che lo stato del marito non migliorava per nulla. Prosegue senza risparmio di lacrime – e infatti ne bagnava la testa di Falanto – e Falanto comprende la profezia – sua moglie, infatti si chiamava Etra – e così sopraggiunta la notte prese Taranto, la più grande e prospera delle città dei barbari in riva al mare. Dicono che l’eroe Taras sia figlio di Poseidone e di una ninfa del luogo, che dall’eroe venne il nome alla città e al fiume: infatti anche il fiume si chiama come la città).
Ora che l’asticella della mia credibilità si è innalzata, siccome mi piace non prendere troppo sul serio qualcosa o qualcuno (a partire dalle mie cose e da me stesso) azzardo l’ipotesi che lo scorpione del quale ho detto ampiamente in un precedente post (http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/25/taranto-suo-stemma/) non sia altro, fatta la tara dei gigli, che la trasformazione iconografica nobilitata di uno dei pidocchi di Falanto. E per non attirarmi gli strali degli animalisti, ma soprattutto perché la sua Notte è passata da tempo, lascio in pace la simpatica tarantola …
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1 Il punto interrogativo è dovuto al fatto che permangono dubbi sull’autenticità del graffito, anche se il supporto (un frammento di ceramica a vernice nera) è in linea con la cronologia indicata.
#Armando Polito#Falanto#mappa di Soleto#Pizia#Taranto#Paesi di Terra d’Otranto#Spigolature Salentine
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La Grecìa salentina nell'atlante del Pacelli (1803)
di Armando Polito
Dopo essermi occupato (http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/26/lalbania-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803-posseduto-suo-tempo-giuseppe-gigli-giallo-nota/) dell’isola alloglotta albanese così come appare nell’atlante dell’erudito di Manduria Giuseppe Pacelli, la stessa operazione farò oggi con la Grecìa salentina enucleando la parte relativa dal manoscritto i cui estremi il lettore troverà nel link prima segnalato.
carta 49r
Descrizione della Grecia Sallentina
Come nella Diocesi di Taranto visono delle Popolazioni, che parlano un linguaggio straniero al comune di tutta la Provincia: così ce ne sono ancora alcun’altre nella Diocesi di Otranto. Quelle di Taranto sono di lingua Albanese, e queste di Otranto di Lingua Greca. Ivi nella Mappa deòò’Albania Sallentina ne osservammo i Paesi, e donde mai avessero potuto un tal linguaggio imparare: qui nella Mappa della Grecia Sallentina faremo l’istesso. Tredici sono i Paesi, che attualmente parlano il Greco, e sono Soleto, Sogliano, Cutrofiano, Corigliano, Zollino, Sternatia, Martignano, Calimera, Martano, Castrignano (detto perciò Castrignano de’ Greci, a differenza di Castrignano del Capo in diocesi d’Alessano), Mepignano, Cursi, e Cannole. Ma in Soleto, ed in Martano si mantiene maggiormente in vigore, ove al cuni del Popolo né parlano, né intendono altro, che il solo greco; mentre negli altri Paesi va di giorno in giorno degenerandoo la lingua, e più frequentemente del greco parlano l’italiano. L’origine però di tal linguaggio in questi Paesi non lo dobbiamo mica ripetere da tempi della nostra Magna Grecia. Poiché sebbene per la vicinanza a tal Regione ne avesse tutto il Sallento imitato il linguaggio; coll’esser però insieme colla Magna Grecia anche tutta questa Provincia caduta in poter de’ Romani, ne adottò col tempo, lasciata la propria, insieme col costume, e colle leggi, anche la lingua de’ Vincitori. Io assegno per epoca, e credo di non ingannarmi, il tempo, in cui passò ad esser Capitale dello Impero e del Mondo la città di Costantinopoli, per essere divenuta la residenza de’ Cesari. L’invasione, che i Greci Orientali allora fecero della nostra Provincia, fece ritornare fra noi la lingua Greca. Nella nostra Biobiblografia Sallentina ci occuperemo alla lunga di tal punto: e qui solamente osserviamo, che essendo cominciati nella nostra Provincia, a divenir promiscui i due riti latino e greco nella sagra Liturgia; e tanto più che alcune Scuole di Greca letteratura fra noi facevano dello strepito, e ne fomentavano la coltura, fu duopo1 alla fine, che tutte le Chiese del Sallento adottassero totalmente il rito greco, in vigor dell’Editto dell’Imperador Niceforo Foca dell’anno 968, con cui si ordinò che in tutta la Puglia, e nella Calabria in greco i divini uffici si recitassero. Allora fummo tutti di un sol linguaggio, perché era uniforme tanto a quel del Governo, che della Chiesa. Le note vicende quindi accadute, e le invasioni, che fecero in seguito delle Provincie dìItalia straniere selvagge Nazioni, sebbene linguaggio mutar facessero all’Italia tutta, dentro di cui uno particolr ne nacque, qual si fu l’Italiana favella, pur tuttavia serbassi nella nostra Provincia pe ‘l rito Chiesastico il Greco. E ne abbiamo veridiche notizie specialmente della Chiesa di Soleto (antichissima Città per l’origine, e di gloriosa ricordanza, per aver dato il nome di Sallenzia a questa parte di Provincia), in cui da Padre in Figlio per più di un secolo la Famiglia Arcudi occupò la carica di Arciprete Greco nella Chiesa Soletana. Or l’ultimo di tali Arcipreti di rito greco, e primo di rito latino fu il dotto Antonio Arcudi, che morì nel principio del secolo XVI dopo aver pubblicato in Roma per ordine di Papa Clemente VIII il suo Breviario Greco.
