#macchinetta del caffè
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Tema: “La macchinetta del caffè”
Svolgimento:
La macchinetta è stata fuori servizio per quattro giorni, durante i quali al numero verde dell’azienda che la rifornisce e ripara, sono giunte -in un crescendo gaussiano- prima le richieste d’intervento, poi le lamentele, quindi gli insulti e ieri mattina le minacce. L’azienda ha dunque pensato bene di mandare il tecnico, un ometto sudaticcio, dall’andatura goffa e dall’aspetto remissivo, tipico di chi viene mandato al fronte a prendere pallottole senza protestare. Infatti si è trovato di fronte le Armate dell’Utenza Inviperita che hanno preteso da lui:
A) I soldi, che la macchinetta si fotte ogni due per tre. B) Spiegazioni, del perché certe volte esce la bibita senza bicchiere e altre viceversa. C) Altre spiegazioni, del perché immancabilmente dopo due giorni che è venuto il tecnico stammerda va in blocco. D) Quando, vi scade l’appalto che alla prossima gara ci faccio concorrere mia moglie con la moka Bialetti.
Terminato di elargire il dovuto, balbettato di qualche inceppo tecnico e scusandosi a capo chino con tutti, ha avuto l’alzata d’ingegno di dire che l’Azienda farà quanto possibile per garantire il servizio, facendo esplodere un coro da stadio di sberleffi e vaffanculi. Al che l’omino, ancora più sudaticcio, è venuto a lamentarsi da me che questo non è il modo e che la macchinetta era stata anche in passato danneggiata da un colpo di qualcosa che. “Taekwondò”, gli ho risposto serio. “Takekosa?” Ha chiesto spalancando gli occhi. “Taekwondò, è un arte marziale. Nello specifico è stato un tipo di calcio in grado di sbriciolare lo sterno di un uomo di grossa corporatura.” Il tipo mi fissa deglutendo un paio di volte e aumentando la sudorazione. Per toglierlo dall’imbarazzo sorrido amabilmente, “Dopo il terzo bicchiere senza caffè e il quinto senza bicchiere è il minimo. Le pare?” “Eh!” Fa lui tirando un sorriso mesto. Smetto di sorridere e divento serissimo, “Chi le paga lo stipendio è un cane e un mafioso che ne sa più di intrufolarsi negli appalti che di erogazione bevande calde, ed io mi sarei anche rotto gli zebedei del vostro costante disservizio, ancor di più perché di questa menata non dovrei proprio occuparmene e invece come vede siamo qui a parlarne, giusto?” L’omino annuisce ripetutamente indietreggiando e mescolando scuse miste a saluti e a garanzie che non si ripeterà, quindi si volta e scompare oltre la porta.
Oggi la macchinetta funziona, ma non eroga il caffè, ed io ho qui accanto a me due cartucce nuove di poluretano espanso e un idea tanto creativa quanto cattiva.
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oggi ci siamo evoluti non solo come individui ma anche come umanità (abbiamo comprato un bollitore elettrico da tenere in ufficio)
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Non la caposala che viene a ringraziarmi per l'idea dei posacenere perché le pazienti si sono divertite e mi dice "se ti vengono altre idee dimmelo pure!"
Ma non dovrebbe essere tipo compito vostro trovarci delle attività da fare qui dentro? No dico
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mi sto viziando troppo con il porridge a colazione ogni mattina e un americano sorseggiato con calma che è una cosa che a palermo non potevo fare visto che avevo tipo sette lezioni solo al primo semestre dalle 8 di mattina alle 8 di sera tutti i giorni. qui non si inizia mai prima delle 9 e non si finisce mai dopo le 17 (anzi scusate: 5pm) e per fortuna appena torno dovrei essere quasi a posto con le materie e poi mai più uni perché chi li rivuole quei ritmi? certamente non io. tuttavia ho degli assignment due che incombono su di me e ciò significa che non posso rilassarmi troppo anche se tutto ciò mi fa quasi pensare di sì. l'unica cosa che mi manca di unipa, ma che definirei il minimo indispensabile, anche se in italia abbiamo priorità diverse a quanto pare, è la pausa macchinetta del caffè fra una lezione e l'altra per sopravvivere: per noi sì macchinetta del caffè ovunque e assolutamente troppo high standard la carta igienica nei bagni
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Sto in un'azienda che è un gigante, un colosso mondiale. Sono quasi certa che i dipendenti prendono un pacco di soldi ogni mese e (dato che si dimettono) molto probabilmente pure si lamentano e manco pensano di essere chissà quanto ricchi o sopra la media. Eppure siamo circondati nella stessa azienda da gente umilissima: la signora anziana che pulisce i bagni ogni mattina; quella che si occupa che nella macchinetta del caffè e del cappuccino ci sia sempre latte e caffè all'interno; le ragazze del bar interno all'azienda (sì qua dentro esiste pure una lounge gigante col bar); il signore che ogni mattina passa l'aspirapolvere...
Spesso, quando vedo i titoli di sti dipendenti, penso: ma che cazzo di percorso hanno fatto? Che cazzo hanno studiato? I soliti corsi o lauree di "business", "data analyst" ecc ecc? Certi sembrano talmente giovani che non mi capacito. Non possono aver fatto chissà quale percorso e gavetta quindi, suppongo, il percorso sia stato: famiglia ricca - università d'eccellenza - lavori normali - multinazionale. Non solo, ci sono persone che sono solo "secretary of blablabla" e chissà pure quanto prendono. Per fare che? La segretaria di X VIP aziendale. Magari prima avevano un altro ruolo per cui hanno studiato/fatto gavetta, ma dubito se poi tengono 700 pagine di email aperte e poi vengono a piangere da noi per stronzate riguardanti Outlook, wifi, caratteri con un font indesiderato ecc.
Mi sale la foga e la rabbia: pure io vorrei salire a sti piani alti, ma non posso vendere niente oltre ad essere talmente genuina da non riuscire a studiare per anni cose che (almeno al momento), apparentemente, non mi appassionano.
Ma la verità è che, a vedere tutta questa gente di classe, mi sale soprattutto una cosa: la voglia di comunismo. Quello serio.
#pensieri diurni#pensieri#comunismo#capitalismo#lavoro#ps: poi mi ricordo che una mia collega della triennale ha fatto un master a Milano in Business e ora lavora per Fendi#è evidente che la scema sono io
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Appena successo: un collega HR incontrato alla macchinetta del caffè mi ha chiesto "come va la vita da sposata?" A me. Che non ho un fidanzato. Non convivo e sto bene così.
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L'ora solare che mi ha tolto il sonno
Questa mattina Leo si è palesato. Ero ancora mezzo addormentato, avvolto nelle calde coperte, quando ho sentito il suo miagolio acuto. Ho cercato di fingere un sonno profondo, io che il sonno l'ho perso da tempo, non riuscendo nel mio intento di dissuadere il micio rosso. Così Leo è passato alle maniere spicce, usando la zampetta, mi ha ripetuto con dolcezza sulla nuca. Un "toc toc c'è qualcuno" gattesco.
Stropiccio gli occhi e metto a fuoco Alexa, è mattina. Intendo mattina presto, mi ero dimenticato dell'ora solare.
Mi trascino fuori dal letto, barcollando come un robot senza batteria. Apro le imposte della cucina, rivolte dove il sole sorge la mattina. Credo che in quel momento mi sia sentito come un vampiro costretto a uscire dal suo rifugio. Temendo i raggi del sole.
Mentre preparo il cibo al peluche rosso il mio cervello ripensa alla sera precedente. Una serata a base di jazz, swing e balli di Charleston.
Di giacche imbottite, bretelle e cappelli fedora; ma anche di vestiti sfrangiati a vita bassa, di modelli “maschili” alla garçonee e i capi che ricalcavano la moda orientale. Che belli i vestiti morbidi e leggeri con tessuti come lo chiffon, il tulle, l'organza e la seta; le gonne plissè o a pieghe.
Lo Champagne, le sigarette col beccuccio e i sigari accompagnati da Whisky.
Il gatto mangia, anche Milly l'altro micio di casa, ieri ha compito 14 anni, approfitta per fare colazione. A questo punto non mi resta che un caffè, per cercare di svegliare anche l'ultima porzione di cervello; quella che si rifiuta il risveglio questa mattina.
Ho un pensiero: "la vita è una tortura e il risveglio la mattina ne è la prova".
Penso ironicamente con quale delusione inizierò la giornata, ma c'è tempo... sono un'ora in anticipo e posso attendere.
Mentre attendo il caffè, continuo a imprecare contro l'ora solare. "Ma che senso ha anticipare l'ora? È come svegliarsi un'ora prima e non aver dormito lo stesso!", esclamo rivolgendomi alla macchinetta del caffè, che mi guarda impassibile e per tutta risposta inizia a borbottare. Credo che abbia ragione lei nel suo borbottare.
Il risveglio un'ora prima mi fa sentire stranamente giovane, anche se consapevole che al primo affanno comincerò ad ansimare come nelle televendite asmatiche del baffo Roberto da Crema.
La tecnologia non necessità più della correzione degli orologi, oggi tutto si aggiorna automaticamente. Ogni volta penso al potere che avevo di portare indietro le lancette degli orologi analogici, potessi tornare indietro io. Tirerei indietro le lancette di trent'anni.
Oggi è domenica i gatti sono soddisfatti, manca la chihuahua che necessità della passeggiatina per lasciare i suoi ricordini, che ovviamente raccoglierò con dovizia. A lunedì ci penserò più tardi, per ora vivrò ancora al tempo della Belle Époque.
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Day 52
Giorno 52 - ieri.
Totale caffè bevuti, 2. Non si sa come, ma ci sono riuscito.
Il primo caffè l'ho bevuto alle sei del mattino, poco prima di uscire per andare all'appuntamento al casello di Ancona Nord ed essere trasportato in trasferta a Firenze.
Intervallo sosta in autogrill: prendo una mielizia.
A pranzo: scelta estremamente opinabile di prendere, a mensa dal nostro cliente, una pizza. Buonissima, ma ho finito di digerirla questa mattina.
Secondo caffè, cattivo - macchinetta da breakroom, ma facciamocelo bastare.
Intervallo in autostrada al rientro: prendo un dolcetto alle mele e una gassosa, sperando che quest'ultima mi faccia scendere la pizza (cosa che avverrà il giorno dopo).
A cena, nonostante tutto, mangio una vellutata di carote con qualche crostino di focaccia sg.
A un certo punto della sera crollo, e va bene così.
Oggi ho trovato un delirio in ufficio - un cumulo di backlog che non avrei potuto smaltire nemmeno se non avessi avuto altro da fare, e purtroppo avevo molto altro da fare.
Il clima intanto si è evoluto in una perenne thunderstorm e domani gran parte della circolazione è bloccata, è molto probabile che lavorerò da casa.
Sono stanco, ma non è una novità. Ah: però almeno saltano anche musica d'insieme e la lezione di chitarra, quindi alla fine, quantomeno, domani sera riposerò un po' (e poi non mi ero proprio esercitato tantissimo).
Stamattina avevo cercato di registrare questo day 52 e fare un post con un messaggio vocale ma l'app mobile non lo permette e non ho avuto tempo e modo di farlo diversamente. Magari in futuro, se Tumblr decide che i vocali sono accettabili, ci riproviamo.
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ho capito una cosa nella vita: quando avrò una casa voglio una cucina con TANTI scompartimenti non ce la faccio proprio a vedere tutti i piani strapieni di cose
che poi si sono cose utili, magari sono messe anche in ordine, ma io ho bisogno di superfici LIBERE VIA SGOMBERARE TUTTO NON VOGLIO NIENTE a parte la macchinetta del caffè e il microonde che sono le uniche cose che si possono lasciare in vista
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SOPRACCIGLIA E BARBA ROSSA
Questa è una storia su di me... a tratti noiosa e/o delirante, autocelebrativa e antipatica per taluni, commovente e sincera per altri.
Nel video che si trova fissato in alto nel mio tumblr, invito chi mi conosce da poco (oppure da molto ma superficialmente) a non confondere persona, personaggio e professionista.
Intendiamoci, non esistono tre Kon-igi schizoidi che in ogni momento non sai con quale interagisci ma di sicuro in questi spazi è molto facile che un muro scrostato e vecchio io ve lo intonachi con stucco veneziano e magari ci allestisca pure una mostra di arte contemporanea con giochi di luci meravigliose... ma comunque rimane un muro vecchio e scrostato, sull'imbellimento fantasioso del quale non ho mai mentito o promesso comodati d'uso a contratto capestro.
Mi piace citare cultura pop, video cringe, videogiochi, giochi di ruolo oppure anime e manga che abbiamo visto o letto in tre...
Ma sono nato nel 1972 e quindi sono mediamente vecchio, anche se non di merda (spero).