carta 50v
Sul finire dunque del secolo XV dovettero le nostre Chiese abbandonare a poco a poco il greco, adottare il rito latino, e cessare un tale linguaggio in Provincia. Que’ luoghi però, che oggi formano la Grecia Sallentina, sebbene per uniformarsi a tutti i Paesi vicini, usassero anche per la Chiesa il Latino, ritennero però per lor linguaggio il greco, ed insieme coll’Italiano lo serbano tuttora, comecché molto allontanato dalla natia purezza. carta 51r (per un’agevole lettura della mappa cliccare di sinistro e una seconda volta quando il cursore avrà assunto l’aspetto di una lente d’ingrandimento)
Mi congedo dal lettore con le stesse amare considerazioni con cui chiudevo il post sull’Albania salentina; anche il griko, nonostante le lodevoli iniziative locali di sensibilizzazione e conservazione, è destinato a morire, sopraffatto inesorabilmente dall’assalto dei nuovi (ma non tanto …) media, tv in primis, dal pregiudizio imperante secondo cui piccolo non è bello (belle le multinazionali!…) e dalla globalizzazione. Tuttavia debbo rivendicare al Pacelli un primato. La sua ipotesi sull’origine del griko precede di parecchi anni una corposa bibliografia che annovera Griechische volkslieder in Suden von Italien pubblicato nel 1821 da K. Witte sulla rivista Geselischalter (articolo, però, dedicato al grecanico, cioè al greco di Calabria) e poi, via via, i contributi di Domenico Comparetti (Saggi dei dialetti greci dell’Italia meridionale, Nistri, Pisa, 1866), Giuseppe Morosi (Studi sui dialetti greci della Terra d’Otranto, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1870). Si può dire che gli studi del Morosi costituiscono lo spartiacque tra due scuole si pensiero che negli anni successivi si sarebbero affrontate non senza virulenza. Per il Morosi l’origine del griko era bizantina. Poi venne Gerard Rohlfs (Scavi linguistici nella Magna Grecia, Collezione meridionale editrice, Roma, 1933) a ribaltare la teoria del Morosi (che nel frattempo era stata ripresa da Clemente Merlo, Carlo Battisti e Giovanni Alessio e che dopo la guerra sarà ripresa da Oronzo Parlangeli) sostenendo che il griko avesse un’origine molto più antica di quella bizantina, che fosse, cioè, il residuo della colonizzazione della Magna Grecia. La diatriba sulle due teorie si è via via congelata (anche per la morte dei protagonisti) fino al 1996, anno in cui Franco Fanciullo pubblicò Fra Oriente e Occidente. Per una storia linguistica dell’Italia meridionale, ETS, Pisa, ETS. Il Fanciullo, originario di Cellino San Marco (questa nota che può sembrare campanilistica vuole essere una sorta di compensazione del fatto che un fenomeno di casa nostra è stato oggetto di indagine da parte di studiosi non locali, se si esclude il Parlangeli, o, addirittura, come nel caso del Rohlfs, stranieri), sulla base anche di principi tratti dalla moderna sociolinguistica, avanza un’ipotesi che rappresenta, in un certo senso, un compromesso tra i due blocchi precedentemente descritti, giunge, cioè, alla conclusione che l’origine del griko non risale né alla Magna Grecia, né al periodo bizantino, ma al tardo-antico, cioè imperiale perché, secondo il Fanciullo, quando i Romani sconfissero definitivamente i Messapi, nel nostro Salento sarebbero arrivati sì i soldati di Roma, ma anche moltissimi greci.