Nonostante tutto, difficilmente mi vedrete interagire con persone della mia età che non siano quei quattro famigerati gatti qua su tumblr, che per fortuna hanno resistito dal diventare quei vecchi di merda di cui è popolato il mondo reale e con cui faccio una miserabile fatica anche solo a prendeci assieme un caffè alla macchinetta a base di calcio&figa.
Mi autoelogio nel definirmi uno invecchiato bene... perlomeno nella testa e nel cuore (il corpo vabbe').
Ho imparato a frenare il mio paternalismo, il mio man(kind)splaining e la mia sindrome del salvatore, tenendo a bada anche una certa impiccionaggine nel voler sapere le cose degli altri per condividere ed essere d'aiuto.
Ma come state giusto ora sperimentando, perdo il prezioso dono della sintesi quando devo parlare di cose radicate ben dietro il personaggio, nella parte più profonda della mia persona.
In un post di qualche mese fa, quello in cui raccontavo in tono scherzoso del ricovero di Figlia Piccola, ho preso in prestito da uno dei miei anime preferiti (Le Bizzarre Avventure di Jojo) il concetto di STAND - una sorta di potente proiezione delle nostre energie psichiche dotata di poteri particolari - e l'ho usato come allegoria della sua enorme forza d'animo nel non farsi piegare dal dolore, fisico e psichico.
Continuiamo questo sciocco gioco metaforico e fate cortesemente finta di rimanere stupiti e sconvolti positivamente dalla descrizione del mio Stand e dei suoi poteri...
HEART ON JOHN
Se non lo sapevate ora ve lo dico, la pronuncia in giapponese è molto simile a quella del nome del famosissimo cantante e pianista inglese, a cui ho sottratto il titolo di una delle sue canzoni più famose per definire il suo attacco speciale
ROCKET MAN
Ma prima di dirvi quali sono le caratteristiche di Rocket Man, mi preme spiegarvi il titolo del post, frutto del mio citazionismo colto (ma manco per il cazzo).
Nella mitica serie 'Scrubs', a un certo punto JD si mette assieme a una collega psichiatra e la sua amica e collega Elliot, una bomba a mano emotiva, si mette di mezzo e bulleggia questa dottoressa, affermando che questa può dirle qualsiasi cosa che tanto lei è una donna equilibrata e forte... la camera inquadra la psichiatra che sorride e sussurra a Elliot 'SOPRACCIGLIA', con JD che controbatte 'Ma cosa c'è di male nella parola sopracc...' se non che la camera ritorna un attimo dopo su Elliot singhiozzante e disperata col mascara colato.
Barbarossa, invece, si riferisce a una delle scene per me più toccanti della serie 'Sherlock', quando il protagonista viene ferito quasi a morte da una certa persona (no spoiler per chi si fosse appena svegliato da un coma di 13 anni) e nel suo palazzo mentale rivive episodi del suo passato per cercare di trovare un modo per salvarsi, tra cui l'incontro col suo setter Barbarossa, l'unico essere vivente con cui da bambino abbia mai interagito con amore.
Ecco cosa fa Rocket Man.
Di chiunque entri nel suo raggio d'azione io posso vedere sia le sopracciglia che la barba rossa.
Di chiunque.
Di tutti.
Venite pure avanti con la vostra faccia di cazzo, con le vostre pretenziose idee di merda, con le vostre lamentele autocentriche di persone sfortunate o di individui speciali a cui tutto è dovuto, la cui unica dote è sparare cazzate con un potentissimo filtro instagram che sembra quasi riuscire a cancellare la stupida vacuità.
Il primo pugno manda in frantumi la vostra scintillante armatura di fasulla perfezione, il secondo vi riporta indietro all'ultima persona che vi ha detto di no, il terzo a quando anni prima il mondo vi sembrava pieno di promesse e luce e così via finché davanti a me non ho il bambino piangente a cui è stato negato un gesto di amore.
E quando l'ultimo pugno sembra poter cancellare ogni cosa, io invece vi abbraccio fortissimo e vi riporto indietro al presente, in mezzo ai frammenti di ciò che non volevate essere ma che siete stati costretti a diventare per non sentire il dolore.
Vi piace il potere del mio Stand?
Non l'ho scelto io e nella vita reale ovviamente non ci sono pugni, solo la mia consapevolezza di tutte le vostre sopracciglia e la mia scelta di voler arrivare fino a Barbarossa, accanto al quale giace in solitudine il bambino piangente che era stato felice quell'ultima volta.
Magari non vi sembrerà ma io a quel vostro bambino ci arrivo sempre.
E se suona come una promessa infatti lo è.
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Treno in ritardo. Scrivo una cosa qui. Camminata sotto il sole cocente. Timbro. Compro un cappellino su vinted. Leggo le mail. Mando una mail in segreteria che la macchinetta per timbrare mi odia e mi ha sballato la giornata di ieri. Salgo su da A (come ogni mattina), è in lab, le do una mano. Trovo V, mi offre un caffè e scappa giù. Torno a lavoro. Arriva F, ha il collo bloccato e una crema in mano. Spalmo la crema sul collo di F. Dottoranda offre cornetti a tutti. Cornetto e caffè. Mi chiama un numero che non conosco, è quella che si occupa delle presenze, mi dice di passare da lei, ma non so dove. Dice che passa lei. Sulla soglia appare l'elfo che mi dice dei giorni lavorativi di Agosto e di come non farmi un giorno in sede. Arriva la tizia di presenze, mi chiede se voglio un caffè, rifiuto. Andiamo a vedere la macchinetta e niente, c'ha i problemi. Mi dice di continuare a fare segnalazione se ci sono problemi. Sono le 12. Lancio un comando e attendo.
Pranzo, chiacchiere, caffè, disegno. Mi chiedono una marea di grafici inutili. Mi stampo 2 locandine disegnate da me. Vorrei riempirmi il muro alle spalle di disegni e locandine. Disegno il lupo di Fantastic Mr. Fox con il braccio alzato. Sono le 5, il tempo passa rapido. Mando i grafici. Finisco i compiti del giorno. Stimbro.
Con F vado in libreria. Finiamo nel reparto bambini perché deve fare un regalo alla figlia di una sua amica. Compro degli sticker simpatici per A. F mi accompagna a prendere degli occhiali da sole e poi la accompagno sotto casa. M mi chiama, è in giro con un'amica e mi chiede se mi voglio aggregare. Vado da M e l'amica, parliamo un po' e si fanno le 21. Piglio il treno, mi vedo Spagna Francia. Torno a casa, doccia, cena, crollo sul letto stanco. Sono convinto di non aver fatto nulla di che.
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oggi mi alzo, capelli di merda, febbre, felpa di 5 taglie più grande, accendo la macchinetta del caffè ancora prima di accendere il cervello poi vado a lavarmi la faccia e mi guardo allo specchio e penso ma quanto cazzo sono fragile
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Meno male che c'è Daria
Daria arriva in ufficio prima che l’edificio si animi di vita umana. Le luci al neon, fredde e implacabili, illuminano moquette sporche di passi e scrivanie nude di personalità. Appoggia la borsa sulla sua sedia girevole, controlla la sua agenda, si liscia la giacca stazzonata. La macchina del caffè borbotta nell’open space vuoto, l’odore amarognolo riempie l’aria. Non ha dormito bene, questa notte. Non dorme mai bene quando la luna piena si avvicina. Dentro di lei scorrono scie di sogni feroci; artigli prima invisibili e poi molto concreti lacerano la sua pelle, dall'interno, e le strappano pezzi di sonno. Ha graffi sul corpo, nascosti sotto la camicetta, segni del suo essere altro, oltre la pelle umana. La porta di vetro scorrevole sibila e il primo ad entrare è il direttore delle vendite, Tommaso, con quel suo sorriso storto. Le si avvicina.
«Daria, caffè. Subito. Doppio zucchero. Ho una call tra cinque minuti, sbrigati.» Daria annuisce. Non discute. Devia verso di lui il caffè che stava preparando per se stessa. Riesce quasi a fiutare il disgusto del collega, la sua insofferenza: per lui Daria non è davvero una persona, è un distributore automatico. Una donnina da cui esigere aiuto e assistenza. Lei abbassa gli occhi, con un vago «sì, certo.» Le mani tremano appena. Dentro di lei, qualcosa ringhia, ma è un ringhio silenzioso, acquattato tra le costole. Perché di giorno la sua natura è in letargo, soffocata in un involucro di normalità. A mezzogiorno l’ufficio è un alveare di voci maschili che si accavallano. Pochissime donne, tutte recluse in ruoli marginali: segretarie, archiviste, centraliniste, rare impiegate amministrative. Un paio di stagiste dall’aria intimorita.
Gli uomini lì giocano a misurarselo figurativamente per stabilire gerarchie, spandono cologne aggressive, ridacchiano sporcamente all’angolo della macchinetta del caffè, occupano tutto lo spazio, informano gli altri delle proprie conquiste, riappacificano conflitti professionali con una battuta rivolta alle tette della nuova assunta. Daria è la segretaria del capo dei capi, il CEO supremo e intoccabile, Massimo: un uomo sui cinquant’anni, stempiato e con la pancetta, sempre in giacca di lino costosa, con la bocca unta di burrocacao fighetto e arroganza. Si crede il non plus ultra, valuta se stesso usando come riferimento la leccaculaggine dei sottoposti sottopagati. Lei trascrive i suoi appunti, organizza le sue agende, corregge i suoi refusi, aggiusta il tiro delle sue cazzate, fissa le riunioni, fa chiamate importanti al posto suo. Però, è lo stipendio mensile di Massimo a sfoggiare cinque cifre, non quello di Daria. Quando anche lui entra nella stanza, l'aria si fa pesante.
«Daria, oggi niente pausa pranzo, dobbiamo preparare le slide per la riunione di domani. Ricordati di indossare qualcosa di carino, eh?» commenta senza guardarla negli occhi. Lei stringe le labbra. Annuisce. Non risponde. Sa che se fiata, lui la colpirà con un: «Scusa, hai detto qualcosa?» e le farà passare la voglia di replicare di nuovo. In questa Babele di sguardi insistenti, prevaricazione e allusioni, Daria si sente minuscola.
Ma è solo una faccia della medaglia. La sera, quando le scrivanie tornano vuote, lei rassetta i documenti, controlla le ultime email, e poi esce nel parcheggio sotterraneo. Saluta appena il guardiano che le fa un cenno distratto, ignaro di tutto, e torna a casa a piedi. Le strade della città hanno un odore diverso dopo le otto di sera, l’asfalto butta fuori aria più sporca e stanca, ci sono voci agitate che arrivano dai vicoli e dai bar che costellano il quartiere. Daria ingoia la solita umiliazione della giornata e sa, con una certezza atavica, che la notte le darà giustizia. Non giustizia legale, non retribuzione, no: qualcosa di più antico, un equilibrio che si ristabilisce con sangue e denti. Non ricorda come sia iniziato tutto, quando la bestia che dormiva nella sua carne si è svegliata. Forse è sempre stata lì. Forse è il risultato di anni di soprusi, di violenze subdole, di mani sul culo e commenti inaccettabili sussurrati. Forse è l’eredità di una notte di luna piena, di un incontro con qualcosa di inumano. Non importa. Ora quella forza animale è parte di lei. E le serve.
Nella sua piccola stanza in affitto, Daria toglie la camicetta, la gonnella grigia lunga che fa storcere il naso a Massimo, i collant neri e le scarpe col tacco basso consumato. Lancia tutto in un angolo. Indossa una tuta larga, annusa l’aria: la notte è tiepida, la finestra aperta lascia entrare un refolo di vento carico di odori. Il suo olfatto diventa più acuto, la pelle formicola. Sa già dove andare. Nella sua testa si mescolano le voci delle sue colleghe e di tutte le donne che ha conosciuto, storie mormorate di inferni taciuti, di percosse rimaste impunite, di grasse risate sempre così dolorose. Lei non è una giustiziera con spada e mantello. È un animale che risponde agli impulsi ferini che animano i suoi muscoli.
Quando si trasforma, non prova compassione, non prova pietà. Non è più remissiva o titubante. Quella parte sottomessa della sua mente si offusca in una fame antica. Ciò che resta è l’istinto di cacciare i maschi peggiori della città: quelli che gridano “troia!” se guidi troppo lenta, che ti spogliano con gli occhi quando torni a casa sull'autobus la sera, che trascinano le ragazze dietro i cassonetti scambiando la cortesia con un via libera libidinoso. Resta l'istinto di odorare la loro paura, sentire le loro ossa spezzarsi tra le fauci; quello la fa sentire viva.