Comunque siano andate le cose e per chiudere con un ulteriore briciolo di campanilismo (so benissimo che questo sentimento non va d’accordo con la neutralità della scienza, ma tant’è: ogni tanto bisogna pur cedere a qualche debolezza …), va almeno riconosciuto che il padre della teoria dell’origine bizantina non fu il lombardo, milanese Morosi ma il salentino, manduriano Pacelli.
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1 Sic, per d’uopo.
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La terra d'Otranto nella prima carta moderna a stampa dell'Italia.
di Armando Polito
Con il moderna del titolo ho esagerato, ma solo di dieci anni per difetto. Mentre, infatti, il genovese Cristoforo Colombo scopriva l’America nel 1492, il fiorentino Francesco Berlinghieri aveva già nel 1482 pubblicato un’edizione in terza rima della Geografia di Claudio Tolomeo corredata da 31 tavole, del cui autore s’ignora il nome: 27 tolemaiche, cioè storiche, e 4 moderne. Queste ultime, in particolare, facevano tesoro del patrimonio d’informazioni presenti nelle carte nautiche1 (promontori, porti, secche e simili). Nell’immagine di testa è riprodotta la tavola moderna dedicata all’Italia (le altre alla Francia, alla Spagna ed alla Palestina), dalla quale ho tratto il dettaglio della Terra d’Otranto (per una sua più agevole lettura, e vale anche per l’immagine di teata basta cliccarci sopra col tasto sinistro) che ora analizzeremo sotto l’aspetto toponomastico non senza avvertire prima il lettore che queste tavole, come ben sanno gli addetti ai lavori non solo abbondano di storpiature di trascrizione ma anche di marchiani errori di posizione di fronte ai quali la mappa di Soleto (VI secolo a.C.), se è autentica, appare graffita quasi con l’aiuto di un rilevatore satellitare.
Non in questo cerco giustificazione delle mancate o dubbie identificazioni2 e sarò grato a chiunque vorrà colmare queste lacune.
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1 Per un raffronto :
http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/23/la-terra-dotranto-in-due-antiche-carte-nautiche/
http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/17/a-pesca-in-rotta-verso-punta-palascia-con-a-bordo-una-vecchia-carta-nautica-ma-la-rete-e-di-ultima-generazione/
http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/07/la-terra-dotranto-in-un-portolano-del-xvi-secolo/
2 Nei portolano segnalato al terzo link della nota precedente tra vilanova e guacito si legge petrola; lo stesso, tra Gagiti e Iannaro, in quello segnalato al primo link. Questo Portola probabilmente ne è deformazione e perciò sarebbe da identificare con Petrolla, nome del primo nucleo di Villanova.
Per Asiam la posizione coincide quella dell’attuale Torre di S. Sabina, frazione del comune di Carovigno, ma la deformazione del nome della santa, da cui derivò quello della torre (in un inventario del 1396, pubblicato da Nicola Bodini in Per gl’ilustrissimi signori Dentice contro il comune di Carovigno ed il demanio dello Stato, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, 1885 si legge: Item locum et portum Sanctae Sabinae in quo est turris una discoperta=parimenti il luogo e il porto di S. Sabina nel quale c’è una torre scoperchiata) sarebbe stata devastante; lo stesso vale per Mendelim (Mendelin nella carta di Pietro Coppo), probabile errore di trascrizione, ripetuto nel tempo, del Manduris che si legge nella Tabula Peutingeriana (XII-XIII secolo). Per quanto riguarda Nerto, infine, esso appare forma italianizzata del Nertus che si legge nella carta d’Italia del veneziano Pietro Coppo (1470-1556) a corredo del suo De toto orbe rimasto manoscritto, nonché sincopata del volgare Nerito che è dal nome latino più antico di Nardò, Neretum (la storia di questo toponimo, comunque, sarà estesamente illustrata e documentata, insieme con quella dello stemma della città, in una monografia che dovrebbe essere pubblicata a breve).
#Armando Polito#cartografia della Puglia#Claudio Tolomeo#Francesco Berlinghieri#Terra d'Otranto#Spigolature Salentine
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