Daria non giustifica se stessa, sa che questa è una regressione senza ritorno, un atto estremo. Ma è anche un equilibrio: il mondo scivola nella follia e lei si adegua, usando le sue zanne dove la ragione fa male i conti. Quella notte, la luna è quasi piena. La schiena si curva, i muscoli si gonfiano, la pelle si copre di peli scuri e ispidi. Le dita si rompono in artigli, il volto si allunga, la bocca si affolla di denti affilati come pugnali. Una donna lupa alta quasi due metri, su due zampe posteriori, massiccia, la coda che sferza l’aria. Gli occhi gialli brillano nell’oscurità.
Esce dalla finestra con un salto silenzioso. Corre sui tetti, annusa l’aria. Cerca l’odore dell’orrore umano: il sudore rancido di chi sta per fare del male. Lo trova, sempre. Quella città ne è piena. Nelle vie più buie, ci sono uomini che non temono nulla. Non immaginano che la predatrice è in agguato. Individua un maschio che piscia in un vicolo dietro un locale notturno: un omone con l’alito di birra e i pugni chiusi. Daria lo riconosce: è piuttosto noto in zona perché pesta le prostitute e strattona le maniche delle cameriere quando non lo servono subito. Mano, lo chiamano. Lavora in municipio. Mano stanotte ha adocchiato una bambola con cui giocare: magra, giovane, straniera, ingenua. Ce l'ha lì accanto. Lei se ne sta lì con la borsetta stretta al petto, si guarda attorno incerta, come un passerotto. «Ho parcheggiato qui vicino, ti faccio vedere una cosa. Se fai la brava ti do il numero di quel mio amico al commissariato. Se fai la brava.» Lei sbianca. Ma la lupa Daria non conosce diplomazia. Balza giù da un tetto, atterra dietro Mano. Un ringhio bassissimo, un suono che fa vibrare l’aria. La ragazzina scappa via strillando – a Daria dispiace, ma tant'è. L’uomo si volta, con ancora il cazzo in mano; urla peggio della sua preda.
In un attimo, artigli nella gola, zanne in quella carne molliccia, il sangue schizza e dipinge i mattoni sporchi, la trachea di Mano gorgoglia. Il corpo cade a terra come un sacco vuoto. Basta così poco, per morire. Bastano pochi secondi e tutta quell'arroganza scivola via in un rivolo di sangue, urina puzzolente e birra. Daria si lecca il muso, poi si dilegua, risalendo sul tetto con un balzo. Sente la vita pulsare in ogni cellula. Sente l’ingiustizia del giorno mitigata dalla sua ferocia notturna. Non ha rimorsi. Ha solo fame.
La mattina successiva Daria torna in ufficio come se nulla fosse accaduto. C’è un certo brusio nell’aria: qualcuno ha sentito che nella notte c’è stato un omicidio cruento, un altro uomo massacrato come un animale. Non è la prima volta, chiaro, solo che a volte la notizia si fa strada fino ai telegiornali, a volte no, a seconda di quanto è succosa o di quanto era un pezzo grosso il morto. Tommaso ne parla a voce alta, con una certa eccitazione: «Avete sentito? Un altro cristiano fatto fuori. Dove andremo a finire? Che città di merda.»
Daria non solleva lo sguardo dalla sua tastiera. Sorride leggermente. Se solo sapessero. Dopo la presentazione, Massimo la chiama nel suo ufficio e, come al solito, la rimprovera per una sciocchezza inesistente. Le ricorda che deve sorridere di più quando parla con i clienti. Borbotta che a nessuno piace parlare con una musona so-tutto-io. Le fa la predica su tutti i vantaggi che le donne come lei potrebbero avere lì dentro se solo si lasciassero andare. «Daria, puoi averli in pugno quei tizi, lo capisci o no? Sono uomini, un paio di sorrisi, qualche moina e ti firmano qualsiasi contratto. Ascolta me, lo so. Le basi!»
Daria annuisce, sentendo i canini umani premere sulle labbra. Pensa a come sarebbe facile sbranarlo se solo là fuori ci fosse l'eleganza della luna e non l'impertinenza del sole. Ma no, bisogna aspettare. E poi Massimo è troppo in vista, troppo protetto. È un manipolatore subdolo. Lei preferisce colpire prede più manifestamente violente. Almeno per ora. A pranzo Daria non ha appetito. Va a prendere un caffè nell’angolo cottura. Anche altre segretarie gravitano attorno a quel piccolo rifugio temporaneo. Una di loro, Caterina, ha il mento che trema e gli occhi così stanchi da sembrare vuoti. Lavora sotto Fulvio, uno che ha tenuto il broncio a tutti per settimane perché il suo staff non gli aveva fatto i complimenti per il suo nuovo completo Hugo Boss. «Vi incazzate perché i maritini non notano le vostre tinte, ma quando c'è qualcosa di davvero interessante da guardare fate le finte tonte.» Aveva detto.
Daria la osserva, Caterina abbassa gli occhi. La bestia dentro ringhia. Si chiede se quella notte uscirà ancora. Probabile. Ma deve stare attenta, la polizia comincia a cercare pattern, a capire se dietro quei delitti c’è una mano umana o altro. In effetti, nella zona, alcune telecamere di sicurezza hanno ripreso ombre vaghe, sagome impossibili. Gli inquirenti sono confusi. Un animale feroce? Un serial killer impazzito mascherato da animale? Una leggenda metropolitana? Daria si sta sfogando più del solito. Più di quanto non abbia mai fatto. Ne ha bisogno. Il tempo passa, le notti si susseguono, le lune cambiano forma, si gonfiano e si sgonfiano, come lattiginosi polmoni in cerca d’aria, ma la rabbia che scuote le ossa di Daria non muta mai. Aumenta la frequenza delle sue cacce. Non sempre uccide. A volte spaventa soltanto, fa scappare un gruppo di bulli. Altre volte interviene quando qualcuno tenta uno stupro o allunga le mani dove non dovrebbe. In quei casi non c’è pietà: lascia i corpi smembrati e aperti, segnati dai suoi artigli. Non c’è una regola chiara, solo la sua fame di punire.
Ma più la storia va avanti, più l’ufficio diventa un luogo di tensione. Massimo e gli altri manager testosteronici si innervosiscono: le notizie dei morti agitano i loro sogni. Un paio di clienti importanti hanno annullato un meeting proprio all'ultimo; non se la sentivano di fare trasferte. E i giornali parlano di un “mostro della notte” che uccide uomini. I giornalisti esitano a creare connessioni non confermate dalla polizia, anche se quelli più audaci iniziano a far andare a braccetto le parole “violenti” e “uomini”. Qualcuno propone un movente: un gruppo di nazifem esaltate? Una setta? Il dibattito si infiamma. Daria gode di questi dibattiti, anche se non lo mostra. Va avanti a testa bassa, nella sua miserabile vita diurna. Ma una sera, al rientro a casa, trova una pattuglia che gironzola proprio nel quartiere. Annusa la paura degli agenti, o meglio la tensione. Deve stare attenta. Forse deve cambiare zona di caccia.
Ma un giorno Massimo fa una battuta sui tacchi di Daria davanti a un nuovo cliente – «Sembrano due punteruoli! Speriamo non abbia le sue cose o siamo fritti!» – e lei decide che quella notte lo seguirà. Non torna neanche a casa dopo i soliti straordinari non pagati che la inchiodano alla sua scrivania fino a tardi: nel parcheggio dell'ufficio lascia che sia il suo naso a pensare per lei e fiuta l'odore del suo capo; è lì, come una scia rumorosa che aspetta solo di essere svelata. Lo trova in un ristorante costoso a mangiare in compagnia della moglie e della figlia. Daria abbandona la sua forma lupina e si avvicina alla vetrata di quel posto così chic. Li guarda; lui ride e divora il filet mignon che ha davanti, la moglie pilucca distrattamente un'insalata e la figlia è immersa nello schermo del cellulare.
Daria stringe la mascella. Massimo non è uno stupratore di strada, no, ma è uno che distrugge la dignità delle donne ogni giorno, pezzo per pezzo. Non sarebbe giusto punirlo? La bestia scalpita. Ma lui è lì con la famiglia. Non può lasciarsi alle spalle altri testimoni e in fondo detesta traumatizzare le povere donne che hanno la sfortuna di essere in compagnia degli uomini che caccia. Tentenna, anche se prima era così certa sul da farsi: ammazzare un CEO come lui significa chiudere i giochi. Diventerebbe impossibile per lei continuare a fare quello che fa ed essere una donna lupa.
Quella notte lascia stare Massimo e trova un’altra preda: un uomo che sulla strada di casa le chiede ripetutamente quanto vorrebbe per un pompino. «Oh, si fa per scherzare! Sei vestita come una di quelle, ecco» aveva riso. Daria indossa un abito lungo di lana. Beige. Basta un secondo e quell'abito viene fatto a brandelli dal corpo bestiale della lupa. La trasformata Daria piomba sull'uomo, gli fa morire la risata nel petto e poi la strappa dalla sua cassa toracica con una zampata brutale. Torna a casa con un malumore che le fa vibrare un basso ringhio in gola; quel vestito le piaceva.
La mattina successiva, appena mette piede in ufficio, Daria avverte subito un’atmosfera diversa. C’è un chiacchiericcio strisciante. Se tende le orecchie può cogliere stralci di conversazioni: nomi di vittime, ipotesi sussurrate, frasi mezze dette. Sui social, qualcuno ha cominciato a parlare di una “giustiziera”. Una che sbrana gli uomini violenti e abusanti, letteralmente. E lo fa come se fosse una bestia feroce, un lupo. Il cerchio si stringe e a Daria gira la testa; va in bagno. Lì, mentre si sciacqua la faccia, sente due segretarie parlottare. Una dice che sarebbe figo stampare degli adesivi con la silhouette di una lupa nera su sfondo rosso.
«Che top, ne vorrei troppo uno. Lo metterei sul computer, terrebbe lontani gli stronzi.» L'altra dice che nei quartieri periferici stanno spuntando dei murales a forma di colpo d'artiglio o di lupo con la bocca spalancata. Dice poi che un collettivo di universitarie femministe ha usato una semplice immagine stilizzata, due orecchie a punta e occhi gialli, per pubblicizzare un talk sulla misoginia. «Un po' pulp tutta questa storia, ma devo dire che mi fa meno paura uscire la sera.»
Daria non commenta, non si mostra. Ma dentro di lei si insinua un sorriso feroce. All’ora di pranzo, Tommaso non fa commenti allusivi quando Daria e le altre entrano nell’angolo cottura. Si limita a un cenno del capo. Evita il contatto visivo troppo insistente. Anche Fulvio, il capo di Caterina, ora ringrazia con cortesia forzata quando le assistenti gli portano delle carte. Come se un interruttore fosse stato premuto. Non c’è rispetto sincero, no, solo timore. Ma funziona. Un'educazione mimata a pappagallo per non attirare l’attenzione di quella punitrice sconosciuta che, come tutti ora sanno, è là fuori. Il giorno trascorre in questo strano limbo. Lei esce col tramonto, respirando l’aria di un universo parallelo: uomini che camminano guardandosi i piedi, spalle curve come a voler prendere meno spazio possibile, parole calibrate, mani in tasca. Non è giustizia, non è pace, ma è qualcosa.
Le notti di caccia continuano, e ogni morte aggiunge benzina sul fuoco della leggenda della lupa. Alcune donne hanno iniziato a radunarsi in piccoli gruppi. S’incontrano in appartamenti disadorni, bar poco illuminati, parcheggi deserti. Indossano spille o magliette con la sagoma di una lupa tutta nera. Leggono le notizie sui femminicidi che nonostante tutto non si interrompono mai e ringhiano tra i denti. Raccontano senza filtri le proprie storie di abusi, violenze, molestie, fanno nomi scandendo per bene le lettere. Una survivor intervistata alla televisione fa addirittura un gesto, alla fine del suo discorso: graffia l’aria con le unghie e mostra i denti. «Un giorno, magari non oggi ma un giorno, sarà il nostro turno di essere le vere belve» dice.
Non è un sogno innocente, è una rabbia antica che trova spazio. Non c’è più solo paura. C’è anche il desiderio acuto di non chinare la testa. Massimo, intanto, ingaggia guardie del corpo. Tre uomini nerboruti che lo seguono come cani da guardia. Ha cambiato atteggiamento verso Daria, la tratta con una finta gentilezza da vomito. Le dice: «Stasera puoi uscire prima, non vorrei mai farti fare tardi…» Lei annuisce, sente l’odore del suo sudore acre. Lui guarda la finestra, come se temesse che un’ombra pelosa possa arrampicarsi sul cornicione da un momento all'altro.
Le altre ridono a fior di labbra: «Hai visto Massimo? Pare abbia coda tra le gambe.» La lupa non ha ancora sbriciolato la sua pelle, ma sta già masticando la sua vanità. Ma nei giorni successivi, però, Massimo mostra di nuovo la sua vera natura. Prima una stagista, poi un’impiegata amministrativa, poi due segretarie a contratto determinato: con la scusa di un calo di fatturato o di ristrutturazioni interne, inizia a licenziare le donne una dopo l’altra, senza pietà né giustificazioni plausibili. Al loro posto, restano solo uomini, maschi rassicurati dalla scomparsa di potenziali accusatrici. Un ufficio tutto al maschile, come un club esclusivo dove le battute zozze sarebbero state accolte con una pacca sulla spalla e nessun senso di colpa. Senza donne non c’è bisogno di fingere rispetto, ovvio. Un modo per poter finalmente respirare il fetore della propria arroganza a pieni polmoni, convinti di aver messo in salvo la loro malsana idea di normalità. Daria è una delle poche che rimangono.
«Meno male che ci sei tu, Daria» le dice Massimo, «sempre così brava e carina.» E la guarda come guarderebbe un topolino con una zampina spezzata. Quel misto di compassione e disgusto che si dà alle creature infime, innocue e inutili. Daria sa che per finire questo circo deve fare l’ultimo passo. Perché no, non lo salverà. Massimo non è meno colpevole degli altri. Meritano tutti la stessa fine? Forse no, ma Massimo non ne uscirà vivo. La leggenda della lupa è nata dal sangue, e dal sangue verrà consacrata.
Quella notte Massimo si rifugia nel suo attico blindato. Le guardie del corpo presidiano l’ingresso. La moglie e la figlia sono via, in vacanza forzata. Lui resta con il suo whisky costoso, la cravatta allentata, il cellulare a portata di mano sudaticcia per chiamare la polizia al primo rumore. Una pistola ottenuta solo Dio sa come appoggiata sul tavolino laccato. Daria sa bene come si muovono le prede impaurite: frenetiche, prive di lucidità. Entra dal lucernario come un’ombra. Le guardie presidiano la porta e l'ingresso, ma non il tetto. Un errore banale, ma comprensibile: chi si aspetterebbe che la “lupa” giustiziera sia davvero una lupa? Daria scivola dentro, camminando carponi sui travetti. Scende con un balzo nel corridoio. Un rumore, una guardia si volta. Troppo tardi: artigli nella gola. L’altra guardia non fa neanche in tempo a urlare: un morso letale gli stacca la testa dalle spalle. La terza si precipita verso la porta, non ci pensa due volte a lasciare il suo capo da solo.
Massimo sente i passi pesanti e quei ringhi mescolati ai grugniti soffocati dei suoi uomini. Ora ha la pistola nella mano sudata. Quando Daria entra nella stanza, lo fa in forma umana. Nuda, coperta di sangue, brandelli di carne e cartilagine dalla testa ai piedi. Una donna, non un mostro. Nell'aria si spande odore di piscio mescolato al profumo di aftershave di lusso; Massimo ha paura. «No… no… ti prego…» balbetta, indietreggiando. Daria non parla, non sorride. Non c’è bisogno di parole, boriosi monologhi o giustificazioni. Si getta su di lui, un proiettile sfiora con un tuono il suo orecchio destro. Lei si sposta in un lampo e afferra il braccio di Massimo, lo torce finché sente l’osso spezzarsi, un suono secco. L’uomo urla, getta la pistola a terra. «Ti faccio ricca! Ti prego, ho soldi, lo sai! Daria, ci conosciamo da anni!»
Daria ringhia e in un attimo la lupa torna a essere pelo, denti e artigli. Non è questione di soldi, ovviamente, e mai lo è stata. È questione di equilibrio. Di sangue. Chiude le fauci sulla mascella di Massimo e tira, forte. Snap. Il sangue sgorga generoso sul lusso di quella casa, lui rantola e poi si ammutolisce. Un altro cosiddetto maschio alfa ridotto a carcassa vuota e inutile. L’indomani la città è nel caos. Massimo era importante, conosciuto, intoccabile. E ora è morto, sbranato come un coglione qualsiasi, in casa sua. Le donne che organizzano incontri clandestini si scambiano sguardi allibiti, alcune quasi piangono di commozione. Gli uomini, tutti, sentono un peso sullo stomaco. Ora sanno che nemmeno la ricchezza, le guardie o i piani alti li salvano. La donna lupa può arrivare ovunque. Qualcuno si convince che è ora di cambiare. Altri semplicemente si nascondono. Le donne indossano la spilla della lupa con ancora più orgoglio. Ma Daria non resta a godersi lo spettacolo. È braccata, lo sa. La polizia ispezionerà l’azienda, farà domande, cercherà tracce. Lei non può restare. C’è stato un tempo in cui voleva solo riequilibrare i conti. Ora ha generato un mito. E i miti sono pesanti.
Quella sera, se ne va. Si volta indietro un’ultima volta, dalla stazione degli autobus. Vede un gruppo di ragazzine incappucciate agitare bombolette spray davanti alla serranda chiusa di un negozio. Iniziano a disegnare la silhouette di una lupa. Daria tende le orecchie e le sente mormorare slogan ancora confusi, ma già colmi di rabbia e determinazione. Non hanno bisogno di conoscerla davvero, di metterla su un piedistallo. A loro basta un'idea. E a Daria basta sapere che sono meno sole. Daria sale su un autobus diretto lontano, con uno zainetto e poche cose. Avrà tempo per decidere cosa fare del suo potere, del suo futuro. Per ora quello che doveva e voleva fare è stato portato a termine. Dietro il finestrino sporco, la luna sfuma tra i palazzi, di nuovo quasi piena, ancora affamata di grida e giustizia imperfetta ma vera. La lupa è in cammino.
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Sesto racconto erotico
Abbiamo parlato di masturbazione, e di quanto fosse naturale farla, abbiamo parlato della nostra prima volta,perchè non parlarne dell'ultima? Non so se possa piacere,a noi ecciterebbe sapere quando e come vi siete toccati,con cosa, con che aiuto durata e tutto del vostro momento di intimità.
Allora premessa che conviviamo ma a causa del lavoro abbiamo bisogno di ''coccolarci'' anche da soli.
Partiamo da lui:
Mi sono svegliato come mio solito con il durello mattutino,come accade a tutti, e con un voglia infinita,mi giro e la mia lei dorme,è dolcissima e so che se la svegliassi mi mangerebbe vivo,quindi evito. L'ammiro per alcuni brevi minuti e vado in bagno, mi spoglio tutto pipi', e come sapete con il durello è un po' complicato farla,ma mi impegno anche perchè lei non vuole che pisci in doccia,sennò mi viene più facile li, mi lavo il viso, barba, lavo i denti.
Sempre con il cazzo all'aria, che cerca di placarsi sennò non vuole saperne di afflosciarsi.
Entro in doccia, il cazzo sbatte a destra e sinistra perchè quando si è duri da moscio o da duro, va per i fatti suoi. Mi shampo,mi insapono tutto e tralascio la zona inguinale appositamente,finita la doccia, mi dedico solo al mio cazzo ,lo insapono per bene e mi sego, penso ,si vado di fantasia e mi sego,si mi sego fortissimo perchè voglio venire. Tempo 3 o 4 minuti sento che già sto per venire, vorrei sbo*rare in doccia ma evito, esco mi asciugo e mi reco in cucina con l'accappatoio e il cazzo sempre sballolzolante.
Mi preparo il caffè, e prendo anche la sua tazzina, mi do gli ultimi due colpi in cucina e sbo*ro,un bel po' che riempio la tazzina del mio piacere per 1/4. Soddisfatto mi asciugo la testa del cazzo con l'asciugamano,mi bevo il caffè e lascio la sua tazzina di sb*rra già nella macchinetta.
Finito di bere il mio caffè mi asciugo,mi vesto e mi reco a lavoro.
Lei:
Mi sveglio, vado in bagno correndo per fare la pipi', ahwwwww la pipi' del mattino è una tappa che amo perchè è soddisfaccente all'infinito. Oggi non lavoro quindi ho tempo che impiegherò per farmi bella,creme cremine, estetista ,parrucchiera cosi' che oggi pomeriggio il mio lui si rinnamori di nuovo di me, perchè lui dice cosi' ogni volta che mi faccio bella.
Finito in bagno mi reco in cucina, sento già il suo odore,la cucina ne è colma. Penso mamma mia che buon odore di sbo*ra, come suo solito è nel bicchierino di caffè, in genere mi faccio uno shot di sb*rra e poi mi bevo il mio caffè,ma oggi voglio cambiare si,voglio un caffè corretto alla sb*rra. Metto la cialda del caffè, e il caffè si mescola con il suo piacere. A livello mentale mi eccita un bel po' sento già lo slip pieno e bagnato. Mamma mia
Assaggio 'sto caffè corretto e cazzo se mi piace, io adoro la sb*rra ma con il caffè è la morte sua.
Ingoio o bevo,non so come dire credo più ingoio ahahaha
TUTTO fino all'ultima goccia.
Mi reco nel nostro lettone apro il cassetto dei miei sex toy e ne scelgo uno, oggi scelgo il ciuccia clitoride e il vibro durex cosi facciamo la giusta combo. Apro il pc e lo collego alla tv cosi da vedere un bel pornazzo, perdo 10 minuti per trovare un bel porno, e ne trovo uno dei bei maschioni che si inchiappettano l'un latro dio mio muoio. Mi metto il cazzo in fica e mi martello e con l'altra mano mi metto l'altro sul clito, Dio lo amo e poco dopo sento già lo stimolo di venire, VENGO. Dio mio di già penso, e sorrido fra me e me. Pulisco i miei due toy con il clean e li rimetto a posto, mi accorgo che sono ancora vogliosa e il porno è ancora alla tv,beh perchè no penso e mi tocco da sola con la mia bella manina per altri minuti mi dedico totalmente al clito e a un capezzolino e dopo poco vengo sfinita sul letto.
Mi riaddormento sfinita e nuda.
Lui torna da lavoro e mi trova sul letto mezza dormiente e con il porno finito sulla tv e mi dice ''Mmmmh oggi niente pranzo,il mio pranzo sei tu!''
Fine
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Due cose di oggi:
• La devo smettere di essere distratta e/o di non controllare benissimissimo tutto prima di rispondere al cliente per poi velatamente fargli capire che è stato lui a capire male e non io a dirgli sbagliato. Sono una stronza? Sì sì e ancora sì (Però poi è troppo bello quando se ne accorgono e allora mi scuso con veemenza e quindi loro poiché sono giappi si scusano a loro volta come se la colpa fosse veramente la loro! Ahahah sono stronza? Sì sì e ancora sì)
• HANNO MESSO LA MACCHINETTA DEL CAFFÈ NESPRESSO IN UFFICIO PROPRIO OGGI CHE IN QUESTI GIORNI STO PIANGENDO LACRIME PERCHÈ MI MANCA UN CAFFÈ SERIO IN UFFICIO QUANDO STO A MORÌ. NON CI POSSO CREDERE SONO ESTEREFATTA STO URLANDO DENTROOOOOOOOOOOO
#non ho ancora preso nessun caffè nuovo MA se è come me lo aspetto posso ufficialmente dire che dell'ufficio vecchio non mi manca NIENTEEEEEE#random#lavoro#my life in tokyo
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Questo lunedì un pò grigio, per la pioggia e non, così che dopo pranzo mi sono detta "sai che c'è, mò il colore lo metto io" e allora eccomi indossando pantaloni gialli, un filo di trucco dorato sulle palpebre e via a prendere il caffè con P, che non vedevo da settimane e che vederla mi ha fatto bene al cuore. Racconti e aggiornamenti sulle nostre vite, più suoi che miei ma era giusto così. Mi mancavano le nostre sedute (così è come le chiamiamo). Mattinata iniziata con labbra che sorridono (nel letto si sta sempre bene), l'auto portata dal meccanico, scleri ed imprecazioni sul portale INPS e poi con poste italiane, mandato candidature e aperto mezzo secondo il libro per poi richiuderlo subito dopo, che il pranzo non si prepara da solo. Primo giorno di dieta nuova, ritorno del riso basmati e del mio piatto unico: tonno, pomodorini, zucchine. Ridendo e sentendomi poi una pagliaccia per la sera, che con l'arrivo di mia sorella ed il suo ragazzo dopo mesi, vuoi mica rispettarla, E alla pasta con gamberetti e sugo di pesce come puoi dire no? Serata in famiglia, cucinare, dialogare, la casa in rumore e questo mi era mancato. Anche la pastasciutta mi era mancata. Amo questi piccoli momenti di condivisione
In ordine sparso: foto pensando a/ pastasciutta/ macchinetta nuova/ pantaloni gialli/ Yoghi che mi assale e caffè
